9
Set
2019

Il Venezuela non sorride

di Paolo Squillaci

Cercate, se vi riesce, un ritratto ufficiale in cui Stalin non sorride, o almeno non abbia la faccia calma e placida, quella del vecchio zio che da piccolo ti portava in campagna a cercare le castagne. Se avete tempo e voglia di rivincita, fate la stessa cosa anche con Kim Il-sung e discendenti, Pol Pot, Mao, Ho Chi Minh, Fidel e gli altri simpaticoni che saltano alla mente. Mentre i dittatori di destra hanno storicamente la tendenza ad apparire marziali, quelli di sinistra di solito cercano di sembrare buoni e paciosi. Ricordate il manifesto in cui Stalin solleva allegro un bambino piccolo, anche lui al settimo cielo? Cose del genere. E questa è praticamente tutta la differenza tra un despota di sinistra e uno di destra.

Tutti i dittatori, come notava sagacemente Von Hayek, in fondo sono socialisti. A maggior ragione quelli che dicono di esserlo, e se ne vantano. Tipo? Tipo un certo Maduro. Ma se uno dovesse basarsi solo su i telegiornali e gli articoli di buona parte della stampa, direbbe solo una frase: “Ma no, Maduro non è un dittatore”. Più dittatore sembra, per esempio, Jair Bolsonaro del Brasile, che di recente è salito agli onori della cronaca per alcuni aspetti abbastanza curiosi della sua gestione degli incendi dell’Amazzonia brasiliana. C’è un tag per qualsiasi cosa, e dunque il nuovo #PrayForAmazonas da qualche giorno si staglia minaccioso contro il presidente eletto del Brasile; inutile dirlo, il cattivone è di destra. Non certo di destra liberale, ma si dichiara conservatore.

Ebbene, un altro signore che comanda giusto vicino a lui, Evo Morales, socialistissimo, il 9 luglio ha permesso l’incendio di una zona di circa 800mila ettari di foresta pluviale in sedici giorni (decreto n° 3973). E nessuno gli ha detto niente. Anche perché una fondazione ambientalista boliviana gli contesta la distruzione, in tredici anni, di sette milioni di ettari di Amazonas, per sostituire gli alberelli con torri di estrazione.

Di più: Maduro, il baffuto Maduro che per un certo partito (pardon, MoVimento…) non è così tanto cattivo come lo dipingono i media, solo in questo 2019 ha dovuto registrare, nel suo tratto di Foresta Amazzonica (meno dell’11% della superficie totale) oltre 26mila incendi; per sostenere el pueblo unito, il governo chiude volentieri un occhio sull’attività mineraria illegale. Sicuramente, i funzionari del partito che permettono queste cose non lo fanno per mazzette e regalie, ma nel superiore interesse del Venezuela e del popolo venezuelano. Come sono nell’interesse del popolo venezuelano le FAEN, le squadre della morte che ricordano agli anti-chavisti che la libertà di pensiero e di parola è una bella cosa, ma campare a lungo è anche meglio.

Come lo è accusare il presidente colombiano di “aggredire con minacce il territorio venezuelano”, salvo poi ospitare i guerriglieri delle FARC e, in questi ultimi giorni, portare le postazioni sul confine tra i due paesi al livello di allerta arancione.

Come lo è l’emergenza energetica nazionale, proclamata nel 2010, affrontata con l’unificazione e nazionalizzazione delle nove compagnie elettriche venezuelane e da allora mai conclusa, che sa tanto di presa in giro nel paese con più riserve di petrolio al mondo.

Come lo sono i CLAP (Comités Locales de Abastecimiento y Producción), il programma statale di distribuzione di generi alimentari, dove a mangiarci sono i grand-commis (vedi Alex Nain Saab Mora), non la gente comune, che della razione di cereali, latte, riso e prodotti in scatola adesso vede solo le briciole. Considerando che nel 2013 Maduro è stato premiato dalla FAO per la lotta contro la fame nel suo paese, è quasi un obbligo chiedersi con che razza di criteri vengano dati quei premi, visto che i CLAP sono di fatto uno strumento di controllo sociale bello e buono.

Chiediamocelo tutti insieme: perché alcuni dittatori, in Occidente, non sembrano dittatori, e altri sì? Perché alcuni sembrano la signorina Trinciabue di Matilda 6 mitica, e altri al massimo vengono ritratti come la signorina Rottermeier, un poco antipatici ma fondamentalmente benintenzionati?

