4
Lug
2013

Comunque sia andata è stato un successo. Per una storia della fat tax danese

Il dibattito relativo alle imposte sui grassi – o, più precisamente, alle accise sugli alimenti utilizzate in funzione di politica sanitaria – è dominato da una serie di affermazioni di principio, in virtù del limitato numero di esperienze empiriche che possano supportare la tesi favorevole o quella contraria. Non sorprende, dunque, che uno tra i più significativi casi di tassazione dei grassi – quello danese – sia oggi al centro di interpretazioni contrastanti.

A ben vedere, la lettura della vicenda pare abbastanza lineare: l’imposta danese ha avuto vita breve perché il governo di Copenhagen, a un anno di distanza dall’introduzione, ha preso atto della sua scarsa efficacia e, soprattutto, dei costi considerevoli, optando per l’abrogazione (nonché per il ritiro di un’analoga proposta di prelievo sugli alimenti zuccherati). Il tributo, che colpiva con un’aliquota di circa due euro al chilo gli alimenti contenenti almeno il 2,3% di grassi saturi (inclusi olî, carni e formaggi), aveva alimentato un fiorente commercio transfrontaliero, a danno dell’attività economica nazionale e delle aspettative di gettito dell’erario. Inoltre, la misura implicava rilevanti costi amministrativi, per la necessità di determinare le caratteristiche nutrizionali degli alimenti che possono rientrare nel suo ambito applicativo.

Una ricerca promossa dall’Università di Copenhagen e presentata alla Conferenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in corso a Vienna ambirebbe a bilanciare tale ricostruzione. Lo studio, anticipato nei giorni scorsi da EU Food Policy, sostiene che il tributo abbia ridotto del 6% l’assunzione di grassi saturi da burro, olî e margarina e addirittura del 10-12% il loro consumo complessivo. Gli autori riconoscono – bontà loro – che si tratta di cifre provvisorie, in attesa di essere corroborate da un supplemento d’indagine. A maggior ragione, sarebbe provvisorio – e forse prematuro – ogni commento sullo studio: tuttavia, mi pare che si possano svolgere già alcune osservazioni.

  1. L’analisi dei consumi è in questo caso particolarmente scivolosa, perché – come detto – una quota considerevole della domanda è sfuggita ai commercianti danesi; è vero che si può ricorrere ai consumatori stessi per reperire le informazioni mancanti, ma questo metodo risulterebbe assai meno affidabile.
  2. Gli autori riconoscono che, prima dell’introduzione del tributo, i consumatori hanno aumentato le proprie scorte fino a un terzo: i tassi di consumo dovrebbero tener conto di questo elemento.
  3. Lo studio riporta che l’incidenza della tassa non è ricaduta interamente sui consumatori di olî e burro, mentre il prezzo della margarina è aumentato in misura superiore alla componente fiscale. È lecito ipotizzare che il consumo di margarina sia diminuito in maniera più marcata.
  4. L’analisi si riferisce a tre categorie di prodotti colpiti dall’imposta, ma non ne esaurisce l’ambito. Quale impatto ha avuto la misura rispetto al consumo di alimenti come carni e formaggi?
  5. Più in generale, la domanda rilevante non è tanto l’andamento del consumo di singoli prodotti, quanto l’effetto complessivo del tributo sulla dieta dei cittadini danesi. Su questo aspetto, gli autori ammettono di non poter formulare un giudizio.
  6. Gli effetti dell’imposta sulla salute vanno comunque rapportati agli effetti economici in una valutazione d’impatto generale.

È senz’altro un bene che si discuta di questi argomenti in modo rigoroso, sfuggendo a riflessi aprioristici e valorizzando gli elementi empirici che l’esperienza di alcuni paesi comincia a fornire. Tuttavia, sulla base di queste anticipazioni, la ricerca dell’Università di Copenhagen non pare in grado di giustificare una rivalutazione del caso danese. Il revisionismo salutista può attendere.

4
Lug
2013

Lo Stato debitore che affossa l’ippica italiana

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Damiana Conti.

Quello dell’ippica è un settore che interessa a pochi in Italia. Così non è per i paesi anglosassoni, o per altri paesi come Francia e Svezia, dove invece questo sport è tenuto in grande considerazione e non conosce crisi.

