23
Ago
2013

Nessuna guerra dei domini, solo una sana concorrenza

Con il suo ultimo articolo su Repubblica (“La guerra dei domini”, 23 agosto) Carlo Petrini si cimenta nel ruolo che più gli si addice: quello del terrorista. Pur commentando un tema – l’avvento dei domini generici di primo livello – lontano dal suo campo d’elezione, il profeta di Slow Food attinge a piene mani al proprio repertorio retorico. Attacca l’Icann, contestando che la rete, “strumento democratico per eccellenza”, possa sottostare alla gestione di un ente privato – dimenticando che internet è libera, non democratica, e lo è proprio grazie alla (relativa) mancanza di controllo pubblico. Paventa un “accaparramento di parole” che sono “bene comune” – ignorando che le parole sono strumenti pratici e dipendenti dal contesto, non reliquie intangibili. Chiama in causa gli speculatori, il riciclaggio, la contraffazione, le multinazionali, il cibo commodity – impiegando molte parole d’ordine e pochi argomenti per un j’accuse spuntato.

Nel 2012, l’Icann – l’ente che custodisce, per così dire, l’indirizzario di internet – ha dato seguito all’intento di liberalizzare i domini di primo livello, avviando il processo di assegnazione dei nuovi suffissi. Nei prossimi mesi, accanto ai tradizionali .it o .org, compariranno marchi (come .amazon) e parole comuni che identificano ambiti culturali e settori commerciali: per esempio quei .wine e .vin che hanno destato l’attenzione di Petrini. Secondo alcuni osservatori, l’utilizzo dei domini generici di primo livello potrebbe avere conseguenze anti-concorrenziali: la tesi è discutibile, ma non è questo a preoccupare il gastronomo, dal momento che .wine e .vin saranno amministrati secondo una logica aperta, attraverso la vendita dei domini di secondo livello.

Petrini sembra, invece, temere che questi ultimi possano essere acquisiti da chi non abbia interesse alle corrispondenti denominazioni protette: ma solleva così un problema che può essere risolto con gli strumenti del diritto del commercio internazionale e della proprietà intellettuale, non certo addossandolo all’Icann o agli assegnatari. Del resto, non si capisce quali difficoltà peculiari possano derivare dai domini di primo livello: a meno di sostenere che barolo.it – a proposito: è ancora libero! – sia intimamente meno fuorviante di barolo.vin. Insomma, le doglianze del Nostro hanno ben poco a che vedere con il tema specifico dei domini di primo livello e non dovrebbero minare il percorso verso una rete la cui architettura potrà risultare più accessibile per gli utenti, garantendo alle imprese la possibilità di innovare a beneficio dei consumatori. Senza dimenticare che la capacità di sperimentare con i nomi di dominio è solo uno dei molti fattori competitivi nel commercio elettronico; e certo non il più importante.

22
Ago
2013

Venditori di tappeti (persiani) — di Reza Ansari

In Iran si levano voci a favore del libero scambio e della cooperazione con gli Stati Uniti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Atlas Network.

L’elezione del moderato Hassan Rouhani alla presidenza della Repubblica Islamica dell’Iran è un chiaro segno che tanto il popolo iraniano quanto l’establishment politico vogliono che le sanzioni economiche occidentali che danneggiano il paese vengano eliminate grazie ad un cambiamento di rotta nella disputa nucleare con l’America. Ora che Rouhani ha assunto la carica, importanti esponenti iraniani stanno promuovendo il tradizionale messaggio che la libertà dei commerci favorisce la pace, oltre che la prosperità.

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21
Ago
2013

Contributi europei, una manna pagata cara

In quale misura i contributi erogati dall’UE diventano oggetto di truffe? Come tutti  i fenomeni illegali non si può contare su molti dati statistici per rispondere a questa domanda. La fonte più affidabile di dati sembra essere l’Office européen de Lutte Anti-Fraude (OLAF), ufficio interno alla Commissione europea e destinato alla scoperta di frodi ai danni del bilancio europeo, sia sul lato delle uscite che delle entrate. Nell’ultima relazione che l’OLAF ha esposto al Consiglio e al Parlamento europei si trovano una serie di numeri interessanti per descrivere il fenomeno delle truffe ai danni dei finanziamenti europei.

