2
Lug
2009

Ancora sui think-tank…

Ricevo da Pasquale Annicchino e volentieri pubblico:

Il fiorire di iniziative think-tankistiche, o presunte tali, ha aperto un importante dibattito che l’Italia affronta da una posizione di assoluta retroguardia.

Negli interventi precedenti Alberto Mingardi ha giustamente messo in evidenza l’importanza che i think tank americani hanno nel “calare nella realtà concreta idee a livello di policies“. Si domanda ancora Mingardi: “Da noi (…) quand’è che si parla nei vari centri studi?”. La risposta di Mingardi (con sua buona pace) è simile a quella che avrebbe dato il marxista eterodosso Bordieu. Nei think tank italici si parla “quando si fa salotto”.

Strategie di investimento sociale che gli agenti sviluppano per trarne profitti materiali e simbolici. Il capitale sociale diventa così la base del capitalismo di relazione.

La realtà americana, presa a modello, è stata invece caratterizzata dalla presenza di veri e propri intellectual enterpreneurs capaci di investire nel valore delle idee e di coordinare gruppi di intellettuali e di network enterpreneurs spesso lontani l’uno dall’altro. La traduzione di questa “ricerca di base” in opzioni di policy è stato successivamente il compito dei political enterpreneurs. La differenza con la realtà italiana è che alla “dimensione non elettorale dell’attività politica” (Teles, 2008) è stata sempre garantita ampia indipendenza. Questo ha permesso il formarsi di centri studi autorevoli ed in concorrenza fra loro nel dibattito pubblico.

Se si osserva il paesaggio italiano nulla di nuovo appare sotto il cielo. Strani ircocervi si affacciano all’orizzonte e sembrano convergere nel nuovo mantra: l’esperienza doxica di Stato e di partito. Se le “idee hanno delle consequenze”, i pochi che lavorano su quelle e non dal “Bolognese” hanno poco da temere.

Bibliografia “think-tankista” minima:

Weidenbaum M. L., The competition of ideas: the world of Washington think tanks, New Brunswik, NJ, Transaction Publishers, 2009

Teles S. M., The rise of the Conservative legal movement, Princeton, Princeton University Press, 2008

Stone D.,  Denham A., Think tank traditions: policy research and the politics of ideas, New York, New York Universityb Press, 2004

Ricci D., The transformation of American politics: the new Washington and the rise of think tanks, New Haven, Yale University Press, 1993

Smith J.A., The idea brokers: think tanks and the rise of the new policy elite, New York, Free Press, 1991

2
Lug
2009

Perché non sempre è meglio prevenire che curare

Commentando su “L’Occidentale” la condanna inflitta a Madoff per la truffa colossale messi in piedi negli scorsi anni, Salvatore Rebecchini rileva giustamente che ora bisogna evitare

la facile ricetta che vuole regole più severe come soluzione del problema. Certamente una riflessione su eventuali fallacie del sistema si impone, ma la lezione più importante da trarre è che occorre massimizzare l’incentivo da parte degli investitori a verificare la reputazione dei soggetti a cui affidano i loro risparmi. Come d’altra parte occorre che i soggetti affidatari siano incentivati a promuovere e a investire in reputazione. Purtroppo il rischio di nuova e ulteriore regolamentazione è di obnubilare tali incentivi e indurre i soggetti all’acquiescenza, rifugiandosi nella più facile e meno onerosa strategia del tipo: “Adesso ci sono nuove regole e queste ci assicurano correttezza e onestà”.

Rebecchini riprende e opportunamente attualizza una lezione tenuta nei giorni scorsi da Jonathan Macey, persuaso che quanto più la regolazione invade lo spazio economico e sociale, quanto meno è avvertita la necessità di farsi una reputazione e – di conseguenza – di tenere comportamenti corretti: tali da dare effettive garanzie ai nostri interlocutori.

È un altro modo per dire che la moralità si sviluppa nelle società più libere e che la pretesa interventista di chi vuole prevenire ogni errore con una limitazione della libera iniziativa (e quindi con l’adozione di meccanismi regolatori) finisce per depotenziare quelle regole spontanee dell’interazione umana su cui maggiormente possiamo fare affidamento se vogliamo affrontare non del tutto disarmati la dimensione sempre strutturalmente aleatoria del futuro.

