4
Mag
2009

Ancora grazie, signora Thatcher

Il dibattito sulla crisi è a sprazzi molto concreto, ma spesso ideologico. Non è necessariamente un male. La crisi se non altro simola un ritoro alla discussione, costringe a ripensare ai fondamentali, porta ad interrogarsi su questioni che banali non sono. Sul Corriere di domenica, Massimo Mucchetti rendeva conto dell’articolo di Gideon Rachman sul Financial Times, cui oggi segue risposta di Maurice Saatchi. Mucchetti ha pochi dubbi nello scrivere:

Il 3 maggio 1979 Margaret Thatcher entrava al numero 10 di Downing Street dicendo: «Il popolo britannico ha chiuso con il socialismo. L’esperimento, durato 30 anni, è penosamente fallito e la gente è pronta a provare qualcos’altro». Il 3 maggio 2009, trent’anni dopo, potremmo dire: «Il thatcherismo, che fece ben presto scuola nell’America reaganiana e poi influenzò tutto il mondo, è anch’esso miseramente fallito».

Mi sembra difficile esser d’accordo con Mucchetti che “lo Stato sociale sia ancora un pensiero forte”, ma con lui e Rachman è impossibile non convenire su un punto: è cambiata la melodia di fondo. Chi misuri la realtà con l’impegnativo metro della libertà economica sa bene che non usciamo da trent’anni di “deregulation selvaggia”. Considerare Stati che confiscano, suppergiù, il cinquanta per cento del reddito prodotto da un individuo esempi di liberismo è semplicemente una follia. E neppure si può dire che le proposte liberiste negli anni scorsi abbiano avuto vita facile. E non solo da noi. Basti ricordare il misero fallimento di Bush, in una delle sue poche battaglie veramente condivisibili: quella per la trasformazione del sistema previdenziale americano. O l’andamento a zig-zag di Tony Blair, nei suoi tentativi di introdurre in Inghilterra misure di welfare-to-work. O i diversi tentativi di “ingessare” il mercato del controllo avutisi in tutto il mondo. O il fallimento della direttiva Bolkestein in Europa. O ancora la sostanziale impossibilità di modificare, nella direzione di una flat tax, il sistema fiscale americano – e come tacere la resistenza che nel nostro Paese c’era, anche da parte di commentatori che negli anni successivi hanno proposto agenda liberalizzanti, nei confronti della “flat tax annacquata” delle due aliquote berlusconiane prima maniera? E mentre fioccavano le prediche contro la globalizzazione, quanti passi in avanti reali sono stati fatti, dal 2001 in qua, nell’apertura degli scambi? In realtà, è dagli anni Novanta che non vi sono state, nel mondo, privatizzazioni di grande rilievo – ed è probailmente da fine anni Ottanta, come hanno sostenuto diversi autori (penso a Sam Peltzman e Stephen Littlechild), che il “ciclo” della deregolamentazione è sostanzialmente finito.

Detto tutto questo, ciò che era notevole negli anni scorsi era che, faticosamente, le idee di mercato sembravano essere destinate via via a guadagnare maggiore legittimità. Quella dei “fallimenti dello Stato” era una chiave di lettura accessibile anche a chi stava a sinistra. Le privatizzazioni avevano dato, dopotutto, buona prova di sé. L’onere della prova stava dalla parte di chi voleva aumentare le tasse. E l’inflazione sembrava un ricordo. Con la crisi, scrive Rachman, le idee di mercato (chiamiamole pure “thatcherismo” se serve) hanno perso il vantaggio che avevano, sul piano etico. L’espressione thatcheriana “l’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima” può sembrare sinistra, ma rappresentava una sorta di “ritorno all’età vittoriana”, un’enfasi sulla voglia di fare, sul self help (aiutati che il ciel t’aiuta) come più efficace che guadagnarsi un posto alla mensa pubblica. Insomma, la signora Thatcher voleva dire che l’economia di mercato “costringe” a prendersi le proprie responsabilità, e questa è una cosa buona per la società nel suo complesso.

Si potrebbe dire che “responsabilità” è una parola pericolosa, che è facile svuotarla di significato. Tant’é che oggi si esalta la “responsabilità” di attori collettivi (le imprese, le comunità, lo Stato) per levarne il peso agli individui, ma questo è un altro discorso. E’ invece interessante una osservazione di Rachman, che Mucchetti non recepisce nel suo articolo. La differenza fra il 3 maggio del ’79 e il 3 maggio del ’09, scrive l’editorialista dell’FT, è che piacesse o meno la Iron Lady arriva a Downing Street con una agenda, dei principi, un capitale di idee da mettere a frutto. Oggi invece i leader politici “combattono la crisi con qualsiasi strumento abbiano a disposizione”. Se ne può esaltare il pragmatismo, ma questo pragmatismo è sterile, non è in grado di elaborare “una visione alternativa” di lunga gittata, scrive Rachman, a meno di chiudere gli occhi e immaginare che il cantiere dello Stato sociale non abbia prodotto, come invece ha prodotto, un edificio pericolante.

