16
Ott
2019

Web tax: il prezzo è giusto?

In un’antica freddura cara ai cultori del diritto, un uomo entra in una libreria di Londra per acquistare una copia della costituzione francese, salvo sentirsi rispondere dall’affranto libraio: «sono desolato, non vendiamo periodici». Il motto di spirito torna alla mente – si parva licet – a proposito della famigerata web tax, ormai giunta alla sua sesta o settima iterazione da quando, nel 2013, affiorò per la prima volta nel dibattito pubblico italiano: e il tutto, si badi, senza neppure entrare in vigore.

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7
Ott
2019

I dazi USA e la WTO

di Dario Ciccarelli

I dazi USA ci dicono che il mercato è ormai globale e che la sua disciplina non viene dall’Unione Europea ma dalla World Trade Organization

Perché gli USA impongono dazi aggiuntivi su prodotti italiani nonostante l’Italia non sia coinvolta in Airbus? Dunque esistono norme internazionali sugli aiuti alle imprese a cui anche l’Unione Europea deve sottostare? Perché l’Unione Europea non si adegua agli ordini dei giudici dell’Organizzazione Mondiale del Commercio? Per l’Italia le norme del mercato vengono dall’UE oppure dall’Organizzazione Mondiale del Commercio?

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30
Set
2019

Coldiretti ama il protezionismo italiano ma non quello americano

Nel corso del weekend appena terminato, una parte consistente del popolo di Coldiretti (migliaia di allevatori, casari, stagionatori, gastronomi e consumatori) si è riunita presso il Villaggio Coldiretti di Bologna per celebrare, come viene riportato sul sito dell’associazione agricola, “le ragioni del successo del made in Italy”.

Tra un’attività e l’altra (i presenti hanno, ad esempio, potuto ascoltare alcune personalità istituzionali come il Presidente del consiglio Giuseppe Conte oppure degustare olio extravergine, vini e birra agricola), dal Villaggio Coldiretti si è levato l’allarme riguardante i dazi che l’amministrazione Trump ha intenzione di introdurre nei confronti di molti prodotti agroalimentari italiani nel caso in cui nella giornata di oggi, lunedì 30 settembre, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) decida di accettare la richiesta statunitense di imporre nuovi dazi a seguito della vicenda Airbus.

Ricapitoliamo però rapidamente il perché di questa decisione da parte dell’amministrazione Trump. All’inizio di quest’anno, il WTO ha emesso una sentenza definitiva che autorizza gli Stati Uniti ad imporre dazi sui prodotti provenienti dall’Unione Europea dopo aver stabilito che Airbus (azienda europea che attualmente è il più grande produttore di aerei civili al mondo) ha ottenuto per anni sussidi illegali da parte di alcuni governi europei. Proprio oggi, i giudici del WTO dovrebbero esprimersi in favore degli Stati Uniti (dopo una battaglia legale durata oltre 15 anni), stabilendo che l’Amministrazione Trump, se vorrà, potrà chiedere un “risarcimento” pari fino a circa $8 miliardi di dollari.

Ovviamente Trump, che come abbiamo avuto modo di scoprire ama particolarmente l’arma commerciale dei dazi, ha deciso di non farsi sfuggire questa ghiotta occasione. Questa mossa rischia però di far aumentare la tensione commerciale tra Stati Uniti ed Unione Europea, che nonostante qualche piccolo progresso, non sono ancora riusciti a raggiungere accordi sostanziali per ridurre le barriere commerciali. Inoltre, la vicenda Airbus è strettamente legata alla vicenda Boeing (rivale americana di Airbus). Tra circa 9 mesi infatti il WTO si dovrà pronunciare sul fatto che gli Stati Uniti abbiano supportato illegalmente Boeing. A quel punto l’Unione Europea potrebbe imporre ulteriori dazi sugli Stati Uniti. Il tutto, poi, non deve farci dimenticare le minacce dell’amministrazione Trump di imporre dazi sul settore automobilistico europeo.

Tutte queste tensioni commerciali tra Stati Uniti ed UE ci fanno capire quanto lontani siano i giorni in cui si parlava in modo insistente di TTIP, accordo commerciale ai tempi molto criticato sia da Trump (il quale si ritirò dalle negoziazioni immediatamente dopo essersi insediato alla Casa Bianca), sia – per quanto riguarda l’Italia – da Coldiretti.

Coldiretti lamenta, in particolare, il fatto che i nuovi dazi americani sui prodotti agroalimentari italiani siano ingiusti perché, in fondo, Airbus è un azienda gestita da francesi, tedeschi, spagnoli e britannici. Siccome l’Italia non partecipa nella realizzazione di Airbus, Coldiretti ci spiega che i prodotti italiani non devono essere colpiti dalle misure protezioniste americane.

Se da un lato la posizione di Coldiretti ha anche un minimo senso logico, dall’altro questo atteggiamento risulta essere molto curioso e per certi versi buffo. Coldiretti, infatti, si è recentemente sempre contraddistinta per la sua forte opposizione a tutti gli accordi commerciali promossi dall’Unione Europea (basti pensare all’accordo con il Canada, il CETA, o appunto allo stesso TTIP o anche all’ingresso di olio tunisino in Italia). Coldiretti si è dunque sempre opposta all’idea di avere scambi più liberi nell’ambito del settore agroalimentare italiano.

