9
Mag
2009

Abolire le Province

L’ostilità preconcetta per una riforma degli Enti locali che comporti l’abolizione delle Province può essere spiegata solo in due modi: con la fiducia cieca e talvolta inconsapevole verso le istituzioni e il loro operato da parte di onesti, ancorché ignari cittadini oppure con la difesa di rendite di posizione da parte di gruppi di interesse politico-clientelari. Tertium non datur. Meglio di noi l’ha spiegato in un agile libercolo pubblicato di recente per la casa editrice Rubbettino il team capitanato da Silvio Boccalatte. Eppure, proprio in questi giorni di “febbrile” attesa per le consultazioni del 6 e 7 giugno prossimi, si sente spesso ricordare (almeno questa è la mia esperienza) che le Province sono e restano indispensabili, perché, tra i notevoli compiti cui sono preposte, v’è quello, imprescindibile, di varare il piano territoriale di coordinamento. Ebbene, questa vitale competenza di livello urbanistico è in realtà stata attribuita alle Province nel 1990 con lo scopo conclamato di conferir loro un qualche ruolo (!). Come dire: in Italia prima si creano gli enti e solo dopo si decide quali funzioni essi debbano ricoprire. Il piano territoriale di coordinamento è lo specchio di questo modus operandi. Si tratta infatti di un ulteriore livello di pianificazione urbanistica del quale non si sentiva affatto il bisogno e che in buona sostanza si sovrappone a quello delle Regioni, ingolfandone l’attività e accrescendo il garbuglio normativo. Il piano provinciale, infatti, una volta redatto, deve essere rimesso alla Regione, la quale ne accerta la conformità agli indirizzi regionali di programmazione (ottimo, ma allora non ne basterebbe solo uno?) e stabilisce le procedure di approvazione garantendo la partecipazione dei Comuni interessati. I Comuni, in pratica, non dovranno soltanto attenersi alle disposizioni dei piani urbanistici regionali, ma dovranno fare riferimento anche a quelli provinciali. Talora, però, i piani di coordinamento provinciale sembrerebbero poter essere approvati in deroga a quelli regionali. Si pensi al caso degli strumenti di pianificazione paesaggistica, i quali, prima di una legge del 2004, avrebbero dovuto essere inglobati nei piani di coordinamento provinciale a seguito di intese con le amministrazioni locali. La legge del 2004 ha scombussolato il quadro, dando la precedenza agli strumenti di pianificazione paesaggistica regionale su quelli adottati a livello provinciale. Insomma. L’estrema confusione e incertezza del quadro normativo imporrebbe un ripensamento del ruolo di un ente, sotto più punti di vista, davvero pletorico e sovrabbondante. Ecco perchè, cara Claudia Porchietto, non possiamo che storcere la bocca di fronte ad un programma che si propone di tagliare gli sprechi, ma che non ci dice nulla di certo sul futuro delle Province. Almeno il suo avversario è stato chiaro: le Province non si toccano.

9
Mag
2009

Ma siamo proprio sicuri che l’armonizzazione sia la strada migliore?

Sul Sole 24 Ore, è in atto un interessante dibattito sulle cause della crisi e, quindi, anche sulle possibili soluzioni. Partecipano economisti di rilievo, come Guido Tabellini (che ha distillato un sobrio quadro d’insieme di quanto avvenuto negli scorsi mesi) e Nouriel Roubini (che ha auspicato un po’ di “ordinata” distruzione creatrice). Sono scampoli di una discussione ovviamente più ampia, che da mesi appassiona e coinvolge un numero sterminato di studiosi, e rispetto alla quale non verrà certo messa la parola “fine” nei prossimi mesi. Le cause della crisi resteranno, giustamente, materia di studio per gli anni a venire.

In questo quadro, vorrei segnalare un interessante (e leggibilissimo) paper di Arnold Kling per il Mercatus Center, The Unintended Consequences of International Bank Capital Standards. Il testo è sintetico ma accenna a più questioni, sottolinea per esempio il difetto pro-ciclico dei coefficienti patrimoniali imposti alle banche (Basilea I e II), ma ha soprattutto il merito di porre un tema che non è per nulla secondario.

