10
Giu
2009

Euro Right, euro wrong

Negli Stati Uniti le elezioni europee sono state accolte con un sospiro di sollievo da alcuni solitamente acuti commentatori “di destra” – in primis la sempre brillante Anne Applebaum su Slate e Washington Post.
Mi è tornato in mente come per anni ci siamo arrabattati nel cercare di spiegare, in Italia, le differenze di sfumature nel grande contenitore della destra americana. La distanza che separa Old Right e neo-conservatori sembrava (sembra) minima, vista dall’altra parte dell’Atlantico.
Ma anche negli Usa si fa fatica a capire che cosa è accaduto e sta accadendo in Europa. E si legge il patatrac dei partiti socialisti come un segnale che dà avvio a una stagione diversa.
Che dire? Magari! Le elezioni europee aprono da noi scenari per certi versi interessanti  (ne ha ben scritto Oscar Giannino), ma è tutta politica politicante, sono mosse di scacchi dei vari leader. C’entra poco costringere lo Stato massimo alla ritirata. Che non è nei piani di nessuno.
Per farla breve, credo che:
– i partiti “di destra” mainstream (da Sarzoky a Cameron) altro non sono che realtà gelatinose, per nulla permeate dai principi del mercato, assolutamente determinate a restare ancorate ai “principi” (scusate le virgolette, è più forte di me) della social-democrazia, infiocchettati da economia sociale di mercato. Siamo al paradosso: per Erhard e company, il “sociale” era marketing per “vendere” il mercato. Ora usiamo il mercato come artificio di marketing, per sdoganare a destra il “sociale”!
– il grande successo dei partiti estremi non dice nulla di nuovo. Non è una notizia che una crisi economica dia spazio a forze politiche che capitalizzano la paura e l’incertezza. Ma non saranno certo loro, a frenare l’espansione dei pubblici poteri.

9
Giu
2009

Monti per e diviso Tre

Sul Sole 24 Ore di oggi, due anticipazioni dal prossimo Aspenia: Giulio Tremonti e Mario Monti, un tempo avversari ora sostanzialmente sulle stesse latitudini. Quale dei due sia finito per convergere sulle posizioni dell’altro, è ovvio e cosa non imprevedibile per chi li guardi con attenzione, anche se di lontano. Già Commissario a Bruxelles, per il Presidente della Bocconi l’europeismo è un valore irrinunciabile. Ciò a cui invece si può tranquillamente rinunciare è l’Europa. L’Europa intesa non come macchina burocratica, ma come esperienza storica fondata sul pluralismo, sul gusto della libertà nella sperimentazione istituzionale, sui principi del mercato. Fra l’Europa di Adam Smith e l’Europa di Colbert, Monti ha una preferenza costante: gli sta bene l’Europa che ha più probabilità di vincere, in un particolare momento nel tempo. “Mercato quando possibile, Stato quando necessario” è slogan tre-montiano montianamente adattabile in pluralismo quando possibile, armonizzazione quando necessario, libertà quando possibile, schiavitù quando necessario, eccetera, in un’orgia di atteggiamenti pseudo-pragmatici che trovano in quella che ci viene ancora dipinta come l’illusione generosa della generazione post-bellica: l’europeismo, un’utile foglia di fico. Non si riesce in altro modo a commentare affermazioni come la seguente:

L’Unione è stata costruita come soggetto d’integrazione fondato su uno zoccolo duro, che è appunto l’integrazione di mercato. Oggi, però, l’economia di mercato versa in una grave crisi, una crisi di sistema e globale. Allora ci si deve porre una domanda: potrà andare avanti la costruzione europea, visto che è fondata su un sistema in crisi?

Detto altrimenti, franza o spagna purché se magna, mercato o Stato purché Europeo. La quadratura del cerchio sarebbe quella “economia sociale di mercato” che avrà tanti difetti, ma che – difendiamo i “cugini che sbagliano” Roepke etc – non era mica la schifezza di cui parla Monti. Per il quale “economia sociale di mercato” è semplicemente sinonimo di social-democrazia. Una social-democrazia per giunta rafforzata da un controllo “fiscale” internazionale, che sgomini i paradisi fiscali. Perché? L’ex Commissario alla concorrenza dimostra una volta di più quello che da queste parti si è sempre sospettato. Cioè di credere nelle virtù della concorrenza talmente poco, da voler sottrarre alla concorrenza la produzione di beni pubblici in capo agli Stati, e il momento in cui per quei “beni pubblici” si è costretti volenti o nolenti a pagare: il prelievo fiscale.