Sarebbe ottimistico dire “tina”, there is no alternative. Ma proprio perché il pragmatismo autointeressato della classe politica è destinato a mostrare sempre più evidenti contraddizioni, questo non è il momento di smettere la coerenza come un abito usurato.

3
Mag
2009

Dopo vent’anni in Germania è ancora Ovest contro Est

INSM Regionalranking 2009Nelle scorse settimane il think tank tedesco Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft, in collaborazione con l’istituto economico IW di Colonia, ha pubblicato l’indice annuale sul grado di benessere e sviluppo economico facente capo a ciascuno dei 409 distretti della Repubblica federale. L’analisi è stata condotta in maniera piuttosto accurata, prendendo in considerazione trentanove indicatori diversi- tra i quali attrattività del mercato del lavoro, tasso di disoccupazione, potere d’acquisto, produttività, costo del lavoro, infrastrutture, capitale umano e stato delle finanze pubbliche. Ne emerge un quadro (consultabile “graficamente” qui) che non si presta certo ad ambigue interpretazioni: città come Monaco, Stoccarda e Francoforte sul Meno rimangono, con i loro sobborghi, il traino economico del paese. I cosiddetti nuovi Bundesländer, i cui confini sono stati tracciati a seguito della riunificazione del 1990, continuano ad arrancare, se è vero che gli ultimi dieci posti del ranking sono tutti occupati da distretti dell’ex Germania Est, area nella quale il tasso di disoccupazione rimane tutt’ora doppio rispetto a quello occidentale. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà: il sud-ovest della Germania bilancia ancora oggi gli scompensi dovuti ad un amalgama malriuscito. Nel corso di un suo recente intervento presso Biennale Democrazia, Hans Vorländer, politologo dell’Università di Dresda, ha ricordato molto bene come  l’ex repubblica democratica abbia in effetti tentato di attutire i rigori e le difficoltà derivanti dalla riunificazione, adagiandosi comodamente sulle spalle di un altro Sozialstaat – quello della Germania federale- e rinviando così l’appuntamento con il libero mercato e il capitalismo. Certo, come gli stessi curatori dello studio non mancano di rimarcare, anche ad Est qualcosa è cambiato e la cortina comincia lentamente a farsi più sottile. Dal 2000 ad oggi si nota un incoraggiante progresso di certe aree (evidenziate in blu, pagina 12) un tempo depresse, in particolare nel Brandeburgo, in Sassonia (il cui sistema scolastico primario è stato recentemente ritenuto il migliore dell’intera Germania) e in Turingia. Lipsia, ad esempio, città da cui nel 1989 ebbero inizio i moti insurrezionali contro il regime della DDR, è tornata ad essere un centro fieristico internazionale di enorme prestigio; Jena, giunta prima nella classifica limitata all’Est, ha una delle università migliori della Repubblica federale e le sue industrie tecnologiche sono tornate a fiorire. Infine Dresda ha ormai una vasta e dinamica rete di piccole e medie imprese. A questo iniziale, ma ancora debole riscatto dell’Est, si è d’altra parte accompagnato un relativo “declino”- si parva licet- di certe altre zone, come quelle intorno ad Hannover, a Colonia e alla stessa Francoforte sul Meno. Solo la Baviera e alcune parti dell’Assia e della Renania Palatinato sembrano aver tenuto il passo. Ora la crisi (come evidenziato in quest’ultimo grafico) minaccia di compromettere ulteriormente la stabilità economica degli agglomerati più produttivi dell’Ovest, mentre sembra non esporre l’Est, assai meno attivo nel campo dell’export, ad un rischio di tracollo. La povertà, si potrebbe dire, protegge l’Est. Assai magra consolazione.

3
Mag
2009

Fiat Chrysler

La settimana conclusasi è stata molto importante nel settore dell’auto: l’accordo raggiunto tra Chrysler e Fiat ha permesso all’azienda italiana di entrare nel capitale del gruppo di Detroit con il 20 per cento, in cambio del trasferimento di tecnologie in ambito motoristico e nel segmento delle “piccole”.

Chrysler ha sofferto particolarmente lo scorso anno a causa dell’incremento del prezzo del carburante ed essendo l’azienda molto forte nel mercato dei “lights truck”, cioè i veicoli più grandi e debole nel mercato delle autovetture ha avuto un vero e proprio tracollo delle vendite.

Il mercato dell’auto americano tuttavia non ha toccato il fondo nel 2008 e il primo quadrimestre del 2009 è stato uno dei peggiori di sempre; le vendite di veicoli sono diminuite del 37,4 per cento e nel solo mese di aprile sono state vendute 430 mila vetture in meno rispetto allo stesso mese del 2008.

