19
Ago
2013

Tre proposte per un’Italia che non polemizzi in Ue contro il rigore che non ha praticato

Ieri Napolitano e Letta a Rimini hanno molto insistito sul tema europeo. C’è concretamente  il rischio che il binomio Italia-Europa, incardinato sulla prospettiva del semestre di presidenza italiano della Ue che avrà inizio a luglio 2014, possa apparire una via di fuga, rispetto ai travagli di un governo minacciato da un altro binomio, quello decadenza-incandidabilità di Berlusconi.  Sin qui, l’operatività del governo è stata molto limitata dal quotidiano braccio di ferro tra Pdl e Pd. Ed è per scongiurare tale rischio, che a Letta e al suo governo spetta riempire di contenuti concreti il semestre italiano.

La premessa è che di qui a poche settimane i tedeschi andranno alle urne, e tutti sapremo con quale Germania fare i conti. Attualmente la cancelliera Merkel e Cdu-Csu godono nei sondaggi di ottima salute, potrebbero riformare anche un governo con i liberali della Fdp. Ma pur essendo la Spd in forte caduta e a 15 punti e più di distacco, saggiamente la Merkel non chiude la porta a un governo di intese più vaste. Proprio perché, dopo il biennio di cui la Merkel vanta ai suoi elettori la porta chiusa a salvataggi senza rigore per Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, verrà per tutti, anche per la Germania che ha fortemente visto ridursi la propria crescita, il tempo di nuove scelte.

I vertici europei sono in scadenza. Il 30 ottobre termina il mandato del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. A fine novembre scade il presidente del Consiglio, Van Rompuy. A inizio 2014 entra nel vivo la scelta del nuovo segretario generale della NATO, dopo il danese Andwers Fogh Rasmussen. Sono in ballo candidati italiani già formalizzati per la NATO, Frattini, e possibili per la presidenza del Consiglio, Mario Monti. Su tutte queste scelte non sarà certo decisiva la presidenza greca dell’Unione che ci precede a inizio 2014, perché Atene è ancora duramente alle prese con la Troika, per il suo risanamento. Mentre è a Roma, il prossimo 25 marzo e dopo 23 anni, che si riunisce l’assise interparlamentare europea, avendo come ordine del giorno le proposte di revisione del Trattato di Lisbona rese necessarie dall’incerta governance di quest’ultimo biennio, quando l’Europa è vissuta solo di faticosi compromessi intergovernativi per inventarsi farraginosi strumenti eurocooperativi come l’Efsf e poi l’Esm, e mentre la BCE di Draghi ha praticamente dovuto – con inventiva e coraggio – risolvere i guai per tutti.

Perché tutte queste premesse diventino concretamente in Italia il vero programma di governo che sin qui a Letta è mancato, non bastano pur suggestive formule come quelle risuonate ieri, contro i professionisti del conflitto, e a favore di una politica che parli il linguaggio della verità. Occorre invece rendere evidente agli occhi di italiani mai da decenni così piegati su redditi tanto colpiti che, quando Napolitano parla del rischio di un’Italia e un’Europa sommerse dalla globalizzazione, si riferisce davvero a misure concrete da adottare per evitarlo.

Letta ha avviato all’inizio di luglio la macchina per il semestre italiano, chiedendo a tutti i componenti del governo proposte entro fine anno. Ma in verità due-tre idee forti devono essere di fatto pronte sin dalla sera in cui sarà proclamato il risultato elettorale tedesco. Sin qui Letta ha fatto capire in diverse occasioni che “L’Europa del rigore” deve lasciare il campo a una formula nuova. Ma formule come queste rischiano di essere sdrucciolevoli. Nessuno in Germania sarà disposto a toccare gli impegni degli eurodeboli ancora esposti a rischio solvibilità. Quel che serve, sono strumenti e metriche nuove, che anche ai tedeschi convengano per evitare un’Europa a crescita zerovirgola rispetto a quella più robusta di Stati Uniti e Gran Bretagna, mentre i Paesi emergenti hanno molto rallentato. Per dirla in due parole, devono essere strumento alieni dal sembrare ispirati alla polemica “Krugman contro l’austerità”.

