3
Ago
2013

Una rivolta contro la cleptocrazia attesa da tempo: sulle proteste in Bulgaria — di Stefan Kolev

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dallo Atlas Network.

Un paese relativamente piccolo e situato alla periferia dell’Europa qual è la Bulgaria raramente viene fatta oggetto dell’attenzione dei media internazionali. Il 24 luglio scorso, però, è stata un’eccezione: su tutti i giornali e i siti europei e americani si potevano vedere allarmanti immagini di Sofia. Il motivo era altrettanto allarmante: la notte precedente la polizia aveva respinto con grande violenza i dimostranti che avevano circondato il Parlamento. Cosa c’è dietro questi avvenimenti?

Read More

31
Lug
2013

Tutti uscivamo col passamontagna: il paradosso degli energivori

In Italia, un sussidio non lo si nega a nessuno. Che i soldi pubblici debbano essere subito e sempre disponibili è una verità così profonda che, quando ci mettono un poco più del solito ad arrivare o ne arrivano meno, scatta come tic pavloviano la rivendicazione: la rendita come diritto acquisito. E’ il caso della “agevolazioni tariffarie alle imprese a forte consumo di energia”. Volgarmente nota come: sussidi ai consumatori “energivori”.

Read More

31
Lug
2013

Utile ripasso: come, per quanto e dove privatizzare, evitando le trappole di finte cessioni in cui lo Stato è maestro, oltre a essere pessimo proprietario

Al G20 di Mosca il ministro dell’Economia Saccomanni ha annunciato per la ripresa autunnale un’accelerazione delle privatizzazioni pubbliche. Il premier Enrico Letta, parlando ad Atene, ha confermato l’obiettivo.
Poiché in questo 2013 il debito pubblico italiano ha superato il 130% del Pil, e per via della recessione ancora forte rischiamo il 134% entro l’anno prossimo, la via delle dismissioni pubbliche è necessaria, per ottenere l’obiettivo di diminuire entro pochi anni il debito entro, diciamo, il 90% del Pil che ad oggi si assesta come media dei grandi paesi europei. L’alternativa è di procedere per anni e anni con avanzi primari di 5-6 punti di Pil ogni anno, ma a questo livello di pressione fiscale significherebbe aggravare e allungare la recessione. Senza dimenticare che occorre portarsi avanti, perché dal 2015 siamo comunque tenuti dal fiscal compact a diminuire ogni anno di un ventesimo l’eccesso di debito rispetto al 60% del Pil.
L’Italia ha privatizzato tanto, anni fa. Nel periodo 1979-1999, coi 122 miliardi di dollari incassati l’Italia è stata seconda solo alla Gran Bretagna per l’entità del processo di privatizzazione affrontato. Privatizzare non significa solo abbattere la quota di debito, e dunque pagare meno oneri in termini di interessi ogni anno (attualmente se ne vanno più di un’ottantina di miliardi per questa voce, e con lo spread salito negli ultimi due anni l’effetto si distribuisce nel tempo, visto che la vita media dei titoli è di poco inferiore a sette anni). Le privatizzazioni, se effettuate nell’ambito di un coerente progetto di apertura del mercato, non sono trasferimento di monopoli pubblici in mani private (come purtroppo è avvenuto alcune volte in passato anche in Italia), sono anche un importante strumento per innescare dinamiche competitive più virtuose. Aumentano efficienza, redditività e produttività delle imprese, e ne migliorano la corporate governance sotto la disciplina di investitori privati, se vige la contendibilità proprietaria.
L’esperienza insegna che per funzionare bene le privatizzazioni devono avvenire con obiettivi e procedure trasparenti, mobilitando strumenti e regole il più possibile di mercato e non soggetti al diritto speciale amministrativo, e risolvendo in anticipo le questioni regolatorie, di concorrenza, e di limite a eventuali acquisizioni straniere attraverso la golden share, con cui si può impedire decisioni strategiche antinazionali – nei pochi casi in cui sussiste davvero questo interesse – anche solo con un’azione “d’oro” e senza bisogno di detenere la proprietà degli asset.

