29
Giu
2009

Banche, previsioni e paradossi

Alessandro Profumo dichiara all’Handesblatt la propria soddisfazione per lo schema di supervisione finanziaria che si sta definendo in sede europea. Ho già espresso un’opinione assai diversa, sul confusissimo quadro compositorio che in materia si può intravedere nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo. In buona sostanza vale anche in Europa la regola che si sta affermando negli Usa: se i grandi banchieri si dicono soddisfatti delle cornici di supervisione su cui si affannano le liturgie europee qui e il oltreoceano il circuito Amministrazione-Congresso, allora bisogna pensare che le grandi banche ritengono di non aver molto da temere dei nuovi sviluppi. Contrariamente a quanto pensa la corrente politica dominante nel nostro Paese oggi, penso che sia meglio così. E lo dico pur essendo molto critico del sistema bancario. in nome del minore dei mali che possa derivare da cattive e invasive iperregolazioni, meglio banche che siano meglio in grado di tornare ad avere fiducia ognuna nei confronti delle altre, piuttosto del contrario. Ha ragione Gary Gorton, che insegna corporate finance a Yale e sottolinea come tutti oggi si occupino di supervisione ottimale, quasi nessuno di come rianimare il mercato repo, cioè quello interbancario a breve – usualmente overnight – che funziona proprio sullo scambio “liquidità per collaterale securitizzato”. Un mercato che valeva 10-12 mila miliardi di dollari in tempo reale, cioè momento per momento, sul mercato Usa prima della crisi. E che, per riavviarsi, ha bisogno di una nuova teoria e prassi della “collaterale considerato solvibile”: qualcosa che solo grandi banche e regolatori raffinati possono mettere a punto, lasciando nell’assoluta e più che auspicabile ignoranza i velleitari politici.

Cosa del tutto diversa è confrontarsi tra addetti ai lavori veri, su quale sarebbe il modello ideale verso il quale andare, in materia di Too Big to Fail, ratios di capitale et similia. Se fossi un contribuente americano, non sarei affatto felice di constatare che un quarto dell’intera liquidità garantita dal programma straordinario FED di sostegno a crediti non collateralizzati a sufficienza, sia attualmente assorbita dall’ex divisione di GM che finanziava acquisiti di auto a rate.  Bel paradosso: dovremmo criticare Fiat per esserne sbarazzata, in passato, quando le banche creditrici glie lo imposero?

Quanto alle previsioni, che in Italia continuano a sollevare tanto polverone polemico: oggi Atkins e Guha su FT danno mostra di un’onestà commendevole. Ne presentano quattro, di scenari, tra inflazione e bassi tassi, deflazione a bassi tassi, stagflazione a bassi tassi, e infine quel che tutti vorrebbero, cioè la ripresa rapida sorprendente con tassi in risalita. La rianimazione della securitization temo abbia un impatto assai superiore sulle quattro ipotesi rispetto alle variabili macro e alle pretese rappresentati dai piani anticiclici governativi.

29
Giu
2009

Sant’Angela Merkel abbassa le tasse, lei

I media tedeschi hanno avuto una reazione complessivamente tra l’esplicitamente negativo e il dichiaratamente scettico, alla decisione assunta ieri dallo stato maggiore della Cdu e della Csu insieme al cancelliere Angela Merkel: in vista delle consultazioni del prossimo settembre, porre al centro del manifesto elettorale – da approvarsi dai congressi delle due formazioni prima del voto – l’esplicito impegno a un deciso taglio alle imposte per l’ammontare di 15 miliardi di euro. Non è un granché – metà della nostra Irap che penso dovrebbe sparire con il federalismo fiscale se il governo italiano attuale davvero pensasse a una riforma per la crescita. Ma è comunque un impegno che merita di esser salutato con evviva espliciti, da parte di chi la pensa come noi. I tempi sono quelli che sono, ed è per questo che la stessa FAZ, che certo non tifa a sinistra, oggi scrive che sarebbe più prudente evitare annunci consimili, visto che già alle ultime elezioni la Merkel perse una barca di voti dovendosi rimangiare all’ultimo momento le promesse di taglio alle tasse (si era addirittura per qualche giorno parlato di un’ipotesi di flat tax, prima che il professor Kirchhof venisse travolto).

