31
Lug
2013

Diciannove treni AV seminuovi vendesi (fabbrica compresa)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Ivan Beltramba

Qualche mese fa l’ineffabile AD uscente del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane (sic) presentava il nuovo ETR1000 battezzato “Pietro Mennea” in onore dell’indimenticabile velocista di Barletta. Il nuovo treno dovrebbe essere il vanto e rilancio dell’industria ferroviaria italiana, ma per fortuna la parte trazione è farina del sacco Bombardier (Zefiro si chiama all’estero).

Purtroppo qualche settimana dopo un nuvolone che minacciava da tempo (dal 17 gennaio 2013 per la precisione…) l’industria ferroviaria italiana diventava un uragano: il 31 maggio le ferrovie belghe ed il 3 giugno le ferrovie olandesi, socie nella High Speed Alliance che aveva avviato i servizi AV tra Bruxelles ed Amsterdam il 9.12.2012 con il marchio FYRA, hanno rescisso il contratto per la fornitura dei 19 treni Alta Velocità V250 “Albatros”. Read More

31
Lug
2013

Lo Stato Assoluto spegne le sigarette a scuola

La scorsa settimana è stato presentato il disegno di legge “Disposizioni in materia di sperimentazione clinica dei medicinali, di riordino delle professioni sanitarie e formazione medico specialistica, di sicurezza alimentare, di benessere animale, nonché norme per corretti stili di vita”. Tra le proposte di quest’ultimo capitolo c’è il bando totale delle sigarette da qualsiasi luogo scolastico, anche all’aperto.
Ho iniziato a fumare proprio a scuola, la pausa sigaretta era la mia “ora d’aria” tra una lezione e l’altra: un’interruzione viziosamente libertaria del regime didattico desolante che era per me la scuola. Comunque per tanti studenti le sigarette hanno forse una funzione di trasgressione “frivola, superficiale, ingenua…”, ma non irresponsabile, perché sbagliare deliberatamente significa pur sempre assumersene la responsabilità. Sbagliare ha poi anche un valore epistemologico, come potrebbero obiettare insegnanti di filosofia e scienza! Read More

30
Lug
2013

A 6 anni da inizio crisi, un po’ di cifre: più di 2000 banche salvate tra Usa e Ue, il disastro italiano

Sono passati sei anni, dall’inizio della più dura crisi dagli anni Trenta del secolo scorso. Tra fine luglio e inizio agosto del 2007, infatti, le grandi banche americane ed europee cominciarono ad entrare in fibrillazione manifesta, senza più riuscire a nasconderlo. Ad aprile era esplosa la prima crisi di un gigante immobiliare USA, la New Century Financial Corporation, che aveva rivelato a tutti le prime esplosive avvisaglie dei mutui subprime. Dopo una lunga fase di crescita in media del 15% l’anno dei prezzi immobiliari americani, che aveva reso sostenibili i subprime insieme ai troppo bassi tassi d’interesse praticati dalla FED dopo la crisi Internet del 20oo e l’11 settembre 2001, l’esplosione della bolla immobiliare americana si accingeva a mettere alla frusta l’intero settore di punta mondiale dell’intermediazione finanziaria. Aveva agito in base a una leva finanziaria – il rapporto tra attivi e capitale proprio – troppo alta, superiore a 30 e con punte fino a 50 e oltre. E aveva creduto, grazie a regolatori compiacenti, di annullare una regola elementare della finanza, quella per la quale per ogni prodotto finanziario non può annullare il rischio dell’emittente e il rischio del prenditore, annegandolo invece nella tripla A di un arrangiatore-intermediario finanziario che cartolarizza e nasconde col proprio marchio l’inadempienza potenzile dell’emittente accentuando il rischio di esplosione del prenditore.