Avere affrontato il tema dei paradisi fiscali in sede di G-20 è stata certamente un’opera meritoria e importante. Ma iniziative utili per combattere l’evasione fiscale sono insufficienti per contrstare l’elusione legale. La realtà, infatti, è che ciascuno dei paesi dell’Unione Europea, o del G-20, funziona per certi versi da paradiso fiscale per i residenti degli altri.

Poche righe più in là Monti chiarisce da dove gli venga il sogno sotteso a frasi terrificanti come queste, che auspicano di fatto la fine della concorrenza istituzionale in Europa, che poi significherebbe l’eclissi della parte più positiva del processo di unificazione, quella legata alle libertà di movimento: che senso ha potersi muovere, se ovunque vado il panorama è sempre quello? Il sogno di questa orwelliana piallatura delle differenze gli viene dal fatto che negli anni scorsi le “economie sociali di mercato” hanno dovuto – purtroppo! – “avvicinarsi alle economie anglosassoni” (dove Monti è bizzarramente convinto che lo Stato sociale non esista, ignorando che, ahinoi, si potrebbe semmai sostenere che proprio nelle economie anglosassoni è stato inventato…), più parche nei prelievi e generalmente per questo capaci di attrarre capitali e fare crescere più rigogliose le proprie imprese. Insomma, la concorrenza istituzionale fa male perché ci obbligherebbe ad abbandonare il nostro “modello sociale”. Tesi che avete già letta nel libro del Monti moltiplicato per tre. Il quale se non altro è intellettualmente abbastanza sincero e schietto da non voler contrabbandare la rivolta contro la concorrenza fra ordinamenti (perché che la concorrenza fra ordinamenti si combatta coi dazi o con un coordinamento fiscale o normativo internazionale, è questione di mezzi ma non di fini, che sono identici) come una “difesa” del mercato unico europeo. Difesa da che? Dai principi sui quali esso stesso è stato fondato?

Consiglio vivamente la lettura di tutto l’articolo di Monti. A suo modo, è esemplare. Raramente infatti si hanno esiti più deludenti di quando un intellettuale scalpita per fare il politico, o di quando un politico gioca a fare l’intellettuale. Monti unisce le inadeguatezze dell’intellettuale che ambisce a fare politica, cosa che originariamente era, a quelle del politico che scalpita per darsi un tono da intellettuale, cosa che ora è.  Coerentemente con un profilo molto diffuso nelle nostri classi dirigenti. Il centauro con le gambe d’uomo e la testa del cavallo.

9
Giu
2009

Robin Tax. Evidenza dall’Alaska

L’Alaska ha introdotto la sua “Robin Tax” – sotto forma di un’imposta progressiva sulla produzione di idrocarburi – nel 2006, e l’ha inasprita l’anno successivo. In pratica, l’aliquota – prima 20, ora 25 per cento – si applica sia sul petrolio che sul gas convertito in barili equivalenti di greggio. Inoltre, una volta superata una certa soglia (40 dollari nel 2006, 30 dollari al barile dal 2007) essa cresce a un tasso dello 0,4 per cento (inizialmente era 0,2) per ogni dollaro di aumento delle quotazioni del barile. Sugli ultimi due numeri di Oil & Gas Journal (qui e qui, subscription required) Dan Dickinson e David Wood ne valutano i risultati. Read More

9
Giu
2009

Postvoto: Brunetta, Formigoni, Scajola

Per chi fosse eventualmente interessato a un mio commento sul turno elettorale, lo trovate qui, in forma di dieci domande che il risultato pone a tutti i maggiori attori della politica italiana. Non mi sorprende che Berlusconi si sia subito defilato dall’ipotesi di sostenere il referendum elettorale – io sono nel comitato promotore –  poiché, alla luce dell’esito delle urne, non irritare la Lega in vista dei tanti ballottaggi ancora aperti ai suoi occhi supera di gran lunga la convenienza di una prova di forza in senso bipolar-bipartitico. Al contrario, a me tale spinta sembra ancor più essenziale, di fronte alle tendenze centrifughe manifestatesi nelle urne, con voti in uscita e astenuti a milioni tanto dal Pd che dalla Pdl.

Ma qui occupiamoci invece delle prime reazioni che al voto si manifestano nella politica economica. Telegraficamente, ne segnalo tre. Il più lesto a reagire è stato, come al solito, l’ipercinetico ministro Brunetta. Alla giornata dell’innovazione, che si tiene stamane in Confindustria, ha secondo me giustamente dichiarato che la cosa migliore per il governo sarebbe quella di mettere subito mano a un programma straordinario in cento giorni, mirato a innalzare la produttività non solo attraverso interventi che sono di competenza del ministro stesso – come la digitalizzazione della PA – ma che astutamente Brunetta ha indicato invadendo competenze altrui, candidandosi a stimolo della compagine. La liberalizzazione e privatizzazione delle public utilities locali è solo un esempio, ne ha fatti altri. Dubito che gli daranno retta: fatto sta che Brunetta cerca di tirarsi fuori dalla morta gora del “non è tempo di riforme”. Secondo me, ha ragione.