Chrysler si sta comportando peggio del mercato in quanto nei primi quattro mesi ha venduto il 46,2 per cento in meno di veicoli rispetto allo scorso anno.

La crisi del gruppo ha portato a quello che era prevedibile: il chapter 11. Il fallimento pilotato del gruppo automobilistico era inevitabile e i miliardi di dollari continuamente immessi dalle amministrazioni americane non sono serviti a nulla, se non a rallentare l’agonia.

In questo quadro tetro è entrata Fiat con la sua forza nel segmento delle autovetture, ma con la sua debolezza globale. Il gruppo italiano ha il 3 per cento del mercato globale e pur avendo la possibilità di rientrare nel mercato americano, rimane un player debole nel settore automobilistico.

Il mercato americano nel 2009 sarà superato in termini di vetture vendute dal mercato cinese e il futuro dell’auto non potrà non passare dal continente asiatico. Proprio in Asia, sia Fiat che Chrysler hanno una presenza praticamente nulla e l’alleanza non riuscirà a supplire a questa debolezza.

Fiat riesce ad entrare nel gruppo di Detroit senza versare un euro.

La domanda che forse poco interessa poco agli italiani, ma che certamente interessa di più agli americani è, chi paga per Chrysler?

La questione che interessa maggiormente agli italiani potrebbe essere relativa al controllo dell’azienda automobilistica di Detroit: chi è il nuovo proprietario del gruppo?

Alla prima è facile rispondere evidenziando i miliardi di dollari che le amministrazioni Bush ed Obama hanno versato nel gruppo fallito e che lo stesso presidente ha promesso di dare nei prossimi mesi. Per superare velocemente il chapter 11, Barack Obama ha promesso di immettere altri miliardi di dollari nelle casse della casa automobilistica. Sono dunque i contribuenti americani a dover pagare per Chrysler e oltretutto si sono ritrovati a versare soldi senza evitare il fallimento dell’azienda stessa.

La seconda questione necessita di una premessa. Il salario orario per operaio di Chrsyler era del 50 per cento superiore a quello dei gruppi giapponesi ed europei che producevano automobili negli Stati Uniti. Si dice che l’accordo prevede dei grandi sacrifici dei sindacati americani, in particolare della UAW, ma in realtà i reali vincitori della partita, prima ancora di Fiat, sono proprio i sindacati.

Questi non avranno più diritto di sciopero fino al 2015? Ma fino al 2015 chi sarà il primo azionista di controllo dell’azienda produttrice di automobili? I sindacati e non certamente Fiat, che resterà solamente un solido partner industriale.

I fondi pensione dei lavoratori e pensionati Chrysler avranno la maggioranza, mentre i vecchi creditori, tra le quali molte banche ed Hedge Fund, vedranno diluita la loro presenza.

Barack Obama ha lasciato che Chrysler passasse tramite un fallimento pilotato, ma al fine di modificare il controllo dell’azienda a favore della categoria sindacale.

La presidenza democratica non ha salvato Chrysler, ma ha dato il controllo dell’azienda alla categoria che maggiormente ha causato lo stato fallimentare.

Questa partita può essere dunque sintetizzata in un’espressione di derivazione latina: Fiat Chrysler. Con i soldi dei contribuenti americani.

3
Mag
2009

Quale energia tra vent’anni?

La redazione del portale EnergiaSpiegata ha chiesto a diversi intellettuali, scienziati, economisti e opinionisti di sentitizzare, in poche righe, come ritengono sarà il mondo dell’energia tra vent’anni. Qui la mia risposta, qui quelle delle altre persone interpellate. Credo che la lettura delle varie visioni che sono state e saranno pubblicate sia utile, perché mostra l’eterogeneità delle prospettive, che in alcuni casi non sono solo molto distanti, ma sembrano riflettere mondi diversi. L’interesse di un gioco del genere sta nel fatto che interrogarsi sul futuro dell’energia significa, in un certo senso, interrogarsi sul futuro della società. C’è chi, come me, è convinto che – in assenza di clamorose <sbandate anticapitalistiche che al momento nonostante tutto non paiono in vista – il sistema di mercato reggerà, e con esso la globalizzazione si estenderà a a paesi e settori che finora ha solo lambito. Come necessaria conseguenza, aumenterà il benessere e, dunque, il consumo di energia. Altri la vedono diversamente. Chiunque può lasciare, qui su Chicago o su Energia Spiegata, la sua opinione. Oppure portarla di persona, tra pochi giorni, al Festival.