La stampa moderata tedesca – ma sarebbe esattamente la stessa cosa anche da noi – fa notare che è da irresponsabili promettere tagli alle tasse, con un deficit federale che al 2010 in previsione è raddoppiato rispetto a sei mesi fa, schizzando oltre gli 85 miliardi di euro. Il punto è che se non si abbassano le tasse non si taglieranno mai le spese, ed è questo il mantra che noi poveri quattro gatti offertisti dobbiamo essere disposti a ripetere sino alla noia. Anche in Italia, dove l’unica preoccupazione dell’attuale governo è diventata perdere il meno possibile del gettito ereditato da Visco e Padoa-Schioppa, al netto di ICI, detassazione investimenti e poco altro. Faccio presente che in Francia l’Iva sugli esercizi commerciali e turistici scende dal 19,5 al 5,6%, questa settimana: auguri ai vessati concorrenti italiani…..

29
Giu
2009

Amarcord liberista

Colin Robinson, autore di un recente libro su Arthur Seldon, suo predecessore come Editorial Director dell’Institute of Economic Affairs di Londra, ha scritto un interessante articolo sull’ultimo Spectator, sull’importanza di Seldon e in generale dell’IEA, nell’Inghilterra anni Sessanta-Settanta. Per gli appassionati del tema, sono cose abbastanza note, ma trovo molto interessante, ancorché amaro, questo commento di Robinson:

‘Think tanks’ have proliferated in the last 30 years. But there is no ferment of ideas comparable to that in the late 1970s. The newer think tanks, often associated with political parties, accept the prevailing economic and political consensus and propose marginal changes, invariably involving more government spending and more government intervention. Sometimes they claim to be searching for a ‘big idea’. They bear no resemblance to the IEA of Seldon and Harris, which wanted to overturn the consensus, not reinforce it. Moreover, Harris and Seldon were not in search of a big idea. They already knew, when they started work at the IEA, what that idea was — a return to market liberalism. Their mission, which they accomplished, was to explain how that goal could be achieved by a reforming government which wished to leave people freer to make their own choices.

Sadly, there is no Seldon now. But, even if Arthur were still here, would his ideas be heeded, as they were in the late 1970s? Regrettably, that period now seems like an isolated, atypical episode when British politicians were seeking ideas and were willing to accept a set of principles as a basis for action.

C’è di che riflettere, per noialtri. Chi si occupa di politica culturale tende ad avere una visione troppo ottimistica o della politica (spieghiamo le cose ai policy maker: capiranno!) o dell’opinione pubblica (convinciamo la maggioranza, i decisori si adegueranno). C’è una idea di causa-effetto molto chiara, ben oltre le soglie accettabile di ingenuità. Un po’ è un legato illuminista, un po’ è il ricordo di alcune esperienza di successo, nelle quali le idee hanno orientato il corso delle scelte pubbliche. In UK le storie gemelle della Fabian Society e dell’Institute of Economic Affairs. Da noi, a loro modo, le strategie di marca gramsciana che hanno spinto in quella direzione chi voleva penetrare oltre le trincee della società civile. In che misura il mondo è lo stesso e in che misura è cambiato? Quelle tattiche hanno ancora un senso? Basta cambiare i mezzi (dagli Hobart Papers dell’IEA all’alluvione di papers su Internet), o forse la fiducia nel “potere delle idee” è solo un pensiero autoconsolatorio degli intellettuali, cui piace la sensazione di essere al centro del mondo? E ancora, battersi sul terreno di gioco dell’opinione pubblica produce risultati, oppure ha avuto casualmente senso solo in un momento storico nel quale c’era una classe politica a tal punto assieme alfabetizzata e sfiduciata nell’ideologia allora dominante, da essere pronta ad assorbire le idee di qualche altro “scribacchino defunto”? Sono tutte domande che devono tormentare chi spera nel “proselitismo liberista”, ma non può accontentarsi di spolverare i trofei di altre battaglie.