In talune circostanze si può affermare che “prevenire è meglio che curare”, ma questo non vale sempre. In particolare non vale dinanzi alla pretesa dei pianificatori della vita sociale di eliminare ogni rischio ed ogni errore attraverso una crescente compressione degli spazi di libertà.

2
Lug
2009

Quel 9% di fabbisogno significa che…

Giornata di pessime notizie. Prima e più di quelle italiane, quelle che vengono dal mondo. America: i dati rilasciati oggi della disoccupazione Usa sono una secchiata di ghiaccio, oltre 460 mila nuovi senza lavoro mentre ce ne si attendeva 100 mila in meno: si interrompe dunque seccamente la decrescita dell’espulsione di manodopera, che era scesa dalle 600 mila unità mese circa a poco più della metà. Russia: il rapporto Fitch sui 60 miliardi di dollari di ricapitalizzazione necessaria delle banche russe, se le cose continuano di questo passo – attualmente le proiezioni del GDP per il 2009 dicono meno 8,6% – è una mazzata a chi sperava che la ripresa della Borsa russa fosse un segnale anticipatore del rallentamento della crisi. Con questi prezzi del barile di petrolio – l’80% delle entrate pubbliche russe sono “energetiche” – lo Stato potrebbe esitare molto, di fronte a ricapitalizzazioni tanto energiche, e Mosca potrebbe ricadere in un’instabilità che da due mesi sembrava prospettiva in via di raffreddamento. Cina: altro rapporto Fitch sulla crescita verticale rilevata negli ultimi due mesi di impieghi bancari ad altissimo rischio, cioè a fronte di asset collaterali o direttamente di garanzia su valori terribilmente “gonfiati”. In apprenza è un segno positivo, significa appunto che lo switch a sostegno della domanda interna deliberato dalle autorità cinesi per fronteggiare la caduta dell’export funziona. Ma, dopo qualche mese, se il tono Usa e Ue resta quello deflazionistico che ufficialmente si vede negli ultimi dati degli impieghi bancari, per via del cambio fisso dollaro-reminmbi la bolla degli asset cinesi interni sarà costretta ad esplodere, a meno di far saltare il cambio come i cinesi negano risolutamente di essere disposti a fare.

Quanto all’Italia, il 9,3% di Pil di fabbisogno pubblico accumulato nel primo trimestre è un dato purtroppo atteso, con una caduta tendenziale del Pil superiore al 5%. Di solito, il primo trimestre è il peggiore, perché poi arrivano gli anticipi dell’autoliquidazione fiscale e più avanti i conguagli. Ma è evidente anche che si tratta di un dato che spinge il deficit tendenziale pubblico a fine 2009 più verso il 6% del Pil che verso il 5, con l’elasticità attuale del calo delle entrate rispetto a quella del prodotto. È vero: è in arrivo lo scudo fiscale. Ma Tremonti si ripromette di usarlo per finanziare interventi aggiuntivi o sin qui negati: e ne riparleremo, nei prossimi giorni, perché ho avuto un’idea che sto testando riservatamente, prima di parlarne in pubblico.

È inutile continuare a negarlo: servono riforme strutturali che recuperino andamenti futuri della spesa pubblica nell’ordine di 4-6 punti di Pil almeno, tra previdenza, sanità eccetera eccetera. Non in un anno: ma l’essenziale è metterli a punto e vararli al più presto.

2
Lug
2009

7 luglio 2009. Crisi del gas?

Ancora una volta, allarme rosso sulle forniture di gas dalla Russia via Ucraina. In conclusione della riunione del Gruppo coordinamento gas, la Commissione europea ha invitato gli Stati membri a “riempire gli stoccaggi” e prepararsi a eventuali interruzioni “nelle settimane o mesi a venire”. A monte di tutto, la consueta querelle tra Mosca e Kiev sul pagamento degli arretrati. Sul tappeto c’è il prestito da 4 miliardi di dollari che l’Ucraina ha chiesto all’Occidente, per far fronte ai suoi obblighi (anche se, come anticipato qualche giorno fa da Quotidiano Energia, probabilmente un paio di miliardi basterebbero a tranquillizzare i russi).