La stragrande maggioranza di coloro che auspicano innovazioni normative, per rispondere alla crisi ed evitare che essa si ripeta, le vorrebbero internazionalmente concertate e globali quanto a spazio d’applicazione. Crisi globale, risposta globale: lo slogan dei governi è questo, ed ha senso politico. “Consorziarsi”, cartellizzarsi, serve per condividere i rischi connessi all’emanazione di nuove norme, e schermarsi contro l’eventuale effetto-boomerang che nuove norme inadeguate, o sbagliate, potrebbero provocare (se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno).

Non troppo diversamente, e questo è l’aspetto su cui Kling si ferma, si vorrebbe un’altra “armonizzazione”: fra veicoli finanziari diversi (banche e non-banche). L’ipotesi è abbracciata entusiasticamente dai più, ma è necessario riflettere su due aspetti. Primo, come spiega bene Kling, un sistema di regole pone in essere una struttura di incentivi. Servono gli stessi incentivi per realtà intrinsecamente diversissime, come una banca e un hedge fund? Secondo, anche il regolatore deve “imparare” dalla realtà – ed avere una pluralità di regimi regolatori consente di vedere man mano quali sono quelli che si comportano meglio, e perché. Nei vasti dibattito sul senso della crisi e come uscirne, l’ampiezza dell’ambito su cui insisteranno le nuove regole è troppo spesso in ombra. Invece, dal prevalere di un sistema pluralistico e basato sulla concorrenza istituzionale, rispetto ad uno fondato sul valore dell’armonizzazione, potrebbe dipendere non poco, di quanto è in gioco al tavolo dei regolatori.

8
Mag
2009

Eppur si muove

Dopo la condanna in primo grado inflitta da un tribunale svedese a The Pirate Bay, sembrava che il dibattito sul ripensamento delle attuali logiche del copyright dovesse subire una battuta d’arresto. Per questo sorprende – in positivo – l’apertura della Siae alla diffusione telematica delle opere attraverso una semplice dichiarazione dell’autore. Forse un nuovo approccio alla tutela della proprietà intellettuale è alle viste? Nel frattempo, consiglio di non mancare il dibattito on-line che l’Economist sta dedicando al tema, all’insegna della convinzione che «existing copyright laws do more harm than good».

8
Mag
2009

Iride-Enia. Quando la trasparenza diventa caciara

La forma è sostanza. Sul Secolo XIX di oggi, Riccardo Casale risponde a un mio editoriale di qualche giorno fa, critico sulle modalità e le caratteristiche della fusione tra Iride ed Enìa, sia nella sua veste di presidente genovese di Iride Energia (che ha un amministratore delegato torinese), sia in quella di presidente di Amiu, la municipalizzata genovese dei rifiuti che controlla, tra l’altro, le farmacie e la società SportInGenova. Non è chiaro perché Amiu debba difendere Iride, ma soprassediamo, e andiamo oltre. Iride Energia, una delle quattro società in cui si articola il gruppo, ha sede a Torino, come Iride Servizi; al contrario, Iride Acqua Gas e Iride Mercato hanno sede a Genova. Ciascuna di queste società ha un presidente, un amministratore delegato e un consiglio d’amministrazione, i cui membri sono rigorosamente divisi secondo logiche territoriali tra il capolugo ligure e quello piemontese. Il Cencelli delle partecipazioni pubbliche.

Perché dico tutto questo? Per dare un’idea di cos’è e come è costruita Iride, nata dalla fusione tra Aem e Amga, e lasciar quindi intendere cosa e come sarà “Irenia”, il gruppo nato dalla fusione tra Iride e l’emiliana Enìa. Anzitutto Casale afferma che

l’incorporazione di Enìa in Iride non nasce su Marte ma dai confronti e dall’osservazione di quello che accade nel resto del paese e dell’Europa.

Quindi, una fonte certamente informata dei fatti non cita, tra le ragioni del merger, le possibili sinergie industriali o le economie di scala, che pure potrebbero esserci viste le convergenze tra le aziende. Il problema è che, per farlo, bisogna avviare un processo di taglio dei costi, a partire dal numero e il costo dei manager. Cosa che, apparentemente, non c’è stata nel caso di Iride, e – scommetto sperando di perdere – non ci sarà con la fusione con Enìa. Infatti, prosegue Casale,

il successo di queste operazioni dipende da come le si governa.