Proviamo allora a fare tre esempi, senza voler in alcun modo esaurire il lungo elenco di opzioni che ribollono nel dibattito europeo. E senza entrare nella babele delle proposte di riforma delle istituzioni Ue.

Metriche nuove: sinora a contare per i diversi euromembri sono stati deficit e debito pubblico, è venuto il tempo di guardare più complessivamente anche alla posizione netta sull’estero. Non è tanto questione di quale percentuale di debito pubblico sia in mani straniere, né di patrimonio delle famiglie a garanzia del debito– un indice pericoloso, perché porta a sovraimposte patrimoniali antidebito. Occorre guardare per esempio al deficit cumulato nella parte corrente della bilancia dei pagamenti rispetto all’export di ogni Paese. E’ un indicatore che sta migliorando energicamente per tutti i Paesi eurodeboli, e che vede l’Italia in una “comoda” posizione del -50%, rispetto al -150% spagnolo e al -250% portoghese, la soglia oltre la quale la sostenibilità diventa effettivamente pregiudicata. Assumere metriche di questo tipo significa di fatto prestare attenzione a export e import intraeuropeo, perché un’area monetaria comune non può vivere con un solo Paese che esporta da primatista e tutti gli altri impossibilitati a seguirlo, azzerando in due anni gap di competitività pluridecennali.

Secondo esempio: gli investimenti. Il debito pubblico può crescere perché il Pil scende più di quanto le stangate fiscali riducano il deficit, come avviene in Italia. E la crescita non sarà mai solida finché si considereranno con indifferenza spese di consumi pubblici e per investimenti. La quota di investimenti – pubblici e privati – deve diventare un criterio per graduare gli strumenti eurocooperativi. La Germania investe oggi più del 2007, nel pubblico e nel privato. L’Italia il 24,4% in meno. Non credo da anni alla retorica relativa agli euro-bond, che rilanciano il tema degli oneri a carico dei più virtuosi. Va semplicemente premiato chi mostra scelte concrete, a cominciare dagli incentivi fiscali domestici, il cui effetto è accrescere il monte-investimenti.

Terzo esempio: il credito. L’efficacia dell’Unione bancaria come volano di crescita non è data dal numero concreto di banche sottoposte a supervisione comune, il punto su cui i tedeschi puntano i piedi per evitare sguardi indiscreti agli attivi delle proprie banche nelle mani della politica locale. Perché i tassi bassi funzionino davvero, devono poter funzionare per tutti. Cioè occorre che, in sistemi gravati da eccessi di sofferenze, si pensi a sistemi straordinari per liberare capitale bancario a favore di impieghi per famiglie e imprese. E’ un problema centrale per l’Italia odierna. E non richiede affatto stravolgimenti dello Statuto della BCE, per interventi ordinari europei volti a rendere fluidi i canali della politica monetaria.

Fermiamoci qui. Personalmente non ho molta fiducia. Ma in ogni caso più Letta riuscirà a parlare agli italiani di novità concrete per sbloccarci da fisco vorace e credit crunch non “contro” l’Europa cattiva, ma “insieme” ai Paesi europei di cui dobbiamo riconquistare l’efficienza, meno pesanti saranno le nubi sulla politica italiana. Altrimenti condannata all’ennesimo atto di uno sterile braccio di ferro ventennale.

16
Ago
2013

Piccoli proprietari crescono: come liberare i poveri dell’India — di Alex Chafuen

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dallo Atlas Network.

Quando si analizza il tema dello sviluppo economico pochi casi suscitano tanto interesse interesse e hanno le medesime ripercussioni dell’esempio dell’India. Il minimo cambiamento in un paese che conta oltre un miliardo e 200 milioni di abitanti ha un grande effetto sul mondo. Oggi esiste la possibilità di fare un cambiamento al prezzo di appena un dollaro.