28
Giu
2009

Breaking news: risolta la crisi dell’editoria

Della crisi dei giornali ci siamo già occupati brevemente, e certo con il passare delle settimane l’urgenza del tema è destinata ad aumentare (coinvolgendo anche la televisione?). O almeno questo è quanto credevo prima di leggere la ricetta del geniale Maurizio Milani:

Saggio completo su come superare la crisi dell’editoria (ricetta valida solo per il Foglio). Come gli orologi di plastica Swatch che costavano 30-40 milioni di lire. Adesso c’è Twitter, Second Life, My Space… Anche l’arte moderna ha fatto crack. Il nostro giornale deve abolire il sito e la versione on line. Fare solo il Foglio di carta stampato con caratteri non in stampatello ma in corsivo, il formato deve essere ancora più lungo di un metro e stretto 30 cm. Sarà l’unico quotidiano al mondo senza versione al computer. Subito i 500.000 mormoni di Lake City (Usa) fanno l’abbonamento. Ecco risolta la crisi, chiaramente senza pubblicità (tranne quella delle cartiere Burgo).

28
Giu
2009

Detassazione utili reinvestiti – Quando perserverare è diabolico

E tre. Se non erro è la terza volta che il nostro ministro dell’Economia ci propina la superba idea della detassazione degli utili reinvestiti. La prima fu nel 1984, la seconda nel 2001 (ma accetto volentieri correzioni a riguardo).
E giù un coro di applausi. Non ho letto molto i giornali in questi giorni ma non mi sembra di aver trovato grosse critiche a questo provvedimento. Anzi.
Ma che bravo il nostro ministro che ancora una volta viene in soccorso delle boccheggianti aziende nostrane.
In effetti detassare gli utili, come ci hanno ricordato anche gli Industriali, sembra davvero un’idea nobile, difficile da sottoporre a vagli severi. Tutti d’accordo sul fatto che le aziende hanno difficoltà a reperire finanziamenti, soprattutto di natura bancaria. Ne consegue che questa tolleranza nel ticket fiscale delle imprese giunge come una boccata d’ossigeno nel mefitico cielo che ci circonda.
Peccato che ancora una volta, sulle orme del beneamato Bastiat, occorra ricordare che le conseguenze delle scelte politiche sulla vita aziendale andrebbero esaminate nel breve e nel lungo periodo, vicino al naso ma anche oltre il naso.
La detassazione degli utili in tal senso è un caso da manuale.
Chi si intende anche un pò di finanza aziendale sa benissimo che esiste una “gerarchia delle fonti di finanziamento” che gli imprenditori sempre seguono nella copertura dei loro investimenti. Si tratta di una bella teoria – formalizzata da Stewart Myers nel 1977 ma in realtà risalente agli anni ’60 e agli studi Gordon Donaldson – secondo la quale, quando si tratta di effettuare nuovi investimenti, gli imprenditori coprono tale fabbisogno secondo la seguente ‘classifica’:
1) innanzututto, utilizzano il denaro in cassa (autofinanziamento);
2) se ciò non basta, bussano alla porta delle banche (capitale di debito);
3) se il denaro complessivamente raccolto ancora non è sufficiente, mettono mano al proprio portafoglio oppure aprono il capitale a nuovi soci (aumento di capitale).
Naturalmente, tra i vari passaggi, si lasciano sempre aperta la porta dell’abbandono dell’investimento.
La detassazione degli utili equivale di fatto a favorire l’autofinanziamento delle aziende. Cioè a dire che si incentiva qualcosa che non ha bisogno di essere incentivato, in quanto già si classifica primo nel “cuore” degli imprenditori.
Morale della favola: ‘drogare’ l’autofinanziamento vuol dire spingere spesso le aziende a fare investimenti che altrimenti non farebbero, pur di sfruttare il beneficio fiscale. Ancora si ricordano i capannoni sfitti du cui pullulava il Nordo Italia nell’84.
La finanza non deve agevolare gli investimenti, deve disciplinare il comportamento delle aziende. E’ uno scudiscio, non un cuscino.
Intendere invece la finanza in senso buonistico vuol dire spingere le aziende a sovrainvestire e ad effettuare investimenti spesso non strettamente necessari.
Cosa possiamo attenderci nel giro di pochi anni? Una presumibile diminuzione della redditività delle imprese (per intenderci i vari indici ROI, ROCE, ROA, e così via). Ricordiamo al nostro ministro e ai tecnici del suo ministero, che da tempo il problema delle nostre aziende è la loro insufficiente redditività media. E che incentivarle ad aumentare il capitale investito diminuisce ulteriormente la redditività (se i nuovi investimenti non generano sufficiente reddito).
Corriamo insomma il rischio che imprese già appesantite e in debito d’ossigeno diventino definitivamente obese.
Errare (due volte) è (forse) umano, perservare è diabolico.