2
Mag
2009

Red Obama e il rischio bancario

Sull’auto Obama può fare “il rosso”, perché da sempre la storia dei tre grandi produttori automobilistici Usa è fatta di grandi collusioni tra politica e sindacato. In Chrysler, paradossalmente, attribuire la maggioranza ai sindacati poteva essere una mossa favorita dal fatto che Cerberus, l’azionista di maggioranza sino a ieri, aveva fatto efficienza con grande energia negli ultimi tre anni. Al punto tale che il fondo si è trovato nella singolare condizione di aver pagato pegno, per la troppo puntuale osservanza degli impegni di rientro del debito: avremmo fatto meglio a non restituire miliardi di dollari ai creditori negli ultimi due anni, è stata l’amara battuta finale venuta da Cerberus prima di mandare le carte al Tribunale per il chapter 11. Il che la dice lunga su quali norme prendano automaticamente piede: quando Stato e sindacati la fanno da padrone, ai creditori privati non resta che prendere atto che si entra in una fase di vera e propria sospensione del codice civile. I tre fondi indicati all’esecrazione mondiale da Obama – sui quali è già intervenuto Alberto Mingardi stamane – hanno il torto insopportabile di pretendere che appunto valga il codice civile americano, il quale assegna ai creditori privati la garanzia degli asset societari, e dunque loro non vedono il perché debbano accontentarsi di 29 cents per dollaro prestato, quando il sindacato che dal codice civile non ha garanzie “reali” si vede locupletato del 55% della società… Un errore imperdonabile, credere che in tempi di revanscismo statal-socialista valgano le garanzie ordinarie di legge a proprietari e prestatori…
Già in General Motors, dalla prossima settimana, non si sa quanto un eventuale analogo schema possa funzionare. Perché GM, a differenza di Chyrsler, il più dell’efficienza la deve fare ancora tutta. Lo stesso zar governativo dell’auto, Steve Rattner, ha dovuto ammettere che non bastano affatto, gli impegni di chiudere un terzo degli stabilimenti Usa, di liberarsi di una ventina di migliaia di dipendenti e di più di un terzo dei concessionari. Vedremo che cosa ne salterà fuori. Intanto la Germania si è subito accodata, e il governo Merkel ha reso noto di aver stilato la bellezza di “14 criteri” in base ai quali aggiudicare la proprietà della Opel. Come se in tutto e per tutto si trattasse, appunto, di un’azienda pubblica…
Ma prima di capire quanto “rossa” sarà la soluzione per GM, il rischio è di un incidente molto serio per Obama, gli Usa e i mondo intero. L’ovattata atmosfera dei mercati chiusi per il primo maggio e il lungo week end è stata attraversata da sinistri bagliori che provengono dal cuore malato stesso della crisi: le grandi banche Usa. A Washington si litiga forsennatamente, e il riserbo della Fed e del Tesoro non tiene più. I risultati dei tanto attesi stress test per i primi 19 gruppi bancari Usa, quelli che detengono ciascuno asset superiori a 100 bn di dollari, non verranno resi noti a metà settimana prossima ma – forse – dopo la chiusura settimanale di venerdì. Le banche hanno idee molto diverse dal Tesoro, in merito al rafforzamento “coatto” del proprio patrimonio stimato come necessario dagli ispettori pubblici. Germinano indiscrezioni su una Citigroup bisognosa di altri 10 miliardi di dollari, su Bofa chiamata a trasformare in azioni ordinarie i 45 miliardi di titoli ibridi acquisiti dal pubblico, su Wells Fargo finora esente da cattive dicerie, e su parecchi altri istituti. La settimana di Borsa rischia di essere molto ballerina, su queste voci di profondo dissenso in merito a come riparare proprio le falle che hanno fatto imbarcare tanta acqua all’economia mondiale. Perché se sull’auto Obama può fare il Rosso, sinora l’amministrazione con Summers e Geithner si era ingegnata di avere ottimi rapporti con i vertici bancari privati Usa. Di qui lo schema di riavvio delle cartolarizzazioni dei titoli tossici fortemente favorevole – troppo – agli auctioners privati (la promessa per loro è di mettere soli 6 cents a fronte di un dollaro di nominale, e tutto quel che viene sopra quella linea si spartisce a metà col Tesoro, che per parte sua garantisce il resto e si accolla da solo tutte le eventuali perdite). Ma prima di arrivare alle aste “tossiche” bisogna appunto passare per i bollettini medici ufficiali dello stato patrimoniale delle 19 banche. E se in alcune tra le maggiori di esse Obama pensa di socialisteggiare come nell’auto, è pressoché obbligatorio prevedere pessime reazioni dei mercati. Speriamo che a Washington ragionino, e il socialismo si fermi ai bricks and mortars che più gli appartiene storicamente.

2
Mag
2009

Le auto americane e il clima europeo

Questa volta l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, ha fatto bingo. Prima di parlare di rinnovabili, ha detto, meglio concentrarsi sulle cose serie. La questione è semplice:

I prezzi della benzina sono crollati, rispetto a un anno fa, l’imposizione fiscale [negli Usa] è molto bassa e gli americani sono contenti. Vorrà il signor Obama mettere un’imposizione fiscale sulla benzina simile a quella che conosciamo noi europei da decenni? Non lo so. Ma è un tema abbastanza discriminante sull’ambientalismo.