La differenza è il colore della casacca: nero non va bene, rosso… sì, dai, in fondo un socialista è uno che lotta per i diritti del popolo. Anche se uccide, affama, sbatte in carcere senza processo, tortura e diffonde corruzione e inefficienza. Anche se, davvero, rossi o neri cambia molto poco, perché in fondo (neanche tanto in fondo) sono tutti nemici della libertà.

Prendete lo straordinario saggio di Daniel Yergin sul petrolio, Il premio. Vi si legge questa frase: “La tirannica dittatura del generale Gomez in Venezuela era terminata nel 1935, nell’unica possibilità che rimane quando tutto il resto ha fallito: la morte del dittatore. Gomez aveva lasciato un ostato di estremo disordine; aveva trattato il paese come proprietà personale esclusiva, un’azienda agricola gestita per arricchirsi. Gran parte della popolazione era rimasta povera”. Sostituite “generale Gomez” con “Nicolas Maduro”: c’è davvero tutta questa differenza?

Posso già dirvelo: nei ritratti ufficiali, il generale Gomez non sorrideva mai.

30
Ago
2019

Anche a scuola there is no such thing as a free lunch

Perché la Cassazione ha ragione sul panino in classe

Portarsi il pranzo da casa e rinunciare alla mensa scolastica è un problema giuridico? E in che misura sostenere che lo sia costituisce una limitazione della libertà individuale? Il dibattito inaugurato a fine luglio sulle colonne de Il Foglio ha offerto un’interpretazione soltanto parziale delle questioni che emergono dalla recente sentenza n. 20504/2019, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha negato che i genitori degli alunni delle scuole elementari e medie inferiori, anziché iscrivere i propri figli alla mensa scolastica, vantino un diritto soggettivo incondizionato a dotarli di un pasto domestico da consumare negli ambienti scolastici. Secondo i più accesi critici della decisione, lo Stato starebbe vietando agli studenti di nutrirsi come meglio desiderano e avrebbe loro imposto in via esclusiva il cibo della refezione, sempre più caro e di qualità scadente. In particolare, l’enfasi è posta su quella parte conclusiva della sentenza, in base alla quale «l’istituzione scolastica non è il luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l’utenza è connotato in termini puramente negoziali, ma è il luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità, come interpretati dall’istituzione scolastica». Da questa conclusione si trarrebbe, insomma, l’affermazione della prevalenza dell’elemento collettivo su quello individuale, che sarebbe confermata, del resto, anche dalla presunta soluzione al problema offerta dalla Suprema Corte, ossia che ciascun istituto scolastico (e non ciascuna famiglia), sulla base della propria autonomia organizzativa, decida come disciplinare il cd. tempo mensa e, quindi, le abitudini alimentari degli studenti.

In realtà, a partire da una questione piuttosto minuta, la sentenza stabilisce alcuni punti fermi nei rapporti tra genitori e istituzioni scolastiche che non necessariamente sono dettati da un’ideologia collettivista, ma, anzi, rispondono a principi di responsabilità, tipici di una società liberale. In primis, occorre sottolineare che la premessa dalla quale muovono i genitori e non la sola Cassazione è che il cd. tempo mensa sia parte del cd. tempo scuola, tesi interpretativa non così pacifica, ma essenziale per capire quali sono le posizioni in gioco. Questo significa che il momento dedicato alla refezione viene considerato anche dai ricorrenti un momento di pubblica istruzione e non un momento “libero” a essa estraneo. Inquadrando la refezione come momento formativo di socializzazione e condivisione rientrante nell’istruzione pubblica, i genitori – a loro dire – rivendicavano il riconoscimento di un diritto di libertà, ossia del diritto all’autorefezione individuale. Ma, in realtà, come evidenziato dalla Cassazione, ad essere da loro invocato era l’art. 34 della Costituzione nella parte in cui riconosce l’istruzione inferiore come gratuita. Essi pretendevano, cioè, che tale diritto all’autorefezione si esercitasse in maniera tale da tenerli indenni da qualsiasi costo, visto che, una volta rifiutata la mensa, essi non avrebbero certo inteso pagare null’altro all’istituzione scolastica. Ciò che veniva invocato non era quindi un diritto di libertà, bensì un diritto sociale per la cui realizzazione è richiesto l’intervento pubblico e non l’astensione dello Stato. L’obiettivo era, quindi, dotare i figli di un pasto domestico ed esternalizzare i costi in capo ai contribuenti per consentirne l’esercizio in uno spazio collettivo. Un’ipotesi di free riding bella e buona, come chi scrive aveva già cercato di mettere in luce in un saggio pubblicato nel 2017 dall’Osservatorio dell’Associazione Italiana Costituzionalisti (AIC) con un titolo assai evocativo: “There is no such thing as a free lunch”.

