Ancora grazie, signora Thatcher
Il dibattito sulla crisi è a sprazzi molto concreto, ma spesso ideologico. Non è necessariamente un male. La crisi se non altro simola un ritoro alla discussione, costringe a ripensare ai fondamentali, porta ad interrogarsi su questioni che banali non sono. Sul Corriere di domenica, Massimo Mucchetti rendeva conto dell’articolo di Gideon Rachman sul Financial Times, cui oggi segue risposta di Maurice Saatchi. Mucchetti ha pochi dubbi nello scrivere:
Il 3 maggio 1979 Margaret Thatcher entrava al numero 10 di Downing Street dicendo: «Il popolo britannico ha chiuso con il socialismo. L’esperimento, durato 30 anni, è penosamente fallito e la gente è pronta a provare qualcos’altro». Il 3 maggio 2009, trent’anni dopo, potremmo dire: «Il thatcherismo, che fece ben presto scuola nell’America reaganiana e poi influenzò tutto il mondo, è anch’esso miseramente fallito».
Mi sembra difficile esser d’accordo con Mucchetti che “lo Stato sociale sia ancora un pensiero forte”, ma con lui e Rachman è impossibile non convenire su un punto: è cambiata la melodia di fondo. Chi misuri la realtà con l’impegnativo metro della libertà economica sa bene che non usciamo da trent’anni di “deregulation selvaggia”. Considerare Stati che confiscano, suppergiù, il cinquanta per cento del reddito prodotto da un individuo esempi di liberismo è semplicemente una follia. E neppure si può dire che le proposte liberiste negli anni scorsi abbiano avuto vita facile. E non solo da noi. Basti ricordare il misero fallimento di Bush, in una delle sue poche battaglie veramente condivisibili: quella per la trasformazione del sistema previdenziale americano. O l’andamento a zig-zag di Tony Blair, nei suoi tentativi di introdurre in Inghilterra misure di welfare-to-work. O i diversi tentativi di “ingessare” il mercato del controllo avutisi in tutto il mondo. O il fallimento della direttiva Bolkestein in Europa. O ancora la sostanziale impossibilità di modificare, nella direzione di una flat tax, il sistema fiscale americano – e come tacere la resistenza che nel nostro Paese c’era, anche da parte di commentatori che negli anni successivi hanno proposto agenda liberalizzanti, nei confronti della “flat tax annacquata” delle due aliquote berlusconiane prima maniera? E mentre fioccavano le prediche contro la globalizzazione, quanti passi in avanti reali sono stati fatti, dal 2001 in qua, nell’apertura degli scambi? In realtà, è dagli anni Novanta che non vi sono state, nel mondo, privatizzazioni di grande rilievo – ed è probailmente da fine anni Ottanta, come hanno sostenuto diversi autori (penso a Sam Peltzman e Stephen Littlechild), che il “ciclo” della deregolamentazione è sostanzialmente finito.
Detto tutto questo, ciò che era notevole negli anni scorsi era che, faticosamente, le idee di mercato sembravano essere destinate via via a guadagnare maggiore legittimità. Quella dei “fallimenti dello Stato” era una chiave di lettura accessibile anche a chi stava a sinistra. Le privatizzazioni avevano dato, dopotutto, buona prova di sé. L’onere della prova stava dalla parte di chi voleva aumentare le tasse. E l’inflazione sembrava un ricordo. Con la crisi, scrive Rachman, le idee di mercato (chiamiamole pure “thatcherismo” se serve) hanno perso il vantaggio che avevano, sul piano etico. L’espressione thatcheriana “l’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima” può sembrare sinistra, ma rappresentava una sorta di “ritorno all’età vittoriana”, un’enfasi sulla voglia di fare, sul self help (aiutati che il ciel t’aiuta) come più efficace che guadagnarsi un posto alla mensa pubblica. Insomma, la signora Thatcher voleva dire che l’economia di mercato “costringe” a prendersi le proprie responsabilità, e questa è una cosa buona per la società nel suo complesso.
Si potrebbe dire che “responsabilità” è una parola pericolosa, che è facile svuotarla di significato. Tant’é che oggi si esalta la “responsabilità” di attori collettivi (le imprese, le comunità, lo Stato) per levarne il peso agli individui, ma questo è un altro discorso. E’ invece interessante una osservazione di Rachman, che Mucchetti non recepisce nel suo articolo. La differenza fra il 3 maggio del ’79 e il 3 maggio del ’09, scrive l’editorialista dell’FT, è che piacesse o meno la Iron Lady arriva a Downing Street con una agenda, dei principi, un capitale di idee da mettere a frutto. Oggi invece i leader politici “combattono la crisi con qualsiasi strumento abbiano a disposizione”. Se ne può esaltare il pragmatismo, ma questo pragmatismo è sterile, non è in grado di elaborare “una visione alternativa” di lunga gittata, scrive Rachman, a meno di chiudere gli occhi e immaginare che il cantiere dello Stato sociale non abbia prodotto, come invece ha prodotto, un edificio pericolante.
Sarebbe ottimistico dire “tina”, there is no alternative. Ma proprio perché il pragmatismo autointeressato della classe politica è destinato a mostrare sempre più evidenti contraddizioni, questo non è il momento di smettere la coerenza come un abito usurato.