Poco più di vent’anni fa l’India ha iniziato a liberalizzare il commercio, gli investimenti e altri settori dell’economia. Politiche fiscali e monetarie più prudenti hanno condotto ad una minore inflazione e il paese, che era solito implorare aiuti allo sviluppo, si è trasformato in quella che potrebbe diventare un’autentica superpotenza. Molto rimane ancora da fare e l’inflazione ha ripreso a crescere, ma il modo in cui guardiamo all’India è cambiato.

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13
Ago
2013

Tre proposte per impedire che TAR e ricorsi amministrativi siano nemici dell’economia

Il presidente del Consiglio è alle prese con una caldissima non-pausa agostana. Il termometro dei rapporti di maggioranza s’impenna giorno dopo giorno, sull’agibilità politica di Berlusconi come su temi-bandiera per il Pdl, a cominciare dall’IMU. Un modo per uscire dalle tenaglie dei tumultuosi rapporti di maggioranza ci sarebbe, alzare il livello programmatico e operativo della compagine di governo, smentire chi l’accusa – sin qui, a piena ragione – di essere più di “lunghe attese” che di “larghe intese”.

Per rilanciare l’economia, non c’è solo l’esigenza di un quadro pluriennale energico e credibile di abbattimento delle imposte su lavoro e imprese, con tagli di spesa altrettanto vigorosi. In questo quadro, una svolta profonda sul regime delle impugnative amministrative può e deve costituire una vera e propria priorità. E che partiti e dibattito pubblico diano poca attenzione alla questione, anche per i suoi delicati e complessi risvolti tecnici, potrebbe per una volta significare per il governo una facilitazione invece di un impedimento.

Il tema, rilanciato sul Messaggero dagli interventi di Romano Prodi e Paola Severino, rappresenta una vera e propria emergenza economica nazionale. Per averne una conferma nasometrica, basta formulare su Google una semplice ricerca, “ricorsi amministrativi ostacolo all’economia”: troverete elencati la bellezza di 3.970.000 casi. Da molti anni, in ogni report comparato dai maggiori fori internazionali sulle cause della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti diretti esteri, l’incertezza amministrativa è in cima alle ragioni citate. Sono oltre 500, nel solo campo delle opere infrastrutturali, i progetti a vario titolo in tutta Italia rallentati o di fatto denegati, con iter temporali dagli 8 ai 12 e talora 15 anni e più. Dal 2008 ad oggi, gli esperti della Agici Finanza d’Impresa elaborano ogni anno un rapporto sui “costi del non fare”, sommando con una metodologia rigorosa gli oneri economici di minor crescita dovuti al rallentamento e alla rinuncia a progetti stradali, ferroviari, energetici, idrici e di tlc. Nell’ultima edizione, proiettando lo stallo attuale senza una riforma decisa, siamo a oltre 380 miliardi di euro stimati dal 2010 ai tre lustri successivi. Ecco, di che cosa stiamo parlando.

Quando Prodi ha parlato di “abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato”, ha deliberatamente voluto raccogliere l’espressione rozza e semplificatrice raccolta dagli imprenditori che hanno tutte le ragioni per essere esulcerati. Ovviamente, sono i giuristi a doversi confrontarsi sul tema. Purché lo facciano tenendo a mente che una svolta profonda è necessaria, per liberare l’economia e la crescita dalle troppe incertezze oggi rappresentate dalla pluralità di impugnative a tutti concessa in ogni grado d’avanzamento di ogni progetto, in un’intreccio senza eguali al mondo tra diritto civile, prerogative societarie ed economiche assunte dal pm e dal giudice penale, e infine pluralità di giurisdizione amministrativa tra Tar e Consiglio di Stato.

Tre semplici indirizzi potrebbero essere assunti dal governo come pilastri di una svolta energica.