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2
Lug
2009

La moda dei think tank, coperto incluso

In attesa che D’Alema spieghi perche’ lui c’ha il think-tank col trattino e Veltroni inauguri un think tank senza il trattino, la moltiplicazione dei pensatoi continua ad attirare commenti giornalistici dopo il Campi e il Colombo che segnalavamo ieri. Sul Sole 24 Ore, in particolare, oltre a un pezzo siglato da Rossella Bocciarelli, c’e’ un editorialino nella pagina dei commenti, giustamente salace.
“Nella foga di copiare gli Usa”, scrive il quotidiano confindustriale, “ci si scorda che nella nostra II repubblica le idee contano zero. Disprezzate a destra come a sinistra, tra propaganda, leaderismo e volgare contumelia”.
L’osservazione e’ azzeccatissima, in realta’ non solo rispetto alle “degenerazioni” del dibattito politico: ma proprio rispetto a quella che e’ una caratteristica vantata invece con decisione dagli uomini politici. Ovvero, il pragmatismo. Pragmatismo che significa il rifiuto di qualsiasi dimensione ideale, di qualsiasi visione consapevole e compiuta di quale dev’essere il rapporto fra individuo e Stato, perche’ ogni formula sarebbe “ideologica” e invece nel mondo di oggi, dopo il crollo del muro di Berlino, l’11 settembre e il fallimento della Lehman, bisogna navigare a vista.
I think tank americani sono sempre ancorati a un sistema di idee. Piaccia o non piaccia, il loro mestiere e’ calare nella realta’ concreta e difficile delle policies, una serie di principi che appartengono alle diverse grandi famiglie della storia politica del Novecento. Da noi al contrario quand’e’ che si parla dei vari centri studi? Quando fanno salotto. Quando “attovagliano” tizio caio e sempronio. Pensate al recente seminario milanese di Italianieuropei (di cui nella capitale morale si occupa un’eccellente persona come Carlo Cerami). Qualcuno ha letto sui giornali che si e’ detto, quali tesi sono state espresse? Io ho trovato solo elenchi, ora piu’ ora meno puntuali, delle presenze in sala.
La seconda repubblica e’ caratterizzata da una sorta di pragmatismo bipartisan: destra e sinistra unite dal non avere una visione del mondo, gli uni hanno un capo gli altri un nemico. Questo crea la necessita’ di qualche “zona franca” nella quale le appartenenze si stemperino, e pragmatismo di destra e pragmatismo di sinistra possano pragmaticamente confrontarsi. I “pensatoi” di maggior successo, coerentemente, sembrano essere quelli in cui migliore e’ la composizione dei “tavoli” e piu’ intensa e’ la chiacchiera informale fra interessi e decisori. Servono i think tank, o bastava un buon ristorante?

1
Lug
2009

Dumping o concorrenza?

Questa storia viene dall’Austria e ha dell’incredibile. Il proprietario di tre distributori di benzina nella regione di Salisburgo, tal Markus Friesacher, ha deciso di scatenare una agguerritissima competizione tra i rivenditori, prezzando diesel e benzina poco sopra i 50 centesimi al litro. Provocazione? Gag estiva? Niente affatto. La strategia di mercato del giovane imprenditore austriaco, la cui società (Free Energy Trading Gmbh) è nata nel settembre 2008, è quella di offrire al cliente il prodotto finale al più basso prezzo possibile. Senza orpelli, né personale, come è nell’ottica di tutte le stazioni di benzina discount che tanto successo hanno avuto in Francia e in Gran Bretagna. Risultato? I concorrenti della zona hanno incominciato ad abbassare i prezzi, nel tentativo di ridurre il capannello pazzesco di automobili ammassatesi dinanzi alle stazioni di Friesacher. D’altra parte, però, non tutto è andato liscio. L’autorità garante per la concorrenza e il mercato avrebbe in animo di aprire un’inchiesta, indovinate un po’, per prezzi “troppo” concorrenziali, ovverosia per dumping. D’altra parte, come spesso ricordano autori a dir poco critici nei confronti delle politiche antitrust, ogni politica dei prezzi può essere arbitrariamente sottoposta a controlli. Abbassare i prezzi sotto una determinata soglia significa per l’appunto fare dumping, alzare indiscriminatamente i prezzi significa tentare di maturare extraprofitti ingiustificati, mentre fissare i prezzi su un livello non troppo dissimile da quello dei concorrenti rischia di essere considerata una strategia di cartello… Per intanto, un grosso in bocca al lupo al signor Friesacher…