La crisi che iniziava allora ha conosciuto sei diverse fasi. La prima, dall’estate 2007 al fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, in cui banche e regolatori hanno tentato di minimizzare le crisi bancarie a catena che dagli Usa si estendevano all’Europa. La seconda, dall’ultimo trimestre 2008 al terzo trimestre 2009, in cui la crisi esplose travolgendo il meccanismo della crescita planetaria, il commercio mondiale, diventando recessione conclamata. La terza, fino a metà 2010, in cui i piani straordinari delle banche centrali, i salvataggi bancari e la nuova governance mondiale del G20 diedero l’illusione del fine crisi. La quarta, i cui primi segni sono a metà 2010 e che avvampa nell’estate 2011, in cui la crisi si tramuta in insostenibilità dei debiti sovrani, e si addensa in Europa. La quinta, nel 2012, con le due risposte straordinarie della BCE, la faticosa evoluzione degli strumenti cooperativi europei, i programmi straordinari d’intervento a favore dei paesi eurodeboli, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia. La sesta è quella che viviamo ancor oggi, con le attuali previsioni di un cambio di segno della crisi che ci colpisce, e la speranza che la caduta di prodotto e reddito possa venire tra fine 2013 e metà 2014. Ma anche con una certa preoccupante decelerazione della crescita degli ex BRICS, dalla Cina al Brasile alla Turchia. Cerchiamo di capire con un po’ di numeri, chi sta a che punto dopo 6 anni di crisi.

Le Borse. Se per gli Usa prendiamo l’indice Dow Jones US 30 delle maggiori quotate, superando quota 16mila poche settimane fa è salito di oltre il 20% sui 13.200 punti di metà 2007. In Giappone, il Nikkei225 era venerdì a quota 14.129, a fine luglio 2007 a quota 18mila. L’Hang Sen 40 cinese, per via della frenata in corso a Pechino, venerdì stava a quota 21.968, a fine luglio 2007 a quota 23.100. Se per l’Europa guardiamo al DAX tedesco,rispetto ai 2770 punti di fine luglio 2007 venerdì scorso stava sotto sia pur di poco, era a quota 2741. Ma Il FTSE MIB italiano venerdì era a quota 16.421, mentre a fine luglio 2007 stava a 39.500, il che la dice lunga sulla gravità del colpo che l’eurocrisi ha portato al nostro mercato finanziario.

Le banche. Se guardiamo agli interventi diretti dei governi e banche centrali a favore di banche e intermediari a qualunque titolo in difficoltà, con salvataggi e nazionalizzazioni destinate poi a tornare indietro valori ai governi in caso di buone vendite e restituzioni di prestiti, e se a questo aggiungiamo anche le garanzie (che rappresentano il più), gli Stati Uniti tra Tesoro e Fed hanno mobilitato fino a metà 2012 – sono i dati più aggiornati del rapporto semestrale sui piani di stabilizzazione, curato certosinamente da R&S di Mediobanca – 2,8 trilioni di dollari, dei quali 562 miliardi in interventi di capitale, 1869 in garanzie, 421 in “altro” cioè prestiti, per un totale di 1678 istituti interessati. A metà anno scorso 1,6 trilioni di dollari erano stati restituiti alle autorità pubbliche USA , dunque l’aiuto netto in corso restava di 1,2 trilioni, e le autorità pubbliche avevano incassato nel frattempo anche 89 miliardi di dollari tra dividendi e proventi vari

Nell’Unione Europea, gli interventi a sostegno di banche e intermediari erano ammontati a 2,7 trilioni di euro (di cui 389 miliardi in capitale, 2,1 trilioni in garanzie, 142 miliardi i prestiti) a 437 istituti. A metà 2012 le risorse restituite o “terminate” ammontavano a 1,5 trilioni di euro, e gli aiuti netti ancora operanti erano dunque pari a più di 1,1 trilioni Se poi guardiamo più ampiamente all’estensione degli attivi delle banche centrali americana ed europea, dovuti ai diversi programmi speciali a sostegno dei mercati e delle banche – come le operazioni straordinarie di liquidità tipo le LTRO della BCE varate a inizio 2012 che “incamerano” alla BCE collaterali a bassa qualità e illiquidi, mentre in Usa la banca centrale compra bond pubblici e prodotti finanziari non solo pubblici – allora dopo “lo scudo” Draghi la BCE dal 2012 batte la FED come estensione dei suoi attivi, superando i 4 trilioni di dollari, cioè ben oltre l’equivalente del Pil tedesco.