Oggi, sono in molti a non credere alla possibilità di realizzare massicce dismissioni. Altri ne negano l’opportunità, sostenendo che il patrimonio pubblico è la vera garanzia del debito, tanto vale dunque convogliare il più possibile di esso in uno o più fondi pubblici, far loro emettere titoli, farli comprare dagli italiani o da stranieri, e destinare questi titoli emessi sulla garanzia del patrimonio all’abbattimento del debito, senza cedere per nulla la proprietà dei beni. C’è da dubitare che uno schema di questo tipo funzionerebbe. A meno di “obbligare” gli italiani a investirvi. Alcuni magari lo farebbero volentieri, ma con la pressione fiscale che già grava su famiglie e imprese, pensare da parte dello Stato a drenare anche obbligatoriamente patrimoni privati (oltre l’IMU-TARES in arrivo) rischia – giustamente – di scatenare vere sollevazioni sociali.

Il patrimonio pubblico viene stimato in una valore di poco inferiore ai poco più di 2mila miliardi del debito pubblico attuale. Ma occorre valutare la realizzabilità concreta delle diverse cessioni “possibili”, che si restringono su un’area di circa 700 miliardi che al Tesoro vengono definiti “valorizzabili”… aggettivo rischioso, perché sottintende perennemente che al Tesoro si pensi di cedere nulla ma di limitarsi a estrarne più reddito. Che pure, come vedremo, è cosa giusta rispetto ai miseri risultati attuali, a conferma che lo Stato è un pessimo padrone. Naturalmente, ultimo avviso, NON ragioniamo qui dei circa 3,2 milioni di opere d’arte stimate, monumenti, parchi naturali,e via continuando. Non si tratta di vendere il Colosseo, com’è ovvio.

Le cifre,come vedrete, dicono che il patrimonio pubblico attualmente è una manomorta. Distrugge valore, invece di generarne. Una volta ben avviata la macchina, cessioni nell’ordine di 30-35 miliardi di euro l’anno sono concretamente possibili. In 5 anni, con l’aiuto di un maggior tasso di crescita, l’obiettivo di scendere sotto il 100% di Pil di debito pubblico sarebbe perfettamente conseguibile. Volendolo, naturalmente. Senza patrimoniali. Ma anche senza finte privatizzazioni, quelle in cui la realtà italiana degli ultimi anni è diventata maestra, e che sono molto care ai tecnici del Tesoro: prendi una quota di Eni e la giri a CDP, fai comprare le società pubbliche del trasporto locale a Ferrovie dello Stato, e via proseguendo. Queste non sono privatizzazioni, ma meri artifici contabili. Noi, qui, parliamo d’altro: perdita di controllo e alienazione totale delle partecipazioni.

GLI IMMOBILI

L’ultimo aggiornamento è stato dato a dicembre scorso in parlamento, dal direttore finanza e privatizzazioni del Dipartimento del Tesoro, Francesco Parlato. Ha parlato di circa 340 miliardi di euro di valore di mercato delle unità immobiliari pubbliche, tra 55 mld circa di quelle di proprietà delle amministrazioni centrali e 285 per quelli delle altre amministrazioni ed Enti Locali, valutati ai prezzi medi di mercato elaborati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del Territorio. A queste circa 530mila unità immobiliari vanno aggiunte poi le oltre 700mila ex Iacp ora gestite dagli Enti Locali, l’edilizia popolare convenzionata (meritano un discorso a parte, la vendita in prelazione agli affittuari avrebbe un tasso di acquisto basso, con problemi sociali evidenti di liberazione degli immobili, inoltre non solo nel Centro-Sud la percentuale di subaffitto abusivo è estesissima). Al patrimonio immobiliare si sommano 760 mila terreni per 1,3 milioni di ettari, valore stimato circa 300 miliardi, ma ne sono cedibili per il Tesoro – cioè non vincolati – non oltre 15 miliardi. La cessione del patrimonio pubblico ha tre problemi. Il primo è che oltre l’80% degli immobili è nelle mani delle Autonomie. Il secondo è che secondo la legislazione attuale è cedibile solo il 30% degli immobili, cioè la quota non destinata a fini strumentali della PA. Il terzo è che cedere in tempi rapidi e ragionevoli dipende dal veicolo al quale l’operazione si affida. La risposta al primo problema è che la cessione si può fare solo associando le Autonomie, abbattendo il loro debito in cambio della cessione quota-parte dei proventi. Il secondo problema invece ha bisogno di una modifica legislativa: lo Stato si abitui a a pagare anch’esso i canoni a privati, se non riesce a restringere le superfici che occupa. Il terzo avrebbe bisogno di uno o meglio più veicoli di diritto commerciale privato, ma il problema è che il governo Monti ha invece scelto una sgr pubblica controllata dal Tesoro, Invimit, che attualmente fatica a vedersi conferire dal demanio circa 600 unità immobiliari. Di questo passo, ci si mette una vita. I 1.600 siti dismissibili della Difesa aspettano da anni.

