12
Giu
2009

Sulla neutralità della rete

Qualche settimana fa ho avuto il piacere di partecipare ad un bel workshop organizzato dalla Fondazione Ugo Bordoni in collaborazione con NNSquad Italia sul tema della net neutrality (qui tutti gli interventi; qui un resoconto dell’evento). Piatto forte della giornata, il keynote di Kenneth Carter,  ricercatore di WIK Consult. Si è trattato di un’occasione preziosa per aprire alla discussione un elemento, quello della neutralità della rete, finora sottovalutato, eppure destinato a giocare un ruolo primario nello sviluppo dell’infrastruttura di internet. Che al momento sia impossibile per gli ISP internalizzare l’intero frutto dei propri investimenti, è pacifico. Come reperire, dunque, le risorse per gli investimenti, se non attraverso una più equa ripartizione dei ricavi? Il conflitto tra operatori e produttori di contenuti sembra sul punto di scoppiare, ed il rischio è che la partita si giochi a palazzo piuttosto che sul mercato. Tra le molte osservazioni ragionevoli di Carter, voglio – senza, credo, forzare il suo punto di vista – citarne una: per un bilanciamento degli interessi in gioco, è essenziale che il mercato sottostante si mantenga concorrenziale. Solo così possiamo garantire che la libertà della rete non venga sacrificata sull’altare della sua neutralità.

11
Giu
2009

Tutta la vita: evviva Margherita

L’Italia è paese ben singolare, se colei che ha messo in moto tutto ciò che ha fatto notizia nella recente campagna elettorale – chapeau giornalisticamente, comunque la si possa pensare,  alla Repubblica di Ezio Mauro, che è riuscita a imporlo a tutti –  a risultati delle urne proclamati prende la penna e scrive al Corriere che ha sempre amato Silvio Berlusconi. Quando lo sdegno privato si rende esplosivo fatto politico, pretenderne a effetti prodotti una tardiva riduzione al privato o è segno di resipiscenza, oppure ammissione di ingenuità. Non sta a me giudicare, ma solo notare che un accostamento mi è venuto spontaneo. In vicenda del tutto diversa, ma che a sua volta ci restituisce prova dell’imbarbarimento delle cosiddette “classi dirigenti italiane”, in materia scivolosa di “donne e potere”.

Mi riferisco alla nota emessa oggi dall’accomandita Giovanni Agnelli & co Sapaz, rispetto al deposito documentale effettuato dai legali di Margherita Agneli de Pahlen presso il Tribunale di Torno, nell’azione intentata verso Gabetti, Grande Stevens e  Mahron quali supposti materiali esecutori delle volontà testamentarie dell’Avvocato. È una vicenda sulla quale colpevolmente dichiaro di non aver scritto nel recente passato, per energica pressione su di me esercitata dal direttore del quotidiano al quale il mio LiberoMercato andava in abbinata. Egli era convinto che Margherita avesse torto, nel chiedere puntuale rendicontazione del patrimonio paterno. Io credo invece abbia tutte le ragioni, e conoscendo un minimo per alcune lontane  esperienze dirette le sue vicende familiari, tendo ad escludere tassativamente che la sua richiesta possa essere inficiata da qualunque considerazione in ordine all’andamento del titolo Fiat nel tempo, alle scelte finanziarie e industriali del gruppo, e tanto meno a qualsivoglia ipotetico dubbio sul ruolo di guida dell’accomandita assunto da suo figlio, John Jaki Elkann, per volontà esplicita dello stesso Avvocato.

La nota emessa oggi dall’accomandita accusa Margherita di gettare fango su Fiat proprio mentre essa con l’operazione Chrysler fortemente sostenuta da Obama assurge agli onori del mondo. E’ un’ accusa priva di sostanza e per molti versi intenzionalmente infamante. Gli sviluppi e le scelte di Fiat nulla hanno a che vedere con ciò che Margherita chiede da tempo gli sia chiarito, della consistenza patrimoniale paterna. Gabetti e Grande Stevens, per come conosco entrambi, possono benissimo aver anche deciso di essere fedeli interpreti delle volontà dell’Avvocato, mettendo in atto una strategia volta a garantire alla successiva guida operativa del gruppo il più delle sostanze accumulate dall’Avvocato.  Ciò non toglie che, in altri tempi e secondo un’altra concezione da quella oggi praticata in Italia di classe dirigente, alle domande della figlia avrebbe potuto e dovuto corrispondere altro atteggiamento, che quello della sdegnata replica la cui sintesi più estrema si racchiude nella sentenza “è una povera pazza”. In definitiva, la sentenza che l’accomandita chiede venga emessa dal Tribunale di Torino, sa Dio quanto veramente indipendente oggi dall’influenza del Lingotto, poiché storicamente lo è stato assai poco.