1
Lug
2009

Oppressione fiscale: l’Italia batte tutti

Aggiornamenti sull’emergenza vera, della competitività italiana: quella fiscale. Quella cioè che prima di tutte si potrebbe risolvere, a patto di decisioni energiche, visto che per il ritardo infrastrutturale e il gap energetico i tempi sono necessariamente lunghi, quand’anche intervenisse un Licurgo. Un nuovo studio comparato fresco fresco di pubblicazione attribuisce all’Italia la poco onorabile palma di Paese in testa alla graduatoria dell’oppressione fiscale mondiale. Il governo farebbe meglio a leggerlo. Ma anche Confindustria.  Perché credere che la caduta di gettito figlia della contrazione economica condanni all’inerzia delle aliquote – vista la fame di nuova spesa pubblica – significa solo contribuire aggiuntivamente alla caduta del PIL. Read More

1
Lug
2009

Think tank. Parole sagge da Campi e Colombo

Oggi Luca Cordero di Montezemolo ha battezzato “Italia Futura”, un “advocacy group” con caratteristiche direi innovative per la scena italiana. Non si tratta di una fondazione di cultura politica come quelle che abbiamo finora conosciuto anche in Italia: quanto piuttosto  di un gruppo di pressione “trasparente” che più che “policy papers” produce, come spiegano sul sito, “campagne”. Il direttore è un intellettuale di grande valore, Andrea Romano. Sicuramente da Andrea Romano possiamo aspettarci idee innovative e strategie di comunicazione intelligenti. Restiamo sintonizzati su questi schermi.
Intanto, un altro gruppo di politici, imprenditori e intellettuali riuniti attorno a Luciano Violante ha dato vita ad “Italia decide”, associazione che vuole riflettere su, e mobilitare energie contro, il “Paese del non fare”. Benvenuti anche a loro.
Certo che però questa inflazione di “think tank” un po’ preoccupa. Non tanto perché è curiosa, in un momento nel quale è difficilissimo raccogliere fondi privati da mettere a disposizione di iniziative non profit (ahimé!). Ma perché sembra essere una valvola di sfogo, una scorciatoia, in un contesto nel quale la scena politica è in buona sostanza “monopolizzata” dal centro-destra e, nel bene e nel male, da Berlusconi. L’approccio “sai che c’è? mi faccio una fondazione!” è sensato, per chi voglia fare politica, e non invece produrre idee?
Non ne sono sicuro, e temo che la moltiplicazione dei “think tank”, alcuni dei quali sostanzialmente diversi dallo “standard” dei “think tank” nel mondo (vuoi per le fonti di finanziamento, vuoi per ciò che producono), possa più che altro generare confusione, creando tanti piccoli indiani anziché realtà finalmente solide, autorevoli, e in grado di fare bene stando sul mercato. Non vorrei che, innanzi al consolidamento forse eccessivo dei partiti nella seconda repubblica, qualcuno avesse nostalgia della “poltiglia” della prima e la pensasse come un modello di successo per il mondo delle fondazioni.
Sul tema, si sono lette alcune cose interessanti, in questi giorni, oltre ai gossip un po’ stucchevoli (solo in Italia se uno apre una fondazione i media se l’immaginano già primo ministro!). Mi piace citare in successione un dubbio di Alessandro Campi (cui egli stesso poi risponde con più ottimismo, ma io mi terrei il dubbio) e un paio di certezze di Furio Colombo.
Campi (che è anche direttore di “Fare Futuro”) sul Riformista di oggi:

cosa si nasconde dietro tanto attivismo, come si deve interpretare un simile accavallarsi di iniziative pre- o meta-politiche, tutte rivolte – almeno sulla carta – alla produzione di ricerche e piani di riforma, alla formazione di una nuova etica pubblica e alla costruzione di un’Italia più decente e meglio funzionante dell’attuale? A pensare male, lo si potrebbe considerare un espediente fumoso e tattico: come la copertura nobile ed edificante, scelta da singoli politici o da singoli protagonisti della scena economica, per compensare il vuoto etico e progettuale nel quale siamo sprofondati da qualche anno e che ha toccato in particolare proprio i nostri gruppi dirigenti. Insomma, non avendo questi ultimi più nulla di sostanziale da dire, non avendo più valori nei quali credere o passioni per le quali combattere, si accontenterebbero di mettersi una medaglietta sul bavero per farsi belli in pubblico. La cultura, nella società dell’immagine, è pur sempre un discreto investimento, soprattutto poi per chi abbia in testa altri e più prosaici obiettivi da perseguire.