L’OLAF riceve segnalazioni su possibili frodi e irregolarità da diverse fonti; nella maggior parte dei casi queste segnalazioni provengono dai soggetti responsabili di gestire quei fondi europei nelle istituzioni o nei Paesi membri. Dopo aver aperto un’inchiesta, l’OLAF prosegue l’indagine  in stretta collaborazione con le autorità nazionali.

Le voci di uscita principali dell’Europa sono rappresentate dalla Politica agricola comune (PAC), che nel 2012 ha assorbito 55,8 miliardi ovvero il 37,9 percento del bilancio europeo (che nel 2012 era pari a 147,2 miliardi), e dalle politiche di coesione, che nel 2012 hanno assorbito 45,1 miliardi ovvero il 30,7 per cento del bilancio europeo.

Secondo la relazione, nel 2012 l’OLAF ha individuato 204 irregolarità da ascriversi a condotte fraudolente ai danni della PAC e 198 ai danni delle politiche di coesione. Nel caso della PAC i Paesi nei quali l’OLAF ha individuato, tra il 2008 e il 2012, un maggior numero di truffe sono stati: Italia (199 truffe), Polonia (171), Bulgaria (128), Romania (95) e Ungheria (89). Nel caso delle Politiche di Coesione invece il numero maggiori di truffe tra il 2008 e il 2012 si è registrato in: Germania (103), Polonia (93), Repubblica Ceca (52), Romania (40) e Italia (34).

Questi numeri in realtà non permettono di arrivare a molte conclusioni. Non è dato sapere in che misura le truffe individuate dall’OLAF rappresentino l’insieme di truffe che vengono effettivamente perpetrate ai danni dell’erario comunitario. Così come non è dato sapere se i Paesi nei quali l’OLAF individua più truffe siano quelli in cui abbia luogo un maggior numero di condotte fraudolente o piuttosto quelli nei quali le truffe vengano denunciate e portate alla luce più facilmente.

Su Wikispesa abbiamo raccontato un caso limite di truffa e spreco ai danni dei finanziamenti europei: la Formazione Professionale in Sicilia. Solo nel periodo 2007-2013, il Fondo Sociale Europeo ha destinato alla territorio siciliano il 50% di un budget pari a 2.084.308.298 euro  finalizzato esclusivamente alla formazione professionale: il restante 50% è stato finanziato in gran parte da Roma (833.723.319 euro) e infine dalla Regione Sicilia (208.430.830 euro). Per avere un termine di paragone, i finanziamenti pubblici effettivamente stanziati dall’ultimo decreto del Fare a sostegno delle PMI di tutta Italia non superano i 200 milioni per il prossimo anno. In rapporto ai finanziamenti per la formazione siciliana sono state scoperte numerose truffe, l’ultima della quali scoperta a fine giugno e che ha portato a 47 persone indagate, 17 arresti e 28 milioni di sequestri. Sono stati portati alla luce anche numerosi intrecci tra parenti e diversi casi di contributi spesi a beneficio di esponenti politici .

Ma l’aspetto più impressionante della vicenda è la distorsione creata dall’arrivo di fondi così generosi. Sull’isola infatti si sono moltiplicate le strutture che offrono i corsi per la formazione professionale: nel 2011 la Sicilia offriva 1.816 strutture ai suoi 5.051.075 abitanti contro le 580 disponibili ai 9.917.714 residenti in Lombardia. Scorrendo nella lista di corsi finanziati dall’UE si legge una offerta di formazione professionale a dir poco esaustiva: si trovano progetti formativi intitolati “Banchetti e ricevimenti”, “Cuore, mente e professionalità”, “I frutti dell’Etna”, “Una carezza per la gioia” fino a “Dal dialetto al teatro dialettale nel gelese”.

