23
Lug
2013

Stipendi d’oro dei manager, la soluzione del merito contro la tagliola

Qualche giorno fa, sui giornali sono apparse due diverse graduatorie. Da una parte la sintesi del rapporto annuale INPS, dall’altra quanto guadagnano i più pagati tra i manager italiani. A molti, anzi sono sicuro, praticamente quasi a tutti, a leggere le due classifiche viene il sangue amaro, e a non pochi anzi il sangue va alla testa.

Se guardiamo ai pensionati italiani, nel 2012 la metà di essi ha percepito meno di 1000 euro mensili, il 31% ha una pensione tra i 1000 e i 500 euro mensili, il 15% addirittura inferiore ai 500 euro. Solo il 30% degli italiani può vantare una pensione superiore ai 1500 euro. Il reddito medio pensionistico è di 1269 euro, 1518 per gli uomini e 1053 per le donne.

Dall’altra parte, leggendo l’annuale rapporto del Sole24 ore sui compensi – retribuzioni, stock option e buonuscite – elargite ai manager delle società quotate, si è appreso che sono ammontate a 402 milioni di euro, a fronte dei 352 milioni del 20011. In testa a tutti l’amministratore delegato di Fiat e presidente di Fiat Industrial, Sergio Marchionne, che l’anno scorso ha guadagnato 47,9 milioni lordi. 40,6 vengono da “premi” azionari, come da stock option viene il più della terna a capo di Luxottica, Luigi Francavilla (28,8 milioni), Roberto Chemello (15,4 milioni) e Andrea Guerra (14,2 milioni), o i 22,6 milioni di Federico Marchetti, il fondatore di Yoox, piattaforma web della moda. In ogni caso, si parla di molti milioni. Se anche per Marchionne ci fermassimo ai 7,3 milioni di compenso ordinario, rispetto ai meno di 16mila euro lordi annui “base” di un operaio Fiat, stiamo parlando di un multiplo pari a circa 460 volte. Analogamente Luca di Montezemolo, con 5,5 milioni guadagna 354 volte un operaio Ferrari. Enrico Cucchiani, con 3 milioni, 75 volte i 40 mila euro lordi portati a casa da un bancario “base” di Banca Intesa. E via proseguendo.

La sproporzione non è appannaggio solo dei manager privati. Quelli pubblici italiani, per esempio, guadagnano molto più della media dei parigrado stranieri, né lo Stato riesce a porre un limite effettivo per i “suoi”, visto che a decine continuano a ricevere compensi di molto superiori a quelli del Capo dello Stato. E le polemiche ripartono quando si tratta di calciatori e sportivi. Quando nell’estate scorsa Zlatan Ibahimovic fu ceduto dal Milan al Paris Saint Germain, i suoi 14 milioni di compenso annuo infiammarono la stampa d’Oltralpe visto che equivalevano a 875 volte il compenso del tifoso medio, come ricorda Alberto Mingardi nel suo bellissimo L’intelligenza del denaro.

A questo punto sorge spessissimo una domanda. E’ giusto? Oppure è l’espressione di una avidità insaziabile tipica delle degenerazioni del capitalismo e di chi lo comanda, come molti immediatamente commentano? E in ogni caso, se e come porre rimedio?

Chi qui vi risponde difende il mercato, dunque non ritiene affatto né che la sproporzione – evidente e oggettiva – sia figlia del capitalismo, né che il giusto rimedio sia una bella legge sul limite dei compensi. Se pensate ai tempi pre-mercato, il Re e il nobile dell’Assolutismo vivevano rispetto al 95% dei loro sudditi secondo multipli annui pari a più volte mille. La verità è che nella storia le differenze diventano tanto meno sopportabili quanto più, col progresso e la libertà, si attenuano. Ed è giusto così. Perché il problema esiste, in una società libera, in quanto è percepito come tale. E in una società come la nostra, con milioni di italiani regrediti a redditi disponibili pari a quelli di 20 anni fa, è percepito eccome.

In Svizzera, patria delle libertà, un recentissimo referendum ha visto il 67.9% dei partecipanti al voto rispondere entusiasticamente a favore del quesito: sì, è necessario porre un limite all’avidità dei manager. Ma gli svizzeri non sono diventati improvvisamente comunisti, e dunque il limite introdotto per referendum per i manager privati significa una procedura formalmente più vincolante che le società dovranno adottare, per compensare i loro manager. Dovranno essere gli azionisti in assemblea a pronunciarsi, non solo i comitati per la remunerazione formati da amministratori delle società che, alla prova dei fatti, locupletano i manager in maniera connivente.