La vicenda, tra le altre,  sulla quale Margherita chiede chiarezza riguarda l’opa disposta oltre 10 anni fa su Exor da parte di una società appositamente creata dall’accomandita, opa che vide soci ignoti e schermati da società esteroversite incamerare quasi il 50% dei 2,6 miliardi allora corrisposti. Chiedere chiarezza non è oltraggio alla memoria di alcuno, né ostacolo di alcun tipo alla Fiat di oggi. Non  è solo pieno diritto di una figlia, ma contributo alla costruzione di un mercato meno opaco per tutti, e meno asimmetrico per i soliti noti. Tutta la vita, tra le due donne dolenti della vita pubblica italiana attuale, io dico: viva Margherita.

11
Giu
2009

La fotografia della crisi

Due notizie forniscono una interessante fotografia della crisi. Oggi, il ministero dello Sviluppo economico ha comunicato che i consumi petroliferi sono scesi dell’8,5 per cento. Si tratta dell’ottavo mese consecutivo di contrazione della domanda nel nostro paese. Punto più, punto meno, la stessa cosa sta accadendo ovunque nel mondo. Sebbene questi dati si riferiscano al solo petrolio (e prodotti raffinati), il messaggio che arriva dai consumi di gas ed elettricità sono identici: a testimonianza di un paese in paralisi, nel quale tutte le attività produttive sono in forte rallentamento, quando non in frenata o in retromarcia. Contemporaneamente, però, arriva una prima, buona notizia (anticipata, come spesso accade, dalla ripresa delle quotazioni del barile): dopo otto revisioni al ribasso, l’Agenzia internazionale per l’energia ha corretto al rialzo le stime sulla domanda petrolifera per il 2009. Anche in questo caso, si parla di greggio ma si potrebbe parlare benissimo di gas o elettricità; e si parla del mondo intero ma si potrebbe parlare benissimo dell’Italia. Read More

10
Giu
2009

Pax bancaria: Usa, Ue e Italia orano insieme S.Matteo

Lo ammetto, mi era sempre sembrata saggezza popolare di grana un po’ grossa, quella per cui Matteo l’evangelista – alias Levi “il pubblicano” – viene da duemila anni considerato protettore insieme degli esattori fiscali e dei banchieri. All’epoca, gli ebrei osservanti disprezzavano chi raccoglieva le tasse per conto del regime fantoccio sostenuto dagli occupanti romani. Versavano un anticipo a Roma, e poi si rivalevano prestando denaro a usura, si diceva ai loro tempi. Ma l’accostamento al banchiere diceva solo che nei secoli successivi – allora come in seguito, fino ai nostri tempi – l’opinione comune aveva continuato a considerare chi esercita il credito non meno arbitrario e vessatore dell’agente delle tasse.

Ora però, si capisce meglio che la fede popolare – capita spesso, assai più di quanto credano scettici e volterriani, secondo me – coglie nel segno. Nel senso che stiamo qui a imbrattar carta e occupare internet da un anno e più sulla crisi generata da un modello sbagliato e rischioso di intermediazione finanziaria, consentito e generato da scelte sbagliate della politica monetaria come da scelte sbagliate del legislatore e dei regolatori americani. Riempiamo volumi e convegni della necessità di una nuova svolta regolatoria, che impedisca ciò che in passato la regolazione aveva consentito. Ma si rivelano quasi tutte chiacchiere e distintivo, alla prova dei fatti che sono poi l’unica cosa a contare davvero. Allineo quattro novità appena maturate negli Usa come in Europa. Negli States, l’amministrazione Obama ha rinunciato al tanto sbandierato progetto di accentrare in una super Fed i poteri ispettivi sugli intermediari finanziari si qui divisi tra quattro regolatori diversi, a livello federale. All’Ecofin, il progetto di una vigilanza comune sui maggiori intermediari cross border continentali non ha ottenuto il consenso necessario, ieri. La Germania, cioè il Paese nel quale gli attivi bancari restano più tossici nel nostro continente, continua a difendere la linea per la quale nessuno ha titolo per condurre stress test agli istituti di credito tedeschi con risultati “pubblici”.   Lo Iasb, per parte sua, ha appena respinto l’appello a far presto, quanto  a nuovi criteri contabili e patrimoniali condivisi: se ne parla, se va bene, a fine anno, di conseguenza per il momento ogni Paese europeo concede alle banche di agire diversamente. E dire che il deleveraging bancario tra passività e capitale in Europa si sta sgonfiando assai meno rapidamente che negli Usa: vedi questa tabella tratta dall’ultima analisi comparata delle maggiori banche Usa ed Ue, a cura di R&S Mediobanca.