Il primo, senza neanche entrare nel vischio di una riforma ordinamentale sul complesso della giurisidizione, sarebbe già di suo rappresentato dall’abbracciare in materia di infrastrutture il modello del Débat Public francese, vigente e aggiornato ormai da 25 anni e garanzia sia di un esteso coinvolgimento dell’”ascolto pubblico” in relazione a ogni progetto infrastrutturale e d’impresa, sia però di tempi certi e stretti – 6 mesi – oltre i quali impugnative e ricorsi “all’italiana” nelle conferenze di servizio non sono più possibili, né si può riaprire ogni giorno l’eterno calvario italiano degli oneri accessori, che in regime di riduzione di trasferimenti pubblici dal centro alle Autonomie hanno finito per gravare ogni opera pubblica di un impossibile recupero di finanziamenti persi su altri tavoli. Segnaliamo che il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando ha preparato un mese fa un ddl che assume molti istituti del modello francese: sarebbe bene, una volta resolo ancor più efficace, farne una proposta centrale nell’operato governativo.

La seconda via è quella di una ponderata ma forte limitazione delle impugnative ammissibili sui progetti economici. Dove per “limitazione” va intesa non una compressione antidemocratica degli interessi legittimi coinvolti – questi devono avere solo tempi certi per esprimersi, e la non reiterabilità della loro rappresentazione giudiziale – quanto un intelligente accentramento delle competenze, secondo una logica di specializzazione presso le sezioni del Consiglio di Stato. Come il Titolo V° della Costituzione deve vedere il riaccentramento di competenze in materia di opere energetiche e infrastrutturali prioritarie e naziuonali, allo stesso modo dovrebbe avvenire per competenze e gradi del diritto amministrativo.

Infine, c’è un tema più esteso che s’inquadra in una riflessione ad ampio spettro sull’intero ordinamento giuridico italiano. Tanto per le competenze civili – su cui si è intervenuto con le sezioni speciali in materia di diritto d’impresa – quanto nel rito penale e a maggior ragione in quello amministrativo, va ripensato ab ovo il meccanismo delle garanzie personali, d’impresa e finanziarie per i soggetti economici che, oggi nel nostro Paese, si trovano esposti da soli e senza coperture alle conseguenze di defatiganti procedimenti di ogni ordine e grado. Il tempo è un fattore centrale per l’economia e per qualunque progetto d’impresa, perché è l’unità necessaria in cui si sconta il capitale, e si definisce il rendimento atteso di ciò che si mette in campo per prefiggersi un risultato. Nel diritto italiano, il tempo oggi è invece una variabile indipendente. Ed è per questo, che in un numero sempre maggiore gruppi internazionali e imprese italiane impiegano in tempo e luoghi “stranieri” le loro risorse: lì il tempo, anche giuridicamente, è tutelato come da noi non avviene.

Se il governo, com’è comprensibile, cerca più tempo per sé e per “fare”, inizi allora dalla riforma del diritto amministrativo, per dare tempo certo tutelato per far fare a tutti.

 

13
Ago
2013

Divieti d’Italia: la prostituzione

Tra i diversi tipi di divieto, non mancano quelli per ostacolare l’attività di merettricio (il cui sfruttamento fu vietato con la legge Merlin no.75/1958): ci sono infatti una serie di ordinanze che, anziché punire e colpire  direttamente chi la organizza, la svolge e la pratica, aggirano il problema, a volte in modo piuttosto stravagante. Read More

10
Ago
2013

Sarà ripresa lenta, avara di occupati, e Letta ha le sue colpe

Ieri il presidente del Consiglio ha detto un’assoluta verità, parlando dell’ipotesi di un autunno caldo perché non ci sarà ripresa dell’occupazione. Lo ha fatto anche per ragioni politiche, dovendo tenere alta l’insostituibilità dell’attuale esecutivo, poiché la mattinata di ieri era cominciata con un nuovo ultimatum di Berlusconi sull’abrogazione dell’IMU, e di fatto la pausa politica estiva avviene mentre resta pesantissima l’incognita di che cosa avverrà a settembre, dopo la condanna di Berlusconi. Non a caso, ieri Letta ha esplicitamente previsto che, anche in caso di voto anticipato, si tornerebbe con ogni probabilità a larghe intese. Come a dire che sarebbe inutile votare, visto che il pallino tornerebbe a lui più che a ogni altro esponente del Pd che, come Renzi, parla invece esplicitamente della convergenza col Pdl come di una parentesi obbligata ma assolutamente da non ripetere.