Quanto lo scarso appeal di questa disciplina sul pubblico italiano sia dovuto a fattori socio culturali, e quanto invece sia il risultato delle oggettive difficoltà di gestione che hanno sempre caratterizzato il comparto, non è argomento di facile soluzione, un dato è che della filiera fanno parte a vario titolo circa 50mila famiglie che ad oggi sono in grave difficoltà.

La tragica situazione in cui versa il settore (senza esagerazioni, visto che anche questo comparto conta i suoi morti “per crisi”) è emblematica di uno Stato che riduce sempre più spesso il cittadino alla condizione di suddito. In un “Sistema Italia” che non è mai stato in grado di “fare sistema”, pur potendo vantare innumerevoli eccellenze, molte delle quali, proprio per la mancanza di una “rete” di difesa contro le ingerenze dello Stato, sono al collasso. Una di queste, appunto, è l’ippica (un esempio su tutti, Varenne, il trottatore che ha frantumato tutti i record, è italiano). Read More

4
Lug
2013

Esaltarsi per un po’ di deficit in più, pagato caro

Da Messaggero e Mattino 

Ieri la giornata europea era cominciata bene per un po’ di membri dell’Unione, trai quali l’Italia, con le parole del presidente della Commissione José Manuel Barroso che hanno annunciato un allentamento del vincolo del 3% di Pil come limite di deficit pubblico oltre il quale scatta la procedura d’infrazione. Immediatamente il premier Letta, numerosi ministri ed esponenti della maggioranza, hanno esultato “ce l’abbiamo fatta, la serietà paga”. In effetti, è un riconoscimento agli italiani, famiglie e imprese, visto che dal 2009 è solo dalle loro tasche e grazie al loro sacrificio, con 38 miliardi di euro di aggravi fiscali, che si sono trovate le risorse per migliorare di circa 35 miliardi il deficit pubblico. Ma come l’arco della giornata per l’Europa è poi peggiorato, con nuove nubi di serio aggravamento della crisi in Portogallo e Grecia, allo stesso modo prima di stappare champagne è meglio cercare di capire in che cosa consista, l’allentamento annunciato da Barroso. Anche perché, nelle ore successive, il commissario agli Affari Economici Olli Rehn l’ha di molto circoscritto.

 

A chi si applica?

Solo ai Paesi virtuosi, cioè quelli che non sono sotto procedura d’infrazione. L’Italia ne è appena uscita, insieme a Lettonia, Ungheria, Lituania e Romania. Questi 5 Paesi si sommano ad altri 7, che erano già sotto il 3% di deficit pubblico nel 2012 o prima ancora: Germania, Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Malta, Bulgaria<, Svezia. Il criterio si applica dunque a meno della metà dei 27 membri dell’Ue, che dal primo luglio sono 28, grazie all’ingresso della Croazia. Ad altri 6 membri, Spagna, Francia, Olanda, Polonia, Portogallo e Slovenia, 2 settimane fa era stato già concesso un “bonus” di 1 o 2 anni prima di rientrare sotto il 3%, rispetto a quanto precedentemente stabilito. E molti in Italia si erano chiesti che senso avesse, il nostro sacrificio fiscale per rispettare il programma europeo, quando ad altri Bruxelles concedeva più margini.

 

L’allentamento è uguale per tutti i virtuosi?

No, sarà valutato “caso per caso”. Anche perché se no a potersene giovare di più sarebbe la Germania, il Paese la cui economia sta meglio e con un deficit di poco superiore all’1%. Nel valutare il discostamento conta innanziutto quanto l’economia reale va male rispetto al cosiddetto “prodotto potenziale”, e da questo punto di vista l’Italia dovrebbe beneficiarne di più, visto che a fine 2012 saremo a meno 8 punti di Pil di crescita rispetto al 2008. Però questo vantaggio è fortemente attenuato da due altre condizioni. Conta quanto distante è nel tempo il pareggio di bilancio tendenziale “strutturale”, cioè corretto per il ciclo, che attualmente per l’Italia era previsto al 2014-15. Infine c’è un criterio aggiuntivo, che il commissario Rehn ci ha tenuto a chiarire proprio per frenare l’euforia italiana: il maggior deficit possibile “deve comunque” rientrare nel tetto del 3%. Il che significa che se prendiamo per buone le previsioni di aprile del governo, che fissavano nel 2,4% di Pil il deficit per il 2013, nell’anno in corso il margine per l’Italia è di un deficit aggiuntivo pari allo 0,5-0,6% di Pil, cioè contenuto entro gli 8 o 9 miliardi. Meglio di niente, ma comunque poca cosa.