L’Italia. Veniamo al nostro conto perdite nazionale. Nella crisi abbiamo perso circa un milione di unità di lavoro “piene”, cioè un milione e mezzo di disoccupati nuovi si sono aggiunti ai preesistenti, con 22,4 milioni di italiani al lavoro rispetto ai 23,5 del 2007. Nel potenziale manifatturiero siamo tornati al livello del 1990, perdendo il 19% rispetto al 2007. Sul 2007, abbiamo perso a oggi circa 28 punti percentuali di produzione industriale. Il reddito reale delle famiglie, al netto dell’inflazione, è tornato sui livelli del 1993-94. La propensione al risparmio è scesa dal 12% del reddito disponibile del 2007 sino a sotto l’8%, e oggi risale verso il 9% perché gli italiani preferiscono risparmiare piuttosto che consumare, con un reddito tanto compresso. Con un commercio mondiale che nel 2013 sale solo del 2,3 o 2,4% rispetto al più 5,7% del 2011, è verissimo che l’export italiano si avvia a superare quota 500 miliardi di valore, ma da solo l’export non ce la fa a sollevare l’Italia verso una crescita, nel migliore dei casi, di qualche decimale di punto nel prossimo 2014. Restiamo sorvegliati speciali per il nostro debito pubblico che ha sforato di brutto il 130% del Pil, e in termini di CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) cioè di competitività, se prendiamo il dato 2000 come 100 per Italia e Germania, Berlino sta nel 2013 solo a quota 107 noi invee siamo saliti impetuosamente a quota 137.

 Il Sud. Se l’Italia insieme alla Grecia è il Paese dell’euroarea che ha perso di più, per come sono strutturate le manovre di finanza pubblica tutte sul versante fiscale, per la stretta del credito e per la sua bassa produttività, il Sud è quello che se l’è vista ancor peggio. Le cifre le ha appena attualizzate lo Svimez. Nel solo 2013 il Sud perde il 40% del Pil più del Nord. Se al Nord il calo dei consumi è a meno 2,8%, al Sud è del 4,2%. Gli investimenti calano dell’11,3% rispetto al meno 5,4% del Nord. Gli occupati saranno quest’anno -2% al Sud, meno 1,2% al Nord. Il 62% dei posti di lavoro persi in Italia dal 2007 sono al Sud.

Come si vede, per Italia e Mezzogiorno il bilancio della crisi è ancora assolutamente disastroso. E attenti che ai tassi di crescita previsti, molto moderati rispetto ai nostri partner, bisognerà aspettare il 2022-2024 per rispristinare reddito delle famiglie e Pil del 2007. A meno di cambiare marcia, come una classe dirigente seria dovrebbe fare senza perder tempo. Invece, tutti a pensare alla sentenza di Cassazione sull’ennesimo processo a Berlusconi.

29
Lug
2013

Tutti pensano alla Cassazione, ma spesa, privatizzazioni,liberalizzazioni e credito restano 4 ferite aperte. Per non parlare dei 3 nuovi ordini professionali scodellati caldi caldi

Dal Messaggero di ieri

Nella settimana alle nostre spalle, come spesso avviene in Italia, le polemiche politiche hanno prevalso sui fatti concreti. Si trattasse dell’ostruzionismo Cinquestelle al decreto del fare, delle parole del viceministro Fassina sull’evasione “per sopravvivenza”, o dello scontro sulle regole congressuali del Pd, in tutti i casi si è trattato di contese che non riguardano il bilancio concreto dell’agenda di governo, e come siamo considerati da partner europei e mercati.

Se adottiamo questa seconda visuale, ciò che è avvenuto non si direbbe esaltante.

Siamo reduci in 7 giorni da alcune decisioni della Corte costituzionale, delle quali poco si è parlato. Eppure hanno smontato pezzi molto rilevanti di ciò che era stato deciso per “cambiare marcia” alle politiche di bilancio. Con la sentenza 219/2013, la Corte ha abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle Regioni fuori controllo. Sono caduti così lo scioglimento dei Consigli Regionali, insieme all’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di Regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ caduto l’obbligo di relazione economico-patrimoniale di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Ed è caduto l’obbligo di ridurre del 20% gli oneri degli enti intermedi controllati dalle Regioni. A ciò si è aggiunta la sentenza 229/2013, con cui la Corte ha abrogato l’obbligo di scioglimento o privatizzazione delle società controllate dalle Autonomie il cui fatturato dipenda al 90% dalla stessa PA. E’ caduto l’affidamento a gare evitando l’”in house”, con la giustificazione che il Parlamento non può interferire in competenze delle Regioni neanche in materia di concorrenza, che pure per famigerato Titolo V della Costituzione è competenza nazionale.

