29
Apr
2009

Assicurazioni, la concorrenza puo’ attendere

La Corte di Giustizia europea ha salvato l’ “obbligo a contrarre” sulle RC auto, e secondo i giornali italiani sarebbe un’ottima notizia. Con uno scatto patriottico, il Sole 24 Ore afferma che “la sentenza va accolta con soddisfazione”, salvo prescisare – giustamente – che non bisogna “dimenticare la realta’ di un Paese che, anche per gli incidenti stradali, risulta spaccato in due”. Contro l’obbligo a contrarre le polizze, aveva presentato ricorso la Commissione europea vedendolo per quel che e’: una norma che viola la liberta’ contrattuale, e che lede la liberta’ di stabilimento – cioe’ la liberta’ per le imprese di stabilirsi in un Paese UE che non e’ quello d’origine, per esercitarvi la propria attivita’.

Alla Corte, l’obbligo a contrarre e’ apparso coerente con le sue motivazioni: garantire su tutto il territorio nazionale il risarcimento alle vittime d’incidenti stradali, con tariffe “adeguate”. Per le assicurazioni, cio’ invece implica l’obbligo di assumersi tutti i rischi che vengono loro proposti, e una moderazione “coatta” dei premi. Che sia una limitazione della liberta’ contrattuale, e’ evidente. Ed e’ parimenti evidenti che esso ha un effetto “protezionistico”: rende meno attrattivo l’accesso in Italia ad imprese estere (non a caso le imprese assicurative, italiani ed estere, attive in Italia sono piu’ o meno tante quante quelle attive in Irlanda, dove il mercato e’ sensibilmente piu’ piccolo ma meno vincolato). L’assicuratore francese che voglia competere in Val d’Aosta ha l’ “obbligo” di rendere disponibile la propria offerta anche al cliente campano, o calabrese.

Come ricorda il Sole (e come sanno anche i sassi), i rischi (e pure la certezza del diritto) sono sensibilmente diversi, sul territorio nazionale, e perdendo la possibilita’ di diversificare le tariffe si perdono anche i benefici piu’ tipici dell’assicurazione: a cominciare dalla possibilita’ di “prezzare” il rischio. Per il Presidente dell’Isvap, Giannini, “l’accoglimeno del ricorso avrebbe arrecato grave pregiudizio a intere fasce di utenti che, soprattutto al Sud, rischiavano o di pagare premi molto alti o di trovarsi scoperte pur essendo tenute per legge ad assicurarsi”. Questo e’ cio’ che si vede. Cio’ che non si vede e’ che la persistenza dell’obbligo a contrarre, se da una parte “tutela” il Sud per come e’ (levandogli un altro piccolo stimolo a “diventare” qualcosa di diverso), dall’altra “ingessa” la concorrenza in altre aree del Paese, sbarrando la strada a concorrenti potenziali e dunque evitando che i clienti possano cogliere le opportunita’ che una concorrenza piu’ intensa produrrebbe. Certo, l’obbligo a contrarre e’ intimamente legato all’obbligo ad assicurarsi. Ma che l’obbligatorieta’ dell’RC auto giustifichi un mercato meno dinamico e’ una ben strana idea.