Ma quali sarebbero, per così dire, “le perdite” che i genitori vorrebbero socializzare per poter trattenere per sé stessi soltanto “i profitti”? Come è noto, l’organizzazione di un qualsiasi servizio (di refezione) è costosa: va verificata l’adeguatezza degli spazi, la disponibilità di personale per la vigilanza e per la pulizia, nonché la presenza di strumenti di refrigerazione o riscaldamento dei cibi. Si dirà: se i bambini che usufruiscono del pasto domestico mangiano accanto ai compagni in mensa, i costi vengono internalizzati e il problema in concreto proprio non si pone. Già, ma la possibilità che due servizi diversi vengano erogati contemporaneamente, uno a spese dell’altro, di problemi, invece, ne pone eccome. Innanzitutto di contaminazione di pietanze (tra cibi controllati e cibi non controllati) con eventuali profili di responsabilità civile non meglio delineati e tutti da accertare. Ma, soprattutto, occorre ricordare come le cooperative che ottengono l’appalto della refezione scolastica svolgano un servizio dettagliatamente disciplinato da un capitolato, in base al quale il personale non può che essere responsabile se non nei confronti di chi consuma il cibo offerto dalla cooperativa. Sarebbe, altrimenti, come decidere di organizzare quotidianamente un meraviglioso pic-nic gratuito sulla terrazza di un ristorante e pretendere che il personale dello stesso si incarichi di farci spazio e di pulire dopo che ce ne siamo andati. Non funziona così ed è inutile prendersela con la lobby dei ristoranti, se ci viene opposto un secco rifiuto! Se scegliamo il ristorante decidiamo consapevolmente di selezionare un piatto dal menù, altrimenti non andiamo al ristorante, ma restiamo a casa. Lo stesso principio – ricorda perentoria la Cassazione – si applica una volta optato per il tempo pieno. Le famiglie hanno, infatti, esercitato la loro libertà di scelta educativa, quella per il tempo pieno, un’offerta formativa che contempla anche il servizio mensa. Il pacchetto, per così dire, si acquista insieme e non è l’utente a decidere unilateralmente che cosa prendere e che cosa lasciare (se al ristorante non c’è la carne cruda tra gli antipasti non posso imporla allo chef, così come in hotel non posso avere la spa, se la struttura offre solo la piscina). Il punto è, quindi, che il menù, ossia la legislazione italiana, non prevede che al tempo pieno possa coincidere un tempo mensa organizzato diversamente rispetto al servizio di refezione o, quantomeno, prevede soltanto che siano le istituzioni scolastiche, nell’ambito della loro autonomia organizzativa, a dover decidere di accompagnare il servizio mensa con un altro servizio.

E allora agli utenti non resta che prendere ciò che passa al convento? Non esattamente. Innanzitutto, è sempre possibile l’opting out. Pur aderendo al tempo pieno, è pur sempre consentito prelevare da scuola i propri figli e dar loro da mangiare come si desidera (magari anche organizzando i loro pranzi comuni in una trattoria dell’angolo, come capitato in un istituto del torinese tempo fa), sicché la refezione scolastica non è affatto obbligatoria come si è letto in giro, pena – in questo caso sì! – la violazione del diritto dei genitori all’educazione dei propri figli. In alternativa, per chi decide di aderire al servizio mensa, l’ordinamento mette a disposizione una serie di strumenti partecipativi (le Commissioni mensa, ad esempio) attraverso i quali i genitori potranno influire sulle modalità di gestione del servizio. All’esito di tale procedimento, nell’ambito del quale si terrà conto degli spazi e dei costi di una diversa organizzazione, la singola scuola potrà, ma non sarà obbligata, a garantire il consumo del pasto domestico. Ciò che la Cassazione nega è, quindi, il diritto dei genitori di imporre l’organizzazione del servizio scolastico che più loro piace o fa comodo. La concorrenza, invece, si esercita tra scuole o meglio tra le diverse offerte formative disponibili e non all’interno di un singolo istituto scolastico, il quale non potrà essere obbligato ad adottare un certo tipo di sussidiario piuttosto che un altro, una diversa organizzazione dei corsi di recupero o una programmazione didattica che preveda più ore di educazione fisica piuttosto che di italiano. Così vale del resto anche nel settore privato, nel quale, una volta che l’utente abbia optato per un servizio, non potrà vantare il diritto di imporre al gestore una sua particolare erogazione, sicché la litania sul collettivismo, in questo caso, sembra davvero fuori luogo.