Se dalle decisioni concrete ci spostiamo al quadro europeo, in questa settimana abbiamo appreso dal Corriere della sera che nell’autunno 2011 la crisi del governo Berlusconi, dopo la lettera inviataci dalla BCE chiedendoci misure energiche di liberalizzazione e di tagli di spesa, arrivò quando ormai era pronta una bozza di decreto per chiudere il mercato finanziario italiano. Il ministro dell’Economia del tempo, Tremonti, ha detto di non saperne nulla. Nessuno ha aggiunto null’altro. Col risultato che continuiamo a ignorare una circostanza che un domani, dovessero ricomplicarsi le cose con l’Europa e i mercati, riesploderebbe come una mina. Il settimanale tedesco Spiegel di questa settimana critica duramente il governo Letta, “sembra anch’esso incapace di riforme vere”.

Sui mercati, nella settimana si è sentita però una tenue brezza positiva. L’indice PMI degli ordinativi europei è tornato nella rilevazione di luglio sopra quota 50 che segna il crinale tra contrazione e crescita. Nel secondo trimestre Il Pil spagnolo è sceso solo dello 0,1% e quello francese è tornato di un sussurro sopra quota zero. In questo quadro, non resta che augurarsi che i pessimisti sui destini italiani, e gli scettici come chi qui scrive, restino delusi. La possibilità c’è, se il governo resta discosto dalle polemiche, da quello che avverrà o meno dopo la decisione della Cassazione il 30 luglio, come dalle polemiche precongressuali Pd.

Letta e Saccomanni sanno bene che Europa e mercati non guarderanno tanto al modo in cui si troverà soluzione ai due nodi – IMU e IVA – sui quali il governo si è incagliato. Guarderanno se sul contenimento della spesa ci saranno non nuove commissioni e commissari esterni al governo, ma decisioni concrete assunte con la legge di stabilità. Se sulla dismissione degli asset pubblici si stabilirà da dove iniziare e per che ammontare procedere, con tempi cadenzati e credibili, come il ministro Saccomanni ha avuto il merito di dire e far sperare con le sue parole pronunciate al G20 di Mosca. Se sulle liberalizzazioni vi saranno altri passi decisi, che sembrano oggettivamente smentiti dalla volontà di istituire altri tre Ordini professionali, contenuta nel disegno di legge sanitario varato venerdì in Consiglio dei ministri.

Infine, Bce e Commissione europea ci chiedono da tempo misure per ridare efficienza al canale di trasmissione della politica monetaria, e questo significa misure straordinarie perché le banche possano liberare capitale per garantire più impieghi a famiglie e imprese, invece di continuare nella restrizione di credito, misure che tecnicamente si possono porre in essere senza aggravi di deficit, mobilitando veicoli come la Cassa Depositi. L’invito a creare prestatori non bancari, echeggiato dalla riunione a porte chiuse tenuta dal governo coi vertici bancari italiani la settimana scorsa, ha tempi di realizzazione troppo lunghi perché possa costituire risposta efficace all’asfissia di credito riservata agli italiani.

Spesa, privatizzazioni, liberalizzazioni e credito sono quattro capitoli essenziali,ma insieme non centrali nel tiremolla della maggioranza. Il governo ha davanti a sé sette settimane, prima del voto tedesco a settembre, per respingere l’impressione di essere prigioniero di un quadro politico che è problematico e asfittico di suo. Il bene dell’Italia e quello del governo coincidono, nel non farsi spingere a fondo da un Parlamento in cui ogni terzo degli eletti si ritiene depositario di verità irriducibili, e diverse parti di ogni singolo terzo hanno poi idee diverse di leadership, programmi e alleanze. Ma per sfruttare il moderato alito di ripresa dei mercati, bisogna che il governo le issi con forza, le sue vele.

28
Lug
2013

Le matrioske dell’informazione

Libera informazione in libero Stato: in Italia, non è certo uno slogan. Perché le libertà a ciò necessarie ci sono tutte e tutte costituzionalmente tutelate: quella di informare e di essere informati, che nella libertà di opinione e di stampa (art. 21 Cost.) trovano compiuta espressione. C’è una disciplina antitrust per garantirle e sovvenzioni all’editoria (per approfondimenti, si veda il paper dell’Istituto Bruno Leoni) che, con dubbi risultati, mirerebbero a incrementarle. C’è una tecnologia in rapida e continua evoluzione per amplificarle e strumenti, ormai alla portata di ognuno, per meglio usufruirne. E c’è una collettività, cui tutto ciò è finalizzato, che aspira a una conoscenza di tipo sempre più “open”, consapevole che apertura è trasparenza condivisa, conoscenza diffusa e democrazia meglio esercitata.