Appunto. Se la governance delle aziende è costruita con l’obiettivo di preservare l’esistente, anizché di proiettarle verso un sentiero di crescita, allora non si tratta di fusioni, ma di somme, che non seguono una logica industriale, ma una logica di altro tipo. Politica, in senso lato. Lo conferma, involontariamente suppongo, lo stesso Casale:

Le nostre multiutilities… si ingrandiscono per difenderlo [il territorio] dalle scorribande degli altri.

Ora, se vogliamo raccontarci delle favole, benissimo. Ma se vogliamo parlare seriamente, la corretta formulazione, o almeno la corretta lettura, di queste parole è più o meno questa: Le nostre multiutilities si ingrandiscono per difendersi dalle scalate. E perché si difendono dalle scalate? Per la stessa ragione per cui tutti tentano di farlo, cioè tutelare le rendite degli insider (manager, dipendenti, politici, eccetera) a scapito degli outsider e dei consumatori. Solo che questa comprensibile e legittima autodifesa, nel caso delle municipalizzate, si spinge molto oltre rispetto a quanto possono fare le aziende “normali”, grazie alla connivenza tra le municipalizzate stesse e i loro azionisti di controllo, cioè i comuni, che oltre ad avere alcuni poteri regolatori hanno mille modi di mettere i bastoni tra le ruote ai concorrenti sgraditi. Tant’è che Casale proclama che, a differenza delle imprese private, quelle controllate dal pubblico

inseguono la sfida di remunerare dignitosamente il capitale investito e allo stesso tempo calmierare le tariffe.

Sorvolando sulla definizione di remunerazione “dignitosa” del capitale, che mi sfugge, questo ha una implicazione banale: probabilmente, gli investimenti nelle municipalizzate sono meno redditizi di altri, ma compensano questa minore remunerazione con un minore rischio. Il rischio, naturalmente, è inferiore perché a monte, a garantire la quota di mercato, ci sono i comuni stessi, che vengono ripagati dal flusso di dividendi così come dalla possibilità di, diciamo, fare pressioni sulle imprese da loro controllate perché, per esempio, seguano nelle politiche occupazionali criteri diversi da quelli consueti (suppongo che questa sia una delle caratteristiche della “vicinanza al territorio” che i sostenitori delle Iri locali scomodano tanto spesso). A fronte di ciò, non risulta alcuna evidenza di tariffe “calmierate”, come emerge per esempio dal confronto tra le offerte messo a disposizione dall’Autorità per l’energia (inserite un CAP genovese, per esempio, e i vostri dati di consumo: provare per credere).

In una sorta di crescendo, Casale strappa un sorriso – che non merita particolari commenti – quando dice che

nel settore energetico-ambientale non è difficile fare utili e distribuire dividendi se si risponde solo alla logica del profitto.

Posto che non capisco a quale altra logica un’azienda dovrebbe rispondere, e posto che se ne deduce che Iride non risponde alla logica del profitto (azionisti, scappate!), non mi pare così facile far soldi a palate in un settore tanto competitivo quando è competitivo (che, tra le altre cose, normalmente significa dove non ci sono municipalizzate tra i piedi).

Il passaggio più paradossale dell’intervento di Casale è, però, ancora un altro: quello in cui Casale vanta la maggiore trasparenza delle fusioni tra società pubbliche rispetto a quelle che coinvolgono soggetti privati. Nel caso di Iride-Enìa,

Si è fatto tutto in piazza, sui giornali… non si può non riconoscere alla politica una certa trasparenza.

C’è una differenza tra la trasparenza e la caciara, così come è stato tutt’altro che trasparente il voltafaccia del sindaco genovese, Marta Vincenzi, prima contraria e poi favorevole – per diktat di una parte della sua maggioranza – alla clausola per cui il 51 per cento del gruppo dovrà sempre e comunque restare in mano agli enti locali. Le fusioni sono una cosa seria, che non si può brandire come oggetto di una perenne campagna elettorale. Sarò all’antica, ma queste cose non si fanno né in piazza, né al bar.

