30
Giu
2009

Trasporto ferroviario, la liberalizzazione aumenta la sicurezza

L’incidente avvenuto la scorsa notte a Viareggio è una tragedia immensa. Per i familiari delle vittime, è il momento del dolore. Per noi tutti, si apre una finestra di riflessione.
Probabilmente, dalle prime notizie, sembra che il primo vagone, di produzione non italiana, si sia rotto e sia stata la causa di tutti questi morti, feriti e dispersi.
È sbagliato intentare facili processi senza sapere esattamente quali siano stati i fatti che hanno provocato così tanto dolore. E in un processo, c’è sempre comunque una difesa.
In queste prime ore è andato sul banco degli accusati la liberalizzazione del trasporto ferroviario. In Italia , una tale accusa, sembra quasi un nonsense, essendo il nostro paese poco liberalizzato in questo settore dei trasporti.

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30
Giu
2009

Socialism in everything: mobile phone charger edition

Tra i cavalli di battaglia di Marginal Revolution, meritatamente il numero uno al mondo tra i blog economici, c’è la serie Markets in everything, che identifica il funzionamento dei meccanismi di mercato e degli incentivi economici negli ambiti più sorprendenti – dai cimeli dei Khmer rossi alla repressione della prosituzione.

Non risulta però indagata con assiduità la categoria uguale e contraria Socialism in everything, in cui rientrano le numerose incursioni dei pubblici poteri negli anfratti più reconditi della vita sociale. Le istituzioni europee hanno una ricca tradizione nella specialità. Ecco, mi pare che la novella messa a punto del caricabatterie di stato non si discosti poi molto dalla misurazione della curvatura delle banane.

29
Giu
2009

Perché la gas release è sbagliata

Creare concorrenza dove non c’è è come creare il mondo. Solo che, a creare il mondo, il Buon Dio ci ha messo sei giorni e il settimo si è riposato: è onestamente poco credibile che un governo e un’autorità di regolazione possano fare lo stesso nello spazio di una notte, senza neppure disporre dei mezzi di Nostro Signore. Per questo sono estremamente scettico nei confronti della “gas release” da 5 miliardi di metri cubi, disposta dall’esecutivo su sollecitazione dell’Autorità per l’energia (che però aveva chiesto un quantitativo molto maggiore, circa 22 miliardi di metri cubi).

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29
Giu
2009

Banche, previsioni e paradossi

Alessandro Profumo dichiara all’Handesblatt la propria soddisfazione per lo schema di supervisione finanziaria che si sta definendo in sede europea. Ho già espresso un’opinione assai diversa, sul confusissimo quadro compositorio che in materia si può intravedere nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo. In buona sostanza vale anche in Europa la regola che si sta affermando negli Usa: se i grandi banchieri si dicono soddisfatti delle cornici di supervisione su cui si affannano le liturgie europee qui e il oltreoceano il circuito Amministrazione-Congresso, allora bisogna pensare che le grandi banche ritengono di non aver molto da temere dei nuovi sviluppi. Contrariamente a quanto pensa la corrente politica dominante nel nostro Paese oggi, penso che sia meglio così. E lo dico pur essendo molto critico del sistema bancario. in nome del minore dei mali che possa derivare da cattive e invasive iperregolazioni, meglio banche che siano meglio in grado di tornare ad avere fiducia ognuna nei confronti delle altre, piuttosto del contrario. Ha ragione Gary Gorton, che insegna corporate finance a Yale e sottolinea come tutti oggi si occupino di supervisione ottimale, quasi nessuno di come rianimare il mercato repo, cioè quello interbancario a breve – usualmente overnight – che funziona proprio sullo scambio “liquidità per collaterale securitizzato”. Un mercato che valeva 10-12 mila miliardi di dollari in tempo reale, cioè momento per momento, sul mercato Usa prima della crisi. E che, per riavviarsi, ha bisogno di una nuova teoria e prassi della “collaterale considerato solvibile”: qualcosa che solo grandi banche e regolatori raffinati possono mettere a punto, lasciando nell’assoluta e più che auspicabile ignoranza i velleitari politici.

Cosa del tutto diversa è confrontarsi tra addetti ai lavori veri, su quale sarebbe il modello ideale verso il quale andare, in materia di Too Big to Fail, ratios di capitale et similia. Se fossi un contribuente americano, non sarei affatto felice di constatare che un quarto dell’intera liquidità garantita dal programma straordinario FED di sostegno a crediti non collateralizzati a sufficienza, sia attualmente assorbita dall’ex divisione di GM che finanziava acquisiti di auto a rate.  Bel paradosso: dovremmo criticare Fiat per esserne sbarazzata, in passato, quando le banche creditrici glie lo imposero?

Quanto alle previsioni, che in Italia continuano a sollevare tanto polverone polemico: oggi Atkins e Guha su FT danno mostra di un’onestà commendevole. Ne presentano quattro, di scenari, tra inflazione e bassi tassi, deflazione a bassi tassi, stagflazione a bassi tassi, e infine quel che tutti vorrebbero, cioè la ripresa rapida sorprendente con tassi in risalita. La rianimazione della securitization temo abbia un impatto assai superiore sulle quattro ipotesi rispetto alle variabili macro e alle pretese rappresentati dai piani anticiclici governativi.