Nascondendosi dietro la scusa della protezione del “Made in Italy”, Coldiretti ha sempre mantenuto un atteggiamento altamente protezionista, promuovendo anche forti pressioni sui vari governi italiani in tal senso. È strano e curioso che in questi giorni, sempre con la scusa della protezione del “Made in Italy”, Coldiretti invochi la pietà di Washington. È altrettanto curioso e buffo vedere che Coldiretti capisca solo in questo preciso istante che i dazi commerciali fanno male all’Italia.

Forse, anche alla luce dei dati provenienti dalla CIA (altra grossa associazione agricola Italiana) riguardanti il CETA, Coldiretti dovrebbe iniziare a promuovere un pensiero meno ipocrita e meno mercantilista quando si parla di commercio internazionale. Stando alle più recenti statistiche sul CETA, infatti, la CIA riporta che nella prima metà del 2019, la crescita dell’export agroalimentare nazionale sul mercato canadese è stata del 16%, quando a livello mondiale l’incremento per lo stesso periodo, è stato molto più contenuto e non oltre il 5%.

In attesa dell’imposizione di questi nuovi dazi americani che dovrebbero colpire anche i nostri prodotti agroalimentari e che rischiano di far precipitare il consumo di alcuni di questi beni di circa l’80%-90% (ovviamente questi dazi avranno delle ricadute negative anche sui produttori e consumatori americani), l’auspicio è che Coldiretti decida di iniziare ad opporsi anche alla retorica protezionista italiana. Visto il nostro vantaggio comparato nel produrre ed esportare prodotti agroalimentari rispetto alla stragrande maggioranza delle altre nazioni (nel 2017, ad esempio, il settore agroalimentare ha fatto registrare una fatturato di oltre €135 miliardi di euro, con esportazioni pari a €32 miliardi di euro, importazioni pari a oltre €22 miliardi di euro ed un numero di addetti del settore superiore alle 385 mila unità), una maggiore apertura verso il mercato internazionale non farebbe altro che migliorare le condizioni economiche dei nostri produttori e anche dei consumatori italiani.

27
Set
2019

La demonizzazione dell’uso del contante

di Carlo De Filippis

Premessa
Il tema dell’uso del contante è rilevante, denso di significati e rinvia a orientamenti culturali profondamente radicati e a pregiudiziali ideologiche non esplicitate che riguardano solo marginalmente e strumentalmente la dimensione tecnico-operativa (il pagamento, la contabilizzazione e l’adempimento fiscale), dal momento che le finalità dichiarate non coincidono con quelle effettive. Dunque, si tratta di orientamenti e pregiudiziali da riconoscere, analizzare criticamente e “rottamare”. E’ utile, in questa prospettiva, la ricostruzione di premesse e precedenti di consolidate posizioni in materia.

I precedenti dell’URSS e della DDR: l’amnesia della sinistra di governo
Ad affrontare per primo e in modo radicale l’argomento della limitazione dell’uso del contante è stato, nel secolo scorso, Vladimir Ilic Uljanov Lenin. Subito dopo la rivoluzione di ottobre, nel periodo del cosiddetto comunismo di guerra, Lenin e il partito bolscevico hanno adottato provvedimenti drastici per controllare e limitare la circolazione della moneta.
Il progetto di Lenin era organico ed esplicito. Egli aveva ben capito che tra circolazione della moneta e capitalismo esiste un rapporto consustanziale e che quindi la limitazione della prima contribuisce alla messa in discussione dell’intero sistema economico-sociale.
Il contrasto e la repressione della piccola impresa e del commercio costituivano, nella prospettiva rivoluzionaria bolscevica, un primario punto di attenzione e impegno, sulla base della fondata convinzione che dalle piccole attività autonome potesse trarre incessantemente alimento lo spirito del capitalismo. Tra i comunisti sovietici, aveva ampia diffusione, in quel periodo, l’idea della sostituzione definitiva del sistema di pagamenti in moneta con un sistema di registrazioni contabili controllato dallo Stato. L’ossessione per la tracciabilità delle operazioni commerciali e finanziarie, l’avversione per la circolazione della moneta e la diffidenza per ogni tipo di lavoro autonomo vengono da quell’esperienza originaria.
Queste cose occorre dirle, per onestà intellettuale e completezza d’informazione. E occorre pure ricordare che l’idea della tracciabilità, presentata oggi come un’importante innovazione sociale, è stata concepita e utilizzata ampiamente, nella seconda metà del secolo scorso, fino a diventare un vero e proprio paradigma universalistico di progettazione e controllo sociale, nella DDR (Repubblica Democratica Tedesca) di Eric Honecker. Il modello di controllo sociale al quale sembra fare riferimento, consapevolmente o inconsapevolmente, quella parte della sinistra italiana che richiede, col pretesto della lotta all’evasione fiscale, norme sempre più restrittive in materia di utilizzo del contante e l’incremento a dismisura dei controlli dello Stato su economia e società civile, assomiglia molto a quello adottato nella DDR.
Tra i sistemi totalitari europei, quello della Germania Orientale (sovietico all’inizio ma tedesco nel suo sviluppo) si è distinto, al punto da diventare una sorta di archetipo, per lo sforzo spasmodico nella trasformazione della vita individuale in questione amministrativa e per l’impegno sistematico e paranoide dello Stato nel controllo e nell’abolizione della sfera privata dell’esistenza.
Non occorre ricorrere a Michel Foucault o a Hannah Arendt per realizzare che l’applicazione estensiva alle relazioni sociali del concetto di tracciabilità da parte dello Stato tende a generare disastri in termini di rispetto della democrazia, delle libertà individuali e della persona umana.