Non cadete nelle due solite trappole: primo “ma chi compra, il mercato è basso, gli italiani in ginocchio”. Secondo: “le caserme non le ha volute nessuno”. La risposta alla prima trappola è che il mondo è pieno di fondi immobiliari iperliquuidi alla ricerca di buoni affari, in un mondo avanzato di generale deleverage immobiliare: si tengono lontani dall’Italia, tranne eccezioni recenti come l’intervento a Milano del Fondo del Qatar, perché non si fidano delle nostre leggi e procedure amministrative, ed è anche per questo cheal posto di Invimit noi avremmo caldeggiato – si è sempre in tempo – veicoli privati di diritto europeo. Quanto alla seconda trappola, è ovvio che nella vendita occorre anche mutare variazioni d’uso e destinazione delle aree e dei relativi coefficienti edificatori. Senza cadere in orge speculative o in sfregi ambientali, ma è ovvio che se devo rilevare una caserma ma obbligato a tenerci la piazza d’armi libera nel centro di una città, non la compro perché non penserò di realizzare un palmeto.

LE PARTECIPAZIONI MOBILIARI

Se sommiamo le stime di mercato delle quote di società pubbliche statali, arriviamo a circa 80 miliari di euro, tra le diverse quote di Cassa Depositi, Eni, Enel, Eurimmobiliare, Finmeccanica, Fincantieri, Poste, Sace, Terna, Rai, Poligrafico, Ferrovie, Sogei, Sogesid, Sogin, STM, Inail (fermandoci alle maggiori, di esse 14 sono quotate in Borsa). A queste si sommano le circa 7.400 società controllate e partecipate dagli Enti Locali (il numero è stimato, un’anagrafe completa manca, gli Enti Locali sono ancora renitenti in massa a girarla al Tesoro, come pure dovrebbero per legge): la stima del valore di questo universo aggiuntivo con circa 300 mila dipendenti è molto difficile, diciamo che solo le maggiori utilities quotate dei grandi Comuni valgono da sole una ventina di miliardi.

Per le società partecipate dallo Stato, la dismissione è proceduralmente facile ma in molti si oppongono a cominciare dal sindacato. Eppure per tutelare la “strategicità” presunta di alcune di esse basterebbe appunto la golden share. Per alcune, come Poste e Ferrovie, occorrerebbero spacchettamenti preventivi tra aree di servizio commerciale – bancoposta – e servizi di rete universali – RFI che gestisce la rete ferroviaria, con necessità di regolare con attenzione la dismissione delle prime attività. Per indurre le Autonomie a privatizzare, il governo Monti aveva varato una norma per cedere o sciogliere le società che realizzano il più del fatturato dalla PA, ma la Corte Costituzionale ha appena abrogato la norma. L’unica è concepire un meccanismo premiale sui trasferimenti pubblici e le quote proprie fiscali: chi cede di più ottiene di più, senza incentivi di anno in anno le società controllate e partecipate dagli Enti Locali sono in costante aumento.