7
Mag
2009

Stress test, scusate ma non ci siamo

Da settimane, mi chiedevo se fossi io ipercritico come sempre, a pensare un gran male degli stress test avviati su impulso di Obama dai regolatori bancari americani sui 19 maggiori istituti nazionali, quelli con asset superiori ciascuno a 100 miliardi di dollari. Stamane ho letto l’editoriale del New York Times firmato dal segretario al Tesoro Tim Geithner, e prima ancora di quanto nel pomeriggio ha aggiunto Ben Benrnanke sulla necessità di adottare una svolta energica ne criteri di vigilanza sull’intermediazione finanziaria Usa – a quando proposte concrete, però? sono mesi che si susseguono solo annunci di principio – mi son deciso a scrivervi perché son così critico. Meglio mettere nero su bianco prima che, tra poche ore, vengano annunciati in dettaglio i risultati. Anche perché così mi assumo il rischio preventivo, di affermare che se le ricapitalizzazioni complessive considerate necessarie fossero di un ordine inferiore ai 250 miliardi di dollari, allora saremmo davvero in presenza di un’operazione poco più che propagandistica, della quale conta più lo scopo di rianimare corsi e mercati, che la presunta “pulizia una volta per tutte”.
Sintetizzo considerazioni che necessiterebbero di ben altro approfondimento tecnico: ma è anche per assecondare la giusta generale richiesta di scrivere post meno chilometrici. Primo: 180 ispettori dei quattro diversi regolatori federali competenti hanno avuto 8 settimane per vagliare balance sheets di 19 istituti. Non ci prendiamo per i fondelli: chiunque abbia un’ìdea sia pur vaga dell’ammontare di operazioni e del tempo necessario a vagliare gli asset patrimoniali e impieghi di portafoglio di una banca di quella taglia sa che, in otto settimane, 180 ispettori avrebbero potuto compiere un esame di profondità e accuratezza accettabile solo per due o tre, di quelle banche. Secondo: il criterio seguito. Infatti, in NESSUNA grande banca è stata compiuta l’equivalente di un’ispezione ordinaria o straordinaria di vigilanza di quelle disposte dalla nostra Bankitalia. Si sono seguiti i modelli VAR elaborati da ciascuna banca, e gli ispettori hanno effettuato verifiche del total capital e common stock (secondo criteri di tangible equity) commisurato a worst case dei mercati, NON alla seria riponderazione per esempio del rischio di controparte almeno di ciascuna classe di asset, se proprio non vogliamo dire di ciascun asset detenuto. Dopo un anno di chiacchiere sui derivati, mi sembra pazzesco. Terzo: la negoziazione. Come non bastasse, da quel poco di ufficiale che è trapelato (l’ordinanza dispositiva iniziale della Fed in materia di stress test è stato uno dei peggiori esempi di mancanza di trasparenza e dettaglio che abbia mai visto, fin dall’inizio era evidente che lo scopo era quello fiduciario più che di pulizia), ciascuna banca è stata posta in condizioni di negoziare con Tesoro e regolatori le risultanze finali dell’esame, nella più assoluta riservatezza (anche se non sono disposto a scommettere che non assisteremo nei prossimi giorni a massicce spifferate ai media).
Conclusione, allo stato degli atti e prima di conoscere in dettaglio i risultati. Mi sembra che abbia ragione Alex Pollock dell’AEI: se si tiene conto che anche i mutui subprime ancora in portafoglio hanno ottenuto un rating positivo negli stress test, è evidente che l’obiettivo era solo quello di rialimentare fiducia. Questi stress test bancari non sostituiscono affatto una vigilanza ordinaria esercitata su ben più adeguati (e anticiclici) criteri di capital adequacy, perché solo la vigilanza ordinaria può computare il variare degli andamenti di mercato e degli asset, mentre qui ci si spaccerà per mesi se non per anni che gli stress test hanno definitivamente risolto il problema. Solo che per una più adeguata vigilanza ordinaria bisognerebbe appunto che politica e regolatori Usa uscissero dai generici proclami di principio (tipo quello di Bernanke di oggi), e mettessero in consultazione nella business community prima dell’adozione nuove tavole della legge su come calcolare il patrimonio di vigilanza e come uscire dal VAR “autogestito”, tipico del sistema bancario Usa. Sbaglierò, ma penso che il sistema delle grandi banche americane pensi ormai più che altro a esercitare il potere di mercato che gli deriva dal fatto che alcuni grandi concorrenti sono spariti o hanno cambiato mestiere. E se gli aumenti di capitale privato di cui leggeremo l’annuncio stanotte nei prossimi sei mesi dovessero andare inoptati, e lo Stato entrare nel capitale delle banche convertendo in azioni ordinarie i prestiti convertibili pubblici, andremmo di male in peggio.

