3
Set
2013

Un metodo diverso per la legge di stabilità, risparmiateci altri guai

I pochi giorni seguiti al provvedimento con cui il governo ha rimodulato l’IMU e ha rifinanziato la CIG salvaguardando altri esodati, hanno dato una dimostrazione salutare. Hanno mostrato che la coperta della finanza pubblica è corta. Terribilmente corta. E che l’espressione “a parità di gettito”, sin qui intoccabile per il Tesoro, porta ormai a infrangersi contro un muro. Abbiamo scritto e documentato dal primo momento come le coperture delle misure assunte smentissero la promessa di non tartassare ulteriormente i contribuenti, ed è quanto puntualmente emerso quando tutti hanno esaminato i testi. Si tratti degli aggravi alle imprese per pareggiare meno imposte sulle seconde case, o del taglio retroattivo delle detrazioni per le polizze vita e infortuni che alza l’Irpef, il metodo si è rivelato tanto fragile che ieri per primo il viceministro dell’economia Fassina ha proposto la marcia indietro: ripristinare i prelievi sulle seconde case per ridare un po’ di fiato alle imprese.
Ma in verità questo gioco dell’oca sulla sostituzione di entrate con altre entrate, “a parità di gettito”, appunto, non porta più da nessuna parte. A maggior ragione alla luce del dato del fabbisogno pubblico di agosto diramato ieri, un dato che è in peggioramento. Non è possibile seguire lo stesso metodo per coprire il mancato innalzamento dell’IVA. Né si può ovviare con il ricorso a sforbiciate qua e là di qualche centinaio di milioni di spesa pubblica. Anche questo è avvenuto con il decreto. E ovviamente ha aggiunto altra benzina sul fuoco, apprendere dell’azzeramento del fondo per la detassazione dei salari di produttività, quando è proprio questo il tallone di Achille dell’economia reale italiana.
No, la strada da seguire è un’altra. L’occasione per farlo, entro poche settimane, è la legge di stabilità, che seguirà di pochissimo l’esito delle elezioni tedesche. Ma prima di fare qualche cifra, una cosa va detta. E’ il metodo, che va cambiato. E quando si dice “cambiato” non bisogna pensare ai pochi mesi di vita del governo Letta, ma a tutte le leggi finanziarie alle quali siamo abituati da molti anni.
Un segnale in vista di tale nuovo metodo è venuto ieri, con il documento firmato insieme da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Tre sole cartelle e mezzo, non un rituale verboso papiello. Imprese e sindacati chiedono insieme misure che tutti riconoscono essere le più giuste, per rilanciare la crescita. Meno imposte su lavoro e imprese, iniziando a incidere energicamente l’IRAP. Meno costi dell’energia – ma non ricorrendo ai fantasiosi bond per finanziarne gli sgravi, cioè ad altro debito pagandoci sopra anche gli interessi, come pensa il ministro Zanonato. Incentivi per agevolare gli investimenti, la ricerca e l’innovazione. Un fondo per la ristrutturazione industriale e un’unica cabina di regia per le crisi aziendali e di settore, come per la bonifica dei siti tipo ILVA.
Il metodo nuovo consiste nel fatto che imprese e sindacati non chiedono solo questi interventi, che esigono risorse. Dichiarano esplicitamente che le coperture vanno trovate mettendo mano allo sbilenco rapporto tra Stato e Autonomie – cioè modificando il Titolo V° della Costituzione – e rivedendo in profondità struttura della Pubblica Amministrazione e della spesa pubblica. Giusto.