Negli States come in Europa la politica scommette sul fatto che, per scongiurare ogni residua paura sulla stabilità dell’intermediazione finanziaria, tanto vale a questo punto dire che tutto il necessario è stato già fatto. Dunque, nella sostanza bisogna “coprire” le banche senza più far polemica. Chi mi conosce, sa che ho sempre pensato che Larry Summers – l’artefice delle scelte regolatorie  sbagliate a metà anni 90 che hanno concorso a portarci alla crisi – non era cambiato, ma avrebbe semplicemente adattato ai nuovi tempi la sua funzione di ambasciatore dei grandi istituti presso una politica “prigioniera”, oltre che sprovvista dei fondamentali in materia.  Che avvenga anche in Germania, dove il sistema bancario è pubblico per due pilastri su tre, non sorprende. Che siamo invece arrivati al punto che avvenga anche nell’Italia del centrodestra, verbalmente tanto polemica verso le banche, un po’ sì. Ieri, al congresso dell’Acri, il professor Bazoli ha impartito la sua benedizione a Tremonti. E questi, seppellita la sua ascia di guerra in nome del fatto che occorre preservare il pieno sostegno delle fondazioni alla CDP riviando loro di tre anni la prevista conversione di obbligazioni ibride in azioni con la quale oggi avrebbero perso, ha attaccato non più le banche ma le partite Iva, che sono a suo giudizio troppe e nascondono evasione fiscale.

Banchieri ed esattori delle tasse, uniti oggi nella grande battaglia di reperimento risorse per rendere sostenibili le proprie passività. C’è chi lo fa con le obbligazioni bancarie piazzate allo sportello come in nessun altro paese Ocse, c’è chi lo fa con le obbligazioni della Repubblica. Il fine è eguale, il santo patrono pure. Non chiedetevi chi finanzierà negli Usa lo sforzo gigantesco per rendere Fiat-Chrysler pubblica profittevole, visto che di capitale fresco privato non ce n’è neanche da parte italiana. Ci penseranno le banche sottoposte al lending coatto del Tarp, obbedendo al Tesoro.

10
Giu
2009

Euro Right, euro wrong

Negli Stati Uniti le elezioni europee sono state accolte con un sospiro di sollievo da alcuni solitamente acuti commentatori “di destra” – in primis la sempre brillante Anne Applebaum su Slate e Washington Post.
Mi è tornato in mente come per anni ci siamo arrabattati nel cercare di spiegare, in Italia, le differenze di sfumature nel grande contenitore della destra americana. La distanza che separa Old Right e neo-conservatori sembrava (sembra) minima, vista dall’altra parte dell’Atlantico.
Ma anche negli Usa si fa fatica a capire che cosa è accaduto e sta accadendo in Europa. E si legge il patatrac dei partiti socialisti come un segnale che dà avvio a una stagione diversa.
Che dire? Magari! Le elezioni europee aprono da noi scenari per certi versi interessanti  (ne ha ben scritto Oscar Giannino), ma è tutta politica politicante, sono mosse di scacchi dei vari leader. C’entra poco costringere lo Stato massimo alla ritirata. Che non è nei piani di nessuno.
Per farla breve, credo che:
– i partiti “di destra” mainstream (da Sarzoky a Cameron) altro non sono che realtà gelatinose, per nulla permeate dai principi del mercato, assolutamente determinate a restare ancorate ai “principi” (scusate le virgolette, è più forte di me) della social-democrazia, infiocchettati da economia sociale di mercato. Siamo al paradosso: per Erhard e company, il “sociale” era marketing per “vendere” il mercato. Ora usiamo il mercato come artificio di marketing, per sdoganare a destra il “sociale”!
– il grande successo dei partiti estremi non dice nulla di nuovo. Non è una notizia che una crisi economica dia spazio a forze politiche che capitalizzano la paura e l’incertezza. Ma non saranno certo loro, a frenare l’espansione dei pubblici poteri.