7
Mag
2009

Enrico Augusto

Così si intitola un delizioso ritratto che, nel 1960, Giovannino Guareschi dedicò a Enrico Mattei, di cui quest’anno ricorre il centenario e che, in varie salse ma in particolare con una fiction televisiva, è stato beatificato, con tanto di complotto amerikano dietro la sua morte. Scriveva Guareschi:

Mattei, furibondo statalista, è il più spietato nemico dell’iniziativa privata che vorrebbe schiacciare con l’iniziativa di Stato.

Come ha giustamente ricordato Salvatore Rebecchini sull’Occidentale, Mattei – fortemente osteggiato, senza successo, da Don Sturzo – non fu né il redentore dell’Italia, né l’artefice della riscossa di un paese consumatore di risorse con le pezze al culo. L’opera di Mattei puntava alla nazionalizzazione e la monopolizzazione del settore dell’energia – il suo vero progetto era l’Ene, che avrebbe dovuto unificare petrolio, gas ed elettricità in un colosso pubblico – in base al presupposto che aprire il paese al mercato ci avrebbe messi alla mercé dello straniero. Ma, più ancora, Mattei, “petroliere senza petrolio”, soffriva per il fatto di essere escluso, e con buone ragioni, dal “club” delle grandi, che – si dice – fu lui per primo a chiamare le Sette Sorelle. Ora, la questione è complessa, ma mi pare difficile sostenere, perlomeno ex post, che il regime di “oligopolio privato” di allora fosse meno concorrenziale rispetto a quello, attuale, di “oligopolio pubblico”, e ancor meno rispetto a quello che era il panorama petrolifero fino a pochi anni fa: con monopolisti pubblici a monte, nei paesi produttori, e a valle, in quelli consumatori di risorse.

Oltre tutto, la santificazione di Mattei non passa soltanto al di sopra di tutte le critiche politiche ed economiche che si possono rivolgere alle conseguenze delle sue azioni (si veda, a questo proposito, la bella biografia di Carlo Maria Lomartire, Mattei. Storia dell’italiano che sfidò i signori del petrolio, che a suo tempo avevamo recensito con Alberto Mingardi).  E neppure essa sposa un po’ troppo semplicisticamente la tesi dell’attentato americano, mai provato, come ha osservato su Repubblica Mario Pirani. Il fatto è che essa fornisce un’immagine di Mattei molto, molto lontana da quella reale: sulla Staffetta, Giorgio Carlevaro parla di 

licenze storiche assolutamente gratuite, enfasi su avvenimenti marginali e all’opposto dimenticanze vistose.

Se dunque l’interpretazione che viene fornita della vita e delle opere di Mattei è più che libera, altrettanto libero è il giudizio che emerge sull’uomo pubblico e il protagonista di una fase della storia italiana. Mattei non era il cavaliere disinteressato e senza macchia che è stato raccontato. Mattei fu un “raider” senza scrupoli che, allo scopo di perseguire il suo disegno, era disponibile a ricorrere a ogni mezzo, lecito o illecito. E l’Eni, da lui creata, è oggi una grande impresa internazionale nella misura in cui si è “de-matteizzata”. Per citare ancora Guareschi:

E’ l’odio che lo spinge. La sua è la vendetta dell’uomo che, non essendo riuscito a mettere in piedi l’azienda personale che sognava, nega, adesso, l’iniziativa privata e le contrappone l’iniziativa di Stato. E’ la vendetta del piccolo industriale mancato. Dell’uomo che, non essendo mai riuscito a ottenere dalla moglie un permesso di libera uscita serale, sogna d’instaurare un regime dittatoriale per imporre, a danno di tutti i mariti liberi, il coprifuoco.

