13
Ago
2013

Divieti d’Italia: la prostituzione

Tra i diversi tipi di divieto, non mancano quelli per ostacolare l’attività di merettricio (il cui sfruttamento fu vietato con la legge Merlin no.75/1958): ci sono infatti una serie di ordinanze che, anziché punire e colpire  direttamente chi la organizza, la svolge e la pratica, aggirano il problema, a volte in modo piuttosto stravagante. Read More

10
Ago
2013

Sarà ripresa lenta, avara di occupati, e Letta ha le sue colpe

Ieri il presidente del Consiglio ha detto un’assoluta verità, parlando dell’ipotesi di un autunno caldo perché non ci sarà ripresa dell’occupazione. Lo ha fatto anche per ragioni politiche, dovendo tenere alta l’insostituibilità dell’attuale esecutivo, poiché la mattinata di ieri era cominciata con un nuovo ultimatum di Berlusconi sull’abrogazione dell’IMU, e di fatto la pausa politica estiva avviene mentre resta pesantissima l’incognita di che cosa avverrà a settembre, dopo la condanna di Berlusconi. Non a caso, ieri Letta ha esplicitamente previsto che, anche in caso di voto anticipato, si tornerebbe con ogni probabilità a larghe intese. Come a dire che sarebbe inutile votare, visto che il pallino tornerebbe a lui più che a ogni altro esponente del Pd che, come Renzi, parla invece esplicitamente della convergenza col Pdl come di una parentesi obbligata ma assolutamente da non ripetere.

Ma torniamo all’occupazione. Non è prudenza ma amara verità, mettere le mani avanti e dire agli italiani che non ci sono le premesse per un rilancio a breve del lavoro. Ma allora, che ripresa è quella di cui molti parlano, Letta e Saccomanni compresi?

La ripresa che si annuncia è fatta attualmente di un miglioramento degli indici di ordinativi e fiducia delle imprese europee e anche italiane. I tassi di caduta reale delle attività sono diminuiti in Italia come in Spagna, mentre la Francia è risalita sopra quota zero. La Cina, che molto fa preoccupare, oltre che per l’attendibilità delle sue statistiche soprattutto per indicatori da mesi in caduta del suo tasso di crescita verso “solo” il 7% annuo, in questi giorni ha diffuso nuovamente buoni dati sull’export, domanda di metalli e produzione industriale, che nel mese di luglio è tornata a un +9,7% su base tendenziale annuale. In più, sia la FED americana sia la Bank of England hanno posto l’abbassamento della disoccupazione nei loro rispettivi paesi sotto il 7% come condizione prima del cui raggiungimento non muteranno le attuali politiche monetarie iperlasche e condotte al ritmo non solo di tassi d’interesse reali negativi, ma anche di pesanti acquisti di titoli sui mercati. Anche il Giappone va meglio, per effetto di analoghe manovre monetarie iper espansive. I mercati finanziari americani sono al massimo storico, tanto da far temere – giustamente – nuove bolle nei prezzi.

Che grandi banche centrali vincolino ormai la loro forward guidance a espliciti obiettivi di occupazione è un’ulteriore manifestazione delle opllitiche “non ortodosse” dell’innovazione monetria sotola linea zero dei tassi d’interesse. Apparentemente è cosa buona, ma per chi la pensa come noi – l’offerta monetaria deve tenersi lontana da influenze politiche, e guardare ai prezzi da una parte e all’output potenziale dall’altro – è mossa molto rischiosa: aumenta ancora l’influenza della politica sulle auorità monetarie; costituirà precedente per tenere più bassi i tassi rispetto a quelli naturali tutte le volte che la politica dirà che gli occupati da ragiungere non sono ancora stati conseguiti nella giusta misura; infine fa passare l’idea che gli occupati dipendano dall’offerta monetaria, mentre intensità e qualità dell’occupazione dipendono assai più da mix delle imprese, specializzazioni produttive, qualità del capitale umano, apertura ali mercati esteri, regole del mercato del lavoro, impatto quantitativo e qualitativo delle politiche di bilancio e fiscali, e via proseguendo.