LE CONCESSIONI

Qui, in effetti, più che cedere si tratta di valorizzare: le concessioni marittime, portuali, aeroportuali e via proseguendo, secondo una stima del professor Edoardo Reviglio, che per anni al Tesoro ha lavorato a un tentativo di anagrafe patrimoniale pubblica prima di passare in CDP, rendono solo lo 0,6% annuo del loro valore, rispetto al 6% della media dei Paesi avanzati. Questo innalzamento da solo vale un punto di Pil d’incassi possibili, ogni anno. Ma tenete conto che il patrimonio immobiliare rende attualmente solo lo 0,1% scarso del valore, rispetto al 5-6% che è il minimo annuo di un portafoglio immobiliare privato. A conferma che lo Stato non sa gestire costitutivamente ciò che pure ambisce a controllare, e di cui non si vuole privare.

GLI ENTI STRUMENTALI

Le 26 società controllate dal Tesoro hanno un totale di 500 mila dipendenti e ricavi nell’ordine di 240 miliardi di euro.Molte di queste imprese, però, pur essendo formalmente società per azioni, sono nei fatti enti strumentali del governo, preposti a svolgere funzioni di regolazione o altre funzioni propriamente pubbliche. Essi possono essere riorganizzati, in alcuni casi aboliti, e razionalizzati, ma certo non si prestano alla privatizzazione: esempi di questi “enti” sono l’Enav, il Gse, Alitalia Servizi (la bad companyrisultante dal salvataggio di Alitalia), il Cnr, la Consip, l’Enac. L’Anas rappresenta un caso a parte perché, pur svolgendo una funzione di regolatore, è anche titolare di concessioni autostradali, che potrebbero essere cedute. Il recente intervento nella sue competenze non ha, di fatto, risolto il problema, e anche su questo si attende la nuova Autorità dei Trasporti. In molte società strumentali sarebbero necessarie  casi riforme o riorganizzazioni aziendali, com’è stata posta per anni all’Eni l’uscita di Snam Rete Gas (che controlla il trasporto nazionale del gas, gli stoccaggi e il maggiore soggetto attivo nella distribuzione locale) dal suo perimetro aziendale.

FERROVIE E POSTE, TESORI SOTTOUTILIZZATI

Per Ferrovie dello Stato vale un discorso analogo: l’attuale struttura verticalmente integrata è incompatibile con una cessione. Rete Ferroviaria Italiana andrebbe pertanto separata, non solo contabilmente come già avviene, da Trenitalia. Alla nuova Autorità dei Trasporti intervenire nelle norme che blindano la facoltà di impedire fermate intermedie ai concorrenti nel caso in cui questo possa “compromettere l’equilibrio di bilancio” dell’ex monopolista. Trenitalia si avvanteggerebbe per una maggior forza finanziaria nel condurre la concorrenza anche in Europa, dove Francia e Germania non riconoscono la simmetria di apertura del mercato che noi abbiamo loro consentito a casa nostra. Considerazioni non diverse si applicano a Poste Italiane, la cui privatizzazione richiederebbe sia una riorganizzazione interna, con almeno lo scorporo di Bancoposta e la sua acquisizione di una piena licenza bancaria, visto che stiamo parlando della più diffusa rete di raccolta sul territorio italiano. Ma le banche private sono da sempre contrarie, non a caso.

31
Lug
2013

Diciannove treni AV seminuovi vendesi (fabbrica compresa)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Ivan Beltramba

Qualche mese fa l’ineffabile AD uscente del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane (sic) presentava il nuovo ETR1000 battezzato “Pietro Mennea” in onore dell’indimenticabile velocista di Barletta. Il nuovo treno dovrebbe essere il vanto e rilancio dell’industria ferroviaria italiana, ma per fortuna la parte trazione è farina del sacco Bombardier (Zefiro si chiama all’estero).

Purtroppo qualche settimana dopo un nuvolone che minacciava da tempo (dal 17 gennaio 2013 per la precisione…) l’industria ferroviaria italiana diventava un uragano: il 31 maggio le ferrovie belghe ed il 3 giugno le ferrovie olandesi, socie nella High Speed Alliance che aveva avviato i servizi AV tra Bruxelles ed Amsterdam il 9.12.2012 con il marchio FYRA, hanno rescisso il contratto per la fornitura dei 19 treni Alta Velocità V250 “Albatros”. Read More

