13
Mag
2009

Trento, provincia discount, e i candidati allo scranno

Se di Zurigo fu detto (da Karl Kraus, se non erro) che era grande solo la metà del cimitero di Vienna, ma noiosa il doppio, che si potrebbe dire di Trento? La città è graziosa, con un decoro che ti fa dubitare di essere in Italia, ma talvolta dà l’impressione di essere ormai una realtà parastatale (a causa della “specialità”) in ragione di una spesa pubblica abnorme che ha smorzato lo spirito d’iniziativa e politicizzato ogni cosa. Per tutta una serie di ragioni, verrebbe da pensare che a Trento ci si possa andare solo a riposare e ricaricare le batterie.
E invece – grazie all’assessore provinciale al Commercio, Alessandro Olivi (del Pd) – la città potrebbe diventare un paradiso del consumismo per l’intero Nord Est, a seguito della saggia decisione di liberalizzare sconti e promozioni, sottraendo ogni limite temporale.
La scelta è appropriata e produrrà buoni risultati, incrementando la concorrenza. Svincolare quanto più è possibile l’azione di negozi e altri centri vendita significa infatti favorire lo scambio, che è sempre un’interazione vantaggiosa per tutti i partecipanti (almeno ex ante: perché poi qualche volta ci si può pentire).
È interessante rilevare come stampa e opinione pubblica, in fondo, abbiano reagito bene. Anche sul sito del TG 1, che ha lanciato un sondaggio sul tema, la maggioranza dei visitatori si è espressa favorevolmente. Il mercato sarà pure “fallito” e la crisi sarà pure da addebitarsi alla libertà economica come vuole la vulgata, ma una certa ragionevolezza elementare ancora alberga nella testa di molti, persuasi che ricevere uno sconto anche a novembre e non solo a dicembre non sia qualcosa da demonizzare. E se i commercianti sono divisi, questo si deve al fatto che alcuni di loro temono che i grandi centri commerciali coglieranno l’occasione per scatenare una concorrenza ancora maggiore: a nostro vantaggio.
Secondo l’assessore Olivi, altre province – a partire da quelle limitrofe – copieranno il modello. Può darsi. Ma dato che in moltissime realtà si vota proprio per il rinnovo di queste (sostanzialmente inutili, anche se assai costose) amministrazioni provinciali, perché non pretendere dai candidati un chiaro impegno a seguire le orme di Trento?

12
Mag
2009

Tasse, frottole, lima e sapone

Due pregevoli documenti freschi freschi di elaborazione ristabiliscono per l’ennesima volta un po’ di verità, intorno alle tante sciocchezze che vanno per la maggiore in materia di redditi e tassazione. Il primo è l’audizione avvenuta oggi dell’ISAE davanti alla Commissione Lavoro del Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul livello dei redditi da lavoro e sulla redistribuzione della ricchezza in Italia negli anni 1993-2008. Il secondo è l’edizione 2008 appena rilasciata dell’annuale rapporto Taxing Wages dell’Ocse.
Tra i tanti spunti interessanti delle tabelle Isae, mi limito a due. Le retribuzioni procapite dei lavoratori dipendenti sono cresciute di poco l’anno, in media non più dello 0,5%. Ma dopo aver in effetti imboccato una curva discendente nel 1995 e una stasi successiva, sono poi risalite. E non è affatto vero che nel frattempo avveniva uno shift a favore di autonomi e indipendenti: a prezzi costanti, dopo il 2001 il loro reddito procapite ha preso a riscendere, riposizionandosi ai livelli della metà degli anni Novanta. La seconda cosa da notare è il calcolo riaggiustato degli effetti del doppio pacchetto di riduzione delle imposte 2003-2005 e delle modifiche delle deduzioni d’imponibile varate dal governo Prodi, al netto però del fiscal drag e in funzione dei diversi decìli di reddito di appartenenza. In termini complessivi, il fiscal drag si è mangiato ben i due terzi dei 2,7 punti percentuali in meno di aliquote medie che avrebbero dovuto rappresentare l’effetto degli sgravi di centrodestra e centrosinistra. E gli sgravi effettivi si sono concentrati soprattutto nei cinque decìli inferiori di reddito, gli altri hanno pagato di più.
Quanto all’Ocse, anche quest’anno è smantellata l’idea che il nostro prelievo complessivo sia “in media”. Sommando aliquote sul reddito e contributive, in area Ocse solo Belgio e Ungheria, Germania, Francia e Austria ci battono, e siamo tutti nell’area di poco inferiore o superiore a uno spaventevole 50%. Tutti gli altri paesi hanno gravami nettamente inferiori al nostro, Usa e Giappone ben 20 punti meno…..
Conclusione numero uno. La querimonia sul reddito da lavoro penalizzato dagli autonomi che evadono è una palla. Il reddito dipendente è compresso dai contratti nazionali centralizzati secondo i criteri del 93: che per fortuna oggi vanno in soffitta.
Numero due: gli sgravi fiscali degli ultimi otto anni sono stati una presa per i fondelli, e nel giudizio accomuno entrambi gli schieramenti. A pagare qualche punticino in meno, solo chi sta peggio e ne sono felice per lui. Tutti gli altri, hanno addirittura pagato di più. Ci vuole l’ascia alle aliquote, per crescere di più, altro che lima e sapone.