6
Ago
2019

Ecco come funzionano i dazi di Trump

il deficit aumenta e gli americani sono i primi a pagare

Nel corso di questi ultimi giorni si è tornati prepotentemente a parlare di dazi e di “guerra commerciale” tra gli Stati Uniti e la Cina. La Cina è però solo la “preda” principale delle politiche commerciali schizofreniche promosse dal Presidente americano. 


Da gennaio 2018 ad oggi, tra una minaccia e l’altra, l’Amministrazione Trump ha imposto dazi su una vasta gamma di beni. Il tutto iniziò il 23 gennaio quando i media statunitensi riportarono la notizia dell’introduzione di dazi su pannelli solari e lavatrici. Il 1 marzo 2018 fu il turno dei dazi su alluminio e acciaio. Il 23 marzo 2018, invece, iniziò ufficialmente la “guerra” contro il surplus commerciale cinese. 

Dopo ormai 18 mesi di dazi, è tempo di tirare le prime somme. In particolare è giunto il momento di effettuare un fact-checking sulle continue dichiarazioni e promesse di Trump. Nello specifico, sono tre i punti su cui vorrei soffermarmi. 

Prima di tutto, come già scritto in un recente articolo, la famosa promessa elettorale di ridurre il deficit commerciale americano non si è, fino ad ora, realizzata. Nonostante i numerosi dazi imposti su beni equivalenti ad un valore di centinaia di miliardi di dollari; le continue minaccie (ultima in ordine cronologico quella riguardante i dazi nei confronti del settore automobilistico europeo nel caso in cui le negoziazioni attuali con la Commissione Europea dovessero fallire o subito un rallentamento); la decisione di abbandonare immediatamente il tavolo dei negoziati TPP e TTIP; la realizzazione di un “NAFTA 2.0” più protezionista dell’accordo precedente ed il timido rinnovo dell’accordo commerciale con la Corea del Sud; il deficit commercial americano è in costante aumento. Tra gennaio e giugno 2019 il deficit commerciale americano di beni e servizi si è attestato a $316 miliardi di dollari contro i $293 miliardi dello stesso periodo del 2018 ed i $273 miliardi del gennaio-giugno 2017. 

Secondariamente, il gettito doganale raccolto è relativamente basso e mostra come la realtà sia molto più complessa di quella spesso raccontata via twitter dal Presidente Americano. Prendiamo come esempio il gettito raccolto dalla U.S. Customs and Border Protection (in italiano, Dogana e Polizia di Frontiera degli Stati Uniti; abbreviato in CBP) grazie ai dazi imposti sulle merci importante dalla Cina. Stando ai dati della CBP, tra il 6 luglio 2018 (giorno in cui la Casa Bianca ha iniziato ad imporre i dazi nei confronti della Cina in base alla così detta “Sezione 301”) ed il 24 luglio 2019, gli Stati Uniti hanno ricavato poco più di $22 miliardi di dollari da quelle aziende americane che importano beni dalla Cina. 

Questa cifra, che può sembrare alta, è in realtà una somma molto ridotta poiché non solo rappresenta, più o meno, lo 0,1% dell’intera economia statunitense, ma risulta essere inferiore anche rispetto ai circa $28 miliardi di dollari di sussidi che l’Amministrazione Trump ha promesso (e iniziato a far recapitare) agli agricoltori americani, colpiti dagli effetti negativi della “guerra commerciale” con la Cina stessa. Ecco qui il risultato per le imprese ed i cittadini americani: tasse più alte (i dazi sono semplicemente un tassa sulle importazioni) e maggiori sussidi ad una categoria, come quella degli agricoltori, già ampiamente protetta dal governo statunitense. 

Infine, è giusto raccontare anche di alcuni dei costi più generali delle politiche protezioniste volute dall’Amministrazione Trump.

Dazi più elevati sulle importazioni di prodotti cinesi e di altro tipo hanno aumentato i costi di produzione di decine di migliaia di aziende americane, grandi e piccole. Uno degli esempi migliori è dato da Caterpillar, famosa azienda metalmeccanica statunitense, che ha visto i propri costi di produzione aumentare di $70 milioni nell’ultimo trimestre e prevedere ora di dover pagare tra i $250 ed i $350 milioni di dazi quest’anno. Come riporta anche Reuters, Caterpillar ha deciso di rispondere a questi costi aumentando i prezzi sui consumatori. Walmart, storica multinazionale statunitense, proprietaria dell’omonima catena di negozi al dettaglio, si trova in una situazione simile e a maggio 2019 ha comunicato che i suoi consumatori inizieranno presto ad assorbire il costo dei dazi imposti contro la Cina. 