29
Giu
2009

Sant’Angela Merkel abbassa le tasse, lei

I media tedeschi hanno avuto una reazione complessivamente tra l’esplicitamente negativo e il dichiaratamente scettico, alla decisione assunta ieri dallo stato maggiore della Cdu e della Csu insieme al cancelliere Angela Merkel: in vista delle consultazioni del prossimo settembre, porre al centro del manifesto elettorale – da approvarsi dai congressi delle due formazioni prima del voto – l’esplicito impegno a un deciso taglio alle imposte per l’ammontare di 15 miliardi di euro. Non è un granché – metà della nostra Irap che penso dovrebbe sparire con il federalismo fiscale se il governo italiano attuale davvero pensasse a una riforma per la crescita. Ma è comunque un impegno che merita di esser salutato con evviva espliciti, da parte di chi la pensa come noi. I tempi sono quelli che sono, ed è per questo che la stessa FAZ, che certo non tifa a sinistra, oggi scrive che sarebbe più prudente evitare annunci consimili, visto che già alle ultime elezioni la Merkel perse una barca di voti dovendosi rimangiare all’ultimo momento le promesse di taglio alle tasse (si era addirittura per qualche giorno parlato di un’ipotesi di flat tax, prima che il professor Kirchhof venisse travolto).

La stampa moderata tedesca – ma sarebbe esattamente la stessa cosa anche da noi – fa notare che è da irresponsabili promettere tagli alle tasse, con un deficit federale che al 2010 in previsione è raddoppiato rispetto a sei mesi fa, schizzando oltre gli 85 miliardi di euro. Il punto è che se non si abbassano le tasse non si taglieranno mai le spese, ed è questo il mantra che noi poveri quattro gatti offertisti dobbiamo essere disposti a ripetere sino alla noia. Anche in Italia, dove l’unica preoccupazione dell’attuale governo è diventata perdere il meno possibile del gettito ereditato da Visco e Padoa-Schioppa, al netto di ICI, detassazione investimenti e poco altro. Faccio presente che in Francia l’Iva sugli esercizi commerciali e turistici scende dal 19,5 al 5,6%, questa settimana: auguri ai vessati concorrenti italiani…..

29
Giu
2009

Amarcord liberista

Colin Robinson, autore di un recente libro su Arthur Seldon, suo predecessore come Editorial Director dell’Institute of Economic Affairs di Londra, ha scritto un interessante articolo sull’ultimo Spectator, sull’importanza di Seldon e in generale dell’IEA, nell’Inghilterra anni Sessanta-Settanta. Per gli appassionati del tema, sono cose abbastanza note, ma trovo molto interessante, ancorché amaro, questo commento di Robinson:

‘Think tanks’ have proliferated in the last 30 years. But there is no ferment of ideas comparable to that in the late 1970s. The newer think tanks, often associated with political parties, accept the prevailing economic and political consensus and propose marginal changes, invariably involving more government spending and more government intervention. Sometimes they claim to be searching for a ‘big idea’. They bear no resemblance to the IEA of Seldon and Harris, which wanted to overturn the consensus, not reinforce it. Moreover, Harris and Seldon were not in search of a big idea. They already knew, when they started work at the IEA, what that idea was — a return to market liberalism. Their mission, which they accomplished, was to explain how that goal could be achieved by a reforming government which wished to leave people freer to make their own choices.

Sadly, there is no Seldon now. But, even if Arthur were still here, would his ideas be heeded, as they were in the late 1970s? Regrettably, that period now seems like an isolated, atypical episode when British politicians were seeking ideas and were willing to accept a set of principles as a basis for action.

C’è di che riflettere, per noialtri. Chi si occupa di politica culturale tende ad avere una visione troppo ottimistica o della politica (spieghiamo le cose ai policy maker: capiranno!) o dell’opinione pubblica (convinciamo la maggioranza, i decisori si adegueranno). C’è una idea di causa-effetto molto chiara, ben oltre le soglie accettabile di ingenuità. Un po’ è un legato illuminista, un po’ è il ricordo di alcune esperienza di successo, nelle quali le idee hanno orientato il corso delle scelte pubbliche. In UK le storie gemelle della Fabian Society e dell’Institute of Economic Affairs. Da noi, a loro modo, le strategie di marca gramsciana che hanno spinto in quella direzione chi voleva penetrare oltre le trincee della società civile. In che misura il mondo è lo stesso e in che misura è cambiato? Quelle tattiche hanno ancora un senso? Basta cambiare i mezzi (dagli Hobart Papers dell’IEA all’alluvione di papers su Internet), o forse la fiducia nel “potere delle idee” è solo un pensiero autoconsolatorio degli intellettuali, cui piace la sensazione di essere al centro del mondo? E ancora, battersi sul terreno di gioco dell’opinione pubblica produce risultati, oppure ha avuto casualmente senso solo in un momento storico nel quale c’era una classe politica a tal punto assieme alfabetizzata e sfiduciata nell’ideologia allora dominante, da essere pronta ad assorbire le idee di qualche altro “scribacchino defunto”? Sono tutte domande che devono tormentare chi spera nel “proselitismo liberista”, ma non può accontentarsi di spolverare i trofei di altre battaglie.