Ma torniamo all’occupazione. Non è prudenza ma amara verità, mettere le mani avanti e dire agli italiani che non ci sono le premesse per un rilancio a breve del lavoro. Ma allora, che ripresa è quella di cui molti parlano, Letta e Saccomanni compresi?

La ripresa che si annuncia è fatta attualmente di un miglioramento degli indici di ordinativi e fiducia delle imprese europee e anche italiane. I tassi di caduta reale delle attività sono diminuiti in Italia come in Spagna, mentre la Francia è risalita sopra quota zero. La Cina, che molto fa preoccupare, oltre che per l’attendibilità delle sue statistiche soprattutto per indicatori da mesi in caduta del suo tasso di crescita verso “solo” il 7% annuo, in questi giorni ha diffuso nuovamente buoni dati sull’export, domanda di metalli e produzione industriale, che nel mese di luglio è tornata a un +9,7% su base tendenziale annuale. In più, sia la FED americana sia la Bank of England hanno posto l’abbassamento della disoccupazione nei loro rispettivi paesi sotto il 7% come condizione prima del cui raggiungimento non muteranno le attuali politiche monetarie iperlasche e condotte al ritmo non solo di tassi d’interesse reali negativi, ma anche di pesanti acquisti di titoli sui mercati. Anche il Giappone va meglio, per effetto di analoghe manovre monetarie iper espansive. I mercati finanziari americani sono al massimo storico, tanto da far temere – giustamente – nuove bolle nei prezzi.

Che grandi banche centrali vincolino ormai la loro forward guidance a espliciti obiettivi di occupazione è un’ulteriore manifestazione delle opllitiche “non ortodosse” dell’innovazione monetria sotola linea zero dei tassi d’interesse. Apparentemente è cosa buona, ma per chi la pensa come noi – l’offerta monetaria deve tenersi lontana da influenze politiche, e guardare ai prezzi da una parte e all’output potenziale dall’altro – è mossa molto rischiosa: aumenta ancora l’influenza della politica sulle auorità monetarie; costituirà precedente per tenere più bassi i tassi rispetto a quelli naturali tutte le volte che la politica dirà che gli occupati da ragiungere non sono ancora stati conseguiti nella giusta misura; infine fa passare l’idea che gli occupati dipendano dall’offerta monetaria, mentre intensità e qualità dell’occupazione dipendono assai più da mix delle imprese, specializzazioni produttive, qualità del capitale umano, apertura ali mercati esteri, regole del mercato del lavoro, impatto quantitativo e qualitativo delle politiche di bilancio e fiscali, e via proseguendo.

In ogni caso quel che sta avvenendo di fatto è che dollaro, sterlina e yen, forti della loro sovranità monetaria alla quale noi abbiamo rinunciato, giocano a svalutazioni delle monete per trainare l’export. Noi invece nell’area euro abbiamo dovuto svalutare sui diversi mercati nazionali i redditi e i salari, e ciascuno lo ha dovuto fare con più durezza – Grecia, Italia, Spagna, Portogallo – a seconda di quanto maggiore fosse il gap di produttività e bilancia dei pagamenti nei confronti del Paese leader, la Germania.

Il risultato di questa somma di interventi straordinari ha fatto tornare a livello mondiale note di ottimismo. Mentre da inizio anno il Fondo Monetario Internazionale aveva ritoccato tre volte al ribasso la stima del commercio mondiale e della crescita planetaria, oggi potremmo tornare in questo 2013 a una crescita complessiva più vicina al 3,3 o 3,4% che al 3%.