Il premier Letta ha immediatamente apprezzato il documento. Ma se è così, allora alla legge di stabilità – lo strumento per cercare di realizzare almeno qualcuna di queste innovazioni – bisogna arrivare con una proposta chiara agli italiani. Non serve una finanziaria in cui risicati saldi per stare sotto il 3% di deficit – sia pure con i modesti “abbuoni” strappati in Europa – siano frutto della tetragona alchimia della Ragioneria Generale, maestra nel dover limare poste di entrata e di spesa, sostituendosi a una politica che non riesce a scegliere. Al contrario, è prima del varo della finanziaria che il governo dovrebbe indicare pubblicamente le sue grandi opzioni di fondo.
Una sorta di grande consultazione pubblica. Non per stare nei limiti europei, ma per scegliere quale opzione più coraggiosa percorrere, per rilanciare la crescita. Si alimenta da anni la convinzione che meno rilevanti siano le “manovre” finanziarie, meglio sia. Perché agli occhi degli italiani il termine “manovra” identifica ormai automaticamente l’effetto che sempre ne è venuto: la “stangata”. Ed è così perché a salire sono stati insieme spesa e tasse, la spesa pubblica al netto degli interessi del 68% in 13 anni, e le entrate del 58%.
Il metodo nuovo consiste invece nel dire “cari italiani, c’è una prima opzione per una legge di stabilità che tagli un punto di Pil, 15 miliardi, di pressione fiscale su lavoro e imprese, e questi e questi sono i tagli che vi indichiamo per finanziarli. Ma c’è poi una seconda ipotesi, quella che a tutti converrebbe, che raddoppia almeno la scommessa visto che dobbiamo coprire anche il mancato aumento IVA. Fino a 2,5 punti di Pil di minor pressione fiscale, e questi e questi sono i i tagli aggiuntivi che proponiamo perché la cosa si possa fare senza incorrere in una nuova procedura d’infrazione europea.” Dire questo prima di scegliere, significa trarre anche un’altra preziosa lezione dal passato. Credere di assumere tagli nella notte di un Consiglio dei ministri, senza averli prima “incatenati” pubblicamente al risultato, significa dimenticare che puntualmente non reggono in Parlamento.
Dopo anni di esame e studio della spesa pubblica, non c’è bisogno di nuove commissioni di studio per sapere dove trovare uno, due, tre punti di Pil di spesa pubblica tagliabile con effetti non recessivi, da portare operò a riduzione immediata delle entrate e non a copertura di nuove spese, come sempre è avvenuto sin qui. Il 9% di Pil in costi intermedi della PA, cioè in forniture, e stiamo parlando di 140 miliardi di euro, non si riduce con microestensioni annuali del ruolo della Consip, che a malapena gestisce 30 miliardi di acquisti, ma con una svolta energica. La PA non ha bisogno di sanare solo i suoi precari, ma di rivedere a fondo i compensi apicali e della dirigenza, fuori linea rispetto agli standard europei. Le oltre 7mila società partecipate e controllate a livello locale, in continuo aumento, non si ridicono nel numero e costi se non con una grande decisione pubblica condivisa. Senza parlare poi dei tanti miliardi in incentivi a nicchie di garantiti, e ce ne sono eccome, nella bolletta elettrica come a favore delle grandi società pubbliche.
Ci faccia un pensierino, il premier. Invece della solita finanziaria che parte a sorpresa e diventa in tre mesi una sagoma sforacchiata, una legge di stabilità presentata in anticipo a italiani, imprese e lavoratori, con cifre coraggiose e chiare a tutti. Perché tutti sappiano da subito che, se vi sarà chi protesta per questa o quella spesa in meno, i più avranno i vantaggi delle imposte sul lavoro che scendono. Ci vuole coraggio? Sì. Ma è facendo ciò che si ha paura di fare, che spesso si risolvono i guai peggiori.

