10
Lug
2013

Il decreto Fare, Art.12 – Dismissioni

Il titolo dell’articolo 12 del decreto Fare può essere fuorviante: nel testo non si parla infatti di “Ricapitalizzazione delle Società di Gestione del Risparmio” ma di ricapitalizzazione di InvImIt, una SGR pubblica nata dalla manovra estiva del 2011 con l’obiettivo di valorizzare e dismettere il patrimonio pubblico. Ma, come è stato osservato, il decreto incontrerà molte modifiche prima di diventare legge. In fase di conversione verrà verosimilmente corretto anche un impreciso riferimento legislativo: il comma 1 dell’articolo 33 del D.L. 98/2011 che istituiva la SGR in questione, ne prevedeva un capitale iniziale di due milioni di euro, non di tre.

Read More

10
Lug
2013

Un menù di sprechi per festeggiare Italia150

Si direbbe che la spesa pubblica italiana abbia dato il meglio di sé per celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale. Con la scusa del “grande evento”, è stato possibile stanziare risorse imponenti, imporre procedure d’urgenza e infine permettere affari milionari ai soggetti coinvolti negli appalti. Read More

10
Lug
2013

Il decreto del fare, Art.11 – Cinema

L’articolo 11 del “decreto del fare” estende anche al 2014 i crediti d’imposta (tax credit) per la produzione, la distribuzione e l’esercizio cinematografico. Il tetto massimo di spesa viene fissato in 45 milioni. Questi meccanismi di incentivazione fiscale a favore degli investimenti nel settore cinematografico sono stati introdotti dalla legge finanziaria 2008 e poi prorogati fino al 31 dicembre 2013. Si applicano sia alle imprese che non appartengono alla filiera del settore cinematografico ed audiovisivo (c.d. tax credit esterno) che alle imprese interne alla filiera del cinema (c.d. tax credit interno).

A differenza del precedente stanziamento triennale, la nuova proroga ha validità unicamente annuale e, soprattutto, dimezza l’entità della spesa. Dal 2011 al 2013, le risorse messe a disposizione per finanziare il tax credit sono state nell’ordine dei 270 milioni (90 milioni ogni anno), nel 2014 saranno invece di 45 milioni.

Read More

9
Lug
2013

Il decreto del Fare, Art. 10 – Telecomunicazioni

Il decimo articolo del decreto del Fare non sarà ricordato come un esempio di luminosa tecnica legislativa. In particolare, destano notevoli perplessità i primi due commi, che si preoccupano di disciplinare la fornitura al pubblico di connettività su reti wi-fi, ma si dimenticano di precisarlo: il generico riferimento «all’offerta di accesso ad internet al pubblico» impone, com’è stato opportunamente rilevato, un intervento correttivo in sede di conversione.

Il primo comma mira a liberalizzare l’apertura delle reti wi-fi di soggetti pubblici (come gli enti locali) o privati (come bar e alberghi): un intento di per sé lodevole, sebbene forse superato dalla rimozione degli obblighi di richiedere autorizzazione alla questura e d’identificare gli utenti – già disposta con il decreto Milleproroghe del 2010. In ossequio a residue domande di sicurezza, si «fa salvo» – invero, s’introduce ex novo l’obbligo di garantire la tracciabilità del collegamento attraverso il MAC address: parametro, peraltro, non univocamente riconducibile all’identità dell’utente e agevolmente manipolazione.

Siamo di fronte a una lettura ambigua: tracciabilità e tracciatura sono due concetti diversi; e si potrebbe forse discutere se il «gestore» onerato sia – come sembra – l’esercente o l’amministrazione a valle, il che tradirebbe l’intento semplificatorio della misura, o piuttosto l’operatore a monte. Il secondo comma esenta tale tracciatura – «ove non associata all’identità dell’utilizzatore» – dall’applicazione della disciplina sul trattamento dei dati personali: ma che ne penserà il Garante? Infine, si chiarisce ulteriormente che i soggetti per i quali la fornitura d’accesso internet non costituisca l’attività commerciale prevalente non sono tenuti a munirsi della licenza ministeriale né dell’autorizzazione generale: non sono, cioè, operatori di telecomunicazioni.