Restrizioni all’uso del contante e finanziarizzazione forzosa dei rapporti sociali
L’imposizione coercitiva del ricorso al circuito bancario (bonifici, carte di credito, ecc.) nelle transazioni finanziarie che oltrepassano il limite di mille euro (poi portato a tremila) ha costituito un intervento senza precedenti dello Stato sul mercato: Monti e il suo leale alleato Pierluigi Bersani hanno costretto i cittadini ad utilizzare a proprie spese i servizi di un soggetto privato, le banche, per agevolare – è stato detto – il contrasto di comportamenti devianti di alcuni.
Si tratta di una caratteristica distintiva della situazione italiana: in nessun altro Paese lo Stato è arrivato a costringere milioni di pensionati ad aprire un conto corrente bancario per poter riscuotere la pensione. Circostanza prontamente sfruttata da Equitalia per pignorare gli assegni pensionistici con l’argomentazione che essi costituiscono, una volta accreditati, risparmio.
Al di là degli enormi vantaggi immediati in termini di commissioni e valuta (aspetto importante ma tutto sommato secondario), il sistema bancario, gestendo monopolisticamente e talvolta rallentando artatamente i flussi monetari, si appropria di fatto della massa monetaria circolante e ingenera artificiosamente bisogni di credito nel senso che gli operatori economici possono essere costretti a ricercare il credito delle banche per ovviare ai ritardi nel trasferimento e nella messa a disposizione del denaro provocati dalle banche stesse.

Statalismo, digitalizzazione e democrazia
Peccherei di ingenerosità e strumentalità se, avendo richiamato sinteticamente le posizioni di Lenin e dei rivoluzionari sovietici in materia di circolazione della moneta con l’obiettivo di sottoporre a critica le posizioni attuali della sinistra italiana di governo sul medesimo argomento, non facessi una puntualizzazione: nell’URSS, si diede corso a un’operazione di trasformazione sociale straordinaria e tragica che ha contrassegnato, nel bene e nel male, la storia del secolo scorso. Invece, nelle posizioni della sinistra nostrana su tracciabilità e uso del contante, di epocale e trasparente mi sembra vi siano solo un ipocrita silenzio sull’origine di determinate idee e una mistificazione (il contrasto dell’evasione fiscale come foglia di fico)
Sullo sfondo, intravvedo uno statalismo che – depurato, frettolosamente e senza elaborazione critica, di elementi ideali e valoriali propri della tradizione comunista e socialista – non si distingue da quello, di caratura intellettuale più elevata ed esplicitamente totalitario, del filosofo Giovanni Gentile.
Di veramente nuovo sembra esservi solo l’enfasi sulla digitalizzazione che, tuttavia, calata autoritariamente dall’alto, senza partecipazione e controllo democratico dei cittadini, e coniugata spregiudicatamente con la dilatazione a dismisura della dimensione finanziaria, può non solo risolversi in una notevole complicazione dell’esistenza ma contribuire al processo d’implementazione d’un sistema di controllo totale e soffocante dello Stato e dei suoi apparati, nonché del sistema finanziario stesso su persone, famiglie e imprese.
In conclusione, di fronte alla combinazione in corso di elementi di socialismo reale (vecchie novità spacciate magari per innovazioni tecniche neutrali) e di finanziarizzazione forzosa dei rapporti sociali, si può affermare risolutamente, in riferimento all’esperienza storica e sulla base di analisi critica circostanziata, che l’umanità ha già dato. La trasformazione dell’individuo in articolazione periferica dello Stato è un dato significativo ma in fin dei conti non nuovo e meno saliente della contestuale mutazione antropologica rappresentata dalla sua riduzione tendenziale alla dimensione digitale e alla sua espressione finanziario-contabile.

23
Set
2019

Una costosissima illusione

1.000 miliardi: è la somma spesa dai governi dell’area UE e dall’Unione stessa, tra 1995 e 2016, per sussidiare le ferrovie, a discapito delle alternative (automobili e aerei), che sono state, invece, iper tassate. Proprio in questi ultimi giorni, diversi governi europei stanno discutendo l’introduzione di nuove tasse sul trasporto aereo, in modo da disincentivarne ancor di più l’utilizzo a vantaggio dei treni: è il cosiddetto “cambio modale”. Buona parte degli economisti e degli accademici concordano, infatti, da decenni, sulla generale efficacia di sussidi e tasse per, rispettivamente, incentivare e disincentivare determinati comportamenti. Negli ultimi anni ha anche preso piede e, di conseguenza, trovato maggior adesione la cosiddetta “economia comportamentale” per cui Richard Thaler ha addirittura vinto il Premio Nobel per l’Economia nel 2017. Quest’ultima si configura praticamente come corollario ai concetti di microeconomia sviluppati dai predecessori secondo cui, per l’appunto, l’intervento – più o meno vistoso – dei governi può spostare nella “giusta” direzione le scelte dei singoli individui e della società nel suo complesso.