3
Set
2013

Omaggio a Ronald Coase, l’economista curioso

Ieri è scomparso Ronald Coase, premio Nobel per l’Economia nel 1991. Il suo contributo al progresso della scienza economica è incalcolabile. Non c’è modo migliore di ricordarlo che citando il suo discorso di fronte all’Accademia di Svezia:

Non ho fatto alcuna innovazione nell’alta teoria. Il mio contributo all’economia consiste nell’aver stimolato l’inclusione nella nostra analisi di aspetti del sistema economico che, come il postino nel racconto di Padre Brown, L’uomo invisibile, di GK Chesterton, tendenzialmente vengono ignorati.

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2
Set
2013

Sui tagli di spesa siamo al solletico, sulle tasse continua il gioco delle 3 carte

Diceva Massimo D’Azeglio “la prima delle cose necessarie è non spendere quel che non si ha”. Altri tempi, la prima metà dell’Ottocento. Ma per lo Stato italiano è una massima che non vale praticamente mai. Come si desume dalle anticipazioni dei tagli di spesa “mirati” – basta coi tagli lineari di Tremonti, si dice ormai da 2 anni – contenuti nel decreto “cambia IMU”.

Premessa necessaria. Ha avuto ragione chi, come su queste colonne, alla prima lettura del decreto ha eccepito subito che le coperture apparivano ballerine, inadeguate a reggere l’annuncio che non si procedeva né ad aggravi rispetto alla vecchia IMU né ad aggravi in generale. In due giorni, è apparso chiaro che sulle seconde case l’aggravio c’era. Per rimediare e farlo sparire, ecco che è caduto anche lo sgravio che era stato concesso alle imprese e ditte individuali non agricole – le uniche esentate -, cioè la deduzione da imponibile IRES e IRPEF del 50% dell’imposta sugli immobili strumentali. Chi era in perdita non ne avrebbe tratto giovamento, ma, facendola cadere, per le imprese resta solo l’aumento del moltiplicatore dal 60 al 65% della rendita catastale, e inoltre il supplemento di aliquota dello 0,3% concesso ai Comuni sulle imprese. In aggiunta, ecco il taglio alla detrazione per le polizze vita e infortuni, un taglio del 50% nel 2013 – naturalmente retroattivo!, in barba allo Statuto del contribuente, e la tesi sostenuta dal sottosegretario Baretta della non retroattività in quanto lo Stato ne contabilizzerà gli effetti nel 2014 dà l’idea della sfacciata protervia fiscale pubblica   – e addirittura dell’80% sul 2014. Ed ecco infine la clausola di salvaguardia, sempre contenuta nel decreto, che in caso di ulteriori mancate coperture prevede ulteriori aumenti degli acconti IRES e IRAP per le imprese, e aumenti di accise che erano stati negati, mas per altro appena disposti due settimane prima nel decreto ridicolmente denominato “salva cultura”.

In un quadro di tal genere, e con il punto di mancato aumento IVA ancora da coprire per fine 2013 e in avanti, la speranza era che il governo Letta energicamente riprendesse l’opera di identificazione di che cosa tagliare, nella spesa pubblica. L’unica copertura seria per abbattere pressione fiscale è il taglio di spesa. Altrimenti si continuerà nel gioco delle tre carte, nell’annuncio che un entrata viene limata sol perché si aumenta un’altra posta di entrate.

E qui vengono le dolenti note. C’è chi proietta sul 2014 i tagli di spesa entro il 2013 contenuti nel decreto di qualche giorno fa – quasi un miliardo, di cui 300 milioni di euro dai ministeri – e immagina di conseguenza che la revisione di spesa pubblica per il 2014 sia dunque tra i 4 o al più i 5 miliardi di euro. Ma siamo seri. Se così fosse davvero, bisognerebbe concluderne che siamo in presenza di poco più che… nulla.

Non è un’opinione. Lo dicono le aride cifre. Se ci si limita alla spesa pubblica corrente italiana, essa passa dai 465 miliardi di euro del 2012 ai 482 attesi nel 2013, ai 492 nel 2014, infine ai 500 miliardi nel 2015. In sintesi, la spesa pubblica corrente aumenta di più di 2 punti di Pil in termini nominali , dalla fine del governo Monti. Se anche depuriamo la grandezza dell’inflazione, in termini reali comunque l’aumento è superiore a un punto pieno di Pil. Se poi guardiamo invece alla spesa pubblica per investimenti, si riprende il cammino della virtù in senso inverso, per non dire del vizio. Dai 43 miliardi pubblici di spesa pubblica in conto capitale previsti nel 2013 si torna infatti nel biennio a seguire a quota 36 miliardi, come nel 2012, con una secca regressione in termini reali. E tanti saluti alla giusta tesi per la quale sono gli investimenti a contare per la crescita, assai più delle spese correnti che invece continuano a salire.

La speranza, ripetiamolo, è che Letta e Saccomanni abbiano assai di meglio nelle loro intenzioni. Anche se lo scetticismo è d’obbligo, dopo questi primi mesi di “governo dei rinvii”. Non si tratta di mera volontà. C’è anche un punto ordinamentale. Finché la contabilità pubblica nazionale elaborata dal Tesoro per spese di competenza sarà impostata sui saldi tendenziali, per effetto della legislazione vigente la spesa corrente continuerà a crescere, come avviene da decenni (+ 68% in termini reali dal 1997). E i cosiddetti “tagli”saranno solo parzialissimi freni rispetto a una spesa che sale. Quando c’è un problema tanto rilevante come una spesa pubblica superiore nel suo complesso alla metà del Pil, bisogna seguire un altro metodo. Assumere la spesa storica di un dato anno come zero budget base – a prescindere dagli andamenti incrementali effetto delle norme vigenti – e su di essa decidere i tagli “reali” da fare. Come sta avvenendo da inizio anno negli Stati Uniti con il cosiddetto sequester: il deficit federale sta scendendo dall’11,8% del Pil nell’esercizio precedente a circa il 4,7% quest’anno. Con un’economia reale americana che nel frattempo, smentendo coloro che i tagli di spesa reali non li vogliono mai, nel secondo trimestre di quest’anno è cresciuta del 2,5% sull’anno precedente.

