13
Set
2009

Sul tea party anti Obama, silenzio in Italia

Parecchi grandi media italiani dedicano giustamente un po’ di attenzione quotidiana a quel che capita negli Stati Uniti. Qualcuno, come il Sole 24 Ore,  pubblica a valanga traduzioni di articoli ed editoriali dalla stampa USA e britannica. Con esiti a volte un po’ paradossali, visto che a volte si finisce per dedicare più attenzione ai grandi nomi americani che ai problemi e ai temi – e alle banche – dell’economia italiana; e altre volte – quasi sempre – dell’America si importa naturalmente solo la versione liberal e democratica, vedi il domenicale del Sole odierno che partendo dalle memorie di un veterano del Vietnam stronca inappellabilmente l’intera strategia della guerra al terrorismo post 11 settembre. Detto tutto questo, forse non bisogna stupirsi del silenzio assoluto riservato oggi dai media italiani alla grande manifestazione di protesta tenutasi ieri a Washington. Non era l’equivalente di piazza san Giovanni a Roma riempita ritualmente ogni anno dalla CGIL contro Berlusconi. È stata la convergenza di centinaia e centinaia di grass roots political actions committees da tutti gli Stati americani, antistatalisti e anti big government, antitasse e dunque anti riforma sanitaria. Settantacinquemila che sfilano a Washington contro Obama, non mi pare proprio una non-notizia.

13
Set
2009

Competizione fiscale – lavori in corso

L’iniziativa dei cantoni svizzeri è uno splendido esempio di come funziona la competizione fiscale, e perché è positiva. Fornisce anche un piccolo frammento di evidenza a favore della curva di Laffer, secondo cui all’aumentare delle aliquote il gettito fiscale può diminuire. Secondo quanto riferisce il Financial Times, qualche giorno fa un rappresentante di Zugo, Peter Müllhaupt, intervenendo a Londra ha rimarcato che, nel suo cantone,

[paghereste] le tasse più basse della Svizzera… [in] una pittoresca cittadina sul lago con le montagne sullo sfondo.

Gli occhi dei presenti devono essersi messi a brillare non tanto peri pur indiscutibili pregi naturalistici di Zugo, ma per la sua attrattattività fiscale. Nel Regno Unito, infatti, la scure di Gordon Brown rischia di portare l’aliquota marginale sul reddito addirittura al 50 per cento. Già diversi hedge fund si sono spostati in terra elvetica per sottrarsi al mobbing fiscale britannico. Ma adesso si aprono le corse vere.

Mi sembra, questa, una prova molto trasparente del perché tutti, compresi quelli di noi che non sono particolarmente facoltosi, traiamo benefici dall’esistenza dei paradisi fiscali. La minaccia di un trasferimento in massa dei contribuenti più facoltosi verso altri paesi più accoglienti funziona, di per sé, come un constraint rispetto all’intenzione di un governo di inasprire le tasse. Se lo fa, sa che la platea dei contribuenti si restringerà, e lo farà soprattutto nella parte teoricamente colpita dagli aumenti fiscali. Quindi, l’efficacia di tali misure è per definizione inferiore a quanto ci si attende. Inoltre, questo processo significa che lo Stato perderà gettito, anziché guadagnarlo, ossia che il baricentro del prelievo si sposterà ulteriormente verso i redditi medio-bassi: i quali, a questo punto, dovrebbero correttamente intendere il proprio interesse e schierarsi contro gli aumenti fiscali.

E’ bene che Gordon Brown ci pensi due volte, prima di applicare aliquote troppo alte: il turismo fiscale è una tentazione troppo forte. L’aumento delle imposte non lo aiuterà ad altro che a perdere più sonoramente ancora le prossime elezioni.

12
Set
2009

Qualche numero

Bella intervista di Luca Salvioli ad Angelo Spena, che ha calcolato il numero di ore annue di funzionamento delle varie fonti energetiche impiegate nella produzione di elettricità (il dato sul termoelettrico mi sembra un po’ alto, però). Il numero ridotto (e sostanzialmente casuale) di ore in cui gli impianti rinnovabili entrano in funzione è una delle ragioni del loro costo, rispetto alle fonti tradizionali. E’ però importante, sempre, porre questo tipo di riflessioni nella giusta prospettiva: è assurdo, infatti, essere “contrari” (o “favorevoli”) a prescindere a una fonte di energia. Anzitutto, i valori medi sono, appunto, medie: in condizioni particolari possono essere molto diversi. Secondo, e più importante, ciascuno (nel senso: ciascun individuo e ciascuna impresa) ha il diritto di comporre come vuole il suo portafoglio di fonti. Il costo di generazione è solo una delle variabili considerate, e non necessariamente la più importante. Il problema sorge però quando dall’universo delle libere scelte (e anche dei liberi errori, e anche delle libere scommesse) si passa alla richiesta di sussidi: allora è ragionevole entrare nel merito tecnico delle cose. Se bisogna sussidiare, meglio farlo a favore di tecnologie che funzionano – se non altro perché, a parità di energia prodotta, il sussidio presumibilmente costa meno. Ma meglio ancora non farlo affatto.

