23
Ago
2009

Basta apologia di Keynes! W il Times!

Non so quanti di voi si siano sciroppati i tre volumi tre dedicati in 25 anni di studio dallo storico Robert Skidelsky a John Maynard Keynes. Per molti versi è “la” biografia di riferimento del vate, una sorta di atti degli apostoli di chi lo considera il messia. Ora Skidelsky non è riuscito a dire no alle preghiere dell’editore, che lo invocava di metter mano a un bel volumetto di fiammeggiante rivendicazione del Profeta, visto che con la crisi tutti i governi tornano al suo decalogo spendi-e-spandi. Skidelsky purtroppo ha acconsentito, così ecco altre 240 pagine per venti sterline, “Keynes The Return of the Master“. La goduria massima oggi è la stroncatura assolutamente feroce da parte della Books Review del Sunday Times. Era Hayek, non Keynes, ad attaccare le politiche che condussero alla Grande Depressione. Erano i discepoli di Hayek, non di Keynes, a criticare i tassi di Greenspan che hanno gonfiato la bolla e ci hanno portato alla crisi attuale. Sono ancora i discepoli di Hayek, non di Keynes, a poter dire meglio come far ripartire crescita e occupazione in un mondo di mercati aperti, non chiusi come quelli di cui parlava il profeta statalista. Leggete e godete, se la pensate come noi. Altrimenti pensateci bene comunque e aprite le orecchie alle critiche, se siete rimasti keynesiani.

22
Ago
2009

Exit strategy, tasse ed evasione

Se si tratta di deficit pubblici, tenere elezioni politiche in tempi ordinari può rappresentare un freno: le parti politiche si sforzano almeno a parole di presentare piattaforme di riduzione. Ma andare alle urne in tempi di crisi può anche sfociare nell’esito opposto, perché partiti e coalizioni “temono” di apparire agli elettori troppo frenati sulle misure di sostegno alla domanda e all’offerta. Vedremo presto in Germania come e se il voto contribuirà a definire un abbozzo almeno di exit strategy dall’alto deficit e debito pubblico – vedi articolo dell’Economist. Ma almeno sino a questo momento il tema fiscale non è stato propriamente al centro dell’arena elettorale tedesca. Quanto all’Italia, dall’attuale governo è in corso la più che prevedibile pressione mediatica antievasori, in vista dello scudo fiscale: ma sui fondamenti regna la notte fonda, e vengono diffusi studi che a mio giudizio sono infondati. Dobbiamo davvero morire ancor più tassati di prima, per colpa della crisi? Vediamo meglio. Read More

22
Ago
2009

Addio a Franco Forlin

L’Istituto Bruno Leoni piange la scomparsa di Franco Forlin, suo tesoriere dal 2004 e una persona semplicemente fondamentale per l’operatività e la crescita dell’Istituto. Nato nel 1941, Forlin è stato stroncato da un lungo male, che aveva affrontato col supporto amorevole della moglie Marcella e della sorella Edi.

Conoscevo Franco da quando, per il ventesimo anniversario della sua azienda, decise di fare un regalo particolare a clienti, fornitori ed amici: un libro che rientrasse nella tradizione di pensiero che aveva appreso da Sergio Ricossa, sui banchi dell’università di Torino. Gli parve naturale andare a chiedere consiglio all’antico maestro. Ricossa ebbe la bontà di suggerirei che fossi io a scriverlo, e ne venne fuori un pamphlettino (Lettera a un amico no global), con una bellissima prefazione di Ricossa stesso.

Che un libro nasca così, è cosa rara dappertutto – ma in Italia in particolar modo. Il fatto che un imprenditore italiano, di mezzi non illimitati, volesse investire su uno strumento di promozione delle idee di mercato mi stupì enormemente. Questo rendeva Franco ancora più “eccentrico” nella business community torinese dei suoi cappelli vistosi e della predilezione per le cravatte a farfalla. Minoritario in tutto, le sue fedi erano il liberismo e il Toro.

Quando, poco dopo, cominciammo a parlare di fondare l’Istituto Bruno Leoni, coinvolgere Franco venne naturale. Ci si immerse con tutto se stesso, come in passato aveva fatto con altre associazioni non profit e circoli di vario genere. Non scettico ma giustamente preoccupato, all’inizio, circa le nostre possibilità di successo, osservò la crescita dell’Istituto con meraviglia, stupore, ed entusiasmo. Ci trovammo assieme a gestire qualche difficoltà. Franco seppe giocare un ruolo determinante anche in situazioni complesse e scivolose.

In breve, maturò una convinzione granitica, che non si vergognava affatto di esternare e condividere: che l’Istituto Bruno Leoni fosse impegnato in una grandiosa e difficile missione di “civilizzazione” della cultura italiana. Per questo, faceva per l’IBL senza sforzo cose piccole e grandi.

I liberisti dovrebbero saperlo, ma spesso se ne dimenticano: l’organizzazione è tutto. Le idee migliori non camminano da sole, hanno bisogno di crescere all’interno di “serre” adeguatamente curate. Se l’Istituto Bruno Leoni, pur con tutti i suoi errori e i limiti, è riuscito a “strutturarsi” in qualche modo, il merito va in prima battuta ascritto al senso dell’organizzazione, di più: alla passione dell’organizzazione, che aveva Franco Forlin.

Senza di lui, questa piccola iniziativa non avrebbe potuto svilupparsi in maniera ordinata e consapevole. Senza di lui, l’IBL sarebbe probabilmente abortito – come accade a molte realtà simili. La nostra gratitudine nei suoi confronti e’ pari solo al dolore. Addio, Franco.