12
Mag
2009

I russi non mangiano più i petrolieri?

Per qualche accidente della sorte, il numero del 20 aprile di Oil & Gas Journal mi è arrivato solo oggi. Altrimenti avrei dato prima questa notizia che mi pare rilevante: dopo qualche anno di bullismo (come hanno imparato Bp e Shell), complice la crisi, la Russia comincia a rivedere l’atteggiamento aggressivo che ne ha contraddistinto i rapporti con le compagnie petrolifere private. Sulle pagine del settimanale americano, Grigory Vygon (direttore del dipartimento di economia e finanza del ministero delle Risorse naturali e dell’ambiente) spiega le nuove strategie del governo per rendere il paese di nuovo appealing per le major. Il dato di partenza, impressionante, è che tra il 2005 e il 2008, nonostante l’impennata dei prezzi del petrolio, il “free cash flow” dell’upstream è sceso da 7,4 dollari al barile a 2,9, mentre i costi operativi sono raddoppiati (da 9 a 18 dollari al barile) e le entrate fiscali sono cresciute ancor più rapidamente (da 20,1 a 45,3 dollari al barile). Quindi,

le principali ragioni per la riduzione dell’attrattività delle attività esplorative sono un sistema fiscale sfavorevole e l’assenza di stimoli per le regioni per finanziare direttamente tali attività.

Vygon enuncia quindi le nuove linee d’azione del paese che, pur continuando a ritenere “strategici” i grandi giacimenti di petrolio e di gas (che dunque dovranno sempre essere operati da consorzi in cui la maggioranza relativa è in mano a un’impresa pubblica del paese), intende tornare ad aprire le porte agli investimenti privati. L’obiettivo è ambizioso: se il ministero stima in 180 miliardi di dollari l’ammontare complessivo degli investimenti necessari da qui al 2020, il 90 per cento di tali risorse dovranno arrivare da tasche private. Come?

Anzitutto, riscrivendo la normativa fiscale, rendendola più semplice e meno onerosa – e in particolare spostando il peso della tassazione dai ricavi ai profitti delle compagnie petrolifere. Anche la svalutazione del rublo (da un rapporto di 23:1 col dollaro nel 2008 si è passati a 33:1 ad aprile di quest’anno) mira a ridurre i costi del capitale, soprattutto per le piccole e medie compagnie petrolifere private (russe e straniere), che hanno la maggior parte dei costi denominati in valuta russa, i ricavi in moneta americana.  Oltre a questo, il ministero vorrebbe, tramite una normativa ad hoc, stimolare un maggior coinvolgimento delle regioni nelle attività esplorative, spingendole a farsi promotrici di nuove campagne attraverso una compartecipazione significativa al gettito delle aste per ottenere le concessioni esplorative. Infine, il Cremlino ammette l’enorme problema infrastrutturale, per cui si impegna a una vasta opera di ristrutturazione delle pipelines e alla realizzazione di nuovi oleodotti e gasdotti laddove necessari.