28
Giu
2009

Breaking news: risolta la crisi dell’editoria

Della crisi dei giornali ci siamo già occupati brevemente, e certo con il passare delle settimane l’urgenza del tema è destinata ad aumentare (coinvolgendo anche la televisione?). O almeno questo è quanto credevo prima di leggere la ricetta del geniale Maurizio Milani:

Saggio completo su come superare la crisi dell’editoria (ricetta valida solo per il Foglio). Come gli orologi di plastica Swatch che costavano 30-40 milioni di lire. Adesso c’è Twitter, Second Life, My Space… Anche l’arte moderna ha fatto crack. Il nostro giornale deve abolire il sito e la versione on line. Fare solo il Foglio di carta stampato con caratteri non in stampatello ma in corsivo, il formato deve essere ancora più lungo di un metro e stretto 30 cm. Sarà l’unico quotidiano al mondo senza versione al computer. Subito i 500.000 mormoni di Lake City (Usa) fanno l’abbonamento. Ecco risolta la crisi, chiaramente senza pubblicità (tranne quella delle cartiere Burgo).

28
Giu
2009

Detassazione utili reinvestiti – Quando perserverare è diabolico

E tre. Se non erro è la terza volta che il nostro ministro dell’Economia ci propina la superba idea della detassazione degli utili reinvestiti. La prima fu nel 1984, la seconda nel 2001 (ma accetto volentieri correzioni a riguardo).
E giù un coro di applausi. Non ho letto molto i giornali in questi giorni ma non mi sembra di aver trovato grosse critiche a questo provvedimento. Anzi.
Ma che bravo il nostro ministro che ancora una volta viene in soccorso delle boccheggianti aziende nostrane.
In effetti detassare gli utili, come ci hanno ricordato anche gli Industriali, sembra davvero un’idea nobile, difficile da sottoporre a vagli severi. Tutti d’accordo sul fatto che le aziende hanno difficoltà a reperire finanziamenti, soprattutto di natura bancaria. Ne consegue che questa tolleranza nel ticket fiscale delle imprese giunge come una boccata d’ossigeno nel mefitico cielo che ci circonda.
Peccato che ancora una volta, sulle orme del beneamato Bastiat, occorra ricordare che le conseguenze delle scelte politiche sulla vita aziendale andrebbero esaminate nel breve e nel lungo periodo, vicino al naso ma anche oltre il naso.
La detassazione degli utili in tal senso è un caso da manuale.
Chi si intende anche un pò di finanza aziendale sa benissimo che esiste una “gerarchia delle fonti di finanziamento” che gli imprenditori sempre seguono nella copertura dei loro investimenti. Si tratta di una bella teoria – formalizzata da Stewart Myers nel 1977 ma in realtà risalente agli anni ’60 e agli studi Gordon Donaldson – secondo la quale, quando si tratta di effettuare nuovi investimenti, gli imprenditori coprono tale fabbisogno secondo la seguente ‘classifica’:
1) innanzututto, utilizzano il denaro in cassa (autofinanziamento);
2) se ciò non basta, bussano alla porta delle banche (capitale di debito);
3) se il denaro complessivamente raccolto ancora non è sufficiente, mettono mano al proprio portafoglio oppure aprono il capitale a nuovi soci (aumento di capitale).
Naturalmente, tra i vari passaggi, si lasciano sempre aperta la porta dell’abbandono dell’investimento.
La detassazione degli utili equivale di fatto a favorire l’autofinanziamento delle aziende. Cioè a dire che si incentiva qualcosa che non ha bisogno di essere incentivato, in quanto già si classifica primo nel “cuore” degli imprenditori.
Morale della favola: ‘drogare’ l’autofinanziamento vuol dire spingere spesso le aziende a fare investimenti che altrimenti non farebbero, pur di sfruttare il beneficio fiscale. Ancora si ricordano i capannoni sfitti du cui pullulava il Nordo Italia nell’84.
La finanza non deve agevolare gli investimenti, deve disciplinare il comportamento delle aziende. E’ uno scudiscio, non un cuscino.
Intendere invece la finanza in senso buonistico vuol dire spingere le aziende a sovrainvestire e ad effettuare investimenti spesso non strettamente necessari.
Cosa possiamo attenderci nel giro di pochi anni? Una presumibile diminuzione della redditività delle imprese (per intenderci i vari indici ROI, ROCE, ROA, e così via). Ricordiamo al nostro ministro e ai tecnici del suo ministero, che da tempo il problema delle nostre aziende è la loro insufficiente redditività media. E che incentivarle ad aumentare il capitale investito diminuisce ulteriormente la redditività (se i nuovi investimenti non generano sufficiente reddito).
Corriamo insomma il rischio che imprese già appesantite e in debito d’ossigeno diventino definitivamente obese.
Errare (due volte) è (forse) umano, perservare è diabolico.