27
Giu
2013

Presi per i fondelli sull’IVA, delusi dal lavoro

Il governo ha varato ieri il suo biglietto da visita per il Consiglio europeo di oggi e domani, dal quale si attendono per l’Italia alcune centinaia di milioni aggiuntivi per il sostegno all’occupazione. E, insieme, ha affrontato l’altra imminente scadenza fiscale che doveva fronteggiare, oltre all’IMU maturata per credito elettorale, cioè l’aumento dell’IVA.

Diciamolo subito, la decisione sull’IVA e il decreto legge sul lavoro scontano entrambi un limite di fondo sin qui invalicabile. Il governo continua a muoversi in un orizzonte di spesa pubblica invariata, dunque non ha coperture per alcuno sblocco reale di risorse, da riallocare secondo priorità di aumento del prodotto potenziale. Dipenda da limiti politici della coalizione, per il timore di divaricarla a seconda di quali spese toccare, o dipenda dal calcolo che dopo le elezioni tedesche a settembre cambi l’aria rigorista in Europa e si aprano all’Italia chissà quali orizzonti di spesa in deficit – come se il debito pubblico non fosse già abbastanza in risalita insieme ai relativi oneri – in entrambi i casi è una scelta molto rischiosa. Anzi, sba-glia-ta.

Per avere idea della differenza,basta osservare la spending review 2013 annunciata ieri dal premier Cameron a Londra: dismissioni pubbliche per 15 miliardi di sterline, addirittura 144 mila dipendenti pubblici in meno, tagli non lineari ma mirati tra i diversi ministeri in una forbice tra il 6 e il 10%, aumento invece del budget per istruzione, sanità e infrastrutture. Scelte sulle priorità, meno spesa corrente e più per investimenti e servizi:così fa un Paese serio e una politica che se la gioca per aumentare la crescita.

Completamente diverso il quadro italiano. E’ del tutto non risolutiva la decisione del governo di far slittare a ottobre l’aumento IVA, coprendo il fabbisogno con l’aumento al 100% dell’acconto Irpef, al 101% dell’acconto IRES, e al 110% di quello IRAP, più una elevatissima imposta al 58,5% del prezzo d’acquisto delle sigarette elettroniche. Il Pdl pensa di fare il bis dello slittamento IMU, in modo che più avanti diventi abrogazione piena. Ma non si comprende come le coperture che non si trovano oggi si troveranno più avanti, visto che il fabbisogno pubblico sta peggiorando. Allo stato attuale, è solo un giroconto che esce dalle tasche di imprese e famiglie, inalterato nella somma totale. Lettà dirà che le tasse non sono aumentate, ma gli anticipi a due anni – con l’IRES e IRAP, si inaugura questa anomalia – dicono che pesano di più sul reddito disponibile dell’anno in corso, ergo aumentano eccome.

Quanto alle misure sul lavoro, le risorse sono salite a un miliardo e mezzo, cercando oculatamente fondi europei e italiani sin qui stanziati ma colpevolmente non impiegati. Distinguiamo tre diversi profili. Il primo è più convincente, il secondo ha un limite già noto, il terzo è una vera delusione.

La parte più convincente è quella rappresentata dai 168 milioni riservati al Sud per tirocinio formativo di giovani NEET, che cioè non lavorano, non studiano, e non partecipano ad alcuna attività di formazione, e dai 167 milioni per ridurre la povertà e per sostenere le famiglie del Mezzogiorno in difficoltà. Non è un granché, ma il fine è giusto e chiaro.

Il limite già noto riguarda invece il “cuore” del decreto. Cioè i quasi 800 milioni riservati a decontribuzione per 18 mesi entro 650 euro mensili per contratti a tempo indeterminato dei giovani sotto i 29 anni, o non diplomati, o che vivano soli e con persone a carico; nonché la decontribuzione per assunzione e tempo indeterminato e pieno dei disoccupati in ASPI, per non oltre il 50% del trattamento mensile dovuto e non superiore in durata ai due terzi dell’assegno di inoccupazione ancora non fruito. Queste misure hanno un difetto di fondo, già molte volte confermato da tutte le analoghe misure assunte in passato.
Sono misure a tempo, non generali ma effimere. Le altre volte, in precedenza, dopo mesi in cui i governi le annunciavano, è accaduta sempre la stessa cosa. Le imprese che stavano per assumere rinviavano la decisione al varo effettivo degli incentivi. Di conseguenza, anche questa volta la decontribuzione andrà soprattutto a favore di aziende che avevano già in animo di assumere e prendevano tempo, cioè non vi sarà che un minimo plafond aggiuntivo di occupati oltre a quello imposto dalla congiuntura. La differenza dell’incentivo sarà solo quella di discriminare per tipologie di assunti, invece di lasciare l’impresa libera di valutare di chi cosa abbia bisogno.
Direte voi: meglio di niente, comunque. Ma non è così vero. Interventi di questo tipo non fanno che rinviare al troppo tardi e al mai l’aggressione alle cause vere della maggior perdita di prodotto, ergo di occupazione, che colpiscono il nostro Paese. Se non ci si decide a una struttura della spesa pubblica – e un diverso equilibrio di quella previdenziale – che renda stabilmente possibile far scendere, per tutti e per sempre, i contributi obbligatori dal 32,5% del salario lordo italiano al 19% tedesco, resteremo zavorrati da un cuneo fiscale mortale.