Non è del tutto chiaro se questo mutamento di attitudine sia dovuto all’effetto che la crisi sta avendo sulle finanze pubbliche del paese, o se sia – come sembra – il segno di un aggiustamento del tiro più di lungo termine (reso necessario anche dalle buie prospettive di produzione, che rischiano di rendere insufficiente la produzione di gas, come spiegano molto bene Michael Economides e altri). E’ nell’interesse di tutti, russi compresi, un superamento dell’attuale fase di inaffidabilità del paese. Se davvero il crollo del fettito fiscale sarà la molla che ha determinato un’evoluzione a lungo attesa, per una volta si può dire che la recessione non è arrivata invano.

11
Mag
2009

Gli effetti collaterali della mobilità sostenibile

Il Corriere riprende oggi i risultati di un’inchiesta pubblicata su il «Centauro» di maggio, organo ufficiale dell’Asaps, l’associazione amici sostenitori della Polizia Stradale, che confermano quanto già si sapeva da tempo. Ossia che, moto a parte, il mezzo di trasporto più pericoloso è la bicicletta. Tale stato di cose sarebbe,  a detta di alcuni, da ricondursi al fatto che in Italia non vi sono abbastanza piste ciclabili e mancano politiche volte alla protezione di questi “utenti deboli” della strada. Le statistiche relative al Regno Unito, Paese leader in Europa per quanto concerne la sicurezza stradale, sembrano però smentire tale interpretazione. Anche oltre Manica, gli spostamenti su due ruote sono dodici volte più rischiosi di quelli in auto. Un trasferimento del 5% della mobilità dalle quattro alle due ruote causerebbe dunque, in quel Paese, un incremento del numero di morti in incidenti stradali superiore a cinquecento unità per anno. Un bell’esempio di mobilità sostenibile.

11
Mag
2009

Insider trading – Qualche recente evidenza che ci riguarda

Insieme ad alcuni colleghi dell’Universita’ Bocconi (Maurizio Dallocchio, Stefano Bonini e Marco Garro) abbiamo appena concluso una ricerca sugli annunci di takeover. Piu’ in dettaglio, si e’ trattato di analizzare 156 takeover realizzati nel nostro Paese dal 2001 al 2007.

I risultati sono abbastanza sorprendenti, anche se non del tutto inattesi. L’evidenza mostra infatti che in media 7/8 giorni (lavorativi) prima dell’annuncio il prezzo del titolo della societa’ target del takeover ha cominciato a muoversi prepotentemente verso l’alto. Ora, che il prezzo di una societa’ oggetto di attenzioni ostili aumenti e’ cosa ampiamente nota e scontata nella letteratura e nella prassi. Che l’incremento avvenga prima dell’annuncio lo e’ molto meno.

Vogliamo leggerla in un altro modo? Probabilmente, l’operazione di imminente annuncio esce dalla stanza del CdA – per approdare in quella dei trader – prima del tempo dovuto. Abbiamo certezze al riguardo? No. Qualche sospetto? Tanti, vista la regolarita’ con cui abbiamo potuto osservare tale fenomeno.

Extra rendimenti cumulati societa target pre e post annuncio

Extra rendimenti cumulati societa' target pre e post annuncio

Il grafico allegato fornisce evidenza visiva di tutto cio’. Come infatti si puo’ agevolmente osservare, gli extra-rendimenti del titolo nei 4/5 mesi prima dell’annuncio viaggiano in un corridoio piuttosto deludente. Una settimana (circa) prima dell’annuncio invece le cose cambiano drasticamente e gli extrarendimenti cominciano misteriosamente a crescere verso il prezzo dell’annuncio.