Read More

26
Lug
2013

Il sindaco Doria prova a cambiare musica al Carlo Felice

Linkiesta le ha definite “i colabrodo della cultura italiana”, si tratta delle 14 fondazioni liriche italiane. Non che il resto del settore culturale faccia registrare performance brillanti, però alcune istituzioni culturali sono molto più in vista e in difficoltà di altre. A monopolizzare le pagine dei giornali sono infatti le disavventure gestionali e finanziarie di istituzioni come il Maggio Musicale Fiorentino o il Parco archeologico di Pompei. A queste va aggiunto ora anche il Carlo Felice di Genova.
Proprio oggi è comparsa la notizia che per una cinquantina di dipendenti della Fondazione si prefigura il licenziamento. La situazione si può dire che sia precipitata in queste ultime giornate. Dopo una trattativa, l’accordo fra sindacati e amministrazione della Fondazione prevedeva ammortizzatori sociali e contratti di solidarietà per ridare fiato all’ente. Una minoranza dei dipendenti ha però scelto di rimandare a settembre il referendum su tale accordo. La risposta del sindaco Doria è stata pronta e decisa: per una cinquantina di dipendenti verrà presto attivata la procedura di mobilità. Read More

25
Lug
2013

Alla radice degli squilibri INPDAP

Martedì scorso il presidente dell’INPS, Antonio Mastrapasqua, ha presentato a Roma il bilancio di consuntivo dell’ente previdenziale per il 2012. L’anno trascorso è il primo durante il quale i conti dell’INPS sono consolidati con quelli di INPDAP e ENPALS a seguito della fusione decisa a fine 2011. Si sapeva da tempo quale sarebbe stato l’effetto sul bilancio INPS del consolidamento con INPDAP, i cui conti sono da anni in profondo rosso: nel bilancio preventivo per il 2012 si stimava che il patrimonio netto della nuova INPS sarebbe sceso da 41 a 25 miliardi di euro. Read More

24
Lug
2013

Perché essere grati a Dolce e Gabbana

Si deve gratitudine, a Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Non solo per quello che fanno genialmente da tanti anni, nella moda. Si deve loro gratitudine proprio per l’eclatante durezza con cui hanno protestato, quando l’assessore milanese D’Alfonso ha affermato che Milano non doveva dar loro spazio, perché evasori. Le due pagine che Dolce e Gabbana hanno pagato sui giornali per esporre le loro ragioni rappresentato non solo la loro personale protesta, ma un atto d’accusa pubblico contro errori, orrori e scempio che purtroppo caratterizzano sempre più ordinamento e contenzioso tributario italiani.

Sono tanti, i paradossi del caso Dolce e Gabbana. Continua a valere per loro la maxi multa di 400 milioni stabilita a marzo dalla Commissione tributaria di primo grado. Eppure a giugno, in Tribunale – da noi vige il doppio rito, penale e tributario, viva il giustizialismo – il giudice ha dovuto riconoscere che l’accusa di dichiarazione infedele nei loro personali confronti era infondata, li ha assolti perché il fatto non sussiste. Il Tribunale ha inoltre dovuto riconoscere che era infondato che lo Stato chiedesse come imposta il doppio dei redditi conseguiti e dichiarati per la cessione dei marchi,eppure lo Stato lo aveva chiesto. Mentre il Tribunale nulla può sul fatto che le leggi applicate siano retroattive rispetto agli anni d’imposta contestati, perché la retroattività è prassi ordinaria fiscale italiana anche se proibita dal calpestatissimo Statuto del contribuente.

Ecco, tutto questo naturalmente lo hanno ignorato, i giustizialisti che hanno solidarizzato con D’Alfonso. Compreso il sindaco Pisapia, che ci ha messo giorni prima di capire la malaparata e tendere una mano. La lotta contro un fisco che attribuisce a sé poteri illegali in ogni altro ordinamento liberale ha bisogno di proteste esplicite. E di eroi, tanto meglio se noti e conosciuti come Dolce e Gabbana. Non hanno fatto come tanti altri vip, che pagano e tacciono. Hanno dato voce alla libertà. Per questo chi è libero sta con loro, non con l’oppressore.