In ogni caso quel che sta avvenendo di fatto è che dollaro, sterlina e yen, forti della loro sovranità monetaria alla quale noi abbiamo rinunciato, giocano a svalutazioni delle monete per trainare l’export. Noi invece nell’area euro abbiamo dovuto svalutare sui diversi mercati nazionali i redditi e i salari, e ciascuno lo ha dovuto fare con più durezza – Grecia, Italia, Spagna, Portogallo – a seconda di quanto maggiore fosse il gap di produttività e bilancia dei pagamenti nei confronti del Paese leader, la Germania.

Il risultato di questa somma di interventi straordinari ha fatto tornare a livello mondiale note di ottimismo. Mentre da inizio anno il Fondo Monetario Internazionale aveva ritoccato tre volte al ribasso la stima del commercio mondiale e della crescita planetaria, oggi potremmo tornare in questo 2013 a una crescita complessiva più vicina al 3,3 o 3,4% che al 3%.

Ma se dagli indicatori di fiducia e finanziari passiamo all’occupazione, il mondo avanzato resterà diviso da barriere molto nette.

Il quadro ce lo ha dato pochi giorni fa l’Ocse nel suo Outlook sull’occupazione. Nei Paesi avanzati, i disoccupati sono oggi 48 milioni, di cui 16 dovuti ai 5 ultimi anni di crisi. Nei Paesi Ocse il picco si raggiunse nel 2009 con un tasso di disoccupazione dell’8,5%, oggi siamo all’8% e a fine 2014 si prevede non scenderà sotto il 7,8%. Ma a questa media si giunge per il fatto che alcuni Paesi come Germania, Cile, Turchia e Israele hanno oggi meno disoccupati di 5 anni fa. Altri, come Austria, Giappone, Corea del Sud, Norvegia e Svizzera, restano sotto il 5%. Altri ancora, come Italia, Spagna e Grecia, sono e resteranno invece fuori linea. Per l’Italia l’Ocse prevede un ulteriore aumento dell’1% dei disoccupati nel 2014 rispetto al 12,6% a cui si dovrebbe chiudere il 2013, di poco superiore alla media europea. A realizzare peggioramenti dell’1% malgrado un possibile ritorno a frazioni di punto di crescita nel 2014, oltre all’Italia, sono Grecia, Spagna, Portogallo, Olanda e Polonia. Queste amare previsioni, per concludere, possono vedere a fine 2014 la disoccupazione giovanile passare dal 35% attuale italiano sino al 38-39%, mentre la Grecia, che già ha raggiunto la paurosa percentuale del 67%, sfonderà quota 70-75%.

E’ da una parte fisiologico, che la ripresa dell’occupazione segua a distanza di diversi trimestri la ripresa delle attività reali, perché bisogna scontare che la recessione esercita una selezione durissima tra migliaia di imprese che spariscono, e altre che razionalizzano negli anni di maggior difficoltà anche gli organici di occupati, oltre che struttura del debito e ogni altro fattore della produzione. Ma ci sono anche ragioni non fisiologiche, per le quali in Italia la possibile ripresa dell’occupazione andrà parecchio a rilento. Ragioni che sono profondamente connesse ai venti anni di mancate riforme alle nostre spalle, per le quali già prima della crisi avevamo tassi di crescita tra un terzo e la metà di quelli dei nostri partner. Da allora, abbiamo continuato a perdere competitività.

In sintesi estrema, pesano almeno quattro fattori. La percentuale elevatissima di imprese tra 3 e 5 occupati. Il cattivo andamento dei grandi gruppi, confermato dall’indagine Mediobanca rilasciata l’altro ieri sugli andamenti 2012. Terzo elemento, se l’export va bene e supererà i 500 miliardi nel 2013, non esportiamo certo il 45-46% del Pil come in Germania, e di conseguenza il calo terribile della domanda interna, dovuto alla perdita di reddito reale di famiglie e consumatori, si riverbera in cali del fatturato, della produzione e dei margini del più del Pil italiano, quello determinato dai servizi alle imprese e alle persone. Quarto, infine, ciò che di fatto ha determinato il calo tanto pesante della domanda interna, e cioè il mix di finanza pubblica seguito dal 2000 ad oggi, composto di circa 230 miliardi di aggravi d’imposta, di maggior gettito su lavoro e impresa, di aumenti di entrata tanto sui redditi che sui patrimoni, che infine attraverso l’imposizione indiretta sui consumi.