Restiamo allora con il dubbio su come quantificare le truffe ai danni dei finanziamenti europei, ma neppure perdiamo fiducia nell’adagio per cui quando ci sono contributi pubblici – laddove cioè venga riconosciuto ad un soggetto politico  il potere di redistribuire soldi altrui – se non ci sono truffe ci saranno sprechi. I contributi europei rappresentano una vera e propria manna per alcuni territori, risorse economiche che arrivano da chissà quale Paese e che sembrano un dono del cielo, in un meccanismo che riduce la percezione del fatto che ogni euro che arriva da un’istituzione politica sia un euro prelevato da un contribuente. Tali contributi possono magari aumentare il consenso degli europei nei confronti dell’intera struttura comunitaria, ma non possono certo aumentarne il benessere economico tout court. In questa valle di lacrime nulla è gratis e gli stessi finanziamenti che hanno arricchito un territorio hanno anche impoverito qualche altro contribuente europeo. Questo discorso vale a maggiore ragione per l’Italia, Paese finanziatore netto della spesa europea: nel 2011 la spesa europea destinata all’Italia era pari a 9,59 miliardi di euro contro un contributo nazionale totale pari a 14,34 miliardi.

21
Ago
2013

Qualche conticino rivelatore dietro il trionfalismo anti-evasori

Agosto, mentre ancora mancano la bellezza di 262 adempimenti tributari per noi poveri contribuenti di qui a fine anno, è tempo di bilanci di metà anno nella diuturna lotta all’evasione fiscale. Ieri, le cifre dalla Guardia di Finanza. Da gennaio di quest’anno a ieri, 4.933 evasori totali stanati, che avrebbero nascosto redditi pari a 17,5 miliardi di euro. Per 1.771 professionisti è già scattata la denuncia, nei casi più gravi, per omessa dichiarazione dei redditi. E su di loro, evasori totali, si sprecano le condanne: ”hanno vissuto alle spalle dei contribuenti onesti, usufruendo di servizi pubblici che non hanno mai contribuito a pagare, intestando spesso beni e patrimoni a prestanome o a società di comodo”, ha detto ieri la Finanza.

Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine nel caos che si scatena quando la comprensibile deprecazione prevale sui fatti. Innanzitutto, come capita quasi sempre, ieri gr e tg parlavano di 17,5 miliardi “sottratti al fisco”. No, nemmeno per sogno. Si tratta di redditi stimati dall’apparato tributario, non di stima di imposte evase. Con precisione è impossibile dire su 17,5 miliardi di redditi contestati quanto è l’imposta dovuta, perché le aliquote dipendendo dalle imposte evase e dai redditi delle persone fisiche e giuridiche accertate. Se anche ipotizziamo un 45% pari alla pressione fiscale sul Pil, siamo a 8 miliardi di imposte evase. Comunque una bella cifra, visto che coprirebbe da sola l’abbattimento dell’IMU prima casa insieme alla copertura del mancato aumento del punto di IVA, oppure oltre i due terzi di quanto imprese e autonomi pagando di IMU.

Ma anche di quegli 8 miliardi è corretto fare la tara. Lo Stato ha proceduto attraverso sforzi erculei , negli ultimi anni, per salire da circa il 40% verso il 45% del riscosso reale, rispetto alle imposte messe a ruolo nel contenzioso tributario. Un contenzioso che pure è unilateralmente favorevole allo Stato, senza un giudice terzo, come non avviene in nessun altro paese avanzato. Ergo gli 8 miliardi di imposte evase sui 17,5 sin qui contestati nel 2013 di redditi totalmente non dichiarati diventeranno, entro 3-4 anni, al massimo 3 miliardi e mezzo di riscosso aggiuntivo vero. Possiamo stare certi di una cosa: gli oltre 600 mila controlli fiscali messi in atto da Finanza e diverse Agenzie tributarie statali nel corso del 2012 sono costati assai di più a noi contribuenti dei 3,5 miliardi che – speriamolo – lo Stato incasserà, se tutto va bene, dall’annuncio di ieri.