6
Mag
2009

I 7 miti dell’economia verde: fantastici!

Sia lode e gloria ai seguenti ricercatori. Andrew P. Morris, dell’University of Illinois College of Law, nonché del Property and Environment Research Center, George Mason University; William T. Bogart, dello York College of Pennsylvania; Andrew Dorchak, della Case Western Reserve University Law Library; infine Roger E. Meiners, della University of Texas at Arlington. Hanno appena scritto due papers fa-vo-lo-si che smantellano gran parte della mitologia sulla quale viene edificata la tesi secondo la quale l’unica vera risposta alla crisi economica attuale è un colossale shift, guidato dallo Stato, verso l’economia e le tecnologie “verdi”. I papers s’intitolano “7 Myths About Green Jobs”, e “Green Jobs Myths” (Illinois Law & Economics Research Paper No. LE09-007, e No. LE09-001). Consiglio di divorarveli per benino, e di sicuro la loro lettura farebbe un gran bene a politici e giornalisti che su questi temi rischiano di prendere lucciole per lanterne, creando consenso intorno a massicce allocazioni di risorse del contribuente assolutamente distorsive.
Quali le loro tesi dimostrate? Scrivono che negli ultimi tempi una crescente mole di letteratura a forte popolarità si prodiga a convincere che maggiore sarà l’intervento statale pro ambiente, più consistente sarà la crescita di occupati, unica vera salvezza al downsizing della manifattura “tradizionale” cioè energivora. Saranno impieghi che non faranno solo un gran bene all’ambiente, ma ben pagati, ricchi di soddisfazione per chi li svolge, e naturalmente tali da favorire un ritorno in grande stile all’adesione sindacale di massa. Senonché queste tesi, scrivono i nostri eroi, si fondano appunto su sette veri e propri miti, che investono orizzontalmente l’economia e la tecnologia, oculatamente alimentati da gruppi d’interesse che puntano ai maggiori vantaggi, dall’implementazione di tali postulati.
Mito numero uno, il lavoro “verde”: nessuna sua definizione standard è comunemente accettata. Mito due: col lavoro verde cresce la produttività; quando invece i settori e le tecnologie interessate richiedono un più alto numero di addetti a prassi amministrative e regolatorie. Mito tre: le previsioni di crescita del lavoro verde sono attendibili; quando invece i loro modelli previsivi sono risultati totalmente disattesi, da 35 anni a questa parte. Mito quattro: il lavoro verde accresce l’occupazione; quando invece esso risulta assai human intensive, dunque a bassa produttività, bassa remunerazione e basso standard di prestazione per gli addetti; la crescita economica non può essere “ordinata” dal Parlamento o dalle Nazioni Unite, la restrizione di tecnologie mature a favore di tecnologie ancora speculative attraverso stanziamenti di risorse pubbliche e incentivi fiscali ha spesso generato stagnazione, in passato. Mito cinque: dalla crisi si esce accettando come positiva la diminuzione degli scambi commerciali planetari, per tornare a puntare maggiormente su produzioni “locali” senza che ne consegua diminuzione degli standard di vita; quando invece si è SEMPRE confermata vincente la tesi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che attraverso la specializzazione produttiva e scambi crescenti e più liberi sempre maggiori aree del pianeta innalzano più rapidamente i propri standard di benessere. Mito sei: i governi possono e devono agire come efficaci sostituti dei mercati; quando sempre le aziende libere si sono rivelate meglio in grado di interpretare e soddisfare domanda e desideri dei consumatori. Mito sette: imporre cambi di direzione tecnologica attraverso la regolazione pubblica è auspicabile e positivo; quando invece molte delle tecnologie verdi sin qui indicate come addirittura “risolutive” non hanno mai raggiunto la scala di attuabilità e di costo necessaria a soddisfare efficacemente la domanda alla quale si suppongono rivolte.
Altro che il mitico 20-20-20 dell’Europa e i fantastici obiettivi verdi promessi da Obama: noi preferiamo i fantastici quattro che numeri alla mano fanno a pezzi la teologia ambientalista e i suoi improvvisati dottori della legge.