28
Ago
2013

IMU, un compromesso democristiano, senza testo e con coperture da capire

Sull’Imu, ieri in Consiglo dei ministri, si e’ celebrato un compromesso politico. Viste le tensioni accumulate tra Pdl e Pd, mentre continua a crescere la temperatura del dossier Berlusconi, era forse inevitabile. Forse, pero’. Perche’ decadenza e incandidabilita’ di Berlusconi sono inevitabilmente un tema politico infuocato. Ma governi e forze politiche dovrebbero imparare un giorno o l’altro che i contribuenti italiani hanno pieno diritto, per l’estrazione di risorse dalle loro tasche unica via sin qui seguita per reggere i conti dello Stato, a poter contare su elementi precisi, in base ai quali capire quanto e quando si chiede loro di pagare. Per l’imposizione immobiliare nel 2014 che comincia tra poco, malgrado il trionfalismo degli annunci di ieri, cio’ non avviene ancora. Ed e’ un grave difetto. Come quello di annunci su provvedimenti che non vengono resi noti: visto che il testo varato ieri ancora non c’e’, come tante altre volte in precedenza.
Il compromesso politico e’ avvenuto su tre assi: tra Pdl e Pd, tra governo e sindacati, tra governo e Anci, cioe’ con i Comuni. Era necessario, perche’ il governo non sarebbe sopravvissuto alla mera abrogazione dell’IMU sulla prima casa, una vittoria netta per il solo Pdl e Berlusconi. Ecco perche’, nella conferenza stampa di ieri sera, Enrico Letta ha riservato all’IMU solo l’ultimo, dei quattro capitoli in cui si articolano le misure assunte ieri. 
Il primo e il secondo capitolo, infatti, rappresentano l’accoglimento delle richieste del Pd e del sindacato. Il mezzo miliardo di rifinanziamento della Cassa integrazione, che si aggiunge al miliardo gia’ stanziato a questo fine da questo stesso governo, e gli ulteriori stanziamenti a favore degli esodati. Il governo non aveva intenzione di intervenire ora su quest’ultimo tema, dopo i tre interventi gia’ assunti e il primo sotto il governo Monti, e per questo ha aggiunto ai 130mila gia’ salvaguardati solo altri 6.500 a particolare disagio, un intervento che da solo comunque vale 700 milioni a regime.
Un terzo capitolo “sociale” accontenta in realta’ sia il Pdl sia il Pd sia il sindacato sia parte delle imprese, anche se ci ha lavorato direttamente il ministro pidiellino Lupi. Riguarda gli interventi della Cassa Depositi e prestiti a favore di coloro che sono in difficolta’ a pagare i mutui sulla prima casa, nonche’ per potenziare l’intervento a favore del social housing, cioe’ della realizzazione di immobili destinati ad affitto per edilizia popolare. Su queste due poste, 4 miliardi di risorse da Cdp, che non fanno deficit per i criteri di Bruxelles. E infine, sempre in questo terzo capitolo, alcuni parziali ma pur rilevanti interventi a favore delle imprese, visto che viene abolito il pagamento dell’IMU sull’invenduto che ha falcidiato le imprese immobiliari, e quello dovuto dalle imprese agricole. Si tratta di circa mezzo miliardo stimato dal governo, sui circa 11 che imprese e ditte individuali hanno versato nel 2012, sui 23,7 complessivamente incassati di IMU.