E se poi guardiamo al procedere negli anni della lotta all’evasione, come stiamo messi? Nel 2012, secondo le cifre ufficiali delle Fiamme Gialle, sono stati scoperti 8.617 evasori totali, che avrebbero occultato redditi al fisco per 22,7 miliardi di euro. A queste cifre si aggiunsero 16,3 miliardi di altri fenomeni evasivi. Siamo dunque sotto media, visto che i 4.933 evasori totali da gennaio ad agosto 2013 sono relativi a quasi 8 mesi. Se anche i dati fossero relativi solo a fine luglio, per essere pari alla media mensile 2012 gli evasori totali identificati nel 2013 avrebbero dovuto essere oltre 6mila. Ricordatevi inoltre che, malgrado le cifre dei controlli e degli accertati siano salite nel 2012 sul 2011, il tetto di recupero da evasione di 12,7 miliardi del 2011 non è stato eguagliato – sia pur di poco – nel 2012, per via della crisi che ha reso più poveri anche gli evasori, per quanta rabbia ciò ci possa provocare.

Un’ultima osservazione. Bisogna far tara anche di un altro luogo comune diffusissimo: quello dell’Italia regina solitaria dell’evasione e dell’economia “in nero”, dannata conseguenza di una devianza antropica connaturata al nostro DNA nazionale, incapace di immedesimarsi nel bene pubblico, e intossicato di Machiavelli e Guicciardini. Qualche giorno fa è stata pubblicata una aggiornata stima comparata del “nero” in Europa, a cura del professor Friedrich Schneider per la grande società di consulenza A.T. Kearney. Ebbene la stima del nero italiano, pari al 21% del Pil, è in realtà di pocho sopra la media europea, perché a batterci, con punte fino al 30% e oltre del Pil, sono i Paesi esteuropei. Ma i nostri 330 miliardi circa di economia “insensibile” al fisco vengono superati, come ammontare, dagli oltre 350 miliardi della virtuosissima Germania. Certo, la percentuale del nero sul Pil tedesco è più bassa della nostra. Ma come imposte evase ci battono, i signori tedeschi. Malgrado abbiano una pressione fiscale di diversi punti inferiore alla nostra, beati loro.

20
Ago
2013

IMU-TARES, il Tesoro vuol fare 5 cose: troppe, alcune contraddittorie, altre sbagliate

Entro pochi giorni dovrebbe sciogliersi il più grande mistero del governo Letta, il suo intervento sull’IMU. Tutti conosciamo la proposta bandiera del Pdl, cioè l’abrogazione totale dell’imposta sulla prima casa, quasi 4 miliardi di euro sui 23,7 riscossi nel 2012. Ma tutti abbiamo capito che Letta e Saccomanni intendono fermarsi ad aver evitato il versamento della prima rata, 2 miliardi e rotti, per intervenire più complessivamente sull’imposizione immobiliare.

Dalle ipotesi emerse dal Tesoro, il rischio di un enorme pasticcio è molto alto. E’ considerata socialmente ingiusta l’abrogazione totale sulla prima casa, perché al 59% andrebbe a vantaggio dei più ricchi. Figuriamoci poi abolire gli 11 miliardi incassati dalle imprese, una metà dai capannoni e l’altra da immobili strumentali di ditte individuali, studi professionali, negozi e laboratori artigiani, una mazzata che ha contribuito a deprimere la crescita.

Il Tesoro vuole incrociare 5 cose diverse. Alzare la deducibilità dell’imposta cioè la franchigia alle famiglie, a seconda dei più bassi redditi (più Isee e quant’altro), e in parte alle imprese, ma non si è ancora capito come. Innestare sull’IMU la TARES sui servizi prevista per il prossimo dicembre, in modo da evitare ogni restituzione IMU con credito d’imposta o detrazione. Alzare la compartecipazione al gettito dei Comuni, ma il Tesoro boccia l’ipotesi di lasciar loro anche metà degli 11 miliardi incassati dalle imprese. L’unica cosa sin qui chiara, la quinta, è che il Tesoro strizza l’occhio ai Comuni sommando IMU e TARES lasciando i sindaci liberi di incassare altri 2 miliardi in più giocando sui servizi offerti ai cittadini.