Lungi da me invocare un aumento delle imposte americane sui carburanti per autotrazione. Però Scaroni ha perfettamente ragione nell’osservare che una delle principali cause della differenza nell’efficienza del parco veicoli americano rispetto a quello europeo sta proprio nel carico tributario, che determina una differenza di ordini di grandezza tra il costo degli spostamenti in Europa e negli Stati Uniti. L’alto prezzo del “pieno” ha spinto gli europei a progettare, e acquistare, veicoli più leggeri e meno voraci. Negli Usa, invece, si è optato per un intervento regolatorio sulle imprese automobilistiche, con pochi risultati di politica ambientale, e risultati orrendi sul fronte dei processi produttivi. I cosiddetti “CAFE standard” impongono il valore medio di consumo per la flotta prodotta da ciascuna impresa. Poiché gli americani, per il loro stile di vita e il basso costo dei carburanti, tendono a volere auto molto potenti, le industrie sono costrette a introdurre sul mercato veicoli che nessuno vuole, ma che rappresentano un costo industriale molto importante e che è, a sua volta, tra i fattori scatenanti della perenne crisi di Detroit. Dal punto di vista dell’inquinamento, come spiegano Jerry Taylor e Peter Van Doren, i CAFE

regolano le emissioni per miglio di strada, non per gallone di carburante consumato. I miglioramenti nell’efficienza dei motori riducono il costo della guida e quindi fanno crescere le miglia percorse. In più, le industrie automobilistiche hanno un incentivo a bilanciare i costi associati coi miglioramenti nell’efficienza dei motori spendendo meno sul fronte delle altre forme di inquinament0, poiché attualmente hanno performance superiori a quelle imposte dalla legge.

Insomma, i CAFE sono una forma di regolamentazione sbagliata e controproducente quasi da ogni punto di vista. La questione non è solo una faccenda interna agli Stati Uniti, perché il tema teorico sottostante è quello che riguarda tutte le politiche ambientali, comprese quelle che puntano alla riduzione delle emissioni di gas serra in Europa. Sebbene dal punto di vista teorico possano esserci poche differenze sostanziali tra le varie soluzioni di policy – siano esse l’imposizione fiscale sulle esternalità, l’introduzione di schemi di cap & trade, o la definizione di standard tecnologici o di performance – nel mondo reale le differenze ci sono, eccome. L’esperienza mostra che la leva fiscale, per quanto possa risultare odiosa a noi mercatisti, è quella più efficace e, probabilmente, meno distorsivi, perché la sua applicazione tende a essere più semplice e trasparente e meno distorsiva.

Precipitando questo tema nell’attualità europea, come abbiamo fatto qualche giorno a Bruxelles durante un seminario organizzato dall’IBL, una possibile conclusione è che, se proprio dobbiamo fare qualcosa per ridurre le emissioni, l’introduzione di una carbon tax è il male minore. Due sono i temi fondamentali. Il primo riguarda le modalità di fissazione del livello del prelievo: mi pare che l’idea più geniale e corretta sia quella di Ross McKitrick, che ha suggerito una formula che ancora il livello della tassa alle temperature effettivamente misurate. In fondo, se lo scopo di tutto questo è prevenire un aumento delle temperature oltre una soglia che qualcuno giudica insostenibile, tanto vale assumere proprio quella come benchmark. Il secondo tema è invece relativo a come strutturare le politiche ambientali senza fare troppo male alle prospettive di crescita economica, fermo restando che qualunque politica climatica un po’ di male lo farà. In questo senso, c’è una certa convergenza sull’idea di introdurre una carbon tax che sia revenue-neutral, cioè progettata in modo tale che l’intero gettito sia destinato alla riduzione di altre, e più distorsive, imposte, come quella sul reddito personale.

E’ vero che una proposta del genere cammina sulle uova, perché in qualunque momento il governo potrebbe decidere di aumentare l’imposta o di destinarne il gettito ad alimentare spese che nulla hanno a che vedere col clima. Ma se non vi fidate delle promesse fiscali del governo, come potete fidarvi del governo a tal punto da affidargli la salvezza del pianeta?

2
Mag
2009

Fiat, Chrysler e l’avidita’ dei creditori

Chi siano gli eroi della vicenda Chrysler-Casa Bianca-Fiat, e’ chiaro: Obama e Marchionne. Chi siano i villain, pure: i tre hedge fund Oppenheimer Funds, Perella Weinberg Capital Management LP e Stairway Capital Advisors (imitati poi da MatlinPatterson, Avenue Capital, York Capital ed Eton Park Capital Management) che non hanno accettato di “cancellare il debito” dell’industria automobilistica americana. La portavoce del Tesoro, Jenni Engebretsen ha ringhiato che “avevamo dato ai creditori riottosi la possibilita’ di fare la cosa giusta ma loro hanno posto il veto”. Obama ha a sua volta biasimato “chi non è pronto ad accettare sacrifici”. L’eterno ritorno del “greed” come tema politico. Per una prospettiva diversa,  date un’occhiata al giudice Napolitano su Fox.