Gli economisti, in ogni caso, hanno sempre riconosciuto che misure fiscali come sussidi e imposte sono economicamente svantaggiose, in quanto interferiscono col “meccanismo” di incontro tra domanda e offerta, diminuendo – o, comunque, distorcendo – il numero di “scambi” che avverrebbero in assenza di interferenze e, quindi, allocando malamente le risorse disponibili: il che genera uno spreco di quest’ultime (a meno che non vi siano esternalità: solo in questo caso la riduzione degli “scambi” può evitare di sprecare risorse). Ora, come fa notare Francesco Ramella), queste misure – oltre a generare una perdita per la società – provocano un ulteriore danno, in quanto non raggiungono neanche gli obiettivi prefissati. Come si vede dai due grafici elaborati da Ramella, utilizzando i dati sull’evoluzione della domanda nel trasporto di merci e persone, i sussidi al settore ferroviario e la tassazione elevata su auto e voli non hanno causato alcun notevole cambiamento nelle scelte di individui e imprese.

A parte le contraddizioni etiche – essere eletti come rappresentante della cittadinanza e legislatore non rende gli eletti meno fallibili degli elettori, quindi nessuno può sapere quali siano le GIUSTE scelte da prendere – e i controsensi logici  – com’è possibile che i cittadini non siano abbastanza intelligenti per scegliere il giusto mezzo di trasporto (o il giusto cibo da mettere in tavola), ma lo siano abbastanza per votare e scegliere il prossimo governo che prenderà quelle decisioni al posto loro? – del paternalismo statale, questo dimostra soprattutto di non funzionare e di essere, soprattutto, una costosissima illusione. Non solo in questo caso: la storia è piena di esempi che rivelano quanto inutile e controproducente sia imporre qualche comportamento per legge. Basta guardare solo ai più recenti casi di proibizionismo: indottrinamento, educazione forzata e violenza non hanno eliminato, per esempio, lo spaccio, la detenzione e il consumo di droga.

Il caso qui analizzato è semplicemente l’ennesima dimostrazione del fatto che ciò che politici e legislatori pensano sia utile, giusto o meglio per i cittadini, non lo è. Spendere miliardi di euro dei contribuenti per incentivare scelte che poi non vengono rispettate, è un totale spreco di tempo e denaro. E’ giunto il momento, per la politica, così come per i movimenti che si battono per imporre determinate scelte sulla società, di realizzare che tali sforzi saranno sempre vani. Se si vuole che le persone cambino determinati comportamenti si deve cominciare a proporre delle alternative accettabili da una buona parte di essi, invece di forzarli a prendere decisioni che non condividono e che non replicheranno nel tempo. Siamo tutti esseri fallibili: nessuno  è in grado di comprendere quale siano le giuste politiche da adottare. Accettata la nostra imperfezione ed inadeguatezza, il passo successivo è realizzare che solo la possibilità di scegliere liberamente ci mette in grado, tramite un processo di “trials and errors”, di prendere – individualmente e, di conseguenza, collettivamente – le scelte migliori possibili.

9
Set
2019

Il Venezuela non sorride

di Paolo Squillaci

Cercate, se vi riesce, un ritratto ufficiale in cui Stalin non sorride, o almeno non abbia la faccia calma e placida, quella del vecchio zio che da piccolo ti portava in campagna a cercare le castagne. Se avete tempo e voglia di rivincita, fate la stessa cosa anche con Kim Il-sung e discendenti, Pol Pot, Mao, Ho Chi Minh, Fidel e gli altri simpaticoni che saltano alla mente. Mentre i dittatori di destra hanno storicamente la tendenza ad apparire marziali, quelli di sinistra di solito cercano di sembrare buoni e paciosi. Ricordate il manifesto in cui Stalin solleva allegro un bambino piccolo, anche lui al settimo cielo? Cose del genere. E questa è praticamente tutta la differenza tra un despota di sinistra e uno di destra.

Tutti i dittatori, come notava sagacemente Von Hayek, in fondo sono socialisti. A maggior ragione quelli che dicono di esserlo, e se ne vantano. Tipo? Tipo un certo Maduro. Ma se uno dovesse basarsi solo su i telegiornali e gli articoli di buona parte della stampa, direbbe solo una frase: “Ma no, Maduro non è un dittatore”. Più dittatore sembra, per esempio, Jair Bolsonaro del Brasile, che di recente è salito agli onori della cronaca per alcuni aspetti abbastanza curiosi della sua gestione degli incendi dell’Amazzonia brasiliana. C’è un tag per qualsiasi cosa, e dunque il nuovo #PrayForAmazonas da qualche giorno si staglia minaccioso contro il presidente eletto del Brasile; inutile dirlo, il cattivone è di destra. Non certo di destra liberale, ma si dichiara conservatore.

Ebbene, un altro signore che comanda giusto vicino a lui, Evo Morales, socialistissimo, il 9 luglio ha permesso l’incendio di una zona di circa 800mila ettari di foresta pluviale in sedici giorni (decreto n° 3973). E nessuno gli ha detto niente. Anche perché una fondazione ambientalista boliviana gli contesta la distruzione, in tredici anni, di sette milioni di ettari di Amazonas, per sostituire gli alberelli con torri di estrazione.