28
Apr
2009

Assolombarda: c’è un quinto candidato

Repubblica oggi è stato il primo grande quotidiano a rompere il velo del riserbo intorno alla gara per succedere a Diana Bracco alla testa di Assolombarda. Mancano solo due settimane, alla riunione di giunta chiamata alla designazione, ma i saggi non hanno ancora raggiunto un’indicazione unanime. La vera gara, fino a questo momento, è stata tra Alberto Meomartini, navigato presidente di Snam Rete Gas, e Alessandro Spada, ex presidente dei Giovani sotto la presidenza Perini e poi consigliere delegato al Centro studi con la Bracco. Benito Benedini, già presidente dal 97 al 2001, e Carlo Moretti, ex presidente dei “piccoli” di Assolombarda, sono anch’essi in lizza ma i loro consensi sono troppo limitati. La sfida a due, però, almeno come sinora si è prospettata, comporta dei rischi. Assolombarda è l’associazione più forte in tutta Confindustria, il “cuore” dell’imprenditoria del Nord dal palmares più storico e insieme diffuso sul territorio. Si comprende che Paolo Scaroni e la sua Eni puntino a un forte successo milanese, a coronamento della posizione insindacabile di primo gruppo italiano nel mondo. Ma ammettiamolo: un imprenditore “pubblico” alla guida di Assolombarda non sarebbe un capolavoro troppo ben visto, dalla stragrande parte della base, quand’anche per ragioni di opportunità dovesse restare l’unico candidato in lizza. Per questo la Bracco. ben consapevole delle aspettative dell’Eni, ha puntato sul giovane Spada in nome del rinnovamento, ma insieme contando sul fatto che una personalità non troppo nota e autorevole potrebbe rappresentare una certa continuità, rispetto alla rappresentanza delle imprese che a Diana tocca nella Soge del discusso Expò 2015 (la scorsa settimana, per l’esiguo margine di un solo voto il suo nome è sopravvissuto al giudizio del Consiglio comunale milanese….). La Lega, una volta che Formigoni dovesse abbandonare il Pirellone per un importante incarico europeo di cui si parla, partirebbe lancia in resta rivendicando ruoli e margini decisionali, per evitare il bis del caso Malpensa. Motivo in più per sconsigliare un’Assolombarda di profilo troppo basso, oppure divisa sulla natura “pubblica” della sua guida. Emma Marcegaglia, dunque, sia pur nel pieno rispetto delle prerogative dei saggi milanesi, si è tirata su le maniche e lavora per evitare l’impasse. Scaroni non vuole neanche sentirne parlare, di mollare la presa. L’ipotesi A è dunque quella di una presidenza Spada ma con una fortissima squadra intorno, per soddisfare anche Eni. L’ipotesi B è invece di azzerare tutto e sparigliare, con un quinto candidato. Che insieme abbia il consenso di grandi elettori come Confalonieri e Tronchetti, il sostegno di moltissimi tra i “piccoli”, sia in ottimi rapporti con il governo, e insieme unisca una carriera di manager privato di successo, un passato di manager pubblico, e anche un’esperienza di primo piano già al vertice di Confindustria. A Milano, un tipo così c’è: è il ceo di Fastweb, Stefano Parisi.

28
Apr
2009

Detroit, Urss

Pensavo ingenuamente di essere arrivato nella (bruttissima) capitale dell’auto e di raccontare il riscatto di un’azienda ex decotta e derisa come Fiat che torna in America chiamata da Obama, salva una delle Big Three di Detroit e magari si concede pure il lusso di non sborsare un dollaro. Magari succederà lo stesso. Però nelle ultime ore il clima s’è fatto pesante.
La prima rivelazione riguarda General Motors: il piano di ristrutturazione presentato al Congresso dal nuovo management prevede (in cambio della cancellazione di buona parte del debito) la cessione al governo di un pacchetto azionario pari al 50 per cento. Un altro 39 per cento andrebbe invece alla United Auto Workers, il già potentissimo sindacato dell’auto, quello che negli anni ha portato le case di Detroit ad avere un costo del lavoro doppio – calcolando i benefit previdenziali e sanitari – rispetto ai concorrenti, specie le case giapponesi che hanno aperto i loro impianti negli stati (repubblicani) del sud. Insieme stato e sindacati farebbero l’89 per cento, praticamente tutto.
Se a GM si nazionalizza, a Chrysler preferirebbero sovietizzare. Lo dice il Wall Street Journal: il nuovo piano di ristrutturazione aziendale prevederebbe una quota del 55 per cento in mano all’UAW, a Fiat spetterebbe il 35, mentre il restante 10 per cento se lo spartirebbero il governo federale e le 45 banche creditrici di Chrysler. Vabbè, Fiat avrebbe comunque da guadagnarci – sulla carta – perché le si aprirebbero le porte del mercato americano. Però. Però conviene a Sergio Marchionne impelagarsi in un’impresa del genere e magari diventare il Ceo di un’azienda nel cui consiglio di amministrazione siedono gli stessi sindacalisti che con una mano chiedono più benefit e con l’altra li concedono alla prima occasione utile? Senza contare che lo stesso sindacato si troverebbe ad essere azionista forte in due delle tre “sorelle” di Detroit (con il pericolo di paralizzare la concorrenza)?
Non ho tempo di rispondere a questi interrogativi, devo andare. Bussano alla porta. E parlano russo.