Ecco, in un paese a libero mercato e a giusta sensibilità sociale, proprio questa è la strada giusta. Bisogna prevedere che, a pronunciarsi sui compensi, siano il più possibile i rappresentanti dei soci di minoranza e degli investitori istituzionali, non solo di chi rappresenta i patti di sindacato chiusi che sono purtroppo tanto numerosi nel nostro capitalismo asfittico. Le società quotate devono puntare sul fatto che “limiti ai maxicompensi” diventino parte integrante di una politica di sostenibilità sociale volta ad accrescere i propri clienti e a migliorare il rapporto e la fiducia con loro. A cominciare dalle banche, che negano credito a famiglie e imprese e che avrebbero tutto da guadagnare sul mercato, con capiazienda sotto il milione di euro l’anno mentre pressoché tutti gli italiani tirano la cinghia.

In Italia siamo ancora indietro su questo, sia tra le società quotate, sia nella stragrande maggioranza di società che sono a controllo e a gestione familiare. Nel caso delle società familiari, per convincere un manager a guidarle occorre pagarli di più, viste le minori garanzie, ed è anche per questo che il più di esse in Italia è anche gestito in famiglia, col rischio elevatissimo di estrazione di ricchezza dalle casse dell’azienda a proprio vantaggio (cosa del resto che nel capitalismo italiano capita persino per le quotate, vedi il gravissimo caso Ligresti-FonSai).

Direte voi: caro il mio amico del mercato ci stai disegnando una strada troppo lunga, così moriremo da poveri senza vedere i pochissimi privilegiati con le tasche un po’ meno piene. Non è così. Una legge che fissasse dei limiti invasivi, oltre a essere illiberale spingerebbe semplicemente le imprese via dal Paese che la proponesse. E pensate che proprio la settimana scorsa persino il Delaware, lo Stato americano che della massima libertà societaria consentita alle imprese ha fatto il volano della sua crescita tanto che molti lo considerano ai limiti della tollerabilità, ha introdotto nel suo codice la cosiddetta B-Incorporation, cioè di una quotazione dove “B” sta per “Benefit”, i benefici riservati in termini di retribuzione e welfare aggiuntivo ai propri dipendenti e la trasparenza e sostenibilità verso clienti e fornitori. Diverse imprese italiane iniziano per fortuna volontariamente a seguire l’esempio di Luxottica, che ai propri dipendenti garantisce molto più di ciò che prevedono i contratti nazionali.

Riforme del codice societario sul meccanismo di come votare i compensi, e limiti volontari assunti per codice deontologico e volti a ottenere più favore sul mercato che a questi temi è sensibile, sono mille volte più efficaci di una “secca” legge dirigista che ponga un multiplo secco, tra capi e dipendenti “privati”. Se quella legge fosse varata poi da uno Stato che non riesce mai a fermare il vortice di crescita delle proprie spese, rendetevi conto che apparirebbe due volte paradossale.

 

22
Lug
2013

La crisi è finita!

Secondo le stime di Bankitalia nel IV trimestre 2013 «… la caduta dell’attività produttiva si fermerà, ma questo di per sé non significa che si comincerà a crescere in modo straordinario …» (20.07.2013, conferenza stampa al termine del G-8 finanziario di Mosca); quindi si comincerà a crescere in modo “ordinario”?!?

Che significa? Che abbiamo toccato il fondo?

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21
Lug
2013

La scelta di Letta: Monsieur Turgot o sor Tentenna. E come la Corte Costituzionale abbia cancellato in silenzio le sanzioni alle Regioni in default

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha usato parole molto misurate ieri, al termine del G20 a Mosca. Ha confermato che dal quarto trimestre di quest’anno dovrebbero manifestarsi i primi segni non solo di rallentamento di caduta dell’economia, anche di recupero tendenziale di una sia pur risicata crescita. Ma ha aggiunto una frase non di circostanza. Ha ammonito che l’instabilità politica continua a rappresentare un freno oggettivo, perché queste aspettative possano realmente manifestarsi.