9
Giu
2009

Monti per e diviso Tre

Sul Sole 24 Ore di oggi, due anticipazioni dal prossimo Aspenia: Giulio Tremonti e Mario Monti, un tempo avversari ora sostanzialmente sulle stesse latitudini. Quale dei due sia finito per convergere sulle posizioni dell’altro, è ovvio e cosa non imprevedibile per chi li guardi con attenzione, anche se di lontano. Già Commissario a Bruxelles, per il Presidente della Bocconi l’europeismo è un valore irrinunciabile. Ciò a cui invece si può tranquillamente rinunciare è l’Europa. L’Europa intesa non come macchina burocratica, ma come esperienza storica fondata sul pluralismo, sul gusto della libertà nella sperimentazione istituzionale, sui principi del mercato. Fra l’Europa di Adam Smith e l’Europa di Colbert, Monti ha una preferenza costante: gli sta bene l’Europa che ha più probabilità di vincere, in un particolare momento nel tempo. “Mercato quando possibile, Stato quando necessario” è slogan tre-montiano montianamente adattabile in pluralismo quando possibile, armonizzazione quando necessario, libertà quando possibile, schiavitù quando necessario, eccetera, in un’orgia di atteggiamenti pseudo-pragmatici che trovano in quella che ci viene ancora dipinta come l’illusione generosa della generazione post-bellica: l’europeismo, un’utile foglia di fico. Non si riesce in altro modo a commentare affermazioni come la seguente:

L’Unione è stata costruita come soggetto d’integrazione fondato su uno zoccolo duro, che è appunto l’integrazione di mercato. Oggi, però, l’economia di mercato versa in una grave crisi, una crisi di sistema e globale. Allora ci si deve porre una domanda: potrà andare avanti la costruzione europea, visto che è fondata su un sistema in crisi?

Detto altrimenti, franza o spagna purché se magna, mercato o Stato purché Europeo. La quadratura del cerchio sarebbe quella “economia sociale di mercato” che avrà tanti difetti, ma che – difendiamo i “cugini che sbagliano” Roepke etc – non era mica la schifezza di cui parla Monti. Per il quale “economia sociale di mercato” è semplicemente sinonimo di social-democrazia. Una social-democrazia per giunta rafforzata da un controllo “fiscale” internazionale, che sgomini i paradisi fiscali. Perché? L’ex Commissario alla concorrenza dimostra una volta di più quello che da queste parti si è sempre sospettato. Cioè di credere nelle virtù della concorrenza talmente poco, da voler sottrarre alla concorrenza la produzione di beni pubblici in capo agli Stati, e il momento in cui per quei “beni pubblici” si è costretti volenti o nolenti a pagare: il prelievo fiscale.

Avere affrontato il tema dei paradisi fiscali in sede di G-20 è stata certamente un’opera meritoria e importante. Ma iniziative utili per combattere l’evasione fiscale sono insufficienti per contrstare l’elusione legale. La realtà, infatti, è che ciascuno dei paesi dell’Unione Europea, o del G-20, funziona per certi versi da paradiso fiscale per i residenti degli altri.

Poche righe più in là Monti chiarisce da dove gli venga il sogno sotteso a frasi terrificanti come queste, che auspicano di fatto la fine della concorrenza istituzionale in Europa, che poi significherebbe l’eclissi della parte più positiva del processo di unificazione, quella legata alle libertà di movimento: che senso ha potersi muovere, se ovunque vado il panorama è sempre quello? Il sogno di questa orwelliana piallatura delle differenze gli viene dal fatto che negli anni scorsi le “economie sociali di mercato” hanno dovuto – purtroppo! – “avvicinarsi alle economie anglosassoni” (dove Monti è bizzarramente convinto che lo Stato sociale non esista, ignorando che, ahinoi, si potrebbe semmai sostenere che proprio nelle economie anglosassoni è stato inventato…), più parche nei prelievi e generalmente per questo capaci di attrarre capitali e fare crescere più rigogliose le proprie imprese. Insomma, la concorrenza istituzionale fa male perché ci obbligherebbe ad abbandonare il nostro “modello sociale”. Tesi che avete già letta nel libro del Monti moltiplicato per tre. Il quale se non altro è intellettualmente abbastanza sincero e schietto da non voler contrabbandare la rivolta contro la concorrenza fra ordinamenti (perché che la concorrenza fra ordinamenti si combatta coi dazi o con un coordinamento fiscale o normativo internazionale, è questione di mezzi ma non di fini, che sono identici) come una “difesa” del mercato unico europeo. Difesa da che? Dai principi sui quali esso stesso è stato fondato?