28
Apr
2009

Stato e povertà

“This is my long-run forecast in brief. The material conditions of life will continue to get better for most people, in most countries, most of the time, indefinitely…I also speculate, however, that many people will continue to think and say that the conditions of life are getting worse”. Così scriveva Julian Simon in un articolo apparso su Wired nel 1997. A leggere l’articolo di oggi sul Corriere di Massimo Mucchetti dedicato alla geografia delle nuove povertà sembra che l’Italia non faccia eccezione rispetto alla tendenza delineata da Simon. Per quanto riguarda la povertà assoluta, “cinquant’anni fa le famiglie misere erano un milione e 357 mila, il doppio di oggi”. Quanto alla povertà relativa, “l’indice del Gini, che misura il grado di diseguaglianza tra i redditi secondo una scala da 0 (tutti hanno la stessa quota) a 1 (uno solo ha tutto), dà un quadro eloquente: le regioni con il reddito medio più alto, in particolare quelle settentrionali a statuto speciale e quelle centrali Lazio escluso, hanno anche il Gini più basso; le grandi regioni meridionali hanno meno reddito e il Gini più alto”. Sulla base di tale constatazione, Mucchetti afferma che “il contrasto della povertà e della disuguaglianza non può non coinvolgere lo Stato”; la carità cristiana, ed eroica del volontariato non può bastare. Ma, se è la crescita del reddito e, dunque, la creazione di ricchezza a portare con sé anche minori diseguaglianze, come può l’azione dello Stato essere determinante? Le regioni settentrionali sono più ricche perché sono state più aiutate dallo Stato o è vero il contrario? Come ha spesso ricordato Antonio Martino, al termine della Seconda guerra mondiale il Veneto era più povero della Sicilia. Poi il Veneto venne abbandonato a se stesso e la Sicilia sorretta dalle amorevoli cure dello Stato. Con i risultati che tutti conoscono.

27
Apr
2009

Ferrovie: i francesi non sono l’esempio

In Italia spesso i cugini transalpini vengono presi ad esempio nel settore industriale; troppo spesso invidiamo ai francesi i loro champion national che sono in grado di andare all’estero e competere.

Questo forse può essere valido per alcune grandi imprese private, ma non è certamente vero per il trasporto ferroviario.

SNCF, la Société Nationale des Chemins de Fer, è un gruppo che fattura 25,1 miliardi di euro, vale a dire oltre 2 volte e mezzo i ricavi della società italiana Ferrovie dello Stato, ma soprattutto impiegava a fine del 2008 oltre 201 mila persone. Read More

27
Apr
2009

L’Agenzia delle entrate “toppa” sulla scuola privata

Sono energicamente d’accordo con la dura protesta che nove associazioni – Agesc, Fidae, Agidae, Cnos-Fap, Ciofs-scuola, Fism, Foe-Cdo, Aninsei, Msc – hanno riservato all’incredibile circolare emessa dall’Agenzia delle Entrate. E’ dedicata a “Prevenzione e contrasto all’evasione fiscale”, e contempla tra i servizi di lusso indicatori di potenziale evasione da accertare anche l’iscrizione dei figli a scuole private. Compiere la scelta di far frequentare ai propri pargoli una scuola paritaria viene da oggi considerato un criterio analogo all’uso di porti turistici con barche da diporto, alla frequentazione di circoli esclusivi, wellness center e tour operator. E’ veramente singolare e a mio giudizio del tutto inaccettabile, che un simile principio venga affermato dal vertice amministrativo dell’amministrazione fiscale, per di più sotto un governo di centro destra. Potrei citare tonnellate di letteratura scientifica costituita da solide ricerche comparate sulla maggiore skillness di chi si forma in scuola private piuttosto che di Stato, nel nostro Paese. Ma è appena il caso di richiamarle. Quello che conta di più è la manifesta ignoranza dei fatto che le scuole paritarie fanno parte a pieno titolo del sistema dell’istruzione pubblica, ignoranza propalata dallo Stato stesso in una delle sue accezioni più sedicentemente “etiche” – la lotta alla famigerata “evasione”, naturalmente. Attualmente risulta ancora irrisolto il contenzioso sull’ultima rata dei contributi ordinari al sistema paritario che lo Stato ha tentato di trattenersi, a seguito delle rimodulazione triennale della spesa pubblica attuata con la finanziaria provvidenzialmente varata nel luglio 2008, appena il governo entrò in carica. In più, da oggi la libera scelta delle famiglie a proprie spese, per un capitale umano meglio formato e meno ostaggio del degrado della scuola di Stato, viene considerato a tutti gli effetti un “sospetto sociale”, fomite e scudo di mancato adempimento del dovere fiscale. Quando uno Stato si esprime in questi termini, mostra di disprezzare e infrangere le libertà naturali che dovrebbe considerare intangibili, quelle stesse libertà intangibili la cui difesa dovrebbe costituire prima – se non esclusiva – fonte di legittimità del prelievo fiscale stesso. Uno Stato insomma che diventa ladro e prevaricatore, ma che come al solito si ammanta di virtù. Che poi tutto ciò avvenga sotto l’egida del Popolo delle “libertà”, purtroppo la dice lunga. Se il ministro Tremonti ha appreso anch’egli della circolare dalle agenzie di stampa – come è perfettamente possibile e ordinariamente avviene – richiami per favore immediatamente il direttore dell’Agenzia delle Entrate a una visione meno robespierrista.