Di più: Maduro, il baffuto Maduro che per un certo partito (pardon, MoVimento…) non è così tanto cattivo come lo dipingono i media, solo in questo 2019 ha dovuto registrare, nel suo tratto di Foresta Amazzonica (meno dell’11% della superficie totale) oltre 26mila incendi; per sostenere el pueblo unito, il governo chiude volentieri un occhio sull’attività mineraria illegale. Sicuramente, i funzionari del partito che permettono queste cose non lo fanno per mazzette e regalie, ma nel superiore interesse del Venezuela e del popolo venezuelano. Come sono nell’interesse del popolo venezuelano le FAEN, le squadre della morte che ricordano agli anti-chavisti che la libertà di pensiero e di parola è una bella cosa, ma campare a lungo è anche meglio.

Come lo è accusare il presidente colombiano di “aggredire con minacce il territorio venezuelano”, salvo poi ospitare i guerriglieri delle FARC e, in questi ultimi giorni, portare le postazioni sul confine tra i due paesi al livello di allerta arancione.

Come lo è l’emergenza energetica nazionale, proclamata nel 2010, affrontata con l’unificazione e nazionalizzazione delle nove compagnie elettriche venezuelane e da allora mai conclusa, che sa tanto di presa in giro nel paese con più riserve di petrolio al mondo.

Come lo sono i CLAP (Comités Locales de Abastecimiento y Producción), il programma statale di distribuzione di generi alimentari, dove a mangiarci sono i grand-commis (vedi Alex Nain Saab Mora), non la gente comune, che della razione di cereali, latte, riso e prodotti in scatola adesso vede solo le briciole. Considerando che nel 2013 Maduro è stato premiato dalla FAO per la lotta contro la fame nel suo paese, è quasi un obbligo chiedersi con che razza di criteri vengano dati quei premi, visto che i CLAP sono di fatto uno strumento di controllo sociale bello e buono.

Chiediamocelo tutti insieme: perché alcuni dittatori, in Occidente, non sembrano dittatori, e altri sì? Perché alcuni sembrano la signorina Trinciabue di Matilda 6 mitica, e altri al massimo vengono ritratti come la signorina Rottermeier, un poco antipatici ma fondamentalmente benintenzionati?

La differenza è il colore della casacca: nero non va bene, rosso… sì, dai, in fondo un socialista è uno che lotta per i diritti del popolo. Anche se uccide, affama, sbatte in carcere senza processo, tortura e diffonde corruzione e inefficienza. Anche se, davvero, rossi o neri cambia molto poco, perché in fondo (neanche tanto in fondo) sono tutti nemici della libertà.

Prendete lo straordinario saggio di Daniel Yergin sul petrolio, Il premio. Vi si legge questa frase: “La tirannica dittatura del generale Gomez in Venezuela era terminata nel 1935, nell’unica possibilità che rimane quando tutto il resto ha fallito: la morte del dittatore. Gomez aveva lasciato un ostato di estremo disordine; aveva trattato il paese come proprietà personale esclusiva, un’azienda agricola gestita per arricchirsi. Gran parte della popolazione era rimasta povera”. Sostituite “generale Gomez” con “Nicolas Maduro”: c’è davvero tutta questa differenza?

Posso già dirvelo: nei ritratti ufficiali, il generale Gomez non sorrideva mai.

30
Ago
2019

Anche a scuola there is no such thing as a free lunch

Perché la Cassazione ha ragione sul panino in classe

Portarsi il pranzo da casa e rinunciare alla mensa scolastica è un problema giuridico? E in che misura sostenere che lo sia costituisce una limitazione della libertà individuale? Il dibattito inaugurato a fine luglio sulle colonne de Il Foglio ha offerto un’interpretazione soltanto parziale delle questioni che emergono dalla recente sentenza n. 20504/2019, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha negato che i genitori degli alunni delle scuole elementari e medie inferiori, anziché iscrivere i propri figli alla mensa scolastica, vantino un diritto soggettivo incondizionato a dotarli di un pasto domestico da consumare negli ambienti scolastici. Secondo i più accesi critici della decisione, lo Stato starebbe vietando agli studenti di nutrirsi come meglio desiderano e avrebbe loro imposto in via esclusiva il cibo della refezione, sempre più caro e di qualità scadente. In particolare, l’enfasi è posta su quella parte conclusiva della sentenza, in base alla quale «l’istituzione scolastica non è il luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l’utenza è connotato in termini puramente negoziali, ma è il luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità, come interpretati dall’istituzione scolastica». Da questa conclusione si trarrebbe, insomma, l’affermazione della prevalenza dell’elemento collettivo su quello individuale, che sarebbe confermata, del resto, anche dalla presunta soluzione al problema offerta dalla Suprema Corte, ossia che ciascun istituto scolastico (e non ciascuna famiglia), sulla base della propria autonomia organizzativa, decida come disciplinare il cd. tempo mensa e, quindi, le abitudini alimentari degli studenti.