Il rischio di un pasticcio immondo è elevatissimo. Primo, un’imposta patrimoniale che diventa para-reddituale. Secondo, unire insieme elementi patrimonial-reddituali ai servizi consumati, ma mettendo insieme quelli indivisibili – illuminazione pubblica, marciapiedi e così via – e divisibili, che invece hanno bisogno di tariffe ad hoc , a seconda di quanto davvero ne consumiamo come per l’immondizia, e per incentivare i Comuni a chiudere il ciclo eco-ambientale del trattmento dei rifiuti. Un ircocervo che non avrebbe eguali in nessun paese avanzato,buono a far rompere la testa a tutti. Evitatecelo, per favore. Si fa per dire, naturalmente scommetto sul contrario.

19
Ago
2013

Tre proposte per un’Italia che non polemizzi in Ue contro il rigore che non ha praticato

Ieri Napolitano e Letta a Rimini hanno molto insistito sul tema europeo. C’è concretamente  il rischio che il binomio Italia-Europa, incardinato sulla prospettiva del semestre di presidenza italiano della Ue che avrà inizio a luglio 2014, possa apparire una via di fuga, rispetto ai travagli di un governo minacciato da un altro binomio, quello decadenza-incandidabilità di Berlusconi.  Sin qui, l’operatività del governo è stata molto limitata dal quotidiano braccio di ferro tra Pdl e Pd. Ed è per scongiurare tale rischio, che a Letta e al suo governo spetta riempire di contenuti concreti il semestre italiano.

La premessa è che di qui a poche settimane i tedeschi andranno alle urne, e tutti sapremo con quale Germania fare i conti. Attualmente la cancelliera Merkel e Cdu-Csu godono nei sondaggi di ottima salute, potrebbero riformare anche un governo con i liberali della Fdp. Ma pur essendo la Spd in forte caduta e a 15 punti e più di distacco, saggiamente la Merkel non chiude la porta a un governo di intese più vaste. Proprio perché, dopo il biennio di cui la Merkel vanta ai suoi elettori la porta chiusa a salvataggi senza rigore per Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, verrà per tutti, anche per la Germania che ha fortemente visto ridursi la propria crescita, il tempo di nuove scelte.

I vertici europei sono in scadenza. Il 30 ottobre termina il mandato del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. A fine novembre scade il presidente del Consiglio, Van Rompuy. A inizio 2014 entra nel vivo la scelta del nuovo segretario generale della NATO, dopo il danese Andwers Fogh Rasmussen. Sono in ballo candidati italiani già formalizzati per la NATO, Frattini, e possibili per la presidenza del Consiglio, Mario Monti. Su tutte queste scelte non sarà certo decisiva la presidenza greca dell’Unione che ci precede a inizio 2014, perché Atene è ancora duramente alle prese con la Troika, per il suo risanamento. Mentre è a Roma, il prossimo 25 marzo e dopo 23 anni, che si riunisce l’assise interparlamentare europea, avendo come ordine del giorno le proposte di revisione del Trattato di Lisbona rese necessarie dall’incerta governance di quest’ultimo biennio, quando l’Europa è vissuta solo di faticosi compromessi intergovernativi per inventarsi farraginosi strumenti eurocooperativi come l’Efsf e poi l’Esm, e mentre la BCE di Draghi ha praticamente dovuto – con inventiva e coraggio – risolvere i guai per tutti.