1
Mag
2009

Fiat-Chrysler e l’editto di Caracalla

Per l’industria dell’auto italiana, cioè per Fiat Group Automobiles, l’intesa con Chrysler è l’equivalente dell’editto di Caracalla. Nel 212 dopo Cristo, Marco Aurelio Antonino figlio di Settimio Severo prese definitivamente atto che Roma era irreversibilmente “internazionalizzata”, dunque la sua cittadinanza andava estesa a tutti gli abitanti dell’Impero per riscuoterne le tasse, altrimenti le casse imperiali col cavolo che bastavano a pagare le legioni senza di cui non si ascendeva (e si restava) sul trono. La conseguenza fu la sempre più accentuata e poi definitiva emarginazione del Senato, come organo di legittimità e controllo della sovranità. In cambio, però, c’erano un paio di altri secoli di sovranità da guadagnare. Le cose non andarono proprio come previsto, ma era un atto di realismo.
Anche nell’intesa Fiat-Chrysler, c’è non solo un comandante militare capace di grandi intuizioni e veloci campagne come Marchionne, ma pure un Senato che accetta la rischiosa prospettiva di contare assai meno: cioè Exor che ha il controllo di Fiat, la Giovanni Agnelli&co alla quale partecipano in forma di sapa gli eredi Agnelli che controlla Exor, e risalendo ancora la Dicembre ss, in cui John Jaki Elkann con il 30,1% della sapa custodisce i custodi dell’intera catena. Tra le tante cose che all’indomani dello storico accordo i media italiani non mettono molto a fuoco, per le ragioni oggettive richiamate da Alberto Mingardi (a proposito, però: il neodirettore della Stampa mi è piaciuto, Mario Calabresi invece di levare peana ha preferito fare il giornalista vero, con un’intervista a Marchionne nella quale l’ad ammette che con le donne non batteva chiodo vergognandosi dell’accento, e aggiunge per amor di verità che senza Opel e altri pezzi di Gm nel mondo l’accordo è ancora largamente subottimale…) c’è innanzitutto il saggio realismo di chi, alla testa della catena, mostra davvero di non essere più tetragono nella difesa del controllo, di Fiat com’è e soprattutto di ciò che è obbligata in qualsivoglia modo a diventare, se intende sopravvivere. Jaki Elkann l’aveva già detto diverse volte, ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo tutti i numerosissimi matrimoni internazionali falliti dalla Fiat in passato. Questa volta si fa sul serio, ed è bene così. Si potrebbe parlare di paradossale rivincita della posizione umbertina su quella dell’Avvocato, come in fondo da Umberto venne l’indicazione di Marchionne nel 2004. Ma sarebbe pura letteratura fiattista, quella in cui eccellono Castronovo e Berta. In realtà, l’esplosione dei mercati dell’auto è una delle più benefiche conseguenze della crisi finanziaria, perché ha mandato al pettine d’un colpo tutti i nodi che nell’ultimo decennio i giganti dell’auto -soprattutto americani – tentavano di eludere. E’ questo, a rendere del tutto diversa la situazione, e dunque fuori luogo anche ogni riferimento al passato torinese.
Proprio per questo, la consapevolezza di dover fare di necessità virtù a Torino poteva essere condivisa solo da un controllo societario estraneo alla vecchia generazione, e perseguita e realizzata da un capoazienda che la Fiat l’ha rimessa in piedi dal fallimento in cui versava proprio perché geneticamente altro e diverso, dalla precedente tradizione subalpina. Un anno e mezzo fa misi al lavoro una giovane giornalista del giornale che allora dirigevo a un libro che resta ancor oggi la miglior guida interpretativa (insieme a quello del professor Giuseppe Volpato, edito dal Mulino la scorsa estate) per comprendere che cosa davvero abbia fatto nei primi 4 anni a Torino Marchionne, al di là dell’agiografia mediatica. Si intitolava appunto “Il rebus Marchionne”. Davamo atto a Mr. Pullover, numeri alla mano, di aver realizzato nei primi tre anni gli obiettivi di recupero efficienza e utili annunciati per il quarto. Ma concludevamo con un giudizio e una domanda. Il giudizio era relativo al fatto che i piani al 2010-11 risultavano, nelle date e allora prevedibili condizioni di mercato, non alla portata dell’azienda (soprattutto per i marchi Alfa e Lancia, di cui si ipotizzava più del raddoppio dei volumi con oltre 300mila veicoli a testa l’anno). Lo slogan marchionnesco, “in 5 anni ciò che Toyota ha fatto in 50”, era attuato e credibile per la miglior efficienza del management e degli impianti, ma non poteva funzionare a fronte di un’intensità di capitale in ricerca per unità prodotta drammaticamente sottodimensionata, rispetto a quella dei maggiori concorrenti (FGA ha investito tra 2002 e 2006 poco più di 11 miliardi, i francesi di PSA 22, Daimler 25, Renault 26, Nissan 32, Volswagen 46, Toyota 73). La domanda, di conseguenza, era rivolta agli azionisti. O un matrimonio con un partner complementare e forte, accettando il ridimensionamento sia pur portando in dote motori e cambi avanzati e una ricca panoplia di alleanze già operanti nei diversi segmenti, da Ford a Psa a Tata. Oppure uno “spacchettamento” della conglomerata, separando l’auto da camion, veicoli industriali e agricoli, per liberare valore e aumentare la leva possibile dei finanziamenti da chiedere al mercato per crescere.