Ma se dagli indicatori di fiducia e finanziari passiamo all’occupazione, il mondo avanzato resterà diviso da barriere molto nette.

Il quadro ce lo ha dato pochi giorni fa l’Ocse nel suo Outlook sull’occupazione. Nei Paesi avanzati, i disoccupati sono oggi 48 milioni, di cui 16 dovuti ai 5 ultimi anni di crisi. Nei Paesi Ocse il picco si raggiunse nel 2009 con un tasso di disoccupazione dell’8,5%, oggi siamo all’8% e a fine 2014 si prevede non scenderà sotto il 7,8%. Ma a questa media si giunge per il fatto che alcuni Paesi come Germania, Cile, Turchia e Israele hanno oggi meno disoccupati di 5 anni fa. Altri, come Austria, Giappone, Corea del Sud, Norvegia e Svizzera, restano sotto il 5%. Altri ancora, come Italia, Spagna e Grecia, sono e resteranno invece fuori linea. Per l’Italia l’Ocse prevede un ulteriore aumento dell’1% dei disoccupati nel 2014 rispetto al 12,6% a cui si dovrebbe chiudere il 2013, di poco superiore alla media europea. A realizzare peggioramenti dell’1% malgrado un possibile ritorno a frazioni di punto di crescita nel 2014, oltre all’Italia, sono Grecia, Spagna, Portogallo, Olanda e Polonia. Queste amare previsioni, per concludere, possono vedere a fine 2014 la disoccupazione giovanile passare dal 35% attuale italiano sino al 38-39%, mentre la Grecia, che già ha raggiunto la paurosa percentuale del 67%, sfonderà quota 70-75%.

E’ da una parte fisiologico, che la ripresa dell’occupazione segua a distanza di diversi trimestri la ripresa delle attività reali, perché bisogna scontare che la recessione esercita una selezione durissima tra migliaia di imprese che spariscono, e altre che razionalizzano negli anni di maggior difficoltà anche gli organici di occupati, oltre che struttura del debito e ogni altro fattore della produzione. Ma ci sono anche ragioni non fisiologiche, per le quali in Italia la possibile ripresa dell’occupazione andrà parecchio a rilento. Ragioni che sono profondamente connesse ai venti anni di mancate riforme alle nostre spalle, per le quali già prima della crisi avevamo tassi di crescita tra un terzo e la metà di quelli dei nostri partner. Da allora, abbiamo continuato a perdere competitività.

In sintesi estrema, pesano almeno quattro fattori. La percentuale elevatissima di imprese tra 3 e 5 occupati. Il cattivo andamento dei grandi gruppi, confermato dall’indagine Mediobanca rilasciata l’altro ieri sugli andamenti 2012. Terzo elemento, se l’export va bene e supererà i 500 miliardi nel 2013, non esportiamo certo il 45-46% del Pil come in Germania, e di conseguenza il calo terribile della domanda interna, dovuto alla perdita di reddito reale di famiglie e consumatori, si riverbera in cali del fatturato, della produzione e dei margini del più del Pil italiano, quello determinato dai servizi alle imprese e alle persone. Quarto, infine, ciò che di fatto ha determinato il calo tanto pesante della domanda interna, e cioè il mix di finanza pubblica seguito dal 2000 ad oggi, composto di circa 230 miliardi di aggravi d’imposta, di maggior gettito su lavoro e impresa, di aumenti di entrata tanto sui redditi che sui patrimoni, che infine attraverso l’imposizione indiretta sui consumi.

Era e resta questo ultimo, il punto sul quale attendere il governo Letta a una svolta vera, che consenta di accelerare la ripresa occupazionale. Mentre infatti per modificare mix, specializzazioni e patrimonializzazione delle imprese italiane occorrono tempi lunghi, liberalizzazioni decise nei servizi e abbattimenti d’imposta su lavoro e impresa attraverso tagli di spesa pubblica sono la vera cura per ottenere a breve più occupati. Molto più dei 18 mesi di incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato appena approvate nel cosiddetto “decreto del fare”.