La ratio delle disposizioni qui esaminate potrebbe essere recuperata proprio facendo riferimento – ovviamente in negativo – all’area dell’attività commerciale prevalente (com’era, del resto, previsto dalla bozza del decreto): da un lato, salvaguardando il principio della neutralità tecnologica; dall’altro, evitando gli equivoci connessi alla formulazione indiscriminata del primo comma, che appare di dubbia compatibilità con il quadro regolamentare comunitario. Tuttavia, sarebbe miope limitare all’ambito dei fornitori “occasionali” le possibilità di liberalizzazione dell’accesso a internet, specie alla luce degli sconfortanti dati italiani sulla penetrazione della banda larga. La semplificazione dovrà, invece, proseguire anche nei confronti degli operatori di telecomunicazioni: per esempio, attraverso lo snellimento delle procedure burocratiche o la rimodulazione dei contributi dovuti per diritti amministrativi.

Tra tante ombre, è doveroso citare la luce del terzo comma, che abolisce l’obbligo per le aziende di affidarsi a imprese abilitate anche per le più banali operazioni connesse all’installazione e alla manutenzione di reti. Si trattava di un’assurda misura protezionistica, peraltro assistita da sanzioni ingentissime che potevano arrivare a 150.000 euro. Non sarebbe, anzi, inopportuno ipotizzare una disciplina transitoria per le eventuali sanzioni già comminate ma non ancora saldate.

Per vedere tutti i commenti degli esperti dell’Istituto Bruno Leoni, clicca qui.

9
Lug
2013

Lo Stato pretende di “fare” cultura, ma fa disastri

Non è da invidiare Massimo Bray, il ministro dei Beni e Attività Culturali. Come tutti i suoi predecessori al MIBAC è come se, in un Paese che s’impoverisce, fosse seduto su un mare di petrolio. Perché è un classico ma insieme ben fondato luogo comune, che patrimonio culturale e storico-artistico siano il petrolio dell’Italia. Solo che al ministro mancano trivelle e macchine perforanti. E il petrolio culturale di conseguenza non solo resta inutilizzato. Non manutenuto, decade. Degrada a livelli da farci vergognare davanti a tutto il mondo, si tratti di Pompei o degli scioperi che lasciano per ore al sole i turisti fuori il Colosseo.

Il ministro lo sa benissimo, come tutti coloro che si occupano nel nostro Paese di beni monumentali e storico-artistici, biblioteche e musei. L’Italia vanta ben 47 siti nella World Heritage List dell’Unesco, e la quasi incredibile cifra di 962 siti riconosciuti di “eccezionale valore universale” secondo la Convenzione del patrimonio mondiale Unesco del 1972. Ma la verità fattuale è che come Italia non ne ce ne mostriamo all’altezza.

Ha un bel riconoscere la Costituzione, all’articolo 9, tutela e promozione rivolte a ricerca, cultura e patrimonio storico-artistico. Nei fatti, alle storiche inadeguatezze italiane del passato, gli ultimi anni di dura crisi hanno aggiunto un’oggettiva falcidie di risorse. Per questo Bray non è da invidiare, perché ormai nelle condizioni attuali un ministro deve indicare una svolta di fondo, e non è facile perché le aspettative sono divergenti e, spesso, irrealistiche.

Nel senso più ampio del termine, il binomio di cultura e industria creativa – design, audiovisivi, teatro, cinema, tv, editoria – nel 2012 ha prodotto il 5,4% del Pil, dando lavoro a 1,4 milioni persone. Il turismo culturale da solo, un settore che dovrebbe rappresentare quel che il gas naturale è per la Russia, vale poco più del 3% del Pil, un dato cioè del tutto insoddisfacente.

I segni della decadenza sono tanti, la settimana scorsa li ha richiamati il nono rapporto annuale di Federculture. Nel Country Brand Index che indica l’attrattività comparata dei diversi “marchi” nazionali, l’Italia era al sesto posto mondiale nel 2009, è scesa al decimo scalino nel 2012, e nel 2013 siamo andati giù di altri 5 gradini passando in quindicesima posizione.