La crisi mondiale è come dicevo benefica, perché mette l’intero settore dell’auto di fronte a interrogativi che prima gravavano solo su Fiat. Ma la proprietà intanto una risposta l’ha data, accettando di mettersi in gioco in un matrimonio con un partner debole ma che rappresenta l’accesso diretto al mercato Usa, e che consente di avere tutt’altre credenziali dal passato per aggregare anche ciò che più serve, cioè partner credibili in Cina e Russia (il peggior fallimento internazionale di Marchionne, purtroppo, sta in quei due mercati decisivi), nonché rafforzamenti in Europa e Sudamerica (per questo servono gli asset che GM potrebbe dismettere, tra Vauxhall e Opel come in Brasile dove Fiat è leader, e per fortuna che il Brasile di Lula regge alla crisi visto che in questi anni l’utile auto di Fiat viene al 90 e più per cento solo dal Brasile e dalla Polonia, gli unici stabilimenti del gruppo torinese che in questi anni sono andati in over capacità produttiva, con margini altissimi).
Nessuno è in grado di dire oggi a quali condizioni societarie avverrà un domani la “salita” di Fiat al 35% di Chrysler, perché ciò comporterà denari da investire che oggi la Fiat non ha (più 6 che 5 miliardi di debiti finanziari, più di 7 miliardi di debito obbligazionario, da poche settimane degradato al rango di junk bond). Ma quei denari potrebbero venire davvero, non solo dal governo e da primarie banche Usa oltre che italiane, se entro i primi 9-12 mesi Washington e i mercati vedranno che il tornado Marchionne si produrrà in Chrysler come ha beneficamente funzionato a Torino.
Di incognite ce ne sono moltissime. Mi limito ad elencarne alcune, tra quelle che mi sembrano maggiori. Il mondo degli analisti per esempio è diviso sulla “natura” della crisi in corso. Gli ottimisti a oltranza ritengono che si tratti di una pura crisi della domanda, effetto del piantarsi drastico dei consumi a causa dello spavento
ingenerato dalla crisi finanziaria e bancaria. Basterà che i governi varino iper rottamazioni incentivate in Europa – come puntualmente avvenuto in Germania, Italia, Francia, UK ecc -e magari stanghino di tasse alla pompa gli americani per indurli a “comprare verde”, ed ecco che i volumi torneranno tali da poter consentire a ciascuno il suo, senza necessità di grandi rivoluzioni. Non sono di questa idea. La crisi è salutare perché mette alla frusta il settore dell’auto mondiale dal versante dell’offerta: la sovraccapacità produttiva nell’ordine del 30% è figlia di un quindicennio di rinvii di scelte necessarie, poiché tranne la Gran Bretagna nessun grande Paese avanzato ha voluto rinunciare al suo o ai suoi campioni nazionali dell’auto, senza mai imboccare un’ottica davvero globale (Renault-Nissan è stata l’eccezione, grazie a Goshn), con la scusa che l’auto resta “strategica” e ogni occupato in fabbrica se ne porta dietro altri sei nell’indotto. L’auto, in realtà, è un settore a tecnologia matura assai meno decisivo dell’ICT o dell’energia, e quei ragionamenti sono solo comprova di come politici e regolatori ragionino con la testa rivolta all’indietro, e manager e proprietà siano lesti nel saperne approfittare.
Se la crisi è dell’offerta – e dunque l’America deve accettare di incidere in profondità, come sta facendo a spese del contribuente, i suoi tre giganti malati – è pur vero che nessuno è in grado di dire davvero oggi quali saranno le modifiche “strutturali” della domanda, una volta che si esca dal puro terrore ribassista in materia di redditi disponibili dei consumatori. Su questo capitolo gravano molti equivoci, quanto a lettura della futura domanda di veicoli nel mercato Usa, come negli altri avanzati. Solo degli sciocchi possono credere che la 500 si venda a centinaia di migliaia di unità nell’America profonda o nel Nordovest (idem dicasi per le Alfa, al di là di qualche migliaio per amatori). Una delle tre condizioni sottoscritte da Marchionne come test del successo verificabile in progressione, per consentire a Torino di giungere domani al controllo industriale di Chrysler (quello di fatto, resterà per chissà quanto ai sindacati, che oggi ragionano, ma un domani che la domanda riparta, auguri) è di produrre entro il 2012 una vettura che faccia 40 miglia a gallone, 16,5 km a litro. Si può fare benissimo, già oggi qui in Europa siamo pieni di auto che consumano meno. Ma il punto è che quella da produrre in Chrysler dovrà essere una vettura “americana e per gli americani” a tutti gli effetti, non una 500 superfetata. E quanto a Daimler e BMW, saranno le loro berline di lusso a continuare ad attirare volumi crescenti di ricchi russi e cinesi, così come VW è il gruppo che meglio in questi anni ha saputo giocare a livello mondiale la complementarietà di ben 7 marchi diversi.
Marchionne lo sa benissimo. E del resto all’accordo c’è potuto arrivare proprio perché era l’unico capoazienda dell’auto al mondo più canadese e americano che del proprio Paese d’origine, e insieme perché la nazione su cui insiste Fiat è, paradossalmente, la meno “ingombrante” agli occhi Usa rispetto alla tetragona Germania o all’infida ma velleitaria Francia. La relativa debolezza dell’Italia ha aiutato il deal, invece di ostacolarlo. Oltre alla memoria del terribile errore compiuto da Gm pagando 2 miliardi per non esercitare l’opzione su Torino negoziata da Fresco.
Marchionne se ne sarebbe andato, se non fosse scoppiata la crisi che gli ha prima impedito di lasciare Torino per UBS, e poi sempre la crisi non gli avesse fatto balenare quella che oggettivamente è l’occasione della vita. Per gli eredi Agnelli, in termini machiavellici è una fortuna assai superiore alla virtù. Una fortuna da alimentare con preghiere incessanti a Numi dell’Olimpo, e con la necessità di iniziare rapidamente a pensare a nuovi mezzi finanziari per il balzo mondiale, ben superiori al miliardo di euro che Exor ha in cassa, e che del resto non intende convogliare nell’auto. Senza adeguate risorse per crescere, si rischia di ripetere l’errore dei successori di Caracalla. Si affidarono solo all’alea delle legioni, e furono 70 anni di terribile anarchia, fino a Diocleziano.