31
Lug
2013

Lo Stato Assoluto spegne le sigarette a scuola

La scorsa settimana è stato presentato il disegno di legge “Disposizioni in materia di sperimentazione clinica dei medicinali, di riordino delle professioni sanitarie e formazione medico specialistica, di sicurezza alimentare, di benessere animale, nonché norme per corretti stili di vita”. Tra le proposte di quest’ultimo capitolo c’è il bando totale delle sigarette da qualsiasi luogo scolastico, anche all’aperto.
Ho iniziato a fumare proprio a scuola, la pausa sigaretta era la mia “ora d’aria” tra una lezione e l’altra: un’interruzione viziosamente libertaria del regime didattico desolante che era per me la scuola. Comunque per tanti studenti le sigarette hanno forse una funzione di trasgressione “frivola, superficiale, ingenua…”, ma non irresponsabile, perché sbagliare deliberatamente significa pur sempre assumersene la responsabilità. Sbagliare ha poi anche un valore epistemologico, come potrebbero obiettare insegnanti di filosofia e scienza! Read More

30
Lug
2013

A 6 anni da inizio crisi, un po’ di cifre: più di 2000 banche salvate tra Usa e Ue, il disastro italiano

Sono passati sei anni, dall’inizio della più dura crisi dagli anni Trenta del secolo scorso. Tra fine luglio e inizio agosto del 2007, infatti, le grandi banche americane ed europee cominciarono ad entrare in fibrillazione manifesta, senza più riuscire a nasconderlo. Ad aprile era esplosa la prima crisi di un gigante immobiliare USA, la New Century Financial Corporation, che aveva rivelato a tutti le prime esplosive avvisaglie dei mutui subprime. Dopo una lunga fase di crescita in media del 15% l’anno dei prezzi immobiliari americani, che aveva reso sostenibili i subprime insieme ai troppo bassi tassi d’interesse praticati dalla FED dopo la crisi Internet del 20oo e l’11 settembre 2001, l’esplosione della bolla immobiliare americana si accingeva a mettere alla frusta l’intero settore di punta mondiale dell’intermediazione finanziaria. Aveva agito in base a una leva finanziaria – il rapporto tra attivi e capitale proprio – troppo alta, superiore a 30 e con punte fino a 50 e oltre. E aveva creduto, grazie a regolatori compiacenti, di annullare una regola elementare della finanza, quella per la quale per ogni prodotto finanziario non può annullare il rischio dell’emittente e il rischio del prenditore, annegandolo invece nella tripla A di un arrangiatore-intermediario finanziario che cartolarizza e nasconde col proprio marchio l’inadempienza potenzile dell’emittente accentuando il rischio di esplosione del prenditore.

La crisi che iniziava allora ha conosciuto sei diverse fasi. La prima, dall’estate 2007 al fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, in cui banche e regolatori hanno tentato di minimizzare le crisi bancarie a catena che dagli Usa si estendevano all’Europa. La seconda, dall’ultimo trimestre 2008 al terzo trimestre 2009, in cui la crisi esplose travolgendo il meccanismo della crescita planetaria, il commercio mondiale, diventando recessione conclamata. La terza, fino a metà 2010, in cui i piani straordinari delle banche centrali, i salvataggi bancari e la nuova governance mondiale del G20 diedero l’illusione del fine crisi. La quarta, i cui primi segni sono a metà 2010 e che avvampa nell’estate 2011, in cui la crisi si tramuta in insostenibilità dei debiti sovrani, e si addensa in Europa. La quinta, nel 2012, con le due risposte straordinarie della BCE, la faticosa evoluzione degli strumenti cooperativi europei, i programmi straordinari d’intervento a favore dei paesi eurodeboli, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia. La sesta è quella che viviamo ancor oggi, con le attuali previsioni di un cambio di segno della crisi che ci colpisce, e la speranza che la caduta di prodotto e reddito possa venire tra fine 2013 e metà 2014. Ma anche con una certa preoccupante decelerazione della crescita degli ex BRICS, dalla Cina al Brasile alla Turchia. Cerchiamo di capire con un po’ di numeri, chi sta a che punto dopo 6 anni di crisi.

