2
Nov
2009

Mercato e debito pubblico italiano

La tesi che ha preso piede nel dibattito pubblico in questi ultimi mesi è che il debito pubblico di un Paese non vada misurato solo in percentuale sul Pil, ma riparametrato anche in ragione del debito privato esistente nello stesso Paese. Poiché il tasso d’indebitamento delle famiglie italiane è tra i più bassi nei Paesi Ocse – pari a un terzo di quelle della “formica” Germania – mentre il tasso di patrimonializzazione è tra i più elevati – al 2007 secondo il World Institute for Development Economics Research dell’Università ONU a Helsinki  eravamo 22esimi al mondo per reddito procapite a parità di potere d’acquisto, ma ottavi per ricchezza procapite davanti a Francia, Germania e Paesi scandinavi, e secondi solo al Giappone per ricchezza mediana per adulto, con il che si indica anche il minor grado di dispersione della ricchezza cioè la minor diseguaglianza sociale quanto a patrimonio – studiosi come Marco Fortis da mesi ripetono che in realtà la mera cifra del debito pubblico fa apparire l’Italia come più malata di quanto non sia davvero, nel contesto internazionale post Lehman (per chi volesse approfondire, qui la recensione del libro di Fortis edito dal Mulino). Se a quello delle famiglie aggiungiamo il debito delle imprese, comunque stiamo meglio di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Olanda eccetera, sostengono i riparametratori. Non hanno convinto il mercato, però. Almeno sinora, il mercato la pensa diversamente. E poiché è il mercato, a valutare quanto “rischiano” i debiti e dunque quanto pagano d’interessi, forse bisogna tenerne conto. Ne deve tenere conto sicuramente la politica. Purtroppo, per il mercato stiamo messi parecchio peggio del Giappone. Cerchiamo di capire che cosa può voler dire.   Read More

2
Nov
2009

Meno tasse? C’è una Confindustria che non le vuole

Poi ci s’interroga sul perché e sul per come le classi dirigenti nei diversi Paesi non siano affatto eguali. Senza addentrarsi nell’esegesi storico-sociale, ci sono degli esempi che parlano da soli. Mi riferisco al “no grazie” espresso dalla BDI, la Confindustria germanica, al confuso compromesso politico-programmatico alla base della nascita del neogoverno Merkel, qui già sconsolatamente commentato dopo le prime esultanze. E dire che il programma annunciato è di ben 24 miliardi di euro in meno tasse alle imprese. Eppure leggete qui, Hans-Peter Keitel, il presidente degli industriali tedeschi, al settimanale Focus ha detto che le aziende hanno un’altra priorità. Poiché il compromesso governativo indica che si aumenterà considerevolmente la spesa pubblica oltre a tagliare le imposte, per gli industriali la priorità è un bilancio pubblico con meno deficit a costo di sacrificare le meno tasse. Altrimenti sarebbe tutto inutile, visto che bisognerebbe pagare più oneri su un debito pubblico accresciuto. Ricordo che la Germania ha recentemente posto il pareggio di bilancio nel Grundgesetz, elevandolo a regola costituzionale. Non so se Tremonti userà questa presa di posizione per dire che non bisogna tagliare le tasse. Ma non è quello ciò che intendono gli imprenditori germanici. Bensì semplicemente che, quando e se la politica scassa il bilancio per far contenti tutti, allora le persone serie devono saper dire no grazie. Anche quando il governo con la Fdp appena formatosi è più amico dell’impresa di quello di prima, coi socialisti a bordo. Applausi ammirati.

2
Nov
2009

Ma Klaus aveva già perso! O no?

La Repubblica Ceca era l’ultimo Paese dell’UE ad avanzare dubbi sulla ratifica del trattato di Lisbona. Come correttamente riportava anche il Sole24ore del 24 ottobre, il Presidente Ceco aveva chiesto al Consiglio dell’Unione una deroga in merito all’applicazione della carta dei diritti fondamentali dell’UE. Come scrive il Sole ci sarebbero potuti essere problemi su alcuni decreti “con i quali alla fine della seconda guerra mondiale furono espulsi (ed espropriati) 2,6 milioni di tedeschi della Cecoslovacchia”.  