 

Si potranno abbassare le tasse, allora?

No. Non con questi 8-9 miliardi, almeno. La Commissione europea autorizzerà il maggior deficit solo per tre tipologie di spesa : quote di cofinanziamento nazionale di fondi europei per coesione e sviluppo (qui rientra dunque un piccolo bonus aggiuntivo per l’occupazione, rispetto ai 3 miliardi sin qui somma italiana ed europea dei due provvedimenti assunti dal governo in queste settimane), grandi reti europee di trasporto (i cosiddetti “corridoi”ferroviari e marittimi da Nord Est a Nordovest e da Sud a Nord) e infine il potenziamento delle infrastrutture digitali. “Devono” essere spese per investimento, non per coprire la parte corrente del bilancio fatta di entrate e uscite. L’Italia resta per altro soggetta ai vincoli assunti con il fiscal compact, ogni anno il debito pubblico deve scendere di almeno un ventesimo della quota che eccede il 60% del Pil. Al momento, il nostro debito sale, e la politica non ne vuol sentire di dismissioni pubbliche per abbatterlo.

 

Ma chi guadagna di più? Noi, oppure era meglio fare come Francia e Olanda che hanno già ottenuto slittamenti di anni per rientrare sotto il 3%?

Paradossalmente, se Bruxelles applicherà alla lettera all’Italia quanto ieri annunciato, per Francia e Olanda nei prossimi 2 anni va meglio, avranno cioè più risorse consentite rispetto a noi che ci siamo sottoposti a un eccidio fiscale “concentrato” nel tempo. E’ vero che noi abbiamo un debito pubblico in crescita oltre il 124% del Pil, di decine di punti superiore a quello francese e olandese. Ma è appunto dura da buttar giù, che i maggiori sacrifici siano chiesti a chi come l’Italia perde intanto più punti di Pil, cioè di reddito e patrimonio. E’ il paradosso di un’Europa che resta assolutamente poco cooperativa. Proprio per questo, la politica italiana dovrebbe puntare comunque a tagliare significativamente imposte e cuneo fiscale, su lavoro e imprese. E per far questo sui tagli di spesa bisogna passare, dopo anni, dalle parole ai fatti. Altrimenti, la strage di impresa e lavoro potrà di poco rallentare, ma non certo cambiare segno. Prima di gioire di contenuti “premi” europei, la politica italiana deve applicare allo Stato quanto finora ha riservato solo agli italiani. Per il momento, siamo alla Corte costituzionale che boccia persino il modesto taglio alle Province tentato dal governo Monti. Che pena. E che rabbia.

 

3
Lug
2013

Le origini della crisi egiziana — di Nouh El Harmouzi e Ali Massoud

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Cosa ha portato 17 milioni di egiziani nelle piazze di tutto il paese e ha spinto 22 milioni di cittadini a sottoscrivere una denuncia del presidente Mohammed Morsi? E perché il sito web del movimento di protesta Tamarrod (Il ribelle) ha chiesto che “il presidente Morsi lasci l’incarico entro le 5 del pomeriggio di martedì 2 luglio” e permetta lo svolgimento di libere elezioni, con la minaccia, in caso contrario, di una “assoluta disobbedienza civile”?

E perché le forze armate egiziane hanno presentato allo stesso Morsi un ultimatum, intimandogli di risolvere la crisi entro 48 ore, in difetto di che avrebbero preso esse stesse le misure necessarie.