Le Borse. Se per gli Usa prendiamo l’indice Dow Jones US 30 delle maggiori quotate, superando quota 16mila poche settimane fa è salito di oltre il 20% sui 13.200 punti di metà 2007. In Giappone, il Nikkei225 era venerdì a quota 14.129, a fine luglio 2007 a quota 18mila. L’Hang Sen 40 cinese, per via della frenata in corso a Pechino, venerdì stava a quota 21.968, a fine luglio 2007 a quota 23.100. Se per l’Europa guardiamo al DAX tedesco,rispetto ai 2770 punti di fine luglio 2007 venerdì scorso stava sotto sia pur di poco, era a quota 2741. Ma Il FTSE MIB italiano venerdì era a quota 16.421, mentre a fine luglio 2007 stava a 39.500, il che la dice lunga sulla gravità del colpo che l’eurocrisi ha portato al nostro mercato finanziario.

Le banche. Se guardiamo agli interventi diretti dei governi e banche centrali a favore di banche e intermediari a qualunque titolo in difficoltà, con salvataggi e nazionalizzazioni destinate poi a tornare indietro valori ai governi in caso di buone vendite e restituzioni di prestiti, e se a questo aggiungiamo anche le garanzie (che rappresentano il più), gli Stati Uniti tra Tesoro e Fed hanno mobilitato fino a metà 2012 – sono i dati più aggiornati del rapporto semestrale sui piani di stabilizzazione, curato certosinamente da R&S di Mediobanca – 2,8 trilioni di dollari, dei quali 562 miliardi in interventi di capitale, 1869 in garanzie, 421 in “altro” cioè prestiti, per un totale di 1678 istituti interessati. A metà anno scorso 1,6 trilioni di dollari erano stati restituiti alle autorità pubbliche USA , dunque l’aiuto netto in corso restava di 1,2 trilioni, e le autorità pubbliche avevano incassato nel frattempo anche 89 miliardi di dollari tra dividendi e proventi vari

Nell’Unione Europea, gli interventi a sostegno di banche e intermediari erano ammontati a 2,7 trilioni di euro (di cui 389 miliardi in capitale, 2,1 trilioni in garanzie, 142 miliardi i prestiti) a 437 istituti. A metà 2012 le risorse restituite o “terminate” ammontavano a 1,5 trilioni di euro, e gli aiuti netti ancora operanti erano dunque pari a più di 1,1 trilioni Se poi guardiamo più ampiamente all’estensione degli attivi delle banche centrali americana ed europea, dovuti ai diversi programmi speciali a sostegno dei mercati e delle banche – come le operazioni straordinarie di liquidità tipo le LTRO della BCE varate a inizio 2012 che “incamerano” alla BCE collaterali a bassa qualità e illiquidi, mentre in Usa la banca centrale compra bond pubblici e prodotti finanziari non solo pubblici – allora dopo “lo scudo” Draghi la BCE dal 2012 batte la FED come estensione dei suoi attivi, superando i 4 trilioni di dollari, cioè ben oltre l’equivalente del Pil tedesco.

L’Italia. Veniamo al nostro conto perdite nazionale. Nella crisi abbiamo perso circa un milione di unità di lavoro “piene”, cioè un milione e mezzo di disoccupati nuovi si sono aggiunti ai preesistenti, con 22,4 milioni di italiani al lavoro rispetto ai 23,5 del 2007. Nel potenziale manifatturiero siamo tornati al livello del 1990, perdendo il 19% rispetto al 2007. Sul 2007, abbiamo perso a oggi circa 28 punti percentuali di produzione industriale. Il reddito reale delle famiglie, al netto dell’inflazione, è tornato sui livelli del 1993-94. La propensione al risparmio è scesa dal 12% del reddito disponibile del 2007 sino a sotto l’8%, e oggi risale verso il 9% perché gli italiani preferiscono risparmiare piuttosto che consumare, con un reddito tanto compresso. Con un commercio mondiale che nel 2013 sale solo del 2,3 o 2,4% rispetto al più 5,7% del 2011, è verissimo che l’export italiano si avvia a superare quota 500 miliardi di valore, ma da solo l’export non ce la fa a sollevare l’Italia verso una crescita, nel migliore dei casi, di qualche decimale di punto nel prossimo 2014. Restiamo sorvegliati speciali per il nostro debito pubblico che ha sforato di brutto il 130% del Pil, e in termini di CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) cioè di competitività, se prendiamo il dato 2000 come 100 per Italia e Germania, Berlino sta nel 2013 solo a quota 107 noi invee siamo saliti impetuosamente a quota 137.