27
Apr
2009

99 mesi all’alba del giorno dopo

Il principe Carlo d’Inghilterra ha messo in guardia il Parlamento italiano: “ci rimangono solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno”, oltre cui “la storia ci giudicherà”. Il riferimento è, ça va sans dire, agli effetti catastrofici del riscaldamento globale. Peccato che, come hanno ricordato gli amici di Svipop, non più di un anno fa lo stesso principe avesse avvertito che ci restavano sì e no diciotto mesi. Escludendo l’ipotesi che il mio omonimo dal sangue blu spari numeri a capocchia, non resta che una spiegazione cabalistica. Infatti, le due cifre che compongono il numero 99, sommate assieme danno 18. Guarda caso, il significato del numero 18 è “nemici occulti saltano in qualsiasi momento. Malattie. Non commercio / affari”. Chapeau.
26
Apr
2009

Le vere liberalizzazioni spiegate agli inglesi

Nonostante che, sul fronte energetico, il matrimonio con Genova non sembri andare per il meglio, a Torino da qualche tempo si sta discutendo di un’altra alleanza nel settore dei servizi locali: quella con Milano che dovrebbe portare alla fusione dei gestori dei servizi di trasporto collettivo nei due capoluoghi del nord-ovest. Anche qui, però, non tutto sembra filare per il verso giusto. Il motivo del contendere è banale: Torino, pur portando in dote un patrimonio meno ragguardevole, vorrebbe non cedere il comando ai milanesi. La corsa all’aggregazione sembra d’altra parte aver contagiato l’intero settore del trasporto locale. Da pochi giorni è stata completata la fusione fra le aziende di Bologna e Ferrara. Analoga iniziativa è allo studio da parte delle società di Forlì, Cesena, Ravenna e Rimini e di quelle che operano in Provincia di Treviso. In Abruzzo ed in Umbria si ipotizza di costituire una holding regionale del trasporto pubblico. La motivazione “ufficiale” alla base di tali operazioni è la possibilità di conseguire economie di scala e, dunque, poter giocare alla pari con le grandi aziende europee del settore nelle future gare per l’affidamento dei servizi. Ora, non vi è dubbio che al confronto dei maggiori players europei, le aziende del nostro Paese siano dei nani. Il fatturato complessivo dei cinque maggiori operatori italiani è pari a circa la metà di quello dei singoli big europei. Non sembra però che la strada migliore per accrescere il livello di efficienza del comparto sia quella dell’accorpamento delle attuali imprese pubbliche. I più eclatanti risultati in termini di riduzione dei costi di produzione dei servizi di trasporto pubblico sono stati conseguiti nel Regno Unito non come conseguenza dell’aggregazione aziendale ma grazie all’apertura del mercato con l’eliminazione delle barriere all’entrata ed alla privatizzazione delle società controllate dagli enti locali. Nel decennio successivo alla riforma, il costo unitario dei servizi è stato pressoché dimezzato. Nel 2006 il costo di produzione di un bus-km nelle aree metropolitane inglesi (esclusa Londra), assommava in media a 152 pence, pari a circa 2,3 Euro, meno della metà di quello che si registra nelle maggiori aree urbane del nostro Paese. A Londra, dove è stata mantenuta una pianificazione unitaria del servizio, la strategia adottata è stata quella dello spezzatino, ossia l’affidamento tramite gara di quote parte del servizio, escludendo dalla partecipazione l’ex monopolista London Transport che è stata suddivisa in tredici unità operative tutte privatizzate nell’arco di un decennio. L’esatto contrario di quanto sta accadendo a Roma dove la nuova amministrazione ha voluto ricostituire un’unica società per la gestione del servizio di tpl. Tale mossa consentirebbe, secondo quanto sostenuto dal sindaco Alemanno, “di avviare un processo di vera liberalizzazione”; infatti: “i processi di liberalizzazione e di regole imposte dall’Ue non possono prescindere da un fortissimo player pubblico, che deve operare nel settore”. La liberalizzazione inglese, evidentemente, è stata finta. Non ne siamo così certi ma cambieremo parere quando vedremo anche uno solo dei nostri campioncini municipali o regionali perdere una gara. Ci riesce difficile pensare che siano loro, sempre e comunque, i più efficienti tra i partecipanti.