6
Mag
2009

Cosa c’è e cosa manca nel Libro Bianco di Sacconi

Il “Libro bianco sul futuro del modello sociale” presentato oggi dal Ministro Sacconi è potenzialmente qualcosa di molto rilevante, per l’Italia di oggi e di domani. Ha il pregio di mettere assieme, in forma sintetica (una cinquantina di pagine scarse), quanto di meglio elaborato dal mondo che gravita attorno al Ministro. E il difetto di riflettere più sui principi che sulle policies. E’ un difetto in parte voluto in parte subito. Voluto perché in tutta evidenza un documento di questo genere deve essere di scenario, se non vuole limitarsi a fare la carta d’identità al Ministero che lo pubblica e lo promuove. Subito perché la crisi ha fermato il cantiere di riforme che dai principi enunciati nel Libro bianco dovrebbero discendere.

Mi soffermo brevemente su quelli che mi paiono pregi e limiti più evidenti. Il Libro bianco propone una visione d’insieme del futuro del Paese, sotto il duplice profilo della demografia e della finanza pubblica, coerente. Cose note, ma che è bene ribadire. Gli obiettivi di lungo periodo sono in larga misura condivisibili. Chi lo ha scritto pare convinto che per “salvare” i fini dello Stato sociale sia necessario disarticolarlo, trasferendone le competenze ad istituzioni in larga misura spontanee e contando su una rete di protezione più “sociale” (nel senso di emanazione della società) che “statale”. Chi lo ha scritto bene conosce i difetti del nostro mercato del lavoro (Marco Biagi, unico nume tutelare richiamato nel Libro, lo considerava “il peggiore d’Europa”), e anche quelli del nostro Stato sociale. Una priorità evidente è quella di evitare per quanto possibilità la “dipendenza da welfare” che alcuni istituti vanno a creare, puntando al contrario su “politiche per la vita attiva” (di qui la grande enfasi che Sacconi mette sempre sulla “formazione”: il che va benissimo, se non fosse che la “formazione” in Italia è un concetto oltremodo plastico).

Laddove il Libro bianco soddisfa di meno è nell’indicazione di politiche precise. Se la spesa sociale è sbilanciata sulle pensioni, se le pensioni non sono uno strumento idoneo a svolgere “prioritariamente funzioni di carattere redistributivo/ assistenziale”, se “la stabilizzazione di lungo periodo dell’incidenza della spesa pensinistica pubblica”, che vogliamo fare? Il Libro bianco dà tutte le risposte giuste: l’obiettivo deve essere la “ridefinizione dell’equilibrio tra le fonti di finanziamento” e serve “l’allungamento delle carriere e il raggiugimento di proporzioni più equilibrate tra vita attiva e vita in quiescenza dopo il pensionamento definitivo”. Da questa analisi dovrebbe però venire una “road map” per il “nuovo bilanciamento” fra pubblico privato, e/o per l’innalzamento dell’età pensionabile. Non ci si può limitare ad affrontare il tema dell’equiparazione dei requisiti pensionistici fra uomini e donne.

Qualcosa di simile potrebbe essere detta sulla sanità: nel Libro bianco c’è grande enfasi sull’healthy ageing, piena consapevolezza della “condanna demografica” dei sistemi sanitari. Ma le considerazioni di sostenibilità restano sullo sfondo.

Il progetto è coraggioso, e il modello usato da Sacconi, per l’Italia, è stato innovativo. Vi è stata un’ampia consultazione pubblica, a partire dal Libro Verde, cui hanno concorso circa mille soggetti. Grande successo di pubblico, per così dire. Ora speriamo possa esservi un dibattito consapevole e adulto su questi temi. Per “costringere” chi con il Libro bianco dimostra di avere piena consapevolezza dei problemi, a trarne le conseguenze dovute.