Questa evidenza abbastanza sconcertante e’ pero’ controbilanciata da una buona notizia: al momento dell’annuncio il contenuto innovativo “residuo” viene correttamente scontato dal mercato,  come testimonia l’andamento quasi piatto del grafico nei giorni successivi all’annuncio.

Personalmente, nel solco tracciato dal grande Pascal Salin in “Liberalismo”, non sono un grande fan delle leggi sull’insider trading. Pero’,  se le leggi esistono occorrerebbe farle rispettare, credo.

11
Mag
2009

Sane letture e Telecom come Fiat

Spesso nelle grandi crisi si affermano nuove grandi idee e cambi radicali di paradigmi, prima imperanti, ma rivelatisi esplosivamente sbagliati. Altrettanto spesso, però, la tendenza è quella di rispondere alle grandi crisi cercando di rispolverare vecchie idee che in precedenza erano state già messe da parte, proprio perché alla prova dei fatti non avevano retto. Esempio: quando all’apertura delle rotte oceaniche e alla ridislocazione verso Spagna e Nordeuropa dei flussi commerciali la Serenissima Repubblica di Venezia pensò bene di impedire ai suoi maestri d’ascia la realizzazione di caracche prima e galeoni poi, convinta che galee e galeazze di piccolo cabotaggio e non pelasgiche costituissero una specializzazione ancor più necessaria per difendere il monopolio del Mediterraneo, rimase abbarbicata a una nicchia perdendo di vista il mondo nuovo.
Lo stesso avviene oggi con il ritorno in grande stile dello statalismo. Per combatterlo, bisogna che tiriamo un po’ più energicamente fuori gli artigli, cari tutti voi che mi leggete.
Consiglio intanto due letture al volo. il bel saggio di Ian Bremmer sull’ultimo numero di Foreign Affairs – “State Capitalism Comes of Age: The End of the Free Market?” – ricco di numeri e dati comparati sulla forza solo pochissimo tempo fa del tutto impensabile che lo Stato ha ripreso ed esercitare nell’economia mondiale (i dati su riserve di energia sono impressionanti, le compagnie private hanno meno del 3% delle riserve attualmente stimate). Poi continuate con l’editoriale dell’ex senatore repubblicano dell’Oregon Bob Packwood sul New York Times di oggi, a proposito dei limiti al prelievo fiscale negli Usa in relazione al modello sociale che Obama intende perseguire. Sono considerazioni che valgono anche per noi in Italia: tradotto in altri termini, sono per aprire un conflitto vero e aperto con il centrodestra italiano, su questi temi, perché non può bastare che le tasse non le alzi, deve mantenere le promesse di abbassarle oppure sia guerra.
Infine, son curioso di sapere come la pensate su un tema: Telecom Italia. La mia tesi è che chi la pensa come noi dovrebbe battersi e sperare che sai accinga a fare come la Fiat di Marchionne, “annegarsi” in un abbraccio con Telefonica per impedire l’abbraccio soffocante della politica sulla rete “universale” e connesso mucchettismo della necessità di controllo pubblico per ovviare a investimenti inadeguati. Voi che ne dite?

11
Mag
2009

Gas, la Caporetto delle liberalizzazioni è la distribuzione?

Intervistato dalla Stampa di oggi, Massimo Orlandi, ad di Sorgenia, dice che

la difficoltà è legata a quello che potremmo chiamare, facendo un paragone con la telefonia, l’ultimo miglio del gas. Ovvero un operatore privato come Sorgenia non riesce ad attraversare l’ultimo metro di tubo che dà l’accesso al gas. Il mercato è in mano ai distributori del gas che in Italia sono oltre 400… Soprattutto le utility più piccole fanno ostruzionismo: non fornendo in tempo le misure sui consumi del gas o fornendole sbagliate.