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2
Lug
2013

Età pensionabile più bassa? Il rischio è che a pagare siano i contribuenti e i giovani

Sulle pensioni, come sempre accade da decenni in Italia, anche il governo Letta a settembre riapre il cantiere. Dopo il secco intervento della riforma Fornero a dicembre 2011, presentata come intervento “definitivo”, si vuole tornare indietro. Il ministro Giovannini non è contrario allo schema condiviso da Cesare Damiano e da PierPaolo Baretta del Pd con Renato Brunetta del Pdl, convinti, insieme ai sindacati, che la riforma Fornero sia stata troppo “secca”. L’ipotesi è di tornare a uscite “flessibili”. E’ una buona idea? Vediamo qualche numero, per capirlo.

La riforma Fornero ha introdotto dal 2012 l’unico criterio contributivo, ha bloccato l’adeguamento all’inflazione per il biennio 2012-13 delle pensioni superiori a 1.400 euro lordi al mese, e dal 2012 ha abolito la pensione di anzianità, sostituita da un trattamento pensionistico anticipato che si può ottenere con 42 anni e 1 mese per gli uomini, e 41 e 1 mese per le donne. Queste età sono soggette ad aggiornamento triennale per effetto dell’incremento della durata media della vita, per cui in futuro l’età minima per la pensione sale, fino a convergere con quella di vecchiaia. Per accedere alla pensione di vecchiaia occorre avere almeno 20 anni di contribuzione, mentre l’età per poter diventare pensionato è stata aumentata a 66 anni per tutti, salvo per le donne che lavorano nel privato (62 anni), e per le lavoratrici autonome (63 anni e 3 mesi). Ma tutte queste categorie convergeranno gradualmente all’età di 66 anni, per poi salire verso quota 70 per effetto dell’aumento automatico dei requisiti di vita. Sono state eliminate le cosiddette finestre. E’ stato alzata gradualmente dal 20 al 24% la contribuzione ai lavoratori autonomi. Tutto questo, sommando le varie voci tra minori spese e maggiori entrate, si è calcolato produca risparmi nella misura di 80 miliardi entro il 2018. Ma il più , almeno 46 miliardi, verrà dal 2016 in avanti.

La domanda da farsi è: oggi, come sta andando la spesa per previdenza, che assorbe oltre il 35% del totale delle uscite pubbliche? Male. Tra il 2009 e il 2012 l’aumento della spesa pubblica corrente – mentre le entrate salivano di 38 miliardi, tutti usciti dalle nostre tasche – si è concentrata proprio in 27 miliardi di maggiori prestazioni previdenziali e assistenziali. Per di più, i contributi sociali sono cresciuti di 4 miliardi, mentre l’onere a carico della fiscalità generale è cresciuto di 23 miliardi di euro. Nel 2013 le prestazioni aumenteranno di altri 8,3 miliardi rispetto al 2012, di cui solo 3,7 vengono coperti da maggiori contributi, e 4,1 da maggiori trasferimenti statali.

L’ipotesi Baretta-Damiano è di tornare a pensioni flessibili, col meccanismo di penalizzazione e premio. Tagliare dell’8% l’assegno di chi lascia a 62 anni, del 6% a chi lavora fino a 63, del 4% a 64 e così via, fino alla neutralità di chi “sceglie” le regole generali e lascia il lavoro a 66 anni. In modo speculare, chi lavora oltre il tetto di età in vigore alla maturazione del trattamento potrebbe avere un bonus del 2% per ogni anno di lavoro in più.

Questa proposta mira non solo a ridare “scelta di vita” ai lavoratori. Si propone anche di creare occupazione giovanile aggiuntiva, visto che gli effetti della riforma Fornero sono di alzare di più di due anni la vita al lavoro media della platea maschile e di 4 quella femminile, “bloccando” per così dire i nuovi ingressi proprio ora che la disoccupazione giovanile è ai massimi. Tuttavia ha ragione Carlo Dell’Aringa, che nella squadra di governo è il più tiepido verso il ritorno a uscite anticipate. La discesa verso il 15% del Pil di spesa previdenziale – comunque 2 punti sopra la media Ue e della Germania – per effetto della riforma Fornero si concentra negli anni 2018-2024. Nel frattempo, tornare a uscite flessibili aggrava la spesa tendenziale, e aggrava soprattutto la quota da coprire con fiscalità generale, rendendo cioè ancora più difficile i tagli generalizzati al cuneo fiscale di cui ci sarebbe bisogno.