Consiglio vivamente la lettura di tutto l’articolo di Monti. A suo modo, è esemplare. Raramente infatti si hanno esiti più deludenti di quando un intellettuale scalpita per fare il politico, o di quando un politico gioca a fare l’intellettuale. Monti unisce le inadeguatezze dell’intellettuale che ambisce a fare politica, cosa che originariamente era, a quelle del politico che scalpita per darsi un tono da intellettuale, cosa che ora è.  Coerentemente con un profilo molto diffuso nelle nostri classi dirigenti. Il centauro con le gambe d’uomo e la testa del cavallo.

9
Giu
2009

Robin Tax. Evidenza dall’Alaska

L’Alaska ha introdotto la sua “Robin Tax” – sotto forma di un’imposta progressiva sulla produzione di idrocarburi – nel 2006, e l’ha inasprita l’anno successivo. In pratica, l’aliquota – prima 20, ora 25 per cento – si applica sia sul petrolio che sul gas convertito in barili equivalenti di greggio. Inoltre, una volta superata una certa soglia (40 dollari nel 2006, 30 dollari al barile dal 2007) essa cresce a un tasso dello 0,4 per cento (inizialmente era 0,2) per ogni dollaro di aumento delle quotazioni del barile. Sugli ultimi due numeri di Oil & Gas Journal (qui e qui, subscription required) Dan Dickinson e David Wood ne valutano i risultati. Read More

9
Giu
2009

Postvoto: Brunetta, Formigoni, Scajola

Per chi fosse eventualmente interessato a un mio commento sul turno elettorale, lo trovate qui, in forma di dieci domande che il risultato pone a tutti i maggiori attori della politica italiana. Non mi sorprende che Berlusconi si sia subito defilato dall’ipotesi di sostenere il referendum elettorale – io sono nel comitato promotore –  poiché, alla luce dell’esito delle urne, non irritare la Lega in vista dei tanti ballottaggi ancora aperti ai suoi occhi supera di gran lunga la convenienza di una prova di forza in senso bipolar-bipartitico. Al contrario, a me tale spinta sembra ancor più essenziale, di fronte alle tendenze centrifughe manifestatesi nelle urne, con voti in uscita e astenuti a milioni tanto dal Pd che dalla Pdl.

Ma qui occupiamoci invece delle prime reazioni che al voto si manifestano nella politica economica. Telegraficamente, ne segnalo tre. Il più lesto a reagire è stato, come al solito, l’ipercinetico ministro Brunetta. Alla giornata dell’innovazione, che si tiene stamane in Confindustria, ha secondo me giustamente dichiarato che la cosa migliore per il governo sarebbe quella di mettere subito mano a un programma straordinario in cento giorni, mirato a innalzare la produttività non solo attraverso interventi che sono di competenza del ministro stesso – come la digitalizzazione della PA – ma che astutamente Brunetta ha indicato invadendo competenze altrui, candidandosi a stimolo della compagine. La liberalizzazione e privatizzazione delle public utilities locali è solo un esempio, ne ha fatti altri. Dubito che gli daranno retta: fatto sta che Brunetta cerca di tirarsi fuori dalla morta gora del “non è tempo di riforme”. Secondo me, ha ragione.

Apparentemente, il risultato alle europee  rafforza la candidatura alla presidenza dell’assemblea di Strasburgo avanzata dalla Pdl, per l’onorevole Mauro. In realtà i tedeschi della Cdu-Csu, che hanno tenuto onorevolmente la posizione contenendo le perdite ma tradizionalmente in Europa pesano più della sezione italiana del PPE, pare abbiano già chiuso da tempo un patto di ferro a favore del candidato della Polonia, Paese che considerano una sorta di cortile interno della propria delocalizzazione. Se la preferenza per Jerzy Busek dovesse risultare confermata e Berlusconi non volesse avventurarsi in una rischiosa prova di forza, allora aumenterebbero le possibilità per un portafoglio italiano nella prossima Commissione europea ben più sostanzioso dell’attuale, i Trasporti affidati ad Antonio Tajani quando la rischiosa vicenda Cai-Alitalia batteva alle porte. La Lega vorrebbe intensissimamente che fosse Roberto Formigoni, il candidato  italiano a un importante incarico nella Commissione. Ma tale scelta aprirebbe fin dal prossimo autunno una partita molto delicata, tra Pdl e Lega per guida ed equilibri in Lombardia, la Baviera italiana per peso economico e civile.