La delusione è venuta invece sui ritocchi al mercato del lavoro. Quelli apportati dal decreto di ieri sui lavori “atipici” sono veramente minimi, e lasciano intenzionalmente fuori, a quel che sembra, le partite IVA. Il giro di vite generale impresso dalla riforma Fornero a tutti i contratti d’ingresso diversi dal tempo indeterminato ha generato, nella crisi delle imprese, disoccupazione aggiuntiva. Di fronte a questa oggettiva constatazione, c’erano due strade. Una più secca, una vera e propria moratoria della legge Fornero all’ingresso, moratoria alla quale capisco che il governo Letta non poteva accedere, bloccato da sindacati e Pd.

Ma c’era anche una seconda strada, più riformista. E cioè intervenire collegando gli incentivi a tempo per le assunzioni alla riforma all’ingresso nel mondo del lavoro, introducendo per i nuovi assunti contratti a tutele e dunque oneri progressivi, man mano che si proceda nell’anzianità e nella stabilizzazione del rapporto. Una parte del Pd e della sinistra sono da tempo su questa posizione di assoluto buon senso, che accomuna, al di là di tecnicalità, Ichino come Boeri. Ma un altro pezzo di sinistra e soprattutto il sindacato non ci sentono, da questo orecchio.

Peccato, che Enrico Letta non abbia scommesso sull’ipotesi riformista, perché il tempo giusto era adesso. Per me, è incomprensibile che non l’abbia fatto. Sono sicuro che lui per primo direbbe che bisogna essere prudenti, col mare agitato della sua maggioranza. Ma se la prudenza diventa immobilismo, l’Italia naufraga.

26
Giu
2013

Di cosa parliamo quando parliamo di trasparenza. Tra disclosure e openness.

La tentazione è di parafrasare il titolo della celebre raccolta di racconti di R. Carver per chiedersi “di cosa parliamo quando parliamo di trasparenza”.[1] Infatti, l’evoluzione che ne ha caratterizzato il contenuto e progressivamente arricchito il significato rende necessario precisare il concetto, nell’accezione in cui può essere specificamente usato. Perché, nell’ambito del pubblico agire, la trasparenza può – di volta in volta, ma anche al contempo – atteggiarsi come disclosure dell’Amministrazione o come openness dei risultati della sua operatività. Read More

25
Giu
2013

“Classici” in e-book, per pensare il futuro

Cosa fa sì che un autore sia un “classico”? Cosa gli conferisce quell’autorevolezza e quell’importanza che, anche dopo secoli, in qualche modo obbliga a ritornare a lui?

Con ogni probabilità, è classico ciò che resiste anche dopo molti anni e quindi è progressivamente selezionato dal confronto delle opinioni di quanti, in mille luoghi diversi, discutono tra loro. Sembra si possa dire che, di fronte alle produzioni dell’ingegno umano, il tempo è galantuomo: operando come un setaccio che trattiene quanto vale davvero e che magari porta nuovamente alla luce – a distanza di un secolo – quanto era stato irresponsabilmente perduto (come è accaduto a un autore come Frédéric Bastiat, molto famoso in vita, in seguito dimenticato e ora ampiamente riscoperto e rivalorizzato).

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24
Giu
2013

Favole & Numeri

Troppe favole e pochi numeri. Il titolo dell’ultimo libro di Alberto Bisin contiene un riferimento esplicito sia alla malattia italiana, sia agli anticorpi necessari a riscattare questo paese di “santi, poeti e navigatori” e riportarlo sul sentiero della crescita economica. Favole e numeri, appunto, di cui IBL organizza domani la presentazione, assieme agli Studenti Bocconiani Liberali – Milton Friedman Society.

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23
Giu
2013

Napoleon Hill e Brian Tracy: Alfieri della libera impresa in America — di Guglielmo Piombini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Guglielmo Piombini.

Nella storia degli Stati Uniti la diffusione di una cultura popolare favorevole al capitalismo si deve anche all’opera assidua di numerosi scrittori motivazionali. Uno dei più importanti fu Napoleon Hill (1883-1970), il quale ricevette dal grande magnate Andrew Carnegie l’incarico, non retribuito, di studiare la vita e i comportamenti degli uomini di successo, per aiutare gli americani che desideravano incamminarsi sulla via della prosperità.