 Il Sud. Se l’Italia insieme alla Grecia è il Paese dell’euroarea che ha perso di più, per come sono strutturate le manovre di finanza pubblica tutte sul versante fiscale, per la stretta del credito e per la sua bassa produttività, il Sud è quello che se l’è vista ancor peggio. Le cifre le ha appena attualizzate lo Svimez. Nel solo 2013 il Sud perde il 40% del Pil più del Nord. Se al Nord il calo dei consumi è a meno 2,8%, al Sud è del 4,2%. Gli investimenti calano dell’11,3% rispetto al meno 5,4% del Nord. Gli occupati saranno quest’anno -2% al Sud, meno 1,2% al Nord. Il 62% dei posti di lavoro persi in Italia dal 2007 sono al Sud.

Come si vede, per Italia e Mezzogiorno il bilancio della crisi è ancora assolutamente disastroso. E attenti che ai tassi di crescita previsti, molto moderati rispetto ai nostri partner, bisognerà aspettare il 2022-2024 per rispristinare reddito delle famiglie e Pil del 2007. A meno di cambiare marcia, come una classe dirigente seria dovrebbe fare senza perder tempo. Invece, tutti a pensare alla sentenza di Cassazione sull’ennesimo processo a Berlusconi.

29
Lug
2013

Tutti pensano alla Cassazione, ma spesa, privatizzazioni,liberalizzazioni e credito restano 4 ferite aperte. Per non parlare dei 3 nuovi ordini professionali scodellati caldi caldi

Dal Messaggero di ieri

Nella settimana alle nostre spalle, come spesso avviene in Italia, le polemiche politiche hanno prevalso sui fatti concreti. Si trattasse dell’ostruzionismo Cinquestelle al decreto del fare, delle parole del viceministro Fassina sull’evasione “per sopravvivenza”, o dello scontro sulle regole congressuali del Pd, in tutti i casi si è trattato di contese che non riguardano il bilancio concreto dell’agenda di governo, e come siamo considerati da partner europei e mercati.

Se adottiamo questa seconda visuale, ciò che è avvenuto non si direbbe esaltante.

Siamo reduci in 7 giorni da alcune decisioni della Corte costituzionale, delle quali poco si è parlato. Eppure hanno smontato pezzi molto rilevanti di ciò che era stato deciso per “cambiare marcia” alle politiche di bilancio. Con la sentenza 219/2013, la Corte ha abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle Regioni fuori controllo. Sono caduti così lo scioglimento dei Consigli Regionali, insieme all’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di Regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ caduto l’obbligo di relazione economico-patrimoniale di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Ed è caduto l’obbligo di ridurre del 20% gli oneri degli enti intermedi controllati dalle Regioni. A ciò si è aggiunta la sentenza 229/2013, con cui la Corte ha abrogato l’obbligo di scioglimento o privatizzazione delle società controllate dalle Autonomie il cui fatturato dipenda al 90% dalla stessa PA. E’ caduto l’affidamento a gare evitando l’”in house”, con la giustificazione che il Parlamento non può interferire in competenze delle Regioni neanche in materia di concorrenza, che pure per famigerato Titolo V della Costituzione è competenza nazionale.

Se dalle decisioni concrete ci spostiamo al quadro europeo, in questa settimana abbiamo appreso dal Corriere della sera che nell’autunno 2011 la crisi del governo Berlusconi, dopo la lettera inviataci dalla BCE chiedendoci misure energiche di liberalizzazione e di tagli di spesa, arrivò quando ormai era pronta una bozza di decreto per chiudere il mercato finanziario italiano. Il ministro dell’Economia del tempo, Tremonti, ha detto di non saperne nulla. Nessuno ha aggiunto null’altro. Col risultato che continuiamo a ignorare una circostanza che un domani, dovessero ricomplicarsi le cose con l’Europa e i mercati, riesploderebbe come una mina. Il settimanale tedesco Spiegel di questa settimana critica duramente il governo Letta, “sembra anch’esso incapace di riforme vere”.