Qui invece Furio Colombo:

Vi diranno che “think tank” come il nuovo “Italiadecide” sono spesso il fiore all’occhiello, tecnico, scientifico, politico, della vita pubblica americana. E’ vero. Ma con due avvertimenti:
Il primo. I “think tank” veri sono sempre politicamente orientati (conservatori o liberal, repubblicani o democratici, vicini all’impresa o vicini al sindacato), e lo dicono. Reclutano i cervelli del “think tank” secondo le affinità dichiarate. La credibilità risiede nel livello delle persone e nella qualità del lavoro. Non nel fare finta di niente sulle diverse storie politiche.
Il secondo avvertimento è più drastico, difficile da evitare. Mai i politici attivi in Parlamento, meno che mai nel governo, possono partecipare a un ”think tank”. Hanno strumenti molto pesanti per esprimersi e, almeno come ipotesi, possono sempre rispondere con un dono o con una minaccia al giurista, all’economista, all’imprenditore che si fa notare nelle cordiali discussioni nel gruppo. Dunque niente mix fra studiosi e politici, tra tecnici e titolari del potere.

Ecco, da punti di vista molto diversi, mi sembrano cose di buon senso. La povertà del dibattito politico c’insegna che la cultura politica è importante, essenziale. Ma le culture politiche sono poche, antiche, e non s’improvvisano. Di più: la loro forza produce risultati nel lungo periodo (facendone materia per pochi inguaribili ottimisti). Onestamente, il compito delle fondazioni e dei centri studi è riallacciare i fili di tradizioni che continuano. Non tentare il “minestrone” per raggranellare consensi. La debolezza dei partiti porta molti ad auspicare maggiore incisività da parte dei “think tank”. Ma sono “oggetti” diversi che debbono fare mestieri diversi. Guai a confondere le cose.

1
Lug
2009

Aneddoti della “banca più stupida” di Germania

Frank Schäffler è un parlamentare libertario che milita nelle file dell’FDP. Da tempo denuncia i collateralismi tra politica ed economia entro le mura del gruppo bancario Kfw, istituto che grosso modo potremmo assimilare alla nostra Cassa depositi e prestiti e che funziona un po’ come la banca di fiducia del governo. Per prestiti alle imprese e opere di interesse pubblico, dal 1948 sino ai recenti pacchetti congiunturali del gennaio scorso ci ha sempre pensato questo ente ad erogare il credito necessario. Con una piccola e non trascurabile differenza: rispetto alle altre banche, il Kfw può concedere denaro a pioggia senza essere sottoposto al controllo della Bafin (la Consob tedesca), ma dipendendo solo dal Ministero delle Finanze, ossia dalla politica. Ecco perché chi l’ha guidata, oggi come in passato, era noto ai più per le sue conoscenze nella stanza dei bottoni che non per la sua esperienza nel mondo dell’impresa. Un nome su tutti, quello di Ingrid Matthäus-Maier (Spd), il cui curriculum non le avrebbe mai consentito di diventare presidente di un gruppo bancario privato, ma che le ha invece permesso di diventarlo in quello pubblico per eccellenza. Un sunto dei pasticci da lei combinati nel goffo salvataggio della controllata IKB lo potete leggere in questo bel contributo (in inglese) di Wolfgang Reuter per Der Spiegel. Ma l’apoteosi è stata raggiunta all’indomani del crac di Lehman Brothers, quando il Kfw le versò inavvertitamente la modica cifra di 320 milioni di euro. Di qui l’appellativo affibbiatole dai media di banca più stupida di Germania. Oggi accade però che i responsabili di quel grottesco trasferimento di denaro, licenziati in tronco, abbiano ottenuto dal tribunale del lavoro di Francoforte il diritto al pagamento dello stipendio fino alla scadenza del contratto nel 2013. Il Kfw dovrà perciò sobbarcarsi il peso di un ulteriore milione di euro per retribuire chi commise quell’errore a dir poco stravagante. Ma non eravamo entrati nella “nuova era” della “responsabilità”? Frau Merkel, se è lì, batta un colpo.