In realtà, a partire da una questione piuttosto minuta, la sentenza stabilisce alcuni punti fermi nei rapporti tra genitori e istituzioni scolastiche che non necessariamente sono dettati da un’ideologia collettivista, ma, anzi, rispondono a principi di responsabilità, tipici di una società liberale. In primis, occorre sottolineare che la premessa dalla quale muovono i genitori e non la sola Cassazione è che il cd. tempo mensa sia parte del cd. tempo scuola, tesi interpretativa non così pacifica, ma essenziale per capire quali sono le posizioni in gioco. Questo significa che il momento dedicato alla refezione viene considerato anche dai ricorrenti un momento di pubblica istruzione e non un momento “libero” a essa estraneo. Inquadrando la refezione come momento formativo di socializzazione e condivisione rientrante nell’istruzione pubblica, i genitori – a loro dire – rivendicavano il riconoscimento di un diritto di libertà, ossia del diritto all’autorefezione individuale. Ma, in realtà, come evidenziato dalla Cassazione, ad essere da loro invocato era l’art. 34 della Costituzione nella parte in cui riconosce l’istruzione inferiore come gratuita. Essi pretendevano, cioè, che tale diritto all’autorefezione si esercitasse in maniera tale da tenerli indenni da qualsiasi costo, visto che, una volta rifiutata la mensa, essi non avrebbero certo inteso pagare null’altro all’istituzione scolastica. Ciò che veniva invocato non era quindi un diritto di libertà, bensì un diritto sociale per la cui realizzazione è richiesto l’intervento pubblico e non l’astensione dello Stato. L’obiettivo era, quindi, dotare i figli di un pasto domestico ed esternalizzare i costi in capo ai contribuenti per consentirne l’esercizio in uno spazio collettivo. Un’ipotesi di free riding bella e buona, come chi scrive aveva già cercato di mettere in luce in un saggio pubblicato nel 2017 dall’Osservatorio dell’Associazione Italiana Costituzionalisti (AIC) con un titolo assai evocativo: “There is no such thing as a free lunch”.

Ma quali sarebbero, per così dire, “le perdite” che i genitori vorrebbero socializzare per poter trattenere per sé stessi soltanto “i profitti”? Come è noto, l’organizzazione di un qualsiasi servizio (di refezione) è costosa: va verificata l’adeguatezza degli spazi, la disponibilità di personale per la vigilanza e per la pulizia, nonché la presenza di strumenti di refrigerazione o riscaldamento dei cibi. Si dirà: se i bambini che usufruiscono del pasto domestico mangiano accanto ai compagni in mensa, i costi vengono internalizzati e il problema in concreto proprio non si pone. Già, ma la possibilità che due servizi diversi vengano erogati contemporaneamente, uno a spese dell’altro, di problemi, invece, ne pone eccome. Innanzitutto di contaminazione di pietanze (tra cibi controllati e cibi non controllati) con eventuali profili di responsabilità civile non meglio delineati e tutti da accertare. Ma, soprattutto, occorre ricordare come le cooperative che ottengono l’appalto della refezione scolastica svolgano un servizio dettagliatamente disciplinato da un capitolato, in base al quale il personale non può che essere responsabile se non nei confronti di chi consuma il cibo offerto dalla cooperativa. Sarebbe, altrimenti, come decidere di organizzare quotidianamente un meraviglioso pic-nic gratuito sulla terrazza di un ristorante e pretendere che il personale dello stesso si incarichi di farci spazio e di pulire dopo che ce ne siamo andati. Non funziona così ed è inutile prendersela con la lobby dei ristoranti, se ci viene opposto un secco rifiuto! Se scegliamo il ristorante decidiamo consapevolmente di selezionare un piatto dal menù, altrimenti non andiamo al ristorante, ma restiamo a casa. Lo stesso principio – ricorda perentoria la Cassazione – si applica una volta optato per il tempo pieno. Le famiglie hanno, infatti, esercitato la loro libertà di scelta educativa, quella per il tempo pieno, un’offerta formativa che contempla anche il servizio mensa. Il pacchetto, per così dire, si acquista insieme e non è l’utente a decidere unilateralmente che cosa prendere e che cosa lasciare (se al ristorante non c’è la carne cruda tra gli antipasti non posso imporla allo chef, così come in hotel non posso avere la spa, se la struttura offre solo la piscina). Il punto è, quindi, che il menù, ossia la legislazione italiana, non prevede che al tempo pieno possa coincidere un tempo mensa organizzato diversamente rispetto al servizio di refezione o, quantomeno, prevede soltanto che siano le istituzioni scolastiche, nell’ambito della loro autonomia organizzativa, a dover decidere di accompagnare il servizio mensa con un altro servizio.