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22
Giu
2013

Skyfall — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.
Cosa ci riserva il futuro economico-finanziario? Bisogna partire dalla considerazione che l’economia degli USA è la fonte della liquidità globale e che a causa del perdurante deficit americano l’economia mondiale ha accumulato ingenti riserve di dollari utilizzate per espandere la liquidità. Riversandosi sui titoli azionari, obbligazionari e confratelli vari come opzioni, futures e derivati ne sostiene il valore facendo sembrare che godano di buona salute. Questa espansione ha innescato un lungo ciclo inflazionario che si è manifestato nei mercati finanziari rafforzandosi con i deficit spending fuori controllo dei governi la cui metà è finanziata dal mercato obbligazionario. L’inflazione non si è ancora propagata all’economia reale, ma la dimensione dei sistemi bancari (negli USA è di 12 trilioni di dollari, quasi l’intero prodotto lordo e in Europa di 46 trilioni, addirittura quasi tre volte superiore all’intero Pil) lascia pochi dubbi sulla prospettiva generale. Una situazione potenzialmente esplosiva con tutti gli ingredienti pronti per una combustione spontanea.

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19
Giu
2013

Cinque domande a Bernabè sullo scorporo

Nel pomeriggio di oggi, il presidente di Telecom Italia Franco Bernabè sarà audito dal Senato in merito al progetto di scorporo della rete fissa. Il dossier è uno snodo cruciale per il futuro delle telecomunicazioni italiane, ma lascia molti interrogativi aperti: interrogativi cui l’odierna audizione darà certo risposta, ma che mi piacerebbe appuntare anche qui – nell’improbabile caso in cui qualcuno degli audenti cercasse ispirazione.

1) Telecom ha lasciato intendere di aspettarsi, a fronte dell’implementazione dello scorporo, alcune concessioni sul piano regolamentare. Ricorda, presidente Bernabè, che – nell’unico caso comparabile, quello britannico – la rimodulazione degli obblighi ex ante è intervenuta solo nel 2008, a due anni dalla creazione della divisione Openreach, e solo a valle di un’analisi delle nuove condizioni di mercato, che evidenziava la riduzione al 25% della quota di BT nella banda larga – mentre l’azienda da Lei guidata ancora controlla il 53% del medesimo segmento? Condivide l’idea che – più in generale – gli obblighi regolamentari non possano essere frutto di una trattativa al buio, ma debbano trovare fondamento nella morfologia del mercato?

2) Lo strumento della separazione delle reti dai servizi ha la ratio di garantire parità di accesso ai concorrenti, assicurando una competizione più equilibrata – con l’obiettivo di fornire ai consumatori migliori prestazioni a prezzi più bassi. In Gran Bretagna, i canoni per l’accesso all’ultimo miglio sono scesi del 19% tra il 2004 e il 2013, con un’accentuazione di tale dinamica negli anni successivi allo scorporo della rete di BT. Come conciliare queste considerazioni con la visione di Telecom Italia, che esplicitamente auspica un rincaro delle tariffe, che a propria volta si tradurrebbe in maggiori prezzi per i consumatori? Di nuovo, è ipotizzabile che i regolatori (italiano ed europeo) offrano aprioristicamente garanzie in tal senso, anziché far seguire le proprie determinazioni a una verifica del livello di concorrenza raggiunto?

3) Nell’ultimo decennio, sono state proposte e attuate forme via via più intense di separazione della rete, pur senza giungere all’attuale scenario di societarizzazione. Ciò nonostante, Telecom Italia ha collezionato nel medesimo periodo – e ancora il mese scorso – una copiosa serie di condanne per abuso di posizione dominante, che dimostrano come la lettera delle norme e la pratica della regolamentazione non sempre coincidano. Cosa autorizza a credere che questa volta sarà diverso?

4) È evidente, ed è stato sottolineato da più parti, che Telecom valuti il progetto della separazione anche come un’opportunità per mettere sotto controllo il proprio imponente indebitamento. Il rischio è quello di ribaltare sui contribuenti costi simili a quelli già sostenuti per altre, scriteriate, operazioni di salvataggio dei campioni nazionali. Il management crede nel senso industriale dell’operazione – per l’azienda e per l’intero settore – o mira ai soli benefici finanziari? Può garantire che la società della rete non finirà per essere la bad company di Telecom?

5) Come giustificare, in questo quadro, il prospettato intervento della Cassa Depositi e Prestiti? Quale logica di garanzia potrebbe avere tale soluzione, se si discute unicamente di una quota di minoranza nella società della rete? Quale logica economica, se la prospettiva è quella di ricomprare – a prezzi maggiorati – un asset alienato quindici anni fa? Quale logica industriale, se finiremmo per riportare sotto l’ombrello pubblico un’infrastruttura obsolescente e bisognosa di investimenti? È possibile, presidente Bernabè, che non esistano pretendenti meglio equipaggiati – sebbene, forse, più minacciosi per Telecom?

@masstrovato

18
Giu
2013

Quattro novità che ci sfidano

L’istituto Bruno Leoni ha dato una nuova veste al suo blog, e riprendo da oggi a scrivervi dopo un semestre, la pausa obbligata imposta dalla campagna elettorale e da quel che me n’è colpevolmente venuto.

Solo quattro semplici e nette considerazioni, non ispirate all’heri dicebamus perché il mondo e l’Italia cambiano intorno a noi, e perché ovviamente anch’io non sono lo stesso di prima.

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