E’ ovvio che la concomitanza di questi primi tre capitoli con l’intervento sull’IMU consente al governo di non apparire unilateralmente supino alle richieste del Pdl, come aveva giustamente ammonito l’ex premier Mario Monti. Ma veniamo appunto su quanto era piu’ atteso, l’IMU.
Sul punto piu’ esposto al fuoco, non ci sono state sorprese. Tutto e’ andato come si era gia’ capito. La prima rata di giugno sulla prima casa resta abrogata, idem quella autunnale. 
Per la copertura di quest’ultima si eviterebbero aumenti su carburanti e alcolici – ma il testo ancora non c’e’ – per rimediare un paio di miliardi da tagli di spesa – non indicati ieri -, aumento di incassi dell’IVA, grazie ad altri 10 miliardi di pagamento del debito commerciale statale alle imprese (si aggiugono ai 20 in corso per l’anno, ne mancano almeno altri 50), nonche’ da 600-700 milioni che lo Stato chiedera’ alle imprese che gestiscono giochi e scommesse.
Il problema pero’ e’ che su che cosa sara’ l’imposizione immobiliare dal 2014 per gli italiani, bisogna al momento accontentarsi di parole. Entro meta’ ottobre il governo si riserva di decidere insieme ai Comuni come funzionera’ davvero la nuova tassa sui servizi immobiliari, destinata a sommare insieme la vecchia IMU e la TARES, che doveva entrare in vigore per i rifiuti. 
Su questo punto sono innumerevoli i possibli pasticci, quindi bisognera’ tenere orecchie aperte e occhi spalancati. Letta ha annunciato ieri che i Comuni – ai quali e’ stato garantito il ripiano di quanto non incassano da IMU nel 2013, senza indicarne ieri la copertura – saranno liberi di scegliere le aliquote entro un certa griglia, tenendo conto di cinque criteri.
Primo, l’aggiornamento catastale, un enorme problema che vede in citta’ diverse immobili simili attribuiti di rendite totalmente diverse (Roma ad esempio ne e’ molto svantaggiata), e che di sicuro non si risolve entro il 2014. Secondo, la distinzione tra prima e seconda casa, e qui ci siamo. Terzo, il reddito di chi ne e’ proprietario, e qui bisogne capire con quali criteri. Quarto, se l’unita’ immobiliare e’ sfitta o meno. Quinto, croce e delizia, come tassare insieme i servizi indivisibili -l’illuminazione pubblica o i marciapiedi di cui tutti si servono – rispetto a quelli divisibili, come lo smaltimento rifiuti, che invece andrebbero pagati per quanto effettivamente uno se ne serva, e con tariffe finalizzate a incentivare le amministrazioni locali a “chiudere il cerchio” della piena sostenibilita’ ecoambientale. 
Che tutto questo possa essere sciolto con chiarezza, senza sfociare – come ieri promesso – in un aggravio di prelievo rispetto alla somma di IMU precedente e TARES a venire, e senza dar vita a un ircocervo senza alcuna analogia in nessun paese avanzato, resta tutto da vedere. Ogni scetticismo e’ dovuto.
Ma in ogni caso ieri il governo ha evitato un brutto scoglio. Con molta democristiana virtu’ del pareggio di reti a segno per le squadre in campo. E mostrando che a voler andare avanti, anche nel Pdl, sono piu’ di quanti sembrino, a leggere i soli comunicati di Arcore. Chi si accontenta gode, e’ la legge della politica italiana.