E allora agli utenti non resta che prendere ciò che passa al convento? Non esattamente. Innanzitutto, è sempre possibile l’opting out. Pur aderendo al tempo pieno, è pur sempre consentito prelevare da scuola i propri figli e dar loro da mangiare come si desidera (magari anche organizzando i loro pranzi comuni in una trattoria dell’angolo, come capitato in un istituto del torinese tempo fa), sicché la refezione scolastica non è affatto obbligatoria come si è letto in giro, pena – in questo caso sì! – la violazione del diritto dei genitori all’educazione dei propri figli. In alternativa, per chi decide di aderire al servizio mensa, l’ordinamento mette a disposizione una serie di strumenti partecipativi (le Commissioni mensa, ad esempio) attraverso i quali i genitori potranno influire sulle modalità di gestione del servizio. All’esito di tale procedimento, nell’ambito del quale si terrà conto degli spazi e dei costi di una diversa organizzazione, la singola scuola potrà, ma non sarà obbligata, a garantire il consumo del pasto domestico. Ciò che la Cassazione nega è, quindi, il diritto dei genitori di imporre l’organizzazione del servizio scolastico che più loro piace o fa comodo. La concorrenza, invece, si esercita tra scuole o meglio tra le diverse offerte formative disponibili e non all’interno di un singolo istituto scolastico, il quale non potrà essere obbligato ad adottare un certo tipo di sussidiario piuttosto che un altro, una diversa organizzazione dei corsi di recupero o una programmazione didattica che preveda più ore di educazione fisica piuttosto che di italiano. Così vale del resto anche nel settore privato, nel quale, una volta che l’utente abbia optato per un servizio, non potrà vantare il diritto di imporre al gestore una sua particolare erogazione, sicché la litania sul collettivismo, in questo caso, sembra davvero fuori luogo.

6
Ago
2019

Ecco come funzionano i dazi di Trump

il deficit aumenta e gli americani sono i primi a pagare

Nel corso di questi ultimi giorni si è tornati prepotentemente a parlare di dazi e di “guerra commerciale” tra gli Stati Uniti e la Cina. La Cina è però solo la “preda” principale delle politiche commerciali schizofreniche promosse dal Presidente americano. 


Da gennaio 2018 ad oggi, tra una minaccia e l’altra, l’Amministrazione Trump ha imposto dazi su una vasta gamma di beni. Il tutto iniziò il 23 gennaio quando i media statunitensi riportarono la notizia dell’introduzione di dazi su pannelli solari e lavatrici. Il 1 marzo 2018 fu il turno dei dazi su alluminio e acciaio. Il 23 marzo 2018, invece, iniziò ufficialmente la “guerra” contro il surplus commerciale cinese. 

Dopo ormai 18 mesi di dazi, è tempo di tirare le prime somme. In particolare è giunto il momento di effettuare un fact-checking sulle continue dichiarazioni e promesse di Trump. Nello specifico, sono tre i punti su cui vorrei soffermarmi. 

Prima di tutto, come già scritto in un recente articolo, la famosa promessa elettorale di ridurre il deficit commerciale americano non si è, fino ad ora, realizzata. Nonostante i numerosi dazi imposti su beni equivalenti ad un valore di centinaia di miliardi di dollari; le continue minaccie (ultima in ordine cronologico quella riguardante i dazi nei confronti del settore automobilistico europeo nel caso in cui le negoziazioni attuali con la Commissione Europea dovessero fallire o subito un rallentamento); la decisione di abbandonare immediatamente il tavolo dei negoziati TPP e TTIP; la realizzazione di un “NAFTA 2.0” più protezionista dell’accordo precedente ed il timido rinnovo dell’accordo commerciale con la Corea del Sud; il deficit commercial americano è in costante aumento. Tra gennaio e giugno 2019 il deficit commerciale americano di beni e servizi si è attestato a $316 miliardi di dollari contro i $293 miliardi dello stesso periodo del 2018 ed i $273 miliardi del gennaio-giugno 2017. 

Secondariamente, il gettito doganale raccolto è relativamente basso e mostra come la realtà sia molto più complessa di quella spesso raccontata via twitter dal Presidente Americano. Prendiamo come esempio il gettito raccolto dalla U.S. Customs and Border Protection (in italiano, Dogana e Polizia di Frontiera degli Stati Uniti; abbreviato in CBP) grazie ai dazi imposti sulle merci importante dalla Cina. Stando ai dati della CBP, tra il 6 luglio 2018 (giorno in cui la Casa Bianca ha iniziato ad imporre i dazi nei confronti della Cina in base alla così detta “Sezione 301”) ed il 24 luglio 2019, gli Stati Uniti hanno ricavato poco più di $22 miliardi di dollari da quelle aziende americane che importano beni dalla Cina. 

Questa cifra, che può sembrare alta, è in realtà una somma molto ridotta poiché non solo rappresenta, più o meno, lo 0,1% dell’intera economia statunitense, ma risulta essere inferiore anche rispetto ai circa $28 miliardi di dollari di sussidi che l’Amministrazione Trump ha promesso (e iniziato a far recapitare) agli agricoltori americani, colpiti dagli effetti negativi della “guerra commerciale” con la Cina stessa. Ecco qui il risultato per le imprese ed i cittadini americani: tasse più alte (i dazi sono semplicemente un tassa sulle importazioni) e maggiori sussidi ad una categoria, come quella degli agricoltori, già ampiamente protetta dal governo statunitense. 

Infine, è giusto raccontare anche di alcuni dei costi più generali delle politiche protezioniste volute dall’Amministrazione Trump.

Dazi più elevati sulle importazioni di prodotti cinesi e di altro tipo hanno aumentato i costi di produzione di decine di migliaia di aziende americane, grandi e piccole. Uno degli esempi migliori è dato da Caterpillar, famosa azienda metalmeccanica statunitense, che ha visto i propri costi di produzione aumentare di $70 milioni nell’ultimo trimestre e prevedere ora di dover pagare tra i $250 ed i $350 milioni di dazi quest’anno. Come riporta anche Reuters, Caterpillar ha deciso di rispondere a questi costi aumentando i prezzi sui consumatori. Walmart, storica multinazionale statunitense, proprietaria dell’omonima catena di negozi al dettaglio, si trova in una situazione simile e a maggio 2019 ha comunicato che i suoi consumatori inizieranno presto ad assorbire il costo dei dazi imposti contro la Cina. 