Un rapporto del Servizio di ricerca del Congresso pubblicato nel febbraio 2019 ha rilevato che i dazi imposti da Trump alle importazioni globali di lavatrici hanno aumentato i prezzi di quest’ultime del 12% rispetto a gennaio 2018, prima che le tariffe entrassero in vigore. Al tempo stesso, secondo uno studio del Peterson Institute for International Economics, le tariffe globali sulle importazioni di acciaio e alluminio hanno aumentato il prezzo dei prodotti siderurgici di circa il 9% rispetto all’anno scorso, aumentando i costi dell’acciaio di oltre $5,6 miliardi di dollari. 

Oltre a tutto questo, uno studio pubblicato pochi mesi fa della Federal Reserve di New York e delle prestigiose Princeton University e Columbia University evidenzia come i dazi commerciali imposti dall’Amministrazione Trump nel corso del 2018 sono costati all’economia statunitense oltre $19 miliardi. Visto l’inasprimento di queste politiche commerciali è facile prevedere che i costi per il 2019 saranno molto più elevati. Secondo il modello econometrico sviluppo dal Tax Foundation Center, i dazi imposti dall’amministrazione Trump riducono la crescita reale del pil a lungo termine dello 0,20%, i salari dello 0,13% ed eliminano l’equivalente di oltre 155 mila posti di lavoro a tempo pieno. Il tutto in attesa dell’introduzione di altre misure protezioniste. 

Ecco dunque come funzionano i dazi. Se da un lato queste specifiche politiche commerciali colpiscono indirettamente anche i partner commerciali; dall’altro i principali perdenti sono proprio le imprese, i consumatori e l’intera economia americana.

2
Ago
2019

Gli italiani e i soldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Avete presente lo spot di Mastercard: “Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard”? Ecco, forse si può partire da qui per provare a spiegare il complicato rapporto degli italiani con i soldi.

I soldi sono importanti, ma sono essenzialmente uno strumento. In Italia, invece, di soldi non si riesce a parlare in maniera serena. Ma perché? Fondamentalmente perché siamo rimasti – nelle nostre teste, negli atteggiamenti, nei comportamenti – una società preindustriale. Noi, in Italia, la rivoluzione industriale non l’abbiamo fatta, tantomeno l’abbiamo interiorizzata.

Nel mondo moderno i soldi sono fondamentalmente il mezzo utilizzato per scambiare i beni e i servizi e dare valore al lavoro necessario a produrli e/o a fornirli. E’ una questione tecnica, è più semplice pagare che scambiare, barattare le cose (così com’è diventato più agevole pagare con la carta di credito che con i contanti). E’ anche una questione di libertà, essendo le transazioni (ad esempio le cose che posso comprare e che voglio vendere) diventate notevolmente più facili e rapide.

Il denaro rappresenta poi il modo più immediato per attribuire valore al lavoro delle persone. Si tratta di un valore relativo, di mercato, ma come diceva Hayek i prezzi non sbagliano mai. Ricordo che quando Arrigo Sacchi divenne il nuovo allenatore del Milan di Berlusconi, a chi gli faceva notare che guadagnava un sacco di soldi rispondeva – suscitando più di qualche reazione moralistica – che i soldi erano appunto il modo per riconoscere l’importanza del suo mestiere (anche se poi aggiungeva che quel mestiere l’avrebbe fatto anche gratis).

Mediamente, invece, in Italia, i soldi sono in fondo visti come qualcosa di moralmente non del tutto accettabile. Meglio il settore del no-profit che le aziende che fanno bene il loro lavoro. Il denaro viene spesso disprezzato pubblicamente, anche se in privato molto meno. Chi guadagna tanto – ad esempio perché si è impegnato e sacrificato, perché è stato bravo o ha semplicemente particolari qualità – in genere non suscita sentimenti di emulazione, ma di invidia sociale (anche qui, tutti a deprecare gli stipendi milionari dei calciatori – o gli introiti dei Ferragnez – salvo poi essere abbonati a Sky e sperare di avere il figlio tra qualche anno in serie A o protagonista di un reality).