Era e resta questo ultimo, il punto sul quale attendere il governo Letta a una svolta vera, che consenta di accelerare la ripresa occupazionale. Mentre infatti per modificare mix, specializzazioni e patrimonializzazione delle imprese italiane occorrono tempi lunghi, liberalizzazioni decise nei servizi e abbattimenti d’imposta su lavoro e impresa attraverso tagli di spesa pubblica sono la vera cura per ottenere a breve più occupati. Molto più dei 18 mesi di incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato appena approvate nel cosiddetto “decreto del fare”.

In caso contrario, è inutile illudersi. Resteremo ancora per anni un paese che penalizza giovani e capaci. Letta lo sa benissimo. E un governo di grande convergenza doveva servire per fare questo, come accadde in Germania nei primi anni Duemila. Non per litigare su Imu e sentenze.

 

9
Ago
2013

Essere onesti non è inutile: il rating di legalità.

La corruzione è zavorra non solo per l’economia, ma per qualunque ambito da essa contaminato, come si è qui esposto. La lotta a tale fenomeno è stata affrontata nel settore pubblico, quale ineludibile esigenza collettiva, con una serie di recenti provvedimenti. Strumento e fine di questi ultimi è, da un lato, la “trasparenza”, volta a illuminare gli angoli bui di una burocrazia nelle cui pieghe possono annidarsi illegalità e malaffare; dall’altro, l’accountability, vale a dire la responsabilità di chi, gestendo la “res publica”, ai cittadini è tenuto a “rendere conto”. I risultati normativi, com’è stato qui esposto, non sembrano efficaci: perché il regolatore non riesce a emanciparsi da quella sorta di peccato originale che marchia ogni ambito pubblico, cioè da un’impostazione anche legislativamente burocratica, che finisce produrre opacità anche là dove vorrebbe far luce.

Ma la corruzione è problema molto grave anche nel settore privato. E se, di recente, qualcuno, ha parlato di una “evasione per sopravvivenza”, c’è chi parimenti ha rilevato l’esistenza di una corruzione motivata dalla “pressione per generare buone performance finanziarie” e, così, permanere sul mercato. E’ quanto emerge da una recente indagine, (qui riportata), la Fraud Survey 2013, svolta della Ernst & Young, una delle “big four” mondiali della revisione contabile, che ha intervistato 3.459 dipendenti  (il 30% dirigenti e top manager) di imprese di 36 Paesi nel mondo, al fine di rilevare “la risposta delle aziende alle difficoltà derivanti dall’attuale contesto economico”. Detta indagine evidenzia la portata del fenomeno corruttivo, come percepito all’interno delle strutture imprenditoriali, dimostrando che, ove la crisi economica è più sentita, più diffusi sono comportamenti connotati da illegalità, al fine di produrre, nonostante la crisi, buoni risultati.

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6
Ago
2013

Banche. L’alternativa alla nazionalizzazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Davide Grignani.

Da alcune settimane noto crescere con vigore la “falange dei nazionalizzatori” ovvero di quegli stimati economisti, banchieri ed operatori economici favorevoli all’iniezione di capitali pubblici nel capitale delle banche italiane.
Dopo le note di Lorenzo Bini Smaghi sulla opportunita’ di iniettare alcuni miliardi di euro dello Stato nel capitale degli istituti bancari più bisognosi, la lettera di Antonio Foglia – che da anni insiste su una maggiore capitalizzazione di tutte le banche – ho letto con interesse il recente articolo di Pietro Alessandrini e Michele Fratianni che stimano un possibile intervento pubblico tramite CDP tra i 17 e i 18 miliardi di “buffer stock” di nuovo capitale bancario.
Mi sia consentito  intervenire in contrapposizione a queste posizioni che evocano in “funzione anticiclica” l’intervento pubblico a sostegno di banche in temporanea difficolta’ nell’assunto che queste non siano in grado di attrarre i necessari capitali privati italiani ed esteri dato il loro eccessivo livello di rischio.
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5
Ago
2013

