18
Apr
2009

Paradisi fiscali sotto torchio

Se anche nell’odierno bailamme finanziario vale l’assunto di Carl Schmitt secondo cui è “sovrano chi decide sullo stato di eccezione”, allora si spiega con una certa facilità il giro di vite sui paradisi fiscali imposto dai grandi della Terra. Nessuno intende mettere in dubbio che vi siano delle ragioni concrete alla base delle prese di posizione recentemente assunte nel corso del G20, per carità. I motivi pratici in realtà ci sono eccome. E possono essere ricondotti ad unum: fare cassa. A spiegarlo meno rozzamente di noi ci ha pensato Mario Seminerio su Epistemes. Purtuttavia, ciò non toglie che le oasi fiscali nulla c’entrino con le origini della crisi in atto. Tutt’al più possono essere considerate come dei validi strumenti, ad uso e consumo degli Stati più forti, per risolvere i loro vincoli di bilancio, come l’esempio tedesco insegna. Ma con la palingenesi del dissesto davvero non hanno alcun legame. Si dirà: e come la mettiamo con il crescente bisogno di trasparenza? Anche qui ci troviamo a mio avviso dinanzi ad un falso problema. E’ certamente cosa buona e giusta combattere il crimine internazionale, in qualsiasi forma esso si manifesti ed ovunque esso si annidi. D’altro canto, la necessità che alcuni diritti vengano tenuti ben fermi non è, come potrebbe sembrare, un mero orpello ideologico, un fastidioso ed inutile ostacolo in vista dell’assicurazione alla giustizia di pericolosi malfattori, ma al contrario un elemento imprescindibile affinché uno Stato di diritto non traligni in uno Stato di polizia. Ciò per dire che se davvero pensiamo che la lotta contro l’evasione fiscale e tutti gli altri delitti ad essa associati, possa proseguire anche attraverso l’abolizione o l’allentamento di diritti e garanzie considerati inviolabili da certe tradizioni giuridiche (il segreto bancario, ad esempio) o ancor peggio, violando la sovranità di certi Stati, allora dovremmo conseguentemente ammettere anche la tortura o qualsiasi altro trattamento inumano e degradante per tutta quella sfilza di delitti così sensibili per l’opinione pubblica, come la mafia, il riciclaggio e via discorrendo. Dovremmo in poche parole eliminare o rinunciare a certe garanzie, fare a meno di determinati diritti, tutto in vista del fine supremo da realizzare, arrestare persone che il più delle volte fuggono dal torchio opprimente del fisco per proteggere i propri risparmi in oasi fiscali. Quali sarebbero le conseguenze? Lo smantellamento della nozione di certezza del diritto e l’arbitrarietà nell’uso dello strumento penale. Weberianamente parlando, sarebbe forse opportuno che in tempi come questi ad un’etica delle intenzioni fosse contrapposta un’etica della responsabilità.

17
Apr
2009

Due o tre cose sulla Banca Popolare di Milano

Il rinnovo degli organi della Banca Popolare di Milano sta assumendo una dimensione effettivamente nuova. Politics 2.0. Siccome, col voto capitario, a decidere le sorti della BPM sarà di fatto una grande assemblea, nella quale forze più o meno organizzate metteranno sul piatto uomini e voti per costruire un nuovo equilibrio all’interno della banca, la tenzone è, per così dire, “politica” – e rilievo politico le viene riconosciuto.
Il Presidente uscente, Roberto Mazzotta, è parallelamente incumbent e outsider. Incumbent per la sua storia, e il ruolo che occupa. Outsider perché si candida alla testa dei soci non-dipendenti, quindi non-sindacalizzati, con l’appoggio dei soci “privati”, e in nome di un programma di cauta modernizzazione dell’istituto.
Massimo Ponzellini, presidente in pectore in quanto appoggiato dai sindacati interni, ovvero i “padroni” della banca, è una faccia nuova ma rappresenta la continuità più piena. I due si sfidano su YouTube, in un singolare duello di video (affettato ma diretto Mazzotta, “mediato” da un’intervista Ponzellini), visti ad oggi all’incirca da un migliaio di persone. Sono quei mille gli elettori incerti, che potrebbero far inclinare da una parte o dall’altra l’ago della bilancia? Ponzellini in tutta evidenza parte in vantaggio, forte del sostegno di gruppi strutturati ed abituati a dettar legge. E’ Mazzotta ad avere bisogno dell’agone democratico, della segretezza del voto, della mobilitazione elettorale.
Su Mazzotta e Ponzellini, ormai s’è scritto di tutto. Su una questione di sostanza (il conflitto d’interessi di Ponzellini, che a detta dei giornali una volta presa la Presidenza di BPM non lascerebbe quella di Impregilo), s’è detto poco. Notazioni folcloristiche, non ne sono mancate.
Non si sono forse scritte due cose, che vale magari la pena di riportare – con stanca determinazione – al centro del dibattito, almeno in un luogo come questo. Primo, il vero punto del contendere sembra essere il consolidamento. La storia sembra dirci, ora, che certe fusioni hanno prodotto giganti dai piedi d’argilla. Ma questo non significa che piccolo sia sempre bello.
C’è un certo consenso, fra gli osservatori, sulla necessità di “aggregare” le popolari. Non avviene perché ovviamente i sindacati vedrebbero diluito il proprio potere. E’ una costante delle fusioni bancarie, in Italia: esse possono avvenire, solo quando ne risulta una banca nel quale i soci “forti” di prima siano ancora più decisivi, negli equilibri di governance (pensiamo a Intesa San Paolo, fusione generata per estromissione dei soci più “di mercato” delle rispettive compagini).
Secondo, la governance conta. Il voto capitario non si limita ad imporre una spettacolarizzazione politica, ma rende di fatto ingestibile la banca. Parte del lavoro del management diventa, nel caso della BPM è evidente, mediare fra gli azionisti-lavoratori. E’ proprio questa duplice natura a complicare le cose. Perché l’interesse di breve periodo (quello del lavoratore, naturalmente conservatore rispetto alla gestione dell’impresa in cui lavora) fa premio su quello di medio periodo, da azionista del medesimo istituto.
Bisognerebbe proprio ricominciare a parlare di riforma delle Popolari. In Italia, il tema è stato apparentemente al centro dell’agenda per alcuni anni. Come il federalismo, la riduzione delle imposte, l’innovazione in senso presidenziale della Costituzione, la privatizzazione della Rai, la disciplina del conflitto d’interessi, l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Con gli esiti che sappiamo.