Sindacati, Pd e Pdl spingono, ma sarà bene sapere con precisione a chi verrà addossato l’onere di un eventuale abbandono della riforma Fornero. Per più occupati giovani, è meglio abbassare il cuneo fiscale che fargli pagare più imposte per sostenere i trattamenti di chi va in pensione prima, visto che chi è giovane ora avrà pensioni di poco superiori al 40% della sua ultima retribuzione, e a patto di non avere “buchi” contributivi nell’arco della propria vita. Ed è meglio non aspettarsi troppo da tagli alle pensioni d’oro – i soli 33 mila pensionati oltre i 90 mila euro pesano per 3,3 miliardi l’anno – in quanto la recente sentenza 116/2013 della Corte costituzionale ha innalzato un muro, contro l’ipotesi di interventi equitativi.

2
Lug
2013

I grillini, i calabroni e la mentalità dell’alveare

E’ abbastanza sorprendente che durante la lettura di un bel romanzo italiano ci si imbatta nel nome di Bruno Leoni. Questo “incontro” accade a pagina 45 di La mentalità dell’alveare di Vincenzo Latronico. Come ha spiegato l’autore in un’intervista, si è trattato di una sorta di “gioco”: mostrare il protagonista impegnato in un “dibattito di idee” (un protagonista tuttavia critico nei confronti del liberalismo leoniano). Ma i riferimenti “sorprendenti” non si fermano a Leoni, dal momento che a pagina 99 si cita anche Ayn Rand e uno dei personaggi del romanzo (il giornalista del Guardian) si chiama Roark, come l’Howard della Fonte meravigliosa.
Latronico ha scritto un romanzo assai particolare (e non solo nella scelta della citazioni), lui stesso lo ha definito come “un pamphlet di intervento politico in forma narrativa”.
Il libro prende spunto dalle elezioni politiche del febbraio 2013, e racconta una storia “interna” alla Rete dei Volenterosi, nome dietro il quale c’è il Movimento 5 Stelle. Ogni riferimento ai grillini è chiaro e voluto, anche se l’autore preferisce imbastire una storia di fiction per toccare alcune questioni di grande importanza nel dibattito politico. E’ lo stesso Latronico ad esplicitare il tema del libro: la democrazia digitale. Niente di meglio quindi che parlarne attraverso il M5S, che proprio della democrazia diretta, tramite l’uso di Internet, ha fatto la propria bandiera. Read More

1
Lug
2013

A little less conversation, a little more action please. Riflessioni sul pacchetto lavoro

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Brambilla.

“Adesso le imprese non hanno più scuse per non assumere”. Poche frasi più di quella pronunciata qualche giorno fa dal premier Enrico Letta riassumono con maggiore cruda efficacia quel misto di incomprensione, diffidenza ed ostilità che caratterizza la percezione che i nostri politici hanno delle piccole e medie imprese italiane.

Cresciuti in contesti culturali in cui il profitto era sterco del diavolo o esproprio delle energie dei lavoratori, ostili all’imprenditoria che non fosse organica ai grandi gruppi prossimi ai centri di potere politici e sindacali, i nostri rappresentanti amano parlare molto di lavoro e poco di impresa, quasi il primo fosse indipendente dalla seconda anzi lasciando trasparire la convinzione che l’unico fattore alla base della disoccupazione sia la cattiva volontà degli imprenditori di fare tesoro delle loro intuizioni in materia di politica industriale.