In caso contrario, è inutile illudersi. Resteremo ancora per anni un paese che penalizza giovani e capaci. Letta lo sa benissimo. E un governo di grande convergenza doveva servire per fare questo, come accadde in Germania nei primi anni Duemila. Non per litigare su Imu e sentenze.

 

9
Ago
2013

Essere onesti non è inutile: il rating di legalità.

La corruzione è zavorra non solo per l’economia, ma per qualunque ambito da essa contaminato, come si è qui esposto. La lotta a tale fenomeno è stata affrontata nel settore pubblico, quale ineludibile esigenza collettiva, con una serie di recenti provvedimenti. Strumento e fine di questi ultimi è, da un lato, la “trasparenza”, volta a illuminare gli angoli bui di una burocrazia nelle cui pieghe possono annidarsi illegalità e malaffare; dall’altro, l’accountability, vale a dire la responsabilità di chi, gestendo la “res publica”, ai cittadini è tenuto a “rendere conto”. I risultati normativi, com’è stato qui esposto, non sembrano efficaci: perché il regolatore non riesce a emanciparsi da quella sorta di peccato originale che marchia ogni ambito pubblico, cioè da un’impostazione anche legislativamente burocratica, che finisce produrre opacità anche là dove vorrebbe far luce.

Ma la corruzione è problema molto grave anche nel settore privato. E se, di recente, qualcuno, ha parlato di una “evasione per sopravvivenza”, c’è chi parimenti ha rilevato l’esistenza di una corruzione motivata dalla “pressione per generare buone performance finanziarie” e, così, permanere sul mercato. E’ quanto emerge da una recente indagine, (qui riportata), la Fraud Survey 2013, svolta della Ernst & Young, una delle “big four” mondiali della revisione contabile, che ha intervistato 3.459 dipendenti  (il 30% dirigenti e top manager) di imprese di 36 Paesi nel mondo, al fine di rilevare “la risposta delle aziende alle difficoltà derivanti dall’attuale contesto economico”. Detta indagine evidenzia la portata del fenomeno corruttivo, come percepito all’interno delle strutture imprenditoriali, dimostrando che, ove la crisi economica è più sentita, più diffusi sono comportamenti connotati da illegalità, al fine di produrre, nonostante la crisi, buoni risultati.

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6
Ago
2013

Banche. L’alternativa alla nazionalizzazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Davide Grignani.

Da alcune settimane noto crescere con vigore la “falange dei nazionalizzatori” ovvero di quegli stimati economisti, banchieri ed operatori economici favorevoli all’iniezione di capitali pubblici nel capitale delle banche italiane.
Dopo le note di Lorenzo Bini Smaghi sulla opportunita’ di iniettare alcuni miliardi di euro dello Stato nel capitale degli istituti bancari più bisognosi, la lettera di Antonio Foglia – che da anni insiste su una maggiore capitalizzazione di tutte le banche – ho letto con interesse il recente articolo di Pietro Alessandrini e Michele Fratianni che stimano un possibile intervento pubblico tramite CDP tra i 17 e i 18 miliardi di “buffer stock” di nuovo capitale bancario.
Mi sia consentito  intervenire in contrapposizione a queste posizioni che evocano in “funzione anticiclica” l’intervento pubblico a sostegno di banche in temporanea difficolta’ nell’assunto che queste non siano in grado di attrarre i necessari capitali privati italiani ed esteri dato il loro eccessivo livello di rischio.
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5
Ago
2013

5 agosto 2011 – 5 agosto 2013. 2 anni persi

Il 5 agosto 2011 il governo italiano riceveva una lettera dalla Bce, nella quale venivano indicate le riforme necessarie a ristabilire la fiducia nel nostro paese e le condizioni per tornare a crescere. Qui si valuta lo stato di attuazione della lettera. Purtroppo il bilancio è deludente. Abbiamo perso due anni preziosi.

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