Apparentemente, il risultato alle europee  rafforza la candidatura alla presidenza dell’assemblea di Strasburgo avanzata dalla Pdl, per l’onorevole Mauro. In realtà i tedeschi della Cdu-Csu, che hanno tenuto onorevolmente la posizione contenendo le perdite ma tradizionalmente in Europa pesano più della sezione italiana del PPE, pare abbiano già chiuso da tempo un patto di ferro a favore del candidato della Polonia, Paese che considerano una sorta di cortile interno della propria delocalizzazione. Se la preferenza per Jerzy Busek dovesse risultare confermata e Berlusconi non volesse avventurarsi in una rischiosa prova di forza, allora aumenterebbero le possibilità per un portafoglio italiano nella prossima Commissione europea ben più sostanzioso dell’attuale, i Trasporti affidati ad Antonio Tajani quando la rischiosa vicenda Cai-Alitalia batteva alle porte. La Lega vorrebbe intensissimamente che fosse Roberto Formigoni, il candidato  italiano a un importante incarico nella Commissione. Ma tale scelta aprirebbe fin dal prossimo autunno una partita molto delicata, tra Pdl e Lega per guida ed equilibri in Lombardia, la Baviera italiana per peso economico e civile.

Da altri autorevoli ambienti, possiamo anticipare sin d’ora che a Silvio verranno suggerimenti diversi. Perché non mandare alla Commissione eventualmente Claudio Scajola, aprendo spazio per una modifica nella cabina di regìa della politica economica governativa? Al di là della buona volontà – per esempio sul nucleare – sinora Scajola ha dovuto far buon viso a tutte le severe limitazioni intervenute a stanziamenti, programmi e politiche che insistevano precedentemente sulle Attività produttive.  A mio giudizio l’esatto contrario di un danno, per la sfiducia che nutro in genere verso le “politiche industriali”, compresa quella “Industria 2015” varata da Bersani nella precedente legislatura, oggi fortemente ridimensionata. Ma la maggioranza la pensa diversamente, sia in ambo gli schieramenti politici che tra le categorie economiche. Tremonti no. Occhio, che per Silvio viene una fase in cui la concretezza conta più delle polemiche, per tentare di farle dimenticare.

7
Giu
2009

Fiat-Chrysler, vinta la scommessa sui media italiani

In aggiornamento della scommessa fatta ieri su Fiat-Chrysler: scommessa vinta, purtroppo. Nessun giornale italiano ha pubblicato una sola riga sulla battaglia legale dell’avvocato Thomas Lauria e dei fondi d’investimento e pensione da lui rappresentati, contro Fiat-Chrysler, né il lettore italiano ha trovato un solo cenno alle mail scambiate da consulenti e dirigenti di primo piano della Chrysler con la task force dell’auto dell’Amministrazione americana, anch’esse tutte contro Fiat. Abbiamo letto del piano terra al quale Marchionne vuole prendersi l’ufficio in Chrysler, per poter più agevolmente fumare ogni tanto in cortile, e del fatto che mangerà alla mensa dei dipendenti: questo sì, ma delle mail traboccanti scetticismo dei manager Chrysler verso l’azienda torinese, neanche una riga.
Nel frattempo, Lauria non ha aspettato le la scadenza del termine previsto per il pomeriggio di domani, e si è appellato alla Corte Suprema. Vedremo se essa si adeguerà alle considerazioni di rinunciatario realismo del giudice di merito di prima istanza, Arthur Gonzales, che in buona sostanza aveva deciso che in un chapter 11 a forte garanzia di capitale pubblico, come questo, l’Amministrazione prevaleva sulle norme di diritto positivo che tutelano creditori e obbligazionisti… Con ogni probabilità anche domani, vista l’alluvione di dati sul voto europeo, l’attenzione della stampa italiana sarà dirottata altrove. Magari ce la si caverà con qualche breve nelle pagine di economia. I criteri con i quali sono confezionati i giornali di questi tempi sono del resto assai singolari. Il Corriere di De Bortoli oggi apriva sul “fine ricreazione” decretato ieri dalla Marcegaglia, al termine di una campagna elettorale tra le più scombiccherate e volgari della storia italiana, e dedicava le prime pagine del giornale alla sferzata confindustriale. Caricandola, con un po’ di consapevole malizia, di un sapore critico verso Berlusconi probabilmente superiore alle intenzioni della Marcegaglia stessa. Il Sole 24 ore, quotidiano della stessa Confindustria, per converso non ne faceva alcun cenno, della pur energica dichiarazione della Marcegaglia. Vattelapesca perché, più realista del re. Per rifarvi la bocca, leggete lo strepitoso George Will sul Washington Post di oggi, qui. Sulle pretese di salvare GM da parte dell’azionista che ha fatto perdere 23 miliardi di dollari ad Amtrak dal 90 ad oggi, e sul fatto  che il too big to fail si applichi a un’azienda che l’ultimo giorno prima della decisione governativa capitalizzava in Borsa un undicesimo della scassatissima Harley Davidson, è imperdibile. Avercene, sui giornali italiani.