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1
Lug
2013

Socialismo municipale, una follia da smontare

Stamane il ministro Zanonato, intervistato dal Corriere, si dice contrario a dismissioni pubbliche. La presenza pubblica è naturalmente “strategica”, anzi bisogna estenderla tramite CDP nelle società delle reti. Ieri il viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha spiegato al Mattino che, per trovare la copertura adeguata ad eliminare stabilmente l’aumento dell’IVA e l’IMU prima casa, occorre riprendere la strada dei tagli di spesa, e ha indicato in questo ambito le società controllate da Comuni, Province e Regioni. Viene da battere le mani, fosse vero, perché la via della riduzione “mirata” di una spesa pubblica che supera gli 800 miliardi era da anni e resta oggi la via maestra, per abbattere un prelievo fiscale e contributivo da suicidio. Oltre che negli 8 punti di Pil spesi ogni anno in forniture della PA senza che riesca se non in piccola parte il tentativo di accentrarne la selezione su piattaforme elettroniche centralizzate e trasparenti, uno dei capitoli essenziali dove la spesa pubblica si può ridurre senza effetti recessivi è proprio quello citato da Fassina, l’eterogeneo ed estesissimo mondo delle società controllate e partecipate dagli Enti Locali, Comuni, Province e Regioni.

I suoi sostenitori lo chiamano “capitalismo municipale”, riandando con la memoria all’inizio del 900, quando il fiorire delle società municipalizzate divenne una specie di “terza via” italiana per l’offerta di servizi pubblici. In realtà, da anni è più corretto chiamarlo “socialismo municipale”, nel senso che agisce al di fuori di ogni compatibilità economica e finisce per collassare su se stesso come i vecchi regimi dell’Est.

Ma quanto è vasta, la realtà di cui stiamo parlando? Lo Stato, tanto per cambiare, come non ha una contabilità affidabile e precisa di quanto deve alle imprese e ai suoi fornitori, allo stesso modo non ha alcun registro aggiornato della miriade di società partecipate e controllate dalla mano pubblica a livello territoriale. Viene da piangere, ma i poteri pubblici non hanno idea di dove hanno le mani. Dobbiamo affidarci ai rapporti periodici che su questo vengono realizzati da Nomisma, da Unioncamere, dall’ANCI, e dall’osservatorio sulle privatizzazioni creato da alcuni anni dalla Fondazione Mattei dell’Eni insieme a KPMG. E’ dal 2009 che il legislatore nazionale chiede alle Autonomie di dare al Tesoro un quadro preciso delle società partecipate e controllate, e di quelle che offrono servizi pubblici affidati in house, cioè in gestione diretta, senza gara, con vastissimo spazio garantito a criteri di discrezionalità politica e di diseconomicità di prezzi-tariffe rispetto a standard di servizio offerti.

Ma, purtroppo – e Fassina lo sa benissimo – ancora nel recentissimo “decreto del fare” varato dal governi Letta 10 giorni fa è stata adottata una nuova proroga, di altri 6 mesi,rispetto ai termini previsti dal governo precedente per lo scioglimento delle società controllate dalle PA e l’esternalizzazione dei servizi da esse prestate. Gli enti titolari di queste società multiservizi, se fatturano fino al 90% delle loro prestazioni all’ente controllante, erano tenuti ad alienare le relative partecipazioni entro il 30 giugno 2013. E contestualmente avrebbero dovuto riassegnare il servizio prestato per 5 anni a decorrere dal 1° gennaio 2014. Invece, si continuerà come prima. In ballo, secondo dati di Unioncamere, ci sono circa 3.400 società, con un fatturato superiore ai 30 miliardi di euro, per oltre un terzo in perdita. Con un debito commerciale stimato in fino a una quarantina di miliardi, e almeno 240mila dipendenti. Un anno fa era stato previsto che entro lo scorso aprile si sarebbe dovuto emanare un Dpr per definire i criteri con cui procedere all’individuazione degli enti e degli organismi da razionalizzare, creando un’anagrafe nazionale per selezionare quelle prestatrici di servizi da affidare a gara e quelle invece da chiudere, con la conseguente scelta di affidare all’esterno il servizio prestato nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale. Non se ne è fatto nulla. Solo noi contribuenti, siamo tenuti a pagare spaccando il minuto quanto ci chiede lo Stato, e quanto ci chiede in aumento. Quando si tratta di sé, invece, lo Stato proroga per anni.