PS
I comuni e le Province, oltre ai servizi di trasporto pubblico, acquistano molti altri beni e servizi. Perché non costituiscono per ciascun settore una società pubblica che concorra “alla pari” insieme a quelle private alle gare di appalto?

25
Apr
2009

BPM: Michels e’ vivo e lotta insieme con noi

Non ero mai stato all’assemblea di una Banca Popolare. Girare oggi per l’assemblea della BPM per me e’ stata un’esperienza interessante. Sicuramente istruttiva. La cosa piu’ evidente, a chiunque curiosasse per i due padiglioni della Fiera di Milano occupati dai soci riuniti in assemblea, era il patente senso di controllo del sindacato. Sia detto senza polemica, semmai anzi con ammirazione. La capacita’ organizzativa delle sigle che riuniscono i lavoratori della BPM era un capolavoro: la mobilitazione dei loro membri, impressionante. La distanza abissale che alla conta dei voti separa Mazzotta da Ponzellini, duemilacinquecento preferenze suppergiu’, si spiega (anche) cosi’. Il Presidente uscente, rotti i ponti con la sua vecchia constituency, si e’ trovato in un mese a mettere assieme la nave abborracciata dei soci non-dipendenti. Ha provato ad aggrumare interessi dispersi, e non concentrati. Non e’ facile. In democrazia, non ci si riesce quasi mai.
Il voto capitario, per gestire un’impresa quotata, e’ una spropositata follia.  Se hai il cinquanta per cento, conti comunque uno. Indipendentemente dalla preferenza che esprime, in piazza Meda l’azionista monocellulare di Seregno vale quanto il fondo Amber. E’ la forma cooperativa, certo. Ma e’ anche una cosa diversa dall’universo di regole che tipicamente regge un’impresa: e’ politica, pura e semplice.
Ecco perche’ l’assemblea della BPM andava letta attraverso gli stessi occhiali che si inforcherebbero per guardare qualsiasi altro evento politico. Studiando il partito socialdemocratico tedesco, Roberto Michels aveva formulato la “legge ferrea dell’oligarchia”: l’organizzazione è la madre del predominio degli eletti sugli elettori.
I sindacati riuniscono forze compatte, e per questo vincono le elezioni interne. E’ cosi’ perche’ altrimenti non potrebbe essere.
Pero’ almeno non spacciatecelo per un modello di governance. Raffaele Bonanni, quindi un leader sindacale nazionale e non un socio della BPM, ha rilasciato questa significativa dichiarazione:

Ha vinto la sintesi tra lo sviluppo di una banca sana e la democrazia economica: Siamo molto contenti per la vittoria netta conseguita dalla lista guidata da Ponzellini. È veramente un risultato importante che deve diventare ora un modello per tutto il sistema bancario italiano
La Cisl e le altre organizzazioni sindacali hanno sostenuto con convinzione e determinazione la candidatura di Ponzellini che rappresenta la giusta sintesi tra una gestione saggia e oculata della banca e la partecipazione dei lavoratori negli organismi di controllo della banca. Ma il successo straordinario consentito dai soci di Bpm  va oggi al di là dei confini della banca milanese e indica, nella democrazia economica, la strada imprescindibile per uscire con la partecipazione dei lavoratori dalla crisi economica.

La “democrazia economica” cosiddetta e’ un sistema nel quale la proprieta’ e il controllo, anziche’ essere ricomposte nel segno della responsabilita’ degli amministratori, sono disgiunte per statuto. Le oligarchie hanno bisogno di trincerarsi sempre dietro una “formula politica”: un belletto che vale ad occultare il gioco degli interessi. Prendiamo atto che la “democrazia economica” e’ il rossetto del sindacato. Per dir la verita’, non siamo sorpresi.