6
Giu
2009

Fiat-Chrysler, chapeau all’avvocato Lauria

Il Wall Street Journal oggi – leggete qui –  ha fatto scoppiare una bella bombetta sul caso Fiat-Chrysler, pubblicando il fitto scambio di mail tra manager della Chrysler, consulenti della stessa e funzionari della car-task force dell’Amministrazione Usa. Nel carteggio si avanzano reiterati e seri dubbi sulla sostenibilità finanziaria del matrimonio da parte di Fiat, di lamenta che la casa torinese elude le richieste di chiarimenti, si rilancia l’ipotesi di abbinare Chrysler a GM. Ma, alla fine, la prima fila della Chrysler si piega e batte i tacchi alla politica, che ha scelto essa, molto più di Bob Nardelli, che Fiat è il meglio.

Non è una rivelazione. Era chiaro che le cose erano andate esattamente così. Anche se, naturalmente, è tutt’altra cosa poter leggere le mail originarie degli scambi d’opinione, i loro toni sopra le righe, le perplessità affannosamente senza risposta della prima linea di Chrysler man mano che si avvicina la deadline  posta dall’Amministrazione per il chapter 11. Vediamo domani come la stampa italiana tratterà la faccenda. Personalmente, su qualunque giornale scrivessi o facessi scrivere altri, avrei predisposto un bell’editoriale dal titolo “pari e patta”: chi lamenta – anch’io  – l’improprio ruolo esercitato dalla politica tedesca per escludere Fiat da Opel,  ricordi bene che è la politica americana ad aver scelto la casa torinese per Chrysler, e che l’ha fatto a mo’ di monito verso GM, più grande e ancora da “ammansire”, all’epoca.

Qui, aggiungo solo due cose. Ottimo il WSJ, come al solito. Ma letteralmente giù il cappello di fronte alla giustizia americana, alla Corte del Southern District di New York che ha ammesso tali mail quali prove documentali, e soprattutto all’immenso avvocato Thomas Lauria, che nel procedimento si oppone alla soluzione escogitata dalla politica a nome del calpestato diritto di alcuni fondi d’investimento e fondi pensione. Lauria è riuscito a procurarsi le mail – alcune di pochissimi giorni fa – in nome dalla full disclosure  che il debitore deve al creditore, e le ha spiattellate nel fascicolo. Ha tempo fino alle 16 di lunedì ora di New York per presentare appello alla Corte Suprema.  Dalle aziende e dalle banche italiane non esce un fiato, quando s’incappa nei guai, nemmeno a distanza di anni. Figuriamoci le mail “apicali” a distanza di una settimana dalle decisioni assunte. Viva la differenza… sempre che Obama non “europeizzi” gli Usa anche in questo.