I numeri, dicevamo. Incrociando le stime Unioncamere e Anci, al 2010 erano 7.723 i Comuni azionisti e 3.662 le imprese partecipate comunali in attività. Mentre le società attive alla fine del 2009 partecipate da una o più Regioni erano 4.108, di cui 363 con partecipazione diretta e più di 3.000 a partecipazione indiretta. Poiché le partecipazioni spesso si sovrappongono, i pareri divergono. Per la Fondazione Mattei e KPMG nel corso del decennio alle nostre spalle il socialismo municipale è cresciuto di almeno il 10%. Secondo una ricerca coordinata l’anno scorso dal professor Giulio Napolitano per l’IRPA, al contrario, di fronte alle difficoltà della crisi i Comuni hanno iniziato a mettere un freno, alla giungla delle proprie partecipazioni. In realtà, non lo sa nessuno.

Altro che proroghe, occorreva serrare i tempi. Proprio i casi di Napoli – e di Palermo – dimostrano che di tempo non ce n’è più. Le società controllate e partecipate, oltre a non pagare i propri fornitori, si vedono negare i pagamenti proprio dal Comune controllante con l’acqua alla gola. Da questo nacque la recente interruzione del servizio di trasporto urbano a Napoli, che curiosamente ha scatenato le proteste, ma non sul pagamento del dovuto da parte del Comune. O, ancora, le continue contestazioni dei dipendenti delle aziende di comuni come Reggio Calabria o Palermo, che non ricevono lo stipendio.

Ma il punto di fondo non è solo l’emergenza da dissesto finanziario. L’ondata delle grandi fusioni, annunciata da anni nelle public utilities pubbliche per farnascere qualcosa di simile alla tedesca RWe, è puntualmente mancata. IREN, HERA, A2A e tante altre restano agglomerati nei quali la politica locale combatte per poltrone e strapuntini in una governance aflitta da elefantiasi, grazie al proliferare del sistema duale a ogni livello. Oltre 5mila Comuni affidano servizi idrici, di trasporto locale ed energetici per oltre 3 punti di Pil di fatturato non avendo la possibilità di investire quanto queste utilities essenziali richiedono – si stima servano 62 miliardi solo nel settore dell’acqua, per ridurre le perdite record nella distribuzione e per chiudere il ciclo completo del trattamento ambientale del refluo e scarichi civili e industriali – con conseguenze esiziali sulla bassa produttività del Paese. Con aumenti tariffari che, in questi anni, hanno addirittura sopravanzato la componente energetica come maggiore fattore di accelerazione dell’inflazione al consumo. E con una quotidiana ferita profondissima a ogni mimnimale logica di efficienza, trasparenza e concorrenza, visto che un servizio “pubblico” non dopvrebbe essere automaticament essere gestito dal pubblico per essere tale, ma molto più efficacemente affidato a privati, con la ano pubblica che si limita a fare da regolatore e controllore di standard di servizi, investimenti, e criteri di tariffe.  Conoscere, razionalizzare e smontare il socialismo municipale secondo logiche di efficienza è un dovere per rispettare le tasche degli italiani come contribuenti, le loro aspettative come consumatori, e per evitare che il necessario rialzo della produttività pesi solo sul settore privato, mentre il pubblico alza le spalle.

30
Giu
2013

Addio a Kenneth Minogue, una mente libera

Pubblicato su Libero, 30 giugno 2013

“Una popolazione che affidi il suo ordine morale ai governi, per quanto impeccabile sia la motivazione, diventerà dipendente e servile”. Questo sino ad ora – fra tragedie e conquiste, deviazioni di percorso e fughe in avanti – è ciò che secondo Kenneth Minogue la cultura occidentale è riuscita ad evitare nella storia dell’umanità. L’azione morale individuale – imparare a vivere secondo i propri errori – è l’essenza della libertà e l’educazione di Stato è l’esatto contrario. Minogue è morto venerdì scorso all’età di 82 anni. Era un filosofo politico liberal-conservatore, uno dei più brillanti del Novecento e di quest’inizio di Duemila. Era diventato famoso con la pubblicazione da giovanissimo di La mente liberal, un saggio che analizzava la deriva del liberalismo classico verso la cultura liberal de sinistra: “una forma di idealismo sentimentale che incoraggia la dipendenza dal governo e promuove l’autocommiserazione e l’obbedienza, piuttosto che la fiducia in sé stessi”. Read More