Perché tutte queste premesse diventino concretamente in Italia il vero programma di governo che sin qui a Letta è mancato, non bastano pur suggestive formule come quelle risuonate ieri, contro i professionisti del conflitto, e a favore di una politica che parli il linguaggio della verità. Occorre invece rendere evidente agli occhi di italiani mai da decenni così piegati su redditi tanto colpiti che, quando Napolitano parla del rischio di un’Italia e un’Europa sommerse dalla globalizzazione, si riferisce davvero a misure concrete da adottare per evitarlo.

Letta ha avviato all’inizio di luglio la macchina per il semestre italiano, chiedendo a tutti i componenti del governo proposte entro fine anno. Ma in verità due-tre idee forti devono essere di fatto pronte sin dalla sera in cui sarà proclamato il risultato elettorale tedesco. Sin qui Letta ha fatto capire in diverse occasioni che “L’Europa del rigore” deve lasciare il campo a una formula nuova. Ma formule come queste rischiano di essere sdrucciolevoli. Nessuno in Germania sarà disposto a toccare gli impegni degli eurodeboli ancora esposti a rischio solvibilità. Quel che serve, sono strumenti e metriche nuove, che anche ai tedeschi convengano per evitare un’Europa a crescita zerovirgola rispetto a quella più robusta di Stati Uniti e Gran Bretagna, mentre i Paesi emergenti hanno molto rallentato. Per dirla in due parole, devono essere strumento alieni dal sembrare ispirati alla polemica “Krugman contro l’austerità”.

Proviamo allora a fare tre esempi, senza voler in alcun modo esaurire il lungo elenco di opzioni che ribollono nel dibattito europeo. E senza entrare nella babele delle proposte di riforma delle istituzioni Ue.

Metriche nuove: sinora a contare per i diversi euromembri sono stati deficit e debito pubblico, è venuto il tempo di guardare più complessivamente anche alla posizione netta sull’estero. Non è tanto questione di quale percentuale di debito pubblico sia in mani straniere, né di patrimonio delle famiglie a garanzia del debito– un indice pericoloso, perché porta a sovraimposte patrimoniali antidebito. Occorre guardare per esempio al deficit cumulato nella parte corrente della bilancia dei pagamenti rispetto all’export di ogni Paese. E’ un indicatore che sta migliorando energicamente per tutti i Paesi eurodeboli, e che vede l’Italia in una “comoda” posizione del -50%, rispetto al -150% spagnolo e al -250% portoghese, la soglia oltre la quale la sostenibilità diventa effettivamente pregiudicata. Assumere metriche di questo tipo significa di fatto prestare attenzione a export e import intraeuropeo, perché un’area monetaria comune non può vivere con un solo Paese che esporta da primatista e tutti gli altri impossibilitati a seguirlo, azzerando in due anni gap di competitività pluridecennali.

Secondo esempio: gli investimenti. Il debito pubblico può crescere perché il Pil scende più di quanto le stangate fiscali riducano il deficit, come avviene in Italia. E la crescita non sarà mai solida finché si considereranno con indifferenza spese di consumi pubblici e per investimenti. La quota di investimenti – pubblici e privati – deve diventare un criterio per graduare gli strumenti eurocooperativi. La Germania investe oggi più del 2007, nel pubblico e nel privato. L’Italia il 24,4% in meno. Non credo da anni alla retorica relativa agli euro-bond, che rilanciano il tema degli oneri a carico dei più virtuosi. Va semplicemente premiato chi mostra scelte concrete, a cominciare dagli incentivi fiscali domestici, il cui effetto è accrescere il monte-investimenti.

Terzo esempio: il credito. L’efficacia dell’Unione bancaria come volano di crescita non è data dal numero concreto di banche sottoposte a supervisione comune, il punto su cui i tedeschi puntano i piedi per evitare sguardi indiscreti agli attivi delle proprie banche nelle mani della politica locale. Perché i tassi bassi funzionino davvero, devono poter funzionare per tutti. Cioè occorre che, in sistemi gravati da eccessi di sofferenze, si pensi a sistemi straordinari per liberare capitale bancario a favore di impieghi per famiglie e imprese. E’ un problema centrale per l’Italia odierna. E non richiede affatto stravolgimenti dello Statuto della BCE, per interventi ordinari europei volti a rendere fluidi i canali della politica monetaria.