Faremmo un torto al governatore, se pensassimo che si tratti di un giudizio rivolto a questo o quel partito, all’incessante travaglio interno del Pd o ai carsici istinti reattivi del Pdl sulle vicende giudiziarie di Berlusconi. Vi sono due dimensioni estranee al gioco dei partiti, che sono invece essenziali per tentare di agganciare la ripresa. Anche se essa si preannuncia contenuta, alla luce del minor aumento del commercio mondiale – dunque del nostro export, la molla più potente dell’economia italiana – prodotto dal rallentamento cinese e brasiliano, e dalla volatilità alimentata dai segnali di allentamento degli acquisti sul mercato, da parte di banche centrali come la FED e la Banca d’Inghilterra.

Le due dimensioni estranee al gioco autolesionista dei partiti dipendono entrambe dal governo. La prima è la decisione con cui si muoverà, di qui alla legge di stabilità a fine settembre, dai segnali che manderà all’economia italiana e ai mercati. La seconda è rappresentata dalla qualità ed efficacia delle misure che assumerà, ponendo termine a questi primi 90 giorni di dilazioni e slittamenti.

Sul primo versante, l’errore da evitare è quello delle idee confuse. Valga un esempio storico. Turgot era stato esattore delle imposte a Limoges dal 1761, e per 15 anni aveva toccato con mano la miseria prodotta da tasse, decime e protezionismo, per cui i contadini faticavano a tenersi in tasca un quinto del magro reddito prodotto. Quando divenne controllore generale di Francia, nel 1776, immediatamente emanò i Sei Editti che abbattevano il protezionismo sui grani, diminuivano di un quarto le imposte, abrogavano la corvée per la quale i salariati dovevano regalare ogni anno 14 giorni di lavoro per costruire e manutenere strade e ponti.

Ecco, oggi serve la stessa chiarezza di idee e decisione di Turgot. Il governo Letta ha avuto tre mesi, per prendere le misure dei saldi pubblici come dei vincoli europei, leggermente allentati grazie all’uscita dalla procedura d’infrazione. Ora, quel che non serve sono nuovi pasticci. Facciamo qualche esempio.

La liquidità. La leva più potente per dare liquidità a breve alle imprese è il pagamento dei debiti commerciali dello Stato. Lo stesso ministro Saccomanni ha detto di aver sbloccato 10 dei 20 miliardi deliberati per quest’anno, ma lo sblocco non determina pagamenti altrettanto solleciti. Quel che conta è dunque varare una procedura speciale d’emergenza perché le imprese incassino, e per verificare se non si possa anticipare senza effetti sul deficit il pagamento di almeno 40, non di 20, miliardi entro l’anno.

La spesa da tagliare. Non c’è capienza per reali abbattimenti d’imposta senza riduzione di spesa. Dunque la spending review deve giungere entro poche settimane a individuare alcuni punti di Pil di spese tagliabili, senza effetti recessivi e in un credibile percorso pluriennale, a fronte di un vero e proprio patto con i contribuenti, per cui ogni euro di spesa in meno diventa un euro di tasse in meno. Ma perché il risultato sia questo, è il ministro Saccomanni che deve in prima persona intestarsi con il premier Letta l’individuazione dei tagli dispesa. Al contrario, governo e maggioranza sembrano orientati ad attribuire la responsabilità a una figura esterna, contornata da un affollato comitato interministeriale. Così facendo, alla luce di anni di chiacchiere e di pochissimi fatti, si moltiplicheranno ancora una volta i poteri di veto e d’interdizione. E si finirà per dire a parole di aver abolito l’IMU prima casa, per trovarsi con una Tares che ingloba gli oneri della prima e della seconda.

I costi della politica. Non sono certo l’ammontare più rilevante della spesa da contenere, ma sono il simbolo di un’odiosa asimmetria per cui cittadini e imprese hanno pagato dal 2000 228 miliardi di entrate in più allo Stato, mentre la politica spendeva di più e peggio. Se il governo abbassa la guardia sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, già si è capito come finirà in Parlamento: ancora una volta lo schiaffo ai cittadini si rivelerà duro da tollerare. Un altro esempio: venerdì la Corte Costituzionale ha depositato la sua sentenza 219-2013, con la quale ha abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle Regioni fuori controllo. Cade così lo scioglimento dei Consigli Regionali,cade l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di Regione finite in default per dolo o colpa grave, cade persino l’obbligo di relazione di fine legislatura per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si darebbe un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che arriva al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annuncia controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abroga facendo marameo, non appena passano pochi mesi e i media son distratti.