5 agosto 2011 – 5 agosto 2013. 2 anni persi

Il 5 agosto 2011 il governo italiano riceveva una lettera dalla Bce, nella quale venivano indicate le riforme necessarie a ristabilire la fiducia nel nostro paese e le condizioni per tornare a crescere. Qui si valuta lo stato di attuazione della lettera. Purtroppo il bilancio è deludente. Abbiamo perso due anni preziosi.

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3
Ago
2013

Una rivolta contro la cleptocrazia attesa da tempo: sulle proteste in Bulgaria — di Stefan Kolev

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dallo Atlas Network.

Un paese relativamente piccolo e situato alla periferia dell’Europa qual è la Bulgaria raramente viene fatta oggetto dell’attenzione dei media internazionali. Il 24 luglio scorso, però, è stata un’eccezione: su tutti i giornali e i siti europei e americani si potevano vedere allarmanti immagini di Sofia. Il motivo era altrettanto allarmante: la notte precedente la polizia aveva respinto con grande violenza i dimostranti che avevano circondato il Parlamento. Cosa c’è dietro questi avvenimenti?

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31
Lug
2013

Tutti uscivamo col passamontagna: il paradosso degli energivori

In Italia, un sussidio non lo si nega a nessuno. Che i soldi pubblici debbano essere subito e sempre disponibili è una verità così profonda che, quando ci mettono un poco più del solito ad arrivare o ne arrivano meno, scatta come tic pavloviano la rivendicazione: la rendita come diritto acquisito. E’ il caso della “agevolazioni tariffarie alle imprese a forte consumo di energia”. Volgarmente nota come: sussidi ai consumatori “energivori”.

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31
Lug
2013

Utile ripasso: come, per quanto e dove privatizzare, evitando le trappole di finte cessioni in cui lo Stato è maestro, oltre a essere pessimo proprietario

Al G20 di Mosca il ministro dell’Economia Saccomanni ha annunciato per la ripresa autunnale un’accelerazione delle privatizzazioni pubbliche. Il premier Enrico Letta, parlando ad Atene, ha confermato l’obiettivo.
Poiché in questo 2013 il debito pubblico italiano ha superato il 130% del Pil, e per via della recessione ancora forte rischiamo il 134% entro l’anno prossimo, la via delle dismissioni pubbliche è necessaria, per ottenere l’obiettivo di diminuire entro pochi anni il debito entro, diciamo, il 90% del Pil che ad oggi si assesta come media dei grandi paesi europei. L’alternativa è di procedere per anni e anni con avanzi primari di 5-6 punti di Pil ogni anno, ma a questo livello di pressione fiscale significherebbe aggravare e allungare la recessione. Senza dimenticare che occorre portarsi avanti, perché dal 2015 siamo comunque tenuti dal fiscal compact a diminuire ogni anno di un ventesimo l’eccesso di debito rispetto al 60% del Pil.
L’Italia ha privatizzato tanto, anni fa. Nel periodo 1979-1999, coi 122 miliardi di dollari incassati l’Italia è stata seconda solo alla Gran Bretagna per l’entità del processo di privatizzazione affrontato. Privatizzare non significa solo abbattere la quota di debito, e dunque pagare meno oneri in termini di interessi ogni anno (attualmente se ne vanno più di un’ottantina di miliardi per questa voce, e con lo spread salito negli ultimi due anni l’effetto si distribuisce nel tempo, visto che la vita media dei titoli è di poco inferiore a sette anni). Le privatizzazioni, se effettuate nell’ambito di un coerente progetto di apertura del mercato, non sono trasferimento di monopoli pubblici in mani private (come purtroppo è avvenuto alcune volte in passato anche in Italia), sono anche un importante strumento per innescare dinamiche competitive più virtuose. Aumentano efficienza, redditività e produttività delle imprese, e ne migliorano la corporate governance sotto la disciplina di investitori privati, se vige la contendibilità proprietaria.
L’esperienza insegna che per funzionare bene le privatizzazioni devono avvenire con obiettivi e procedure trasparenti, mobilitando strumenti e regole il più possibile di mercato e non soggetti al diritto speciale amministrativo, e risolvendo in anticipo le questioni regolatorie, di concorrenza, e di limite a eventuali acquisizioni straniere attraverso la golden share, con cui si può impedire decisioni strategiche antinazionali – nei pochi casi in cui sussiste davvero questo interesse – anche solo con un’azione “d’oro” e senza bisogno di detenere la proprietà degli asset.