Fermiamoci qui. Personalmente non ho molta fiducia. Ma in ogni caso più Letta riuscirà a parlare agli italiani di novità concrete per sbloccarci da fisco vorace e credit crunch non “contro” l’Europa cattiva, ma “insieme” ai Paesi europei di cui dobbiamo riconquistare l’efficienza, meno pesanti saranno le nubi sulla politica italiana. Altrimenti condannata all’ennesimo atto di uno sterile braccio di ferro ventennale.

16
Ago
2013

Piccoli proprietari crescono: come liberare i poveri dell’India — di Alex Chafuen

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dallo Atlas Network.

Quando si analizza il tema dello sviluppo economico pochi casi suscitano tanto interesse interesse e hanno le medesime ripercussioni dell’esempio dell’India. Il minimo cambiamento in un paese che conta oltre un miliardo e 200 milioni di abitanti ha un grande effetto sul mondo. Oggi esiste la possibilità di fare un cambiamento al prezzo di appena un dollaro.

Poco più di vent’anni fa l’India ha iniziato a liberalizzare il commercio, gli investimenti e altri settori dell’economia. Politiche fiscali e monetarie più prudenti hanno condotto ad una minore inflazione e il paese, che era solito implorare aiuti allo sviluppo, si è trasformato in quella che potrebbe diventare un’autentica superpotenza. Molto rimane ancora da fare e l’inflazione ha ripreso a crescere, ma il modo in cui guardiamo all’India è cambiato.

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13
Ago
2013

Tre proposte per impedire che TAR e ricorsi amministrativi siano nemici dell’economia

Il presidente del Consiglio è alle prese con una caldissima non-pausa agostana. Il termometro dei rapporti di maggioranza s’impenna giorno dopo giorno, sull’agibilità politica di Berlusconi come su temi-bandiera per il Pdl, a cominciare dall’IMU. Un modo per uscire dalle tenaglie dei tumultuosi rapporti di maggioranza ci sarebbe, alzare il livello programmatico e operativo della compagine di governo, smentire chi l’accusa – sin qui, a piena ragione – di essere più di “lunghe attese” che di “larghe intese”.

Per rilanciare l’economia, non c’è solo l’esigenza di un quadro pluriennale energico e credibile di abbattimento delle imposte su lavoro e imprese, con tagli di spesa altrettanto vigorosi. In questo quadro, una svolta profonda sul regime delle impugnative amministrative può e deve costituire una vera e propria priorità. E che partiti e dibattito pubblico diano poca attenzione alla questione, anche per i suoi delicati e complessi risvolti tecnici, potrebbe per una volta significare per il governo una facilitazione invece di un impedimento.

Il tema, rilanciato sul Messaggero dagli interventi di Romano Prodi e Paola Severino, rappresenta una vera e propria emergenza economica nazionale. Per averne una conferma nasometrica, basta formulare su Google una semplice ricerca, “ricorsi amministrativi ostacolo all’economia”: troverete elencati la bellezza di 3.970.000 casi. Da molti anni, in ogni report comparato dai maggiori fori internazionali sulle cause della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti diretti esteri, l’incertezza amministrativa è in cima alle ragioni citate. Sono oltre 500, nel solo campo delle opere infrastrutturali, i progetti a vario titolo in tutta Italia rallentati o di fatto denegati, con iter temporali dagli 8 ai 12 e talora 15 anni e più. Dal 2008 ad oggi, gli esperti della Agici Finanza d’Impresa elaborano ogni anno un rapporto sui “costi del non fare”, sommando con una metodologia rigorosa gli oneri economici di minor crescita dovuti al rallentamento e alla rinuncia a progetti stradali, ferroviari, energetici, idrici e di tlc. Nell’ultima edizione, proiettando lo stallo attuale senza una riforma decisa, siamo a oltre 380 miliardi di euro stimati dal 2010 ai tre lustri successivi. Ecco, di che cosa stiamo parlando.