Da altri autorevoli ambienti, possiamo anticipare sin d’ora che a Silvio verranno suggerimenti diversi. Perché non mandare alla Commissione eventualmente Claudio Scajola, aprendo spazio per una modifica nella cabina di regìa della politica economica governativa? Al di là della buona volontà – per esempio sul nucleare – sinora Scajola ha dovuto far buon viso a tutte le severe limitazioni intervenute a stanziamenti, programmi e politiche che insistevano precedentemente sulle Attività produttive.  A mio giudizio l’esatto contrario di un danno, per la sfiducia che nutro in genere verso le “politiche industriali”, compresa quella “Industria 2015” varata da Bersani nella precedente legislatura, oggi fortemente ridimensionata. Ma la maggioranza la pensa diversamente, sia in ambo gli schieramenti politici che tra le categorie economiche. Tremonti no. Occhio, che per Silvio viene una fase in cui la concretezza conta più delle polemiche, per tentare di farle dimenticare.

7
Giu
2009

Fiat-Chrysler, vinta la scommessa sui media italiani

In aggiornamento della scommessa fatta ieri su Fiat-Chrysler: scommessa vinta, purtroppo. Nessun giornale italiano ha pubblicato una sola riga sulla battaglia legale dell’avvocato Thomas Lauria e dei fondi d’investimento e pensione da lui rappresentati, contro Fiat-Chrysler, né il lettore italiano ha trovato un solo cenno alle mail scambiate da consulenti e dirigenti di primo piano della Chrysler con la task force dell’auto dell’Amministrazione americana, anch’esse tutte contro Fiat. Abbiamo letto del piano terra al quale Marchionne vuole prendersi l’ufficio in Chrysler, per poter più agevolmente fumare ogni tanto in cortile, e del fatto che mangerà alla mensa dei dipendenti: questo sì, ma delle mail traboccanti scetticismo dei manager Chrysler verso l’azienda torinese, neanche una riga.
Nel frattempo, Lauria non ha aspettato le la scadenza del termine previsto per il pomeriggio di domani, e si è appellato alla Corte Suprema. Vedremo se essa si adeguerà alle considerazioni di rinunciatario realismo del giudice di merito di prima istanza, Arthur Gonzales, che in buona sostanza aveva deciso che in un chapter 11 a forte garanzia di capitale pubblico, come questo, l’Amministrazione prevaleva sulle norme di diritto positivo che tutelano creditori e obbligazionisti… Con ogni probabilità anche domani, vista l’alluvione di dati sul voto europeo, l’attenzione della stampa italiana sarà dirottata altrove. Magari ce la si caverà con qualche breve nelle pagine di economia. I criteri con i quali sono confezionati i giornali di questi tempi sono del resto assai singolari. Il Corriere di De Bortoli oggi apriva sul “fine ricreazione” decretato ieri dalla Marcegaglia, al termine di una campagna elettorale tra le più scombiccherate e volgari della storia italiana, e dedicava le prime pagine del giornale alla sferzata confindustriale. Caricandola, con un po’ di consapevole malizia, di un sapore critico verso Berlusconi probabilmente superiore alle intenzioni della Marcegaglia stessa. Il Sole 24 ore, quotidiano della stessa Confindustria, per converso non ne faceva alcun cenno, della pur energica dichiarazione della Marcegaglia. Vattelapesca perché, più realista del re. Per rifarvi la bocca, leggete lo strepitoso George Will sul Washington Post di oggi, qui. Sulle pretese di salvare GM da parte dell’azionista che ha fatto perdere 23 miliardi di dollari ad Amtrak dal 90 ad oggi, e sul fatto  che il too big to fail si applichi a un’azienda che l’ultimo giorno prima della decisione governativa capitalizzava in Borsa un undicesimo della scassatissima Harley Davidson, è imperdibile. Avercene, sui giornali italiani.