Oggi, sono in molti a non credere alla possibilità di realizzare massicce dismissioni. Altri ne negano l’opportunità, sostenendo che il patrimonio pubblico è la vera garanzia del debito, tanto vale dunque convogliare il più possibile di esso in uno o più fondi pubblici, far loro emettere titoli, farli comprare dagli italiani o da stranieri, e destinare questi titoli emessi sulla garanzia del patrimonio all’abbattimento del debito, senza cedere per nulla la proprietà dei beni. C’è da dubitare che uno schema di questo tipo funzionerebbe. A meno di “obbligare” gli italiani a investirvi. Alcuni magari lo farebbero volentieri, ma con la pressione fiscale che già grava su famiglie e imprese, pensare da parte dello Stato a drenare anche obbligatoriamente patrimoni privati (oltre l’IMU-TARES in arrivo) rischia – giustamente – di scatenare vere sollevazioni sociali.

Il patrimonio pubblico viene stimato in una valore di poco inferiore ai poco più di 2mila miliardi del debito pubblico attuale. Ma occorre valutare la realizzabilità concreta delle diverse cessioni “possibili”, che si restringono su un’area di circa 700 miliardi che al Tesoro vengono definiti “valorizzabili”… aggettivo rischioso, perché sottintende perennemente che al Tesoro si pensi di cedere nulla ma di limitarsi a estrarne più reddito. Che pure, come vedremo, è cosa giusta rispetto ai miseri risultati attuali, a conferma che lo Stato è un pessimo padrone. Naturalmente, ultimo avviso, NON ragioniamo qui dei circa 3,2 milioni di opere d’arte stimate, monumenti, parchi naturali,e via continuando. Non si tratta di vendere il Colosseo, com’è ovvio.

Le cifre,come vedrete, dicono che il patrimonio pubblico attualmente è una manomorta. Distrugge valore, invece di generarne. Una volta ben avviata la macchina, cessioni nell’ordine di 30-35 miliardi di euro l’anno sono concretamente possibili. In 5 anni, con l’aiuto di un maggior tasso di crescita, l’obiettivo di scendere sotto il 100% di Pil di debito pubblico sarebbe perfettamente conseguibile. Volendolo, naturalmente. Senza patrimoniali. Ma anche senza finte privatizzazioni, quelle in cui la realtà italiana degli ultimi anni è diventata maestra, e che sono molto care ai tecnici del Tesoro: prendi una quota di Eni e la giri a CDP, fai comprare le società pubbliche del trasporto locale a Ferrovie dello Stato, e via proseguendo. Queste non sono privatizzazioni, ma meri artifici contabili. Noi, qui, parliamo d’altro: perdita di controllo e alienazione totale delle partecipazioni.