Nel 2000 si toccò con Veltroni il picco dei finanziamenti pubblici con 4mila miliardi di vecchie lire, ma nel 2013 il bilancio del MIBAC è sceso a 1,45 miliardi di euro. In 13 anni ha perso oltre il 26%, la ghigliottina vera è venuta da Tremonti in avanti. Il FUS che finanzia l’opera lirica, musica classica, teatro, cinema e danza, da 507 milioni del 2003 è sceso ai 389 milioni di oggi. Se sommiamo i finanziamenti alla cultura di Comuni, Province e Regioni, siamo passati dai 7,5 miliardi complessivi pubblici del 2005 ai 5,8 dell’anno in corso, con 600 milioni in meno solo dai Comuni nell’ultimo triennio (sorvolo sul fatto che nel sostegno locale a manifestazioni culturali i criteri siano spesso, diciamo così, assai discutibili, tra “associazioni amiche” della politica, eventi a scopo non troppo reconditamente elettorale, e sagre espressione dei più vari e diversi filoni della mitologia “chilometro zero”). Al paragone, la Germania è passata da 9,1 miliardi del 2009 ai 12 miliardi di risorse pubbliche nel 2012. L’Italia spende col MIBAC lo 0,11% del suo PIL, la Francia lo 0,24%, il Regno Unito lo 0,17%, la disastrata Grecia lo 0,26%. Al Louvre parigino da solo vanno 100 milioni di fondi pubblici l’anno, al MAXXI romano – qualunque cosa ne pensiate – 4,5.

I fondi privati sono calati anch’essi. Le erogazioni liberali sono scese dell’11% nel 2011, le sponsorizzazioni del 42% in 5 anni. Nel 2012, solo 150 milioni di sponsorizzazioni private sono andate a 4760 istituti e musei, alle 14 fondazioni lirico-sinfoniche, ai 68 teatri stabili. Da un biennio a questa parte è stato introdotto il meccanismo del tax credit per agevolare il finanziamento privato alle produzioni cinematografiche, ma a dicembre scade la copertura del minor introito fiscale per il Tesoro e in queste condizioni nessuno investe. Quanto al finanziamento di progetti culturali dal gioco del Lotto, anch’esso è sceso del 64% in 8 anni, da 135 ai 48 milioni nel 2012.

E’ possibile, in queste condizioni, immaginare un ritorno della spesa pubblica ai livelli di un decennio fa? Bisogna essere onesti: è pressoché impossibile. Nel bilancio pubblico, per avere un’idea, la spesa in previdenza e forniture lievitava di punti di Pil, ma per esempio i fondi statali di carattere sociale anch’essi sono passati dai 2,5 miliardi del 2008 ai 767 milioni 2013, per ridursi nel bilancio pluriennale addirittura a 199 milioni nel 2014 e 2015. Letta e Saccomanni avranno il loro bel da fare, nella legge di stabilità settembrina, a dover quadrare il conto di fronte a tutti coloro che richiedono ripristini di spesa. Ricordate che dal 2015 parte il fiscal compact, e in pareggio costituzionale di bilancio dobbiamo abbattere il debito pubblico di 45 miliardi l’anno…

Non pesa solo l’obiettivo scarso margine per risorse aggiuntive. Il ministro Bray si trova in una condizione di difficoltà aggiuntiva. Di fatto, l’efficienza del suo ministero appare indifendibile. Lo è a livello centrale, visto che un terzo del bilancio se ne va in soli costi fissi, oltre 400 milioni di euro ai dipendenti a fronte dei soli 9 milioni da destinare alla valorizzazione del patrimonio, e a 132 per l’intera loro tutela. Ma peggio ancora vanno le cose a livello decentrato, nella complessa struttura territoriale di Sovrintendenze e Musei: il dato del 2010 è che il 55% delle magre risorse loro assegnate erano finite nei residui passivi, per lentezza, incapacità e sistemica conflittualità amministrativa nell’utilizzarli. Come si fa a chiedere più risorse per una macchina di questo tipo, quando al solo gabinetto del ministro – e Bray non c’entra, il bilancio gli è precedente – va una volta e mezza l’intera cifra annuale devoluta alla valorizzazione dell’intero patrimonio culturale italiano?