28
Giu
2009

Germania: modello in crisi?

Ormai da tempo si rimprovera alla Germania di essere stata troppo cauta e prudente nello slacciare i cordoni della borsa, senza aver approfittato della crisi per espandere il deficit a sostegno dei consumi. Critiche di questo tipo, rivolte non da ultimo anche dal premio Nobel Paul Krugman, si inseriscono nel più ampio dibattito sul cosiddetto Modell Deutschland. Da una decina d’anni la Repubblica federale sembra infatti aver trovato il proprio Sonderweg nell’export, mentre la sua domanda interna ha continuato inesorabilmente a stagnare. Molti economisti individuano nel meccanicismo della teoria dell’equivalenza ricardiana la spiegazione razionale a consumi tanto asfittici.

“I tedeschi non sono convinti che riduzioni di imposte o trasferimenti sociali più elevati aiutino più di tanto i consumi. È un fatto che i consumi privati si sono ridotti proprio quando la Germania aveva un deficit superiore al 3 per cento. Il fatto di trovarsi sotto procedura europea ha stimolato il risparmio cautelativo” (Antonio Pollio Salimbeni)

Può essere che ciò sia in parte vero. Nulla va apoditticamente escluso. In realtà non si deve dimenticare che corposi tagli di tasse in Germania non si vedono da decenni, che ad aver soffocato la pulsione all’acquisto ci ha pensato anche l’aumento dell’IVA dal 16 al 19% voluto dalla grande coalizione ad inizio legislatura e che il determinismo del moltiplicatore del reddito fa gola a chi vuole risposte semplici ed immediate da propinare agli elettori… In ultimo qualche dato. La Germania non rientrerà sotto quota 3% del rapporto deficit/Pil prima del 2014 (questo, secondo le stime più ottimistiche del Finanzministerium). Quella del pareggio di bilancio è insomma la più grande promessa mancata dell’esecutivo rosso-nero. Il Ministro delle Finanze Steinbrück, un Visco in salsa teutonica, si è prima reso responsabile di un considerevole aumento delle imposte e poi, messo alle strette, ha dovuto mollare gli ormeggi, sacrificando il mantra del “Pareggiamo i conti!” a pacchetti congiunturali da miliardi di euro. Senza dimenticare che in questi anni, la spesa pubblica tedesca non è mai calata. Si mettano a confronto i dati del 2005 con quelli del 2009. La Germania è stata il paese del tassa e spendi. E oggi può vantare anche un altro primato: il più alto debito pubblico dal dopoguerra. Che fare? La ricetta che alcuni economisti liberal sembrano proporre è: rilanciare la domanda interna a suon di stimoli evitando il “paradosso del risparmio”, prelevare i soldi dalle tasche dei ricchi e nel frattempo costringere ad abbandonare la via delle delocalizzazioni “selvagge e predatorie”. L’idea non è nuova. Sta nel programma di Die Linke.

27
Giu
2009

Gli Usa kyotano?

Ieri la Camera degli Stati Uniti ha approvato, tra le polemiche repubblicane e le defezioni democratiche, l’American Clean Energy and Security Act, noto anche come Waxman-Markey Bill dai nomi dei suoi primi firmatari, i parlamentari democratici Henry Waxman ed Ed Markey. Il primo dato politico è la vittoria dell’amministrazione, che è riuscita a far passare un provvedimento-bandiera per le credenziali verdi del presidente, Barack Obama. Il secondo dato politico è  che la vittoria non è arrivata a costo zero, anzi, la Casa Bianca l’ha pagata carissima: 44 parlamentari democratici si sono opposti alla misura, che è passata di stretta misura (219-212) nonostante la schiacciante maggioranza del partito dell’Asinello, e solo grazie a otto repubblicani che hanno garantito il proprio appoggio alla legge. Tutto ciò nonostante il fatto che lo stesso Obama, e i suoi più stretti collaboratori, abbiano fatto tutte le pressioni possibili sulle loro truppe, nonostante il peso massimo di Waxman e Markey, e nonostante l’impegno di Nancy Pelosi, speaker della House.