1
Mag
2009

Debutta il federalismo. Anzi, no

Era necessario approvare il tutto prima delle elezioni europee, perché Bossi doveva incassare il dividendo di maggioranza. Ma non si creda che la nuova “legge quadro” sul federalismo fiscale cambi qualcosa, perché non è così.
Si tratta di un testo nato da mille compromessi, dato che durante l’estate Calderoli ha girato tutte le parrocchie per ottenere il loro placet, e alla fine ha messo insieme un progetto che accontenta il Sud e il Nord, le province e i comuni, le regioni e lo Stato centrale, la destra e la sinistra. Insomma, un pasticcio.
Anche la decisione di passare dai costi storici a quelli standard sarà, nel migliore dei casi, un modo per passare da una gestione centralista confusa ad una gestione centralista un po’ meno confusa. Sempre che la definizione dei costi standard non metta in moto un meccanismo infernale e non finisca quindi per moltiplicare il caos.
Resta che, se proprio saremo fortunati, avremo avuto una razionalizzazione dell’esistente, dato che nel contorto catalogo di possibilità messe sul tavolo dal testo della riforma vi è un netto prevalere di tributi decisi dal centro e in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale.
Quella che sembra mancare, in primo luogo, è la scelta di innescare una competizione tra territori che permetta a comuni e altri enti di “manovrare” le aliquote e anche di elaborare autonomamente tributi propri. Ma senza lo sviluppo di un’intensa concorrenza tra governi locali non ci può essere alcun federalismo.
Eppure non è lecito essere del tutto pessimisti, dato che quello che prende il via – di tutta evidenza – è un processo destinato a conoscere tappe che oggi non possiamo immaginare. Come è stato immaginato e prefigurato fino, il disegno dell’Italia di domani non ha nulla di federale. Ma nulla esclude che cammin facendo l’introduzione di qualche tributo davvero affidato all’arbitrio degli enti locali e quindi tale da mettere in concorrenza le differenti realtà non inneschi qualche circolo virtuoso e non educhi un po’ alla volta una popolazione ancora del tutto digiuna di ciò che è veramente il federalismo competitivo.
Roma non fu fatta in un giorno, e neppure la Svizzera.