Ma allora qual è la strada, per evitare disastri a Pompei, figure penose come la spoliazione della Biblioteca dei Girolamini a Napoli da parte del suo stesso direttore, e per far sì che Expo 2015 a Milano e l’assegnazione all’Italia della Capitale Europea della Cultura nel 2019 non sin traducano in promesse non mantenute, come le Colombiadi a Genova nel 1992, dove i visitatori furono moto meno della metà dei 2 milioni attesi e gli incassi solo di un terzo?

La via è quella di uno Stato che regoli sempre, possibilmente in maniera meno ostile e intrusiva – su questi temi è agguerrito il fronte del “non posssumus”, rivolto al ruolo dei privati da parte della macchina amministrativa – ma gestisca sempre meno. Ideologicamente, molti sono contrari. Ma la Torre Eiffel come il Louvre, il Moma a New York come la Tate Modern a Londra sono tutte entità separate da Stato e pubbliche amministrazioni, hanno proprie organizzazioni privatistiche e spesso marchio e brand depositato, come il Louvre, per tutelarne e promuoverne il valore. Occorre ampliare le agevolazioni fiscali a privati invece di limitarle, equiparando e anzi rendendo più incentivanti le sponsorizzazioni delle aziende, rispetto al più favorevole regime di incentivo che lo Stato riserva attualmente per le donazioni a sé.

E’ una rivoluzione della efficiente gestione privatistica, che non spoglia assolutamente lo Stato dal diritto proprietario dei beni – beni che la Ragioneria generale valutava 3 anni fa oltre 150 miliardi, con criteri assolutamente spannometrici. Ed è una rivoluzione che sicuramente non piace alla burocrazia MIBAC, perché finirebbe per spogliarla di gare e assegnazioni di risorse, per quanto magre. Ma è una rivoluzione necessaria.

Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna rimpianto a Istanbul da chi protesta a Gesy Park, capendo di non avere risorse adeguate per gestire e valorizzare gli innumerevoli e straordinari siti archeologici nazionali, ne affidò ciascuno dei maggiori a una grande università occidentale. L’effetto è che da Efeso a Didimo e Priene, i turchi oggi battono Pompei e Villa Adriana.

9
Lug
2013

Lo sconto è un atto d’amore, i saldi di barbarie

pubblicato su L’Intraprendente l’8 luglio 2013

Sono cominciati i saldi, uno dei riti più assurdi e incivili cui sono costretti commercianti e consumatori. Purtroppo (o per fortuna) la crisi ha mitigato gli effetti collaterali di questa pratica barbara, ma anche in questi giorni ci sono file davanti ai negozi, gente che si bagna i polsi e la nuca sotto il sole cocente, code davanti ai camerini, acquirenti sudaticci che si accalcano ai banchi pronti a strapparsi di mano l’ultima taglia disponibile.

Non si è mai ben compreso perché per legge i negozianti non possano ribassare i prezzi prima dell’inizio dei saldi né perché le persone siano costrette a fotografare i cartellini coi cellulari per poi ritornare in coda il giorno dopo. Pare che la motivazione – come per ogni proibizione – sia una protezione nei confronti dei consumatori da “ribassi illusori” e degli esercenti da concetti mitologici come la “concorrenza selvaggia”, che porterebbe a vendere i prodotti al di sotto del “giusto prezzo”. È ovvio che sono giustificazioni stupide, perché nel mondo della pubblicità e del commercio tutto è illusorio: il valore di una polo cambia di 20, 50, o 100 euro a seconda che sopra ci sia stampato un cane, un coccodrillo o un cavallo, il valore di un profumo varia a seconda dell’attrice che lo spruzza in tv. Tutto ciò perché il “giusto prezzo” è solo quello che il venditore e il compratore ritengono conveniente. Se le autorità pubbliche non sono in grado di fissare per ogni articolo il “giusto prezzo”, non possono individuare nemmeno il “giusto sconto” né quando sia giusto iniziare i saldi. L’acquisto è uno scambio libero e consapevole tra due persone, in questa transazione lo Stato interviene già pesantemente prelevando per sé il 21% con l’Iva, non si capisce perché dovrebbe anche fissare dei vincoli al prezzo.