Infine, le privatizzazioni. Per riportare il debito pubblico verso quota 80-90% del Pil, l’attuale media europea, procedere per avanzi primari di 5-6 punti di Pil ogni anno significa garrotare un’Italia già all’asfissia. Se si vogliono evitare patrimoniali coattive sul contribuente – uno scenario da guerra sociale – allora le dismissioni pubbliche sono necessarie. Ma visto il coro prevedibile di resistenti e contrari, quel che non serve è cadere in errori mediatici come quello avvenuto a Mosca: la mattina un annuncio di disponibilità anche per le grandi quotate di Stato, il pomeriggio una subitanea marcia indietro.

Non servono pacchetti azionari perché la golden share basta e avanza, per tutelare eventuali “strategicità” in settori come la difesa e la sicurezza nazionale. Le migliaia di società del socialismo municipale vanno ricondotte a efficienza di gestione e ad ambiti ottimali di offerta di servizio, vanno cioè ricondotte al mercato. Chiunque parli di strategicità delle centinaia di miliardi di valore dei mattone di Stato ha idee singolari, su che cosa sia strategico in un’Italia in ginocchio. Post e Ferrovie sono quotabili una volta separate le attività di mercato da quelle residue a servizio universale. Dagli errori del passato c’è da imparare. Le privatizzazioni da buone diventano ottime quando il regolatore pubblico evita il trasferimento di monopoli e posizioni dominanti. Chi avesse comprato titoli delle 5 maggiori privatizzazioni della signora Thatcher, dal 1984 a fine giugno scorso ci avrebbe guadagnato l’854%, rispetto al +485% della Borsa di Londra negli stessi anni.

O monsieur Turgot, o sor Tentenna. Auguriamoci Letta e Saccomanni facciano la prima scelta, non la seconda. Anche perché dovrebbero ricordare che i contribuenti italiani non danno allo Stato 14 giorni di corvée ma 181 su 365, visto che il tortale delle entrare pubbliche giunge al 49% del Pil.

21
Lug
2013

Bono, la Francia e il capitalismo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Emmanuel Martin.

Lo scorso 15 luglio Bono, la rock star irlandese, voce degli U2 e attivista internazionale per i diritti umani, è stato insignito del titolo di Commendatore dell’ordine delle arti e delle lettere della Repubblica francese. Forse avrebbe potuto approfittare dell’occasione per impartire una lezione di economia al Parlamento della repubblica transalpina, che sta discutendo l’ennesima proposta di legge di stampo socialista, in questo caso un provvedimento che vieterebbe alle aziende in attivo di chiudere le loro fabbriche.

Bono?! Non è famoso per sostenere soluzioni statali a ogni problema di sviluppo economico?

Un tempo era vero.

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17
Lug
2013

Nuovo commissario alla spending review? Non è affatto una buona idea

In questi giorni – tra vergogne kazake, indegnità zoologiche, tensioni Pd – l’attenzione all’economia sembra sviata.  Ma al Tesoro e nell’informale cabina di regia di maggioranza ci si confronta riservatamente su un punto nodale. Come uscire da attendismo e rinvii che hanno sinora improntato le non scelte del governo in materia di finanza pubblica: IMU,IVA, cuneo fiscale. Il gettito IVA è in drastico calo da recessione, le entrate reggono solo grazie alla spremitura dei redditi, il tetto del 3% di deficit è di nuovo a rischio.

Le indiscrezioni sussurrano tre ipotesi. La prima è gentilmente definita “tagli semilineari”, viene dalla tecnocrazia del ministero che già partorì i tagli lineari. A seconda che privilegiate il “semi” – cioè la scelta per priorità – o il “lineare”, che piace ai dirigenti della Ragioneria perché garantisce il saldo senza guardare in faccia alle conseguenze di minor crescita, è la classica soluzione Bisanzio.

Seconda ipotesi: l’estensione degli abbandonati costi standard, cominciando dagli Enti Locali. Poiché si è rimasti molto indietro nel definirli, si tratta comunque di cifre modeste. Si sussurra di neanche 3 miliardi 3 di euro.

La terza è la nomina di un nuovo commissario alla spending review, come si fece con Enrico Bondi sotto Monti. Girano i nomi di neocandidati. Ma demandare il taglio della spesa a una figura esterna al governo e alla quale la tecnocrazia del ministero e le Autonomie hanno buon gioco a opporsi, significa ripetere l’errore. Individuare e tagliare spesa deve essere compito principe del ministro del Tesoro. Altrimenti, come al solito lo Stato prenderà in tasca a noi, non nelle proprie. Dal 2000 il totale della spesa pubblica è aumentato di 274 miliardi, le entrate di 2228. L’austerity è tutta nostra, quella di Stato non è mai cominciata.