Sui mercati, nella settimana si è sentita però una tenue brezza positiva. L’indice PMI degli ordinativi europei è tornato nella rilevazione di luglio sopra quota 50 che segna il crinale tra contrazione e crescita. Nel secondo trimestre Il Pil spagnolo è sceso solo dello 0,1% e quello francese è tornato di un sussurro sopra quota zero. In questo quadro, non resta che augurarsi che i pessimisti sui destini italiani, e gli scettici come chi qui scrive, restino delusi. La possibilità c’è, se il governo resta discosto dalle polemiche, da quello che avverrà o meno dopo la decisione della Cassazione il 30 luglio, come dalle polemiche precongressuali Pd.

Letta e Saccomanni sanno bene che Europa e mercati non guarderanno tanto al modo in cui si troverà soluzione ai due nodi – IMU e IVA – sui quali il governo si è incagliato. Guarderanno se sul contenimento della spesa ci saranno non nuove commissioni e commissari esterni al governo, ma decisioni concrete assunte con la legge di stabilità. Se sulla dismissione degli asset pubblici si stabilirà da dove iniziare e per che ammontare procedere, con tempi cadenzati e credibili, come il ministro Saccomanni ha avuto il merito di dire e far sperare con le sue parole pronunciate al G20 di Mosca. Se sulle liberalizzazioni vi saranno altri passi decisi, che sembrano oggettivamente smentiti dalla volontà di istituire altri tre Ordini professionali, contenuta nel disegno di legge sanitario varato venerdì in Consiglio dei ministri.

Infine, Bce e Commissione europea ci chiedono da tempo misure per ridare efficienza al canale di trasmissione della politica monetaria, e questo significa misure straordinarie perché le banche possano liberare capitale per garantire più impieghi a famiglie e imprese, invece di continuare nella restrizione di credito, misure che tecnicamente si possono porre in essere senza aggravi di deficit, mobilitando veicoli come la Cassa Depositi. L’invito a creare prestatori non bancari, echeggiato dalla riunione a porte chiuse tenuta dal governo coi vertici bancari italiani la settimana scorsa, ha tempi di realizzazione troppo lunghi perché possa costituire risposta efficace all’asfissia di credito riservata agli italiani.

Spesa, privatizzazioni, liberalizzazioni e credito sono quattro capitoli essenziali,ma insieme non centrali nel tiremolla della maggioranza. Il governo ha davanti a sé sette settimane, prima del voto tedesco a settembre, per respingere l’impressione di essere prigioniero di un quadro politico che è problematico e asfittico di suo. Il bene dell’Italia e quello del governo coincidono, nel non farsi spingere a fondo da un Parlamento in cui ogni terzo degli eletti si ritiene depositario di verità irriducibili, e diverse parti di ogni singolo terzo hanno poi idee diverse di leadership, programmi e alleanze. Ma per sfruttare il moderato alito di ripresa dei mercati, bisogna che il governo le issi con forza, le sue vele.

28
Lug
2013

Le matrioske dell’informazione

Libera informazione in libero Stato: in Italia, non è certo uno slogan. Perché le libertà a ciò necessarie ci sono tutte e tutte costituzionalmente tutelate: quella di informare e di essere informati, che nella libertà di opinione e di stampa (art. 21 Cost.) trovano compiuta espressione. C’è una disciplina antitrust per garantirle e sovvenzioni all’editoria (per approfondimenti, si veda il paper dell’Istituto Bruno Leoni) che, con dubbi risultati, mirerebbero a incrementarle. C’è una tecnologia in rapida e continua evoluzione per amplificarle e strumenti, ormai alla portata di ognuno, per meglio usufruirne. E c’è una collettività, cui tutto ciò è finalizzato, che aspira a una conoscenza di tipo sempre più “open”, consapevole che apertura è trasparenza condivisa, conoscenza diffusa e democrazia meglio esercitata.

Read More