Qui è disponibile una sintesi dell’intervista. Sebbene la distribuzione non sia l’unico ostacolo alla piena concorrenza, non c’è dubbio che, all’atto pratico, essa sia quello maggiore e più subdolo. Le reti di distribuzione locale del gas sono, infatti, frammentate (la maggior parte sono di piccole e piccolissime dimensioni, cosa che – da un punto di vista strettamente economico – non ha senso, perché questo è un business fortemente sensibile alle economie di scala e soprattutto di densità). Inoltre, nella maggior parte dei casi sono verticalmente integrati nelle utilities locali, perlopiù a controllo comunale e spesso beneficiarie di affidamenti diretti, che hanno ogni incentivo a mantenere l’opacità e non investire nello sviluppo delle reti, allo scopo di trattenere il maggior numero di clienti nel mercato vincolato. Tant’è che, come ricorda lo stesso Orlandi, a sei anni dalla completa apertura del mercato del gas (1 gennaio 2003) solo il 3 per cento delle famiglie e piccole imprese è passato al mercato libero, contro il 4,7 per cento delle famiglie che hanno “switchato” nel mercato elettrico, di più recente apertura (1 luglio 2007) (a me risultano dati ancor più positivi).

Il tema posto da Orlandi è quello che, specie dal punto di vista dei piccoli consumatori (e dell’interesse per le aziende ad andarseli a prendere), fa effettivamente l’interesse. Altrimenti non si spiegherebbe che le offerte sul mercato elettrico siano state assai più aggressive che quelle per il gas, a dispetto del fatto che i due mercati subiscono vincoli simili nelle altre fasi della filiera. E’, dunque, importante affrontare i due corni della questione: la frammentazione industriale e la scarsa trasparenza delle letture. Per quel che riguarda quest’ultima, nel settore elettrico è stata risolta e garantita tramite l’installazione di contatori elettronici, che forniscono misure in tempo reale e oggettive. A sua volta, questo investimento è stato reso possibile dalla spinta dell’Autorità e dalla disponibilità dei maggiori operatori della distribuzione e cioè, a fortiori, dal più forte grado di concentrazione. Quindi, anche per il contatore elettronico la causa ultima sta nella frammentazione della distribuzione locale del gas.

Quindi, la scommessa è quella di trovare una formula per indurre un processo di aggregazione. L’Autorità ci ha provato con un documento di consultazione e una serie di prese di posizione successive, ma anche qui mi pare che la via seguita rischi di essere sterile, anche se per ragioni opposte. L’Autorità, in sostanza, ha condotto un’indagine sui bilanci della distribuzione, e ha creduto di individuare una “dimensione minima” al di sotto della quale la scala è insufficiente. Ma questa logica è debole, non solo perché inevitabilmente trascura le specificità locali (la distribuzione in un territorio montano è diversa dalla stessa attività esercitata in una grande città nel mezzo della pianura. La “dimensione ottima” di un’impresa, insomma, non dovrebbe essere stabilita autoritativamente, anche perché essa è necessariamente funzione di una quantità di variabili, tra cui la tecnologia in uso (che oggi è ovviamente diversa da ieri e da domani) e le scelte regolatorie (in particolare sulle tariffe, cioè le entrate, e la qualità del servizio).