GLI IMMOBILI

L’ultimo aggiornamento è stato dato a dicembre scorso in parlamento, dal direttore finanza e privatizzazioni del Dipartimento del Tesoro, Francesco Parlato. Ha parlato di circa 340 miliardi di euro di valore di mercato delle unità immobiliari pubbliche, tra 55 mld circa di quelle di proprietà delle amministrazioni centrali e 285 per quelli delle altre amministrazioni ed Enti Locali, valutati ai prezzi medi di mercato elaborati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del Territorio. A queste circa 530mila unità immobiliari vanno aggiunte poi le oltre 700mila ex Iacp ora gestite dagli Enti Locali, l’edilizia popolare convenzionata (meritano un discorso a parte, la vendita in prelazione agli affittuari avrebbe un tasso di acquisto basso, con problemi sociali evidenti di liberazione degli immobili, inoltre non solo nel Centro-Sud la percentuale di subaffitto abusivo è estesissima). Al patrimonio immobiliare si sommano 760 mila terreni per 1,3 milioni di ettari, valore stimato circa 300 miliardi, ma ne sono cedibili per il Tesoro – cioè non vincolati – non oltre 15 miliardi. La cessione del patrimonio pubblico ha tre problemi. Il primo è che oltre l’80% degli immobili è nelle mani delle Autonomie. Il secondo è che secondo la legislazione attuale è cedibile solo il 30% degli immobili, cioè la quota non destinata a fini strumentali della PA. Il terzo è che cedere in tempi rapidi e ragionevoli dipende dal veicolo al quale l’operazione si affida. La risposta al primo problema è che la cessione si può fare solo associando le Autonomie, abbattendo il loro debito in cambio della cessione quota-parte dei proventi. Il secondo problema invece ha bisogno di una modifica legislativa: lo Stato si abitui a a pagare anch’esso i canoni a privati, se non riesce a restringere le superfici che occupa. Il terzo avrebbe bisogno di uno o meglio più veicoli di diritto commerciale privato, ma il problema è che il governo Monti ha invece scelto una sgr pubblica controllata dal Tesoro, Invimit, che attualmente fatica a vedersi conferire dal demanio circa 600 unità immobiliari. Di questo passo, ci si mette una vita. I 1.600 siti dismissibili della Difesa aspettano da anni.

Non cadete nelle due solite trappole: primo “ma chi compra, il mercato è basso, gli italiani in ginocchio”. Secondo: “le caserme non le ha volute nessuno”. La risposta alla prima trappola è che il mondo è pieno di fondi immobiliari iperliquuidi alla ricerca di buoni affari, in un mondo avanzato di generale deleverage immobiliare: si tengono lontani dall’Italia, tranne eccezioni recenti come l’intervento a Milano del Fondo del Qatar, perché non si fidano delle nostre leggi e procedure amministrative, ed è anche per questo cheal posto di Invimit noi avremmo caldeggiato – si è sempre in tempo – veicoli privati di diritto europeo. Quanto alla seconda trappola, è ovvio che nella vendita occorre anche mutare variazioni d’uso e destinazione delle aree e dei relativi coefficienti edificatori. Senza cadere in orge speculative o in sfregi ambientali, ma è ovvio che se devo rilevare una caserma ma obbligato a tenerci la piazza d’armi libera nel centro di una città, non la compro perché non penserò di realizzare un palmeto.

LE PARTECIPAZIONI MOBILIARI

Se sommiamo le stime di mercato delle quote di società pubbliche statali, arriviamo a circa 80 miliari di euro, tra le diverse quote di Cassa Depositi, Eni, Enel, Eurimmobiliare, Finmeccanica, Fincantieri, Poste, Sace, Terna, Rai, Poligrafico, Ferrovie, Sogei, Sogesid, Sogin, STM, Inail (fermandoci alle maggiori, di esse 14 sono quotate in Borsa). A queste si sommano le circa 7.400 società controllate e partecipate dagli Enti Locali (il numero è stimato, un’anagrafe completa manca, gli Enti Locali sono ancora renitenti in massa a girarla al Tesoro, come pure dovrebbero per legge): la stima del valore di questo universo aggiuntivo con circa 300 mila dipendenti è molto difficile, diciamo che solo le maggiori utilities quotate dei grandi Comuni valgono da sole una ventina di miliardi.