Questa richiesta  era stata definita da Marta Dassù sulle pagine del Corriere della Sera “un ricatto”.  Non tocca sicuramente a noi spiegare nuovamente quante e quali sono le avversità di Vaclav Klaus rispetto al progetto europeo. Lo ha fatto molto bene Carlo Lottieri su “Il Giornale”.

Come consuetudine per i lettori di questo blog andiamo alla “ciccia”. Era davvero un ricatto quello di Klaus?

I leader dei 27 Paesi hanno deciso pochi giorni fa di aggiungere un nuovo protocollo al Trattato di Lisbona. Secondo questo protocollo le deroghe previste dal Protocollo 30 “shall apply to the Czech Republic”. Senza entrare nei tecnicismi giuridici connessi al problema della ratifica, è opportuno sottolineare che il protocollo 30 non prevede un regime di totale “opt-out” per ciò che concerne l’applicazione della Carta UE.

E rispetto al problema sollevato da Klaus sui “Benes decree”, ovvero i decreti che hanno espropriato gli ex tedeschi residenti in Cecoslovacchia? Il nuovo protocollo garantito dai 27 a Klaus è in sostanza inutile. Come ben spiega Steve Peers in questa analisi per StateWatch: “any dispute concerning the Benes decrees is outside the temporal scope of Community law”. Essendo stati approvati prima dell’entrata in vigore della Carta i decreti non rientrano ratione temporis nell’ambito di applicazione della Carta.

Insomma Klaus ha avuto una garanzia giuridica che non serve a nulla e che risponde ad un problema non esistente. I giornaloni hanno fatto i loro titoli.

Cambiamo tutto. Ma tanto non cambiava niente.

2
Nov
2009

Liberalizzazione dei cieli: langue pure in Africa

Yamoussoukro è una città di cui pochi, in Europa, conoscono il nome: eppure se si tratta della capitale della Costa d’Avorio e della città da cui proveniva anche colui che per più di trent’anni – dal 1960 al 1993 – ha gestito i destini di questa nazione africana: Félix Houphouët-Boigny.

Una decina di anni fa in questo centro si tenne pure un summit panafricano che avrebbe dovuto favorire, con la “decisione di Yamoussoukro”, appunto, lo sviluppo dell’aviazione del continente grazie ad un processo di liberalizzazione. Poco e niente, però, ne è derivato. Read More

1
Nov
2009

Oba-maniacs a iosa, ma i numeri dicono che…

Stamane con Alberto Mingardi ci siamo scambiati messaggi di esultanza, per il fondo del Sole 24 ore in cui si esalta Ayn Rand. Non è esattamente l’inno alle forze più energiche del capitalismo basato sull’irriducibile determinazione degli individui, al di là di ogni logica collettiva e statalista, il mantra quotidiano dei giornali italiani. Detto questo fa anche un po’ ridere, che i neodirettori di grandi quotidiani come  Sole e Stampa preferiscano sistematicamente scrivere dell’America, invece che dedicare la loro penna all’Italia. Un bel modo per trarsi d’impaccio e volare alto, senza esprimere giudizi scomodi, su economia  e politica nostrane. Quanto all’America, se guardassero i numeri l’esaltazione mediatica obamiana andrebbe fortemente ridimensionata. Irwin Stelzer dell’Hudson Institute sul Times di oggi è molto meglio di tutto il piombo italiano filo obamiano. Per almeno tre ragioni. Read More