A questo si aggiunge una normativa demenziale. Le reti oggi sono per la maggior parte in mano a soggetti formalmente privati, ma, allo scadere delle concessioni (la maggior parte delle quali terminerà entro la fine del 2010), dovranno tornare in mano agli enti locali, i quali dovranno riassegnarle tramite gara.  Un elemeno fondamentale delle gare – di fatto l’unico – è il canone di concessione, cioè quanta parte delle loro entrate le imprese sono disposte a pagare ai comuni. Il risultato è che i margini, stretti tra una certa rigidità dei costi industriali (determinata dal rispetto degli standard di qualità imposti dall’Aeeg), il cap sulle entrate (imposto tramite la regolazione tariffaria), e quella tassa impropria che versano agli enti affidatari (il canone), finiscono per essere così risicati da non determinare alcuna dinamica virtuosa. La vera scelta, che però è una scelta anzitutto politica e quindi regolatoria, dovrebbe essere quella di un modello regolatorio univoco, anziché mischiarne due: o si regolano le tariffe di imprese private che posseggono le reti (eventualmente estendo gli obblighi di unbundling anche ai piccoli o spingendo l’acceleratore sulla separazione proprietaria), oppure si decide che le reti sono pubbliche e vengono affidate tramite gara, facendo sì che il controllo sui prezzi (cioè sulla remunerazione del capitale) avvenga attraverso i termini dell’affidamento. I due modelli sono ugualmente interessanti, anche se io tendo a preferire il primo (proprietà privata + regolazione tariffaria + separazione proprietaria). Ma finché non si compie una scelta netta, qualunque tentativo di soluzione rischia di essere peggiorativo, aumentando la confusione normativa e riducendo la trasparenza.

E’ come in cucina: quando un piatto risulta insoddisfacente, entro un certo limite si può tentare di “salvarlo” aggiungendo nuovi ingredienti, o aumentando le dosi di quelli vecchi. Ma se la ricetta era sbagliata, conviene ricominciare da zero.

10
Mag
2009

Leggere l’Economist a via Solferino

L’Economist di questa settimana si conquista una citazione nell’editoriale domenicale del Corriere, entusiasta del “sovvertimento causato dalla crisi nella gerarchia tra i sistemi economico-sociali in Europa” che il giornale diretto da John Micklethwait racconta con una cover accattivante. Se l’illuminato editorialista avesse letto anche l’editoriale dell’Economist, e non si fosse limitato a guardare la copertina, avrebbe “scoperto” che la posizione del settimanale britannico e’ un po’ piu’ complessa (e diversa da quella di chi e’ pronto a invocare la “colbertizzazione” dell’Europa, col paradossale argomento che si tratta dell’unico modo possibile per salvare il mercato unico!). Rispetto a quel “sovvertimento”, l’Economist scrive infatti:

But will it last? The strengths that have made parts of continental Europe relatively resilient in recession could quickly emerge as weaknesses in a recovery. For there is a price to pay for more security and greater job protection: a slowness to adjust and innovate that means, in the long run, less growth. The rules against firing that stave off sharp rises in unemployment may mean that fewer jobs are created in new industries. Those generous welfare states that preserve people’s incomes tend to blunt incentives to take new work. That large state, which helps to sustain demand in hard times, becomes a drag on dynamic new firms when growth resumes. The latest forecasts are that the United States and Britain could rebound from recession faster than most of continental Europe.

Individual countries have specific failings of their own. (…) It may not be long before the fickle Mr Sarkozy is re-reading his Adam Smith.

Al di la’ delle letture da consigliare a Sarkozy, o ai suoi epigoni “corrieristi”, l’Economist di questa settimana contiene un articolo molto interessante ed equilibrato sull’eredita’ della signora Thatcher, oggetto di dibattito sul Financial Times ed altrove. Lo trovate qui. Le tesi di rilievo sono due. La prima e’ che, a dispetto del breve termine, proprio gli interventi emergenziali degli ultimi mesi pongono le basi del successo di una prospettiva thatcheriana, basata su una “stringente disciplina economica”, nel medio e lungo termine. L’altra e’ che se ora vi e’ un “ritorno dello Stato” in alcuni ambiti,  nondimeno l’apertura a soluzioni privatistiche in altri ambiti, nemmeno sfiorati dall’opera della Lady di Ferro (i servizi alla persona, per esempio), e’ ormai parte a pieno titolo del dibattito politico e non se ne puo’ indovinare a breve la scomparsa. Anche perche’ i nuovi pesi che gravano sulle finanze pubbliche potrebbero costringere ad altre, per ora imprevedibili, esternalizzazioni e privatizzazioni.