Read More

26
Giu
2009

Gas agli energivori, botta all’Eni dal suo azionista

Tra i tanti provvedimenti compresi oggi nel decreto varato dal governo, mi riservo di tornare domani su altro, a cominciare dalla parte fiscale che considera automaticamente strumento di reato qualunque patrimonio allocato in cosiddetti “paradisi fiscali”, Tremonti lo fa per accrescere il successo dell’imminente nuovo scudo, a me non solo non piace – posso liberamente allocare all’estero somme sulle quali ho regolarmente pagato le imposte – ma credo possa risolversi nell’effetto opposto. Segnalo subito una norma che non credo domani verrà spiegata dai media per quel che è davvero.  Una bella e sana vendetta consumata dal vertice di Confindustria nei confronti dell’Eni, dopo le “conquiste” operate dal Cane a sei zampe in Assolombarda, le ambizioni a Venezia e altrove.

I cinque miliardi di metri cubi di gas a prezzo “calmierato” rappresentano una bella decurtazione di utili all’Eni. Godono i grandi gruppi energivori, i veri destinatari prioritari di tale misura.  L’incredibile, per tanti versi, è che ciò avvenga su decisione del Tesoro, azionista di controllo dell’Eni. La presidente di Confindustria rende felici i suoi associati, e non si duole della botta a Scaroni. Tremonti, per parte sua, incamera consensi e dà una bottarella pure lui, a uno Scaroni forse considerato un po’ troppo autonomo e pronto a disporre ormai di Silvio sulla scena internazionale senza neanche chiedere il permesso…

26
Giu
2009

Le dimissioni di Cardia: non ho parole

Il presidente della Consob ha ritenuto di presentare le sue dimissioni al governo, poiché non in grado di garantire l’allineamento della maggioranza del collegio alle indicazioni del Parlamento in materia di direttiva sulla trasparenza. La Consob aveva recepito la direttiva che accomuna a tutti gli effetti Internet alla carta stampata, in materia di pubblicazione obbligatoria di avvisi dovuto al mercato in occasioni come IPO, convocazioni d’assemblea ecc.  Il Parlamento, su forte pressione degli editori, aveva chiesto all’unanimità di tornare alla preferenza della carta stampa. Ma il collegio Consob, del tutto legittimamente, non ha cambiato idea.

Incredibilmente, a quel punto, Cardia si è dimesso nelle mani del governo. Il quale ha naturalmente concordato con lui preventivamente il respingimento della sua iniziativa, dandogli atto con grande compiacimento del rispetto mostrato verso la volontà del legislatore.

Non trovo parole per commentare. Dunque scelgo di misurarle. Si affossa l’idea stessa di Autorità indipendenti che vigilino sul mercato, una volta che il loro stesso presidente ritenga doveroso “inchinarsi” alla volontà della politica. Tanto vale abolirle e tornare alla sorveglianza ministeriale, se questo è lo spirito ormai destinato a prevalere in Consob, Agcom, Antitrust. Comprendo che Cardia si sia così programmaticamente meritata attenzione e riconoscenza, oltre che della politica,  dei grandi editori italiani. Ma ha reso un pessimo servizio allo stesso fine per cui la Consob esiste.

Temo , purtroppo, che ci sia qualcosa di ancor più grave.  La procedura odierna mi risulta concordata col governo, anche al fine che altri presidenti di Autorità indipendenti, considerati assai meno malleabili, capiscano la lezione e riflettano, su ciò che ci si aspetterebbe da loro.  La lezione è per via Nazionale, per parlar chiaro. Qui mi fermo. Meglio. Mi uscirebbero parole troppo veementi. Non di assenso o dissenso all’operato di questo o di quello, tra via Nazionale ed Economia. Ma perché sono i princìpi, che vanno preservati prima di ogni confronto di merito.  Senza princìpi, finisce tutto in vacca.