Un rapporto del Servizio di ricerca del Congresso pubblicato nel febbraio 2019 ha rilevato che i dazi imposti da Trump alle importazioni globali di lavatrici hanno aumentato i prezzi di quest’ultime del 12% rispetto a gennaio 2018, prima che le tariffe entrassero in vigore. Al tempo stesso, secondo uno studio del Peterson Institute for International Economics, le tariffe globali sulle importazioni di acciaio e alluminio hanno aumentato il prezzo dei prodotti siderurgici di circa il 9% rispetto all’anno scorso, aumentando i costi dell’acciaio di oltre $5,6 miliardi di dollari. 

Oltre a tutto questo, uno studio pubblicato pochi mesi fa della Federal Reserve di New York e delle prestigiose Princeton University e Columbia University evidenzia come i dazi commerciali imposti dall’Amministrazione Trump nel corso del 2018 sono costati all’economia statunitense oltre $19 miliardi. Visto l’inasprimento di queste politiche commerciali è facile prevedere che i costi per il 2019 saranno molto più elevati. Secondo il modello econometrico sviluppo dal Tax Foundation Center, i dazi imposti dall’amministrazione Trump riducono la crescita reale del pil a lungo termine dello 0,20%, i salari dello 0,13% ed eliminano l’equivalente di oltre 155 mila posti di lavoro a tempo pieno. Il tutto in attesa dell’introduzione di altre misure protezioniste. 

Ecco dunque come funzionano i dazi. Se da un lato queste specifiche politiche commerciali colpiscono indirettamente anche i partner commerciali; dall’altro i principali perdenti sono proprio le imprese, i consumatori e l’intera economia americana.

2
Ago
2019

Gli italiani e i soldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Avete presente lo spot di Mastercard: “Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard”? Ecco, forse si può partire da qui per provare a spiegare il complicato rapporto degli italiani con i soldi.

I soldi sono importanti, ma sono essenzialmente uno strumento. In Italia, invece, di soldi non si riesce a parlare in maniera serena. Ma perché? Fondamentalmente perché siamo rimasti – nelle nostre teste, negli atteggiamenti, nei comportamenti – una società preindustriale. Noi, in Italia, la rivoluzione industriale non l’abbiamo fatta, tantomeno l’abbiamo interiorizzata.

Nel mondo moderno i soldi sono fondamentalmente il mezzo utilizzato per scambiare i beni e i servizi e dare valore al lavoro necessario a produrli e/o a fornirli. E’ una questione tecnica, è più semplice pagare che scambiare, barattare le cose (così com’è diventato più agevole pagare con la carta di credito che con i contanti). E’ anche una questione di libertà, essendo le transazioni (ad esempio le cose che posso comprare e che voglio vendere) diventate notevolmente più facili e rapide.

Il denaro rappresenta poi il modo più immediato per attribuire valore al lavoro delle persone. Si tratta di un valore relativo, di mercato, ma come diceva Hayek i prezzi non sbagliano mai. Ricordo che quando Arrigo Sacchi divenne il nuovo allenatore del Milan di Berlusconi, a chi gli faceva notare che guadagnava un sacco di soldi rispondeva – suscitando più di qualche reazione moralistica – che i soldi erano appunto il modo per riconoscere l’importanza del suo mestiere (anche se poi aggiungeva che quel mestiere l’avrebbe fatto anche gratis).

Mediamente, invece, in Italia, i soldi sono in fondo visti come qualcosa di moralmente non del tutto accettabile. Meglio il settore del no-profit che le aziende che fanno bene il loro lavoro. Il denaro viene spesso disprezzato pubblicamente, anche se in privato molto meno. Chi guadagna tanto – ad esempio perché si è impegnato e sacrificato, perché è stato bravo o ha semplicemente particolari qualità – in genere non suscita sentimenti di emulazione, ma di invidia sociale (anche qui, tutti a deprecare gli stipendi milionari dei calciatori – o gli introiti dei Ferragnez – salvo poi essere abbonati a Sky e sperare di avere il figlio tra qualche anno in serie A o protagonista di un reality).

Insomma, il denaro da noi è una sorta di taboo sociale, oggetto di uno stupefacente meccanismo di rimozione collettivo: deplorato pubblicamente, molto meno in privato.

Se invece provassimo a riconoscergli l’importanza che effettivamente ha i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti sarebbero meno schizofrenici.

I soldi servono per rendere più semplici le transazioni; come corrispettivo per l’impegno, le capacità, l’ingegno e l’assunzione di rischio dimostrate sul lavoro; sono un fenomenale strumento di libertà, di giustizia e di progresso civile; l’accumulazione di capitali è necessaria – per il suo effetto moltiplicatore – per realizzare cose (strade, scuole, medicine, smartphone, ecc.) che diversamente non sarebbero mai diventate di questo mondo.

Solo se prendiamo finalmente coscienza di queste elementari verità ci potremo dedicare alle cose più importanti, che come ci insegna Mastercard non si possono comprare.