12
Set
2009

Perché Exor compra Fideuram…

Si sprecano tesi e interpretazioni sul perché nel comitato di gestione di Intesa a fine mese la banca guidata da Corrado Passera cederà proprio alla Exor degli eredi Agnelli Banca Fideuram, per poco più di 3 bn. nel settore assicurativo e nel risparmio i controllanti di Fiat sono entrati e usciti a più riprese nella loro storia, a seconda degli anni buoni o cattivi dei capitali che potevano liberare o concentrare nell’auto. Dunque oggi si potrebbe pensare che essendo ormai Fiat un’azienda il cui più consistente apporto patrimoniale è americano,  si può passare dagli annunci di diversificazione ai fatti. Anche se resta il controsenso di dover cercare capitali sul mercato o dalle banche per questa acquisizione, e chissà che non sia la stessa Intesa a fornirli… Ma aggiungo una battura illuminante che mi ha fatto ieri l’altro un banchiere – il migliore in Italia, secondo me – apprendendo della trattativa torinese in corso. “Non stia ad almanaccare”, mi ha detto ghignando. “Comprano un gestore di risparmio perché solo così possono far rientrare i loro patrimoni contando sulla più assoluta riservatezza”.  Insomma, meglio Fideuram che Margherita.

12
Set
2009

Dopo Amato, anche CdB sbaglia sulla patrimoniale. E tifa per gli evasori

Sul Sole 24 Ore di oggi Carlo De Benedetti si aggiunge alla richiesta di un’imposta patrimoniale, avanzata a inizio agosto da Giuliano Amato. Me ne sono occupato qui, facendo mia la classica obiezione alla patrimoniale nel nostro ordinamento argomentata dal grande Cesare Cosciani, intorno all’inopportunità di un’imposta che premierebbe i patrimoni ad alto reddito nominale come le speculazioni immobiliari, e ostacolerebbe la patrimonializzazione delle imprese che è invece oggi più che mai necessaria, soprattutto per il 98% di imprese italiane sotto i 15 dipendenti. Non ho molto da aggiungere per illustrare la nostra contrarietà, se non tre osservazioni secche.  Read More

11
Set
2009

Un esempio perfetto

Forse sono un po’ troppo radicale a dire che la public choice dimostra che la politica non può funzionare, però ogni tanto (credo più o meno ogni giorno, ad informarsi) capitano degli esempi veramente lampanti a riguardo.

Lakeside Capital ci informa che la triste vicenda dei lavoratori che si erano abbarbicati sulle gru perché il loro datore di lavoro aveva venduto l’azienda ha avuto sviluppi interessanti. In sostanza, dice il Corriere, alla fine a pagare sarà il contribuente. Che sorpresa.

Per dirla come l’ispiratore di Buchanan e Tullock, “lo stato è la grande finzione mediante la quale tutti pensano di vivere a spese degli altri”.

Qual è il problema? Una lobby che chiede 60,000,000 di euro allo stato costa ad ogni suo cittadino solo 1 euro: inutile, anzi, antieconomico, opporsi. Quando poi si arriva a 10,000 gruppi che chiedono altrettanto, il portafoglio del contribuente verrà saccheggiato, ma non ci sarà alcun modo per difendersi, visto che bisognerebbe combattere 10,000 guerre contro le lobby per recuperare 1€ da ciascuna.

Se invece lo stato, in tutte le sue forme e manifestazioni, non potesse fare certe cose, le lobby, semplicemente, sparirebbero, senza problemi irrisolvibili di public choice da affrontare. Non esiste la buona politica, esiste per fortuna la politica impotente. O perlomeno esisteva in passato.

11
Set
2009

Tassa-e-spendi o spendi-e-tassa? La seconda che hai detto, in Italia

Antonio Alfonso economista presso la BCE e Christophe Rault presso la Università di Orléans Cedex 2 hanno appena reso noto un divertente studio che stabilisce una tassonomia nel meccanismo di trasmissione della politica fiscale dei paesi dell’UE. La domanda è: dall’osservazione degli andamenti intertemporali della spesa pubblica e dell’imposizione fiscale è possibile osservare delle inferenze di Granger-causality tra i due aggregati, in modo da distinguere i Paesi che tendenzialmente prima spendono di più e poi tassano di più, da quelli che invece spendono di più grazie all’effetto cassa-piena del buon gettito fiscale raccolto? La differenza è fondamentale. I Paesi spendi-e-tassa hanno com’è ovvio sistemi pubblici più tendenzialmente fuori controllo dal punto di vista della stabilità di medio-lungo periodo. I Paesi tassa-e-spendi sono intrinsecamente più stabili, hanno cioè un track record storico che testimonia una migliore capacità di tenere il freno tirato sulla spesa, per evitare deficit e aumento del debito pubblico, in caso di scelte di alleggerimento fiscale o in caso di contrazione del gettito a seguito di crisi economiche. In una fase storica come l’attuale, in cui i debiti pubblici per ragioni di “dichiarata” anticiclicità – noi siamo molto scettici su questo punto, come avrete capito dai mille post critici del moltiplicatore keynesiano –  tendono a crescere esponenzialmente, è intuitivo che i Paesi spendi-e-tassa sono esposti a rischi maggiori di quelli tassa-e-spendi. E dunque i loro politici e regolatori devono usare un’attenzione maggiore, prima di pestare con troppa energia il piede sul pedale della spesa pubblica. Domanda: secondo voi dove sta l’Italia? Ma che domande: tra i Paesi più di tutti spendi-e-tassa, naturalmente. Read More