26
Ago
2013

Il declino italiano tra le Regioni Ue, la sordità di Pdl e politica

Una politica seria, ieri, avrebbe dedicato almeno qualche minuto di attenzione alle amare conseguenze per l’Italia del rapporto sulla competitività tra Regioni dell’Unione, stilato dalla Commissione Europea. Invece, all’indomani del vertice di Arcore tra Berlusconi e lo stato maggiore del Pdl, l’unico tema a rimbalzare nelle dichiarazioni dei politici è stata la crisi di governo.
Da sinistra, dopo l’apparente disco verde di D’Alema parzialmente ritrattato sulla liquidazione del governo Letta, è venuta una presa di posizione sostanzialmente analoga di Veltroni: un ventennio è finito, inutile collaborare al governo, scegliamo Renzi e presto alle urne. Tutto questo, sapendo che Grillo ha deciso che non darà una mano per cambiare l’attuale legge elettorale. Anzi meglio votare presto col Porcellum perché i Cinque Stelle sentono, come gli esponenti del Pd che indicano le urne, aria di vittoria.
Dall’altra parte, nel Pdl è esplosa la conflittualità tra falchi e colombe. Ma non sull’opportunità o meno di condividere la dichiarazione di Arcore, quella secondo la quale la decadenza di Berlusconi è “impensabile e costituzionalmente inaccettabile”, bensì solo sul fatto di chi sia più o meno inossidabilmente interprete nel Pdl della predetta linea dettata dal suo fondatore.
Non abbiamo lesinato al governo attuale giuste e legittime critiche sul più che potrebbe e dovrebbe fare. Ma di fronte a nuove elezioni indicate da una parte e dall’altra come una sorta di ordalia, per decidere ancora una volta sulla superiorità etica e antropologica di una parte sull’altra invece che su programmi all’altezza di lenire i guai italiani, diventa ovvio condividere le parole pronunciate dal premier Enrico Letta tornando dall’Afghanistan, dove ieri ha visitato i reparti italiani: “buttare tutto a mare è una follia”.
Di insensatezze politiche ne sono state già commesse troppe, negli ultimi vent’anni. Proprio per questo è lecito attendersi una nuova prova di rigore e responsabilità istituzionale da parte del Capo dello Stato, una delle poche se non l’unica voce capace di richiamare all’ordine su considerazioni giuridiche – quelle sulla decadenza e l’incandidabilità per effetto della legge anticorruzione – e politiche – il punto in cui siamo arrivati del declino italiano, e ciò che si prepara sulla scena internazionale. Cioè una crisi siriana che sta mostrando tutti i segni premonitori di un nuovo rischioso intervento internazionale, come se nel Medio Oriente non bastasse la crisi egiziana, quella turca, e la nuova leadership iraniana. Le elezioni tedesche alle porte, tra meno di un mese. E il semestre europeo di presidenza italiana, da metà del 2014. Gettarsi in una nuova crisi politica a testa bassa, confermando le diffidenze internazionali sull’endemica instabilità italiana, e per di più con l’attuale legge elettorale né mutando la Costituzione, ci farebbe scendere un altro gradino, avvicinandoci pericolosamente al ruolo di paria.
E’ davvero possibile che Pdl e Pd, dopo aver passato già mesi e mesi sul problema dell’IMU sulla prima casa cioè su 3 miliardi di euro scarsi su oltre 800 di spesa pubblica, rimangano indifferenti sulla continua perdita di posizioni dell’economia italiana, che rischia di continuare anche di fronte ai primi timidi segni di ripresa internazionale? Possono davvero avere dei dubbi, su quale sia la priorità per gli italiani, se non il lavoro che manca, il reddito che scende, il portafoglio e il patrimonio che perdono valore? Dal silenzio di ieri sul rapporto della Commissione sulle Regioni europee, sembrerebbe di sì.
Al contrario, le analisi di quel rapporto dovrebbero dare nerbo al confronto parlamentare, all’operatività di un governo più ambizioso. Dovrebbero costituire l’architrave degli sforzi per un serio programma italiano da mettere al centro del semestre di presidenza italiana dell’Unione, l’anno prossimo. Altro che elezioni. E altro che la sola IMU.
Nel misurare la competitività di 262 regioni europee, la Commissione tiene conto di una molteplicità di indicatori, dall’efficienza e stabilità istituzionale alle infrastrutture, la sanità, l’istruzione, l’innovazione e l’efficienza tecnologica, il mercato del lavoro. Ebbene l’Italia nel suo complesso è scesa dal 16° al 18° posto su 28 Paesi dell’Unione, dal 2010. E’ al 24° per efficienza istituzionale e per il poco Pil realizzato e il molto perduto, al 26° per l’accesso a nuove tecnologie. Tutta l’area più avanzata dell’Italia perde drasticamente il contatto con le Regioni più innovative, diffuse tra Gran Bretagna meridionale, sud dei Paesi scandinavi e, naturalmente. Germania. La Lombardia è passata dal 95° posto al 128°, l’Emilia Romagna dal 121° al 141°, il Lazio dal 133° al 143°, il Veneto dal 146° al 158°. Il Mezzogiorno d’Italia figura in graduatoria allineato alle aree più povere e meno innovative della Penisola iberica. Grecia e Balcani.
Non c’è un’Italia aggrappata all’Europa e una al Mediterraneo, come diceva 40 anni fa Ugo La Malfa, nel report della Commissione. C’è una nazione che nel suo complesso continua sistematicamente a declinare, perché troppe