22
Ago
2009

A Londra i regolatori rispondono agli incazzati. Da noi?

Certo, in Italia in questa crisi non abbiamo registrato fallimenti bancari. Ma non sarebbe male, immaginare che Bankitalia e Consob rispondessero direttamente a domande e querimonie di risparmiatori e azionisti incazzati. A Londra succede. Hector Sants, ceo della FSA che nell’ordinamento britannico assorbe le competenze che da noi sono ripartite tra Bankitalia – stabilità finanziaria micro e macro – e Consob – obblighi di trasparenza al mercato – sistematicamente si alterna dalle colonne di quotidiani come il Telegraph e il Times, e risponde direttamente ai lettori, vedi per esempio qui.  Non sono risposte diplomatiche. Agli arrabbiati contro la prassi degli alti bonus bancari, che non cessa anche in istituti salvati o sorretti dal denaro del contribuente, Sants replica che non è il regolatore a dormire ma la politica a negargli sinora il potere d’intervento, al di là di tante chiacchiere. Idem dicasi sul problema Too Big To Fail: dipendesse da me, dice Sants, adotterei requisiti di capitale variabili per tipo e dimensione di asset patrimoniali, con finanziamento del fondo tutela depositi inversamente proporzionale alla taglia delle banche, ma finché non si decide nulla nei tanti fori di cooperazione internazionale che se ne stanno occupando, non prendetevela con me. Pensate a come sarebbe divertente, chiedere a Draghi perché Bankitalia per oltre un anno non ha fatto niente su Delta a San Marino, alla Consob come la pensa sulla continuità aziendale dei conti di Risanamento negata dalla Procura di Milano,  o all’Antitrust perché su Intesa-Agricole-Generali si debba aspettare fino a babbo morto…

22
Ago
2009

Seggi alle sventole, Silvio non è solo

Notizia incoraggiante per Berlusconi dal Regno Unito. Silvio non è il solo, a preferire elette in Parlamento selezionate per stacco di coscia. Alan Scard, presidente del comitato dei selezionatori per i candidati Tories nell’Hampshire, dice che la sua scelta va a favore delle donne solo se sono belle. Vediamo se Repubblica e il fronte anti-papy rilancia la questione: ho i miei dubbi. Ma a che cosa servono, concretamente, donne elette in Parlamento? Domanda assai politicamente scorretta, posta così. Quella “accettabile” suona invece: quali sono le risultanze concretamente osservabili, correlate a un numero maggiore di donne elette? Chi fosse interessato, trova sull’argomento un paper fresco fresco di dati comparati , ovviamente curato da un’accademica svedese. Attenti alla conclusione: “la teoria della presenza” vorrebbe che al diminuire del gender gap in politica sia inversamente correlata la crescita del female empowerment. In realtà, a quanto pare non è affatto detto.  Bisognerebbe approfondire se la regressione standard non venga ulteriormente contenuta, al crescere di elette quando prescelte per circonferenza petto.

22
Ago
2009

In FED we trust

D. Wessel, In FED we trust: Ben Bernanke’s war on the Great Panic, Crown Business, 2009.

Confesso, non ho mai sostenuto l’esame di politica monetaria. Sono  stato solo  un anomalo studente di giurisprudenza. Tralasciamo i perchè dell’anaomalia. Come giustamente sostiene Oscar Giannino avrei ben pochi titoli per segnalare qualcosa sulla Federal Reserve. Mi limiterò al gossip.

Sanford Levinson recensisce su Balkinization il nuovo libro di David Wessel (WSJ). Perchè il libro è interessante? Wessel ci fa entrare nei giorni della crisi e nelle stanze dove sono state prese le decisioni per affrontarla. Levinson mette in evidenza due cose. Prima si concentra sui poteri della FED:

Even if Paulsen was playing a role (often quite an unhelpful one), the ostensible President of the United States, one George W. Bush, was entirely irrelevant to most of the events Wessel describes, as was, by and large, Congress, at least until the sums of money became so completely gigantic that Congress had to authorize them.

 Wessel entra nella psicologia dei personaggi che, dalla stanza dei bottoni, decidevano il da farsi. La weltanschauung di quei giorni era quella del “Whatever it takes“. Pronti a far tutto pur di portare a casa il risultato. Scrive Levinson:

The second point is perhaps of even more immediate concern to lawyers, for Wessel’s recurrent mantra, always in italics is whatever it takes. This describe Bernanke’s determination that the slide toward another Great Depression, if not worse, not take place on his watch and his concomitant willingness to do “whatever it takes” to avoid that. Thus the invocation of a hitherto obscure 1932 law–and the fact that it was passed in 1932 is of independent interest, since that obviously precedes FDR’s coming to power–that authorized the Fed to do a variety of amazing things in “unusual and exigent” circumstances. One might well regard this as an example of “delegation run riot,” at least in traditional terms. But Wessel notes that even that law wasn’t an out-and-out blank check, and that it required some creative lawyering and jerry-rigging of institutional structures to justify what was done. “Seeing imminent danger to the financial system, Bernanke and the New York Fed’s Tim Geithner had no choice but to improvise….” (p. 148, emphasis added). Indeed, to quote from the concluding chapter, “they stretched law to do whatever it takes to protect the system from clear and present danger” (p. 274, first italics added).

E qui Levinson affronta il problema della “constitutional dictatorship“. Ma questo è un esercizio di stile per poveri giuristi.