I saldi non dovrebbero esistere o, più semplicemente, dovrebbero esistere tutti i giorni. È quello che accade quotidianamente nei nostri mercati e nessun venditore e compratore se n’è mai lamentato. Ai banchi di frutta e verdura addirittura il prezzo varia in poche ore, a fine giornata ci sono i migliori sconti senza che nessun pubblico ufficiale ordini alla pensionata e al fruttivendolo a che ora iniziano i saldi. Se lo Stato, il comune, la Camera di commercio, i vigili e la Guardia di finanza non sono in grado di stabilire meglio della pensionata e del fruttivendolo a che ora è giusto scontare i cetrioli e la lattuga, non saranno capaci di stabilirlo neanche per jeans, magliette e costumi da bagno.

Nel film Così parlò Bellavista il professore Luciano De Crescenzo, guardando estasiato il cartello di un ambulante con scritto “prezzi quasi fissi”, diceva all’allievo spazzino: “Questa è civiltà! Lo sconto è un atto d’amore del venditore per il compratore e in un paese veramente civile lo sconto dovrebbe essere diverso da persona a persona”. Lo Stato regolatore e dirigista che vieta gli sconti liberi proibisce un atto d’amore.

Twitter @lucianocap1

9
Lug
2013

Trasparenza e ragioneria dello Stato — di Federico Sassoli de Bianchi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera aperta di ‘Civicum’ e del suo Presidente, Federico Sassoli de Bianchi. È possibile sottoscriverla qui.

Egregio Ragioniere Generale dello Stato,

mai come ora si parla di conti pubblici. Eppure nessuno, o quasi, li conosce. Noi di Civicum, che di conti della pubblica amministrazione ci occupiamo da quasi un decennio, lo abbiamo sperimentato in molte occasioni.

Read More

9
Lug
2013

Il decreto del fare, Artt. 4-6 – Energia

Il Decreto del fare interviene con numerose misure sul settore dell’energia. Misure talvolta condivisibili, in altri casi potenzialmente dannose, ma comunque affogate in un tecnicismo legale che ne rende difficile la lettura. Inoltre, gli stessi articoli – quelli che vanno dal 4 al 6 – affrontano simultaneamente temi molto diversi tra di loro, rendendo molto complesso lo sforzo di individuare una coerenza tra i singoli provvedimenti. Piuttosto che analizzarli singolarmente, quindi, mi limiterò a richiamare i principali.

Read More

8
Lug
2013

Tra il dire e il (decreto del) fare…

Cominciamo oggi una analisi, articolo per articolo, del “decreto del fare”, emanato alcuni giorni fa dal Governo. Per vedere tutti i commenti degli esperti dell’Istituto Bruno Leoni, clicca qui.

Il governo Letta ha ereditato dal precedente l’arte del “predicare” le misure urgenti di rilancio per il paese: dopo i decreti del crescere e del salvare, è arrivato il decreto del fare.

Verbi altisonanti, che narrano di governi che si sono rimboccati le maniche cercando di cavare dalla contorta legislazione di questo paese le necessarie misure per farlo riemergere dalle sabbie mobili.

Come i decreti salva-Italia e cresci-Italia, anche il decreto del fare dice tanto: 86 articoli che spaziano dalla ricerca alle PMI, dall’energia alla giustizia, dal fisco all’edilizia, per favorire – come dice – “la crescita economica”, la “semplificazione del quadro amministrativo e normativo”, “l’efficienza del sistema giudiziario e la definizione del contenzioso civile” e “dare impulso al sistema produttivo del paese”.

Ma tra il dire e il fare…

Read More