Insomma, il denaro da noi è una sorta di taboo sociale, oggetto di uno stupefacente meccanismo di rimozione collettivo: deplorato pubblicamente, molto meno in privato.

Se invece provassimo a riconoscergli l’importanza che effettivamente ha i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti sarebbero meno schizofrenici.

I soldi servono per rendere più semplici le transazioni; come corrispettivo per l’impegno, le capacità, l’ingegno e l’assunzione di rischio dimostrate sul lavoro; sono un fenomenale strumento di libertà, di giustizia e di progresso civile; l’accumulazione di capitali è necessaria – per il suo effetto moltiplicatore – per realizzare cose (strade, scuole, medicine, smartphone, ecc.) che diversamente non sarebbero mai diventate di questo mondo.

Solo se prendiamo finalmente coscienza di queste elementari verità ci potremo dedicare alle cose più importanti, che come ci insegna Mastercard non si possono comprare.

24
Lug
2019

Legge sul libro: perché danneggia i consumatori

Finalmente, anche grazie all’intervista rilasciata al Corriere della sera di oggi da Riccardo Levi (presidente Aie), viene messo sempre più in evidenza come la legge sul libro approvata alla Camera lo scorso 16 luglio penalizzi in primo luogo il consumatore.

Parrebbe fin banale dire che se il prezzo di un bene aumenta, la quantità acquistata diminuisce. E invece, in Italia, anche questa semplice regola pare non possa essere catalogata sotto la voce dei “fatti” ma solo delle “opinioni”. A maggior ragione, poi, sembra di trovarsi in un mondo a parte se si pensa che l’obiettivo dichiarato della legge sarebbe quello di promuovere la lettura: come è possibile aumentare la vendita dei libri se si aumenta il loro prezzo?

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23
Lug
2019

La web tax all’italiana: versione 2.0

di Daniel Bunn

È da diversi anni che il governo italiano tenta di elaborare un meccanismo per tassare i ricavi delle aziende digitali. Sebbene gli sforzi in tal senso siano stati più e più volte posticipati, ancora oggi non vi è chiarezza sul quando tali politiche verranno effettivamente implementate. Secondo le ultime notizie, l’imposta vedrà la luce nel 2020, nell’attesa di un accordo a livello europeo.

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18
Lug
2019

¡Viva la pobreza! La tragedia venezuelana e noi, fra silenzi e complicità

di Loris Zanatta

Il diavolo ci ha messo la coda: Vladimir Putin aveva appena detto che “l’idea liberale è diventata obsoleta” ed ecco uscire il rapporto delle Nazioni Unite sul Venezuela: un bel regime post liberale, di quelli cari al nuovo Zar delle Russie, che difatti ne è, tra tanti, lo sponsor. Consiglio di leggerlo; sono appena sedici pagine, mezz’ora. Quanti di noi hanno letto inorriditi il Nunca Más, la galleria degli orrori della dittatura argentina? Questo è d’altro genere: secco, sintetico; ma di uguale sostanza: è il Nunca Más venezuelano. Salvo che in Venezuela non racconta cosa è avvenuto, ma cosa avviene ogni giorno.

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12
Lug
2019

La crisi greca e l’euro: la lettura di George Tavlas

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco D’Ignazio.

In occasione della Lectio Marco Minghetti 2019, George Tavlas, sostituto del Governatore della Banca di Grecia nel Consiglio Direttivo della BCE e Membro del Consiglio di Politica Monetaria della Banca di Grecia, ha offerto – approfittando anche della sua esperienza durante i drammatici momenti della crisi sostenuta dal suo paese – un’interpretazione della dinamiche che hanno quasi portato la Grecia al default e rischiato di spaccare definitivamente l’eurozona. Read More

5
Lug
2019

AirBNB cerca casa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco D’Ignazio.

Firenze e Venezia vanno ad aggiungersi alla lista di città europee che richiederanno al Parlamento europeo una più stringente regolamentazione del sistema degli affitti brevi, per “salvare i centri storici dall’invasione di Airbnb”.

Da quando il servizio di locazioni temporanee dell’azienda californiana è stato lanciato nel 2008, il numero di appartamenti affittati tramite questo sistema è aumentato esponenzialmente (solo in Italia, terzo mercato per Airbnb, ve ne sono più di 400.000).

Andando a insinuarsi in un settore ben consolidato e caratterizzato da un’offerta relativamente rigida, quello alberghiero, già da diversi anni Airbnb e altre piattaforme online sono stati oggetto di numerose critiche, non solo da parte degli albergatori tradizionali, ma anche delle amministrazioni locali. Read More