Quando Prodi ha parlato di “abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato”, ha deliberatamente voluto raccogliere l’espressione rozza e semplificatrice raccolta dagli imprenditori che hanno tutte le ragioni per essere esulcerati. Ovviamente, sono i giuristi a doversi confrontarsi sul tema. Purché lo facciano tenendo a mente che una svolta profonda è necessaria, per liberare l’economia e la crescita dalle troppe incertezze oggi rappresentate dalla pluralità di impugnative a tutti concessa in ogni grado d’avanzamento di ogni progetto, in un’intreccio senza eguali al mondo tra diritto civile, prerogative societarie ed economiche assunte dal pm e dal giudice penale, e infine pluralità di giurisdizione amministrativa tra Tar e Consiglio di Stato.

Tre semplici indirizzi potrebbero essere assunti dal governo come pilastri di una svolta energica.

Il primo, senza neanche entrare nel vischio di una riforma ordinamentale sul complesso della giurisidizione, sarebbe già di suo rappresentato dall’abbracciare in materia di infrastrutture il modello del Débat Public francese, vigente e aggiornato ormai da 25 anni e garanzia sia di un esteso coinvolgimento dell’”ascolto pubblico” in relazione a ogni progetto infrastrutturale e d’impresa, sia però di tempi certi e stretti – 6 mesi – oltre i quali impugnative e ricorsi “all’italiana” nelle conferenze di servizio non sono più possibili, né si può riaprire ogni giorno l’eterno calvario italiano degli oneri accessori, che in regime di riduzione di trasferimenti pubblici dal centro alle Autonomie hanno finito per gravare ogni opera pubblica di un impossibile recupero di finanziamenti persi su altri tavoli. Segnaliamo che il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando ha preparato un mese fa un ddl che assume molti istituti del modello francese: sarebbe bene, una volta resolo ancor più efficace, farne una proposta centrale nell’operato governativo.

La seconda via è quella di una ponderata ma forte limitazione delle impugnative ammissibili sui progetti economici. Dove per “limitazione” va intesa non una compressione antidemocratica degli interessi legittimi coinvolti – questi devono avere solo tempi certi per esprimersi, e la non reiterabilità della loro rappresentazione giudiziale – quanto un intelligente accentramento delle competenze, secondo una logica di specializzazione presso le sezioni del Consiglio di Stato. Come il Titolo V° della Costituzione deve vedere il riaccentramento di competenze in materia di opere energetiche e infrastrutturali prioritarie e naziuonali, allo stesso modo dovrebbe avvenire per competenze e gradi del diritto amministrativo.

Infine, c’è un tema più esteso che s’inquadra in una riflessione ad ampio spettro sull’intero ordinamento giuridico italiano. Tanto per le competenze civili – su cui si è intervenuto con le sezioni speciali in materia di diritto d’impresa – quanto nel rito penale e a maggior ragione in quello amministrativo, va ripensato ab ovo il meccanismo delle garanzie personali, d’impresa e finanziarie per i soggetti economici che, oggi nel nostro Paese, si trovano esposti da soli e senza coperture alle conseguenze di defatiganti procedimenti di ogni ordine e grado. Il tempo è un fattore centrale per l’economia e per qualunque progetto d’impresa, perché è l’unità necessaria in cui si sconta il capitale, e si definisce il rendimento atteso di ciò che si mette in campo per prefiggersi un risultato. Nel diritto italiano, il tempo oggi è invece una variabile indipendente. Ed è per questo, che in un numero sempre maggiore gruppi internazionali e imprese italiane impiegano in tempo e luoghi “stranieri” le loro risorse: lì il tempo, anche giuridicamente, è tutelato come da noi non avviene.

Se il governo, com’è comprensibile, cerca più tempo per sé e per “fare”, inizi allora dalla riforma del diritto amministrativo, per dare tempo certo tutelato per far fare a tutti.