6
Giu
2009

L’interventismo tedesco su Opel non è una semplice caduta di stile

Pensare che l’approccio dirigistico del governo tedesco al dossier Opel sia una marginale ed estemporanea sbandata, dovuta all’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale di settembre è una considerazione giusta, ma estremamente limitata quanto ad orizzonte storico. L’idea che lo Stato, in situazioni di lacerante crisi economica, debba intervenire senza badare troppo alle distorsioni della concorrenza e dei processi autonomi del mercato, è molto più che una trovata elettorale escogitata dalla signora Merkel e dal suo gaglioffo governo di coalizione.
Già ai tempi della Repubblica di Weimar il potere presidenziale di emanare decreti di emergenza (e l’intromissione su Opel, così come i recenti pacchetti congiunturali, possono esservi facilmente assimilati) divenne un fenomenale strumento di intervento a gamba tesa dello Stato nell’economia, volto alla creazione –artificiale, direbbe Bastiat– di posti di lavoro e favorito dal proposito ingegneristico di plasmare la società perfetta, in poche parole un mezzo di “integrazione sociale”, per dirla con Hermann Heller.  Nulla da stupirsi, dunque, se proprio attraverso lo sfruttamento della politica economica si arrivò di lì a poco, sotto Hitler e Von  Papen, al riarmo. “Chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini“, soleva dire Eugen Richter. E così, da interventismo moderato che fu tra il 1919 e il 1925, quello della Repubblica di Weimar sfociò presto in dirigismo totalitario. La teoria della necessità di un’occhiuta intromissione da parte dello Stato centrale nella vita economica, propagandata da Keynes, fu recepita con entusiasmo anche dalla Germania di Hitler, nella quale le parole “nazionalizzazione” ed “esproprio” furono per anni all’ordine del giorno (ma anche quella di “Stato sociale”, si legga ad esempio il bel volume di Aly “Lo Stato sociale di Hitler“)
Ma quello che più dovrebbe stupire è che, al di là delle moine sulla colpa collettiva e all’esile crosta di incivilimento post-II guerra mondiale, la Bundesrepublik nata nel 1949 non sancì affatto una chiara e netta cesura con il suo disastroso passato. Almeno dal punto di vista della gestione istituzionale della politica economica. Il principio dell’interventismo statale, al di là di qualche felice parentesi (quella erhardiana, ad esempio), non è stato granché intaccato dal tortuoso dibattito sul nazionalsocialismo, ma ha continuato ad annidarsi  tra le pieghe della Repubblica federale, provocando una progressiva esautorazione delle procedure di controllo parlamentare sulle decisioni congiunturali a favore dell’esecutivo. Ciò a cui abbiamo assistito per Opel non è una semplice caduta di stile.

5
Giu
2009

L’Italia del gioco d’azzardo / di Giancarlo Colussi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Che l’apertura di un casinò sia una manna per l’economia di una municipalità lo aveva capito già nel 1921 il sindaco di Saint-Vincent, che quasi un secolo fa aprì la famosa casa da gioco valdostana. Se si escludono la breve parentesi negli anni sessanta del casinò di Taormina, e  tutti i casinò online attualmente presenti sul mercato italiano, le uniche sale da gioco autorizzate in Italia sono San Remo, Campione D’Italia, Venezia e lo stesso Saint Vincent. Il paradosso è che ad oggi non esiste una legge quadro che regolamenti l’apertura e la gestione delle case da gioco: quelle esistenti poggiano la loro legalità su licenze ottenute nella notte dei tempi ed hanno creato una lobby che si oppone al rilascio di nuove licenze.

Recentemente il senatore Candido De Angelis ha presentato una proposta di legge, appoggiata peraltro dal Presidente del Senato, Renato Schifani, ed elogiata anche dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in visita proprio a Taormina, per aprire il mercato a nuovi operatori. Non si parla di una liberalizzazione totale ed indiscriminata, ma di offrire un più ampio ventaglio di offerte nel settore, soprattutto vista la totale mancanza di casinò nel centro e sud Italia ed il costante aumento dei giocatori di poker, videopoker o  black jack online. Inutile dire che la levata di scudi da parte dei casinò é stata pressoché immediata.

L’obiettivo principale della proposta di legge é di rilanciare il settore del turismo, e, infatti, sono molte le realtà che da tempo chiedono di poter aprire dei casinò nel proprio territorio, fra cui Capri, Anzio, Taormina, Montecatini. Inoltre aprire nuove case da gioco spingerebbe le strutture già esistenti a rinnovarsi ed adeguarsi al mutato scenario concorrenziale.

Non va dimenticato che una tale apertura del mercato potrebbe avere effetti benefici anche per quanto riguarda la lotta alle attività della criminalità organizzata legate al gioco d’azzardo clandestino ma soprattutto per le casse dell’erario, da tempo ormai impegnato ad arginare la penetrazione di casinò online non italiani. Per anni lotto, totocalcio, lotterie e gratta e vinci vari hanno foraggiato le casse statali così come i vari tavoli di black jack o le roulette dei casinò. Ora che l’accesso a sale da gioco online straniere é così facile, il rischio per lo stato è di perdere una buona fetta delle scommesse dei giocatori italiani. Offrire maggiori spazi per il gioco dal vivo sempre più vicini ai giocatori stessi potrebbe essere una strategia più vincente delle politiche oscurantiste messe in atto fino ad ora.

Sarà interessante osservare gli sviluppi del settore nei prossimi mesi per capire quanta voglia di un mercato e di una società veramente libera ci sia in Italia e quanto questo governo sia pronto a combattere contro vecchie lobby e cartelli che danneggiano il benessere di molte regioni e le tasche dei cittadini.