Per le società partecipate dallo Stato, la dismissione è proceduralmente facile ma in molti si oppongono a cominciare dal sindacato. Eppure per tutelare la “strategicità” presunta di alcune di esse basterebbe appunto la golden share. Per alcune, come Poste e Ferrovie, occorrerebbero spacchettamenti preventivi tra aree di servizio commerciale – bancoposta – e servizi di rete universali – RFI che gestisce la rete ferroviaria, con necessità di regolare con attenzione la dismissione delle prime attività. Per indurre le Autonomie a privatizzare, il governo Monti aveva varato una norma per cedere o sciogliere le società che realizzano il più del fatturato dalla PA, ma la Corte Costituzionale ha appena abrogato la norma. L’unica è concepire un meccanismo premiale sui trasferimenti pubblici e le quote proprie fiscali: chi cede di più ottiene di più, senza incentivi di anno in anno le società controllate e partecipate dagli Enti Locali sono in costante aumento.

LE CONCESSIONI

Qui, in effetti, più che cedere si tratta di valorizzare: le concessioni marittime, portuali, aeroportuali e via proseguendo, secondo una stima del professor Edoardo Reviglio, che per anni al Tesoro ha lavorato a un tentativo di anagrafe patrimoniale pubblica prima di passare in CDP, rendono solo lo 0,6% annuo del loro valore, rispetto al 6% della media dei Paesi avanzati. Questo innalzamento da solo vale un punto di Pil d’incassi possibili, ogni anno. Ma tenete conto che il patrimonio immobiliare rende attualmente solo lo 0,1% scarso del valore, rispetto al 5-6% che è il minimo annuo di un portafoglio immobiliare privato. A conferma che lo Stato non sa gestire costitutivamente ciò che pure ambisce a controllare, e di cui non si vuole privare.

GLI ENTI STRUMENTALI

Le 26 società controllate dal Tesoro hanno un totale di 500 mila dipendenti e ricavi nell’ordine di 240 miliardi di euro.Molte di queste imprese, però, pur essendo formalmente società per azioni, sono nei fatti enti strumentali del governo, preposti a svolgere funzioni di regolazione o altre funzioni propriamente pubbliche. Essi possono essere riorganizzati, in alcuni casi aboliti, e razionalizzati, ma certo non si prestano alla privatizzazione: esempi di questi “enti” sono l’Enav, il Gse, Alitalia Servizi (la bad companyrisultante dal salvataggio di Alitalia), il Cnr, la Consip, l’Enac. L’Anas rappresenta un caso a parte perché, pur svolgendo una funzione di regolatore, è anche titolare di concessioni autostradali, che potrebbero essere cedute. Il recente intervento nella sue competenze non ha, di fatto, risolto il problema, e anche su questo si attende la nuova Autorità dei Trasporti. In molte società strumentali sarebbero necessarie  casi riforme o riorganizzazioni aziendali, com’è stata posta per anni all’Eni l’uscita di Snam Rete Gas (che controlla il trasporto nazionale del gas, gli stoccaggi e il maggiore soggetto attivo nella distribuzione locale) dal suo perimetro aziendale.

FERROVIE E POSTE, TESORI SOTTOUTILIZZATI

Per Ferrovie dello Stato vale un discorso analogo: l’attuale struttura verticalmente integrata è incompatibile con una cessione. Rete Ferroviaria Italiana andrebbe pertanto separata, non solo contabilmente come già avviene, da Trenitalia. Alla nuova Autorità dei Trasporti intervenire nelle norme che blindano la facoltà di impedire fermate intermedie ai concorrenti nel caso in cui questo possa “compromettere l’equilibrio di bilancio” dell’ex monopolista. Trenitalia si avvanteggerebbe per una maggior forza finanziaria nel condurre la concorrenza anche in Europa, dove Francia e Germania non riconoscono la simmetria di apertura del mercato che noi abbiamo loro consentito a casa nostra. Considerazioni non diverse si applicano a Poste Italiane, la cui privatizzazione richiederebbe sia una riorganizzazione interna, con almeno lo scorporo di Bancoposta e la sua acquisizione di una piena licenza bancaria, visto che stiamo parlando della più diffusa rete di raccolta sul territorio italiano. Ma le banche private sono da sempre contrarie, non a caso.