Stipendi d’oro dei manager, la soluzione del merito contro la tagliola
Qualche giorno fa, sui giornali sono apparse due diverse graduatorie. Da una parte la sintesi del rapporto annuale INPS, dall’altra quanto guadagnano i più pagati tra i manager italiani. A molti, anzi sono sicuro, praticamente quasi a tutti, a leggere le due classifiche viene il sangue amaro, e a non pochi anzi il sangue va alla testa.
Se guardiamo ai pensionati italiani, nel 2012 la metà di essi ha percepito meno di 1000 euro mensili, il 31% ha una pensione tra i 1000 e i 500 euro mensili, il 15% addirittura inferiore ai 500 euro. Solo il 30% degli italiani può vantare una pensione superiore ai 1500 euro. Il reddito medio pensionistico è di 1269 euro, 1518 per gli uomini e 1053 per le donne.
Dall’altra parte, leggendo l’annuale rapporto del Sole24 ore sui compensi – retribuzioni, stock option e buonuscite – elargite ai manager delle società quotate, si è appreso che sono ammontate a 402 milioni di euro, a fronte dei 352 milioni del 20011. In testa a tutti l’amministratore delegato di Fiat e presidente di Fiat Industrial, Sergio Marchionne, che l’anno scorso ha guadagnato 47,9 milioni lordi. 40,6 vengono da “premi” azionari, come da stock option viene il più della terna a capo di Luxottica, Luigi Francavilla (28,8 milioni), Roberto Chemello (15,4 milioni) e Andrea Guerra (14,2 milioni), o i 22,6 milioni di Federico Marchetti, il fondatore di Yoox, piattaforma web della moda. In ogni caso, si parla di molti milioni. Se anche per Marchionne ci fermassimo ai 7,3 milioni di compenso ordinario, rispetto ai meno di 16mila euro lordi annui “base” di un operaio Fiat, stiamo parlando di un multiplo pari a circa 460 volte. Analogamente Luca di Montezemolo, con 5,5 milioni guadagna 354 volte un operaio Ferrari. Enrico Cucchiani, con 3 milioni, 75 volte i 40 mila euro lordi portati a casa da un bancario “base” di Banca Intesa. E via proseguendo.
La sproporzione non è appannaggio solo dei manager privati. Quelli pubblici italiani, per esempio, guadagnano molto più della media dei parigrado stranieri, né lo Stato riesce a porre un limite effettivo per i “suoi”, visto che a decine continuano a ricevere compensi di molto superiori a quelli del Capo dello Stato. E le polemiche ripartono quando si tratta di calciatori e sportivi. Quando nell’estate scorsa Zlatan Ibahimovic fu ceduto dal Milan al Paris Saint Germain, i suoi 14 milioni di compenso annuo infiammarono la stampa d’Oltralpe visto che equivalevano a 875 volte il compenso del tifoso medio, come ricorda Alberto Mingardi nel suo bellissimo L’intelligenza del denaro.
A questo punto sorge spessissimo una domanda. E’ giusto? Oppure è l’espressione di una avidità insaziabile tipica delle degenerazioni del capitalismo e di chi lo comanda, come molti immediatamente commentano? E in ogni caso, se e come porre rimedio?
Chi qui vi risponde difende il mercato, dunque non ritiene affatto né che la sproporzione – evidente e oggettiva – sia figlia del capitalismo, né che il giusto rimedio sia una bella legge sul limite dei compensi. Se pensate ai tempi pre-mercato, il Re e il nobile dell’Assolutismo vivevano rispetto al 95% dei loro sudditi secondo multipli annui pari a più volte mille. La verità è che nella storia le differenze diventano tanto meno sopportabili quanto più, col progresso e la libertà, si attenuano. Ed è giusto così. Perché il problema esiste, in una società libera, in quanto è percepito come tale. E in una società come la nostra, con milioni di italiani regrediti a redditi disponibili pari a quelli di 20 anni fa, è percepito eccome.
In Svizzera, patria delle libertà, un recentissimo referendum ha visto il 67.9% dei partecipanti al voto rispondere entusiasticamente a favore del quesito: sì, è necessario porre un limite all’avidità dei manager. Ma gli svizzeri non sono diventati improvvisamente comunisti, e dunque il limite introdotto per referendum per i manager privati significa una procedura formalmente più vincolante che le società dovranno adottare, per compensare i loro manager. Dovranno essere gli azionisti in assemblea a pronunciarsi, non solo i comitati per la remunerazione formati da amministratori delle società che, alla prova dei fatti, locupletano i manager in maniera connivente.
Ecco, in un paese a libero mercato e a giusta sensibilità sociale, proprio questa è la strada giusta. Bisogna prevedere che, a pronunciarsi sui compensi, siano il più possibile i rappresentanti dei soci di minoranza e degli investitori istituzionali, non solo di chi rappresenta i patti di sindacato chiusi che sono purtroppo tanto numerosi nel nostro capitalismo asfittico. Le società quotate devono puntare sul fatto che “limiti ai maxicompensi” diventino parte integrante di una politica di sostenibilità sociale volta ad accrescere i propri clienti e a migliorare il rapporto e la fiducia con loro. A cominciare dalle banche, che negano credito a famiglie e imprese e che avrebbero tutto da guadagnare sul mercato, con capiazienda sotto il milione di euro l’anno mentre pressoché tutti gli italiani tirano la cinghia.
In Italia siamo ancora indietro su questo, sia tra le società quotate, sia nella stragrande maggioranza di società che sono a controllo e a gestione familiare. Nel caso delle società familiari, per convincere un manager a guidarle occorre pagarli di più, viste le minori garanzie, ed è anche per questo che il più di esse in Italia è anche gestito in famiglia, col rischio elevatissimo di estrazione di ricchezza dalle casse dell’azienda a proprio vantaggio (cosa del resto che nel capitalismo italiano capita persino per le quotate, vedi il gravissimo caso Ligresti-FonSai).
Direte voi: caro il mio amico del mercato ci stai disegnando una strada troppo lunga, così moriremo da poveri senza vedere i pochissimi privilegiati con le tasche un po’ meno piene. Non è così. Una legge che fissasse dei limiti invasivi, oltre a essere illiberale spingerebbe semplicemente le imprese via dal Paese che la proponesse. E pensate che proprio la settimana scorsa persino il Delaware, lo Stato americano che della massima libertà societaria consentita alle imprese ha fatto il volano della sua crescita tanto che molti lo considerano ai limiti della tollerabilità, ha introdotto nel suo codice la cosiddetta B-Incorporation, cioè di una quotazione dove “B” sta per “Benefit”, i benefici riservati in termini di retribuzione e welfare aggiuntivo ai propri dipendenti e la trasparenza e sostenibilità verso clienti e fornitori. Diverse imprese italiane iniziano per fortuna volontariamente a seguire l’esempio di Luxottica, che ai propri dipendenti garantisce molto più di ciò che prevedono i contratti nazionali.
Riforme del codice societario sul meccanismo di come votare i compensi, e limiti volontari assunti per codice deontologico e volti a ottenere più favore sul mercato che a questi temi è sensibile, sono mille volte più efficaci di una “secca” legge dirigista che ponga un multiplo secco, tra capi e dipendenti “privati”. Se quella legge fosse varata poi da uno Stato che non riesce mai a fermare il vortice di crescita delle proprie spese, rendetevi conto che apparirebbe due volte paradossale.