1
Nov
2009

Psyco-media e anniversari, il 1929 e il Muro

È casuale o vuol dire qualcosa, che nel circo mediatico nazionale – ma anche internazionale, tutto sommato – l’ottantesimo anniversario della crisi del 1929 sia passata sotto pressoché totale silenzio, tranne pochi accenni a margine? Il Black Tuesday che sprofondò l’America nel terrore avvenne il 29 ottobre. Eppure sembra proprio che, da noi ma anche negli USA, l’anniversaristica mediatica prediliga nove a uno il ventennale della caduta del Muro di Berlino, con tanto di giallo del tutto irrilevante su quale varco davvero si aprì per primo, quale il sottufficiale che per primo n0n applicò gli ordini dei vertici della RDT, e via proseguendo. No, non è un caso. I riflessi condizionati dei media sono amplificatori di processi decisionali e di valutazione dell’incertezza che da vent’anni a questa parte trovano sempre maggior campo d’indagine nell’epistemologia cognitiva, nelle neuroscienze e nella cosiddetta neuroeconomy o behavioural finance, che valse nel 2002 il premio Nobel per l’economia attribuito, insieme a Vernon Smith che ci è caro, per la prima volta a uno psicologo, il grande israeliano Daniel Kahneman (per chi volesse approfondire sulle attività accademiche e di mercato in Italia, qui). E dunque che cosa di dice, la scelte dei media? Tre cose. Read More

31
Ott
2009

Uh-oh. Mi è semblato di vedele una letlomalcia

Straordinaria intervista del Times a Sir David King, direttore della Smith School for Enterprise and the Environment a Oxford e già capoconsigliere economico dell’allora primo ministro britannico, Tony Blair. L’uomo che pochi anni fa sosteneva che “il cambiamento climatico è una minaccia peggiore del terrorismo”, oggi dice:

When people overstate happenings that aren’t necessarily climate change-related, or set up as almost certainties things that are difficult to establish scientifically, it distracts from the science we do understand. The danger is they can be accused of scaremongering. Also, we can all become described as kind of left-wing greens.

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31
Ott
2009

Ciò che si vede, ciò che non si vede: ovvero, primo bilancio (disastroso) dello “stimolo” Usa

Secondo la Casa Bianca (si veda questo articolo del Wall Street Journal), il pacchetto degli “stimoli” economici predisposti dall’amministrazione avrebbe creato 640 mila posti. Tutto bene? Non direi. Bisognerebbe infatti poter valutare – ed è operazione oggettivamente impossibile – quanti posti non sono nati o sono andati perduti a causa dal gigantesco meccanismo redistributivo che è stato messo in atto per reperire le risorse necessarie.

Ad ogni modo, affermare trionfalisticamente che l’azione governativo ha “creato” quei posti di lavoro significa imbrogliare la gente, se non indica anche il saldo tra quei nuovi impieghi e quelli “distrutti” dalla stessa azione pubblica. Per giunta, considerato che il costo complessivo degli stimoli è di 787 miliardi di dollari, come ricorda il Wall Street Journal, certamente si può sostenere che ogni posto sia costato più di un milione di dollari. Non pare davvero un affare. Read More

31
Ott
2009

Politici & poltrone

I politici si dividono in quattro categorie (o gironi) sulla base del mezzo su cui stanno viaggiando nella fase attuale della carriera:
1. Nel primo gruppo i politici che viaggiano ormai solo sulle auto blu. Consapevoli di essere pervenuti a un ruolo molto superiore alle loro mediocri capacità si accontentano dei privilegi dello status acquisito e ne difendono la conservazione. Il massimo dell’ambizione è un posto al sole, un bel consiglio di qualche impresa a controllo pubblico o di Autorità pseudo indipendente.
2. Nel secondo gruppo i politici che viaggiano sulle idee del passato, altrimenti dette anche ideologie. E’ un gruppo in declino, sia numericamente che per successo personale ottenuto. Quando i membri si accorgono che le idee del passato hanno capacità propulsiva decrescente traslocano rapidamente al gruppo uno o al gruppo tre.
3. Nel terzo gruppo i politici che viaggiano sulle poltrone attuali nel tentativo di conquistarne di più ambite. La competizione si svolge in una specie di autoscontro nel quale le automobiline sono sostituite da poltrone e consiste nel disarcionare chi occupa le postazioni migliori per impossessarsene.
4. Nel quarto gruppo i politici che viaggiano sulle idee del futuro, dotati di visione e capaci di prevedere le dinamiche sociali e di incidere su di esse. Consapevoli di essere leader non adottano la strategia di precedere di poco gli elettori della propria area sulla loro stessa strada ma pretendono di sceglierne una anche molto differente, certi di poterli convincere a seguirli.
Peccato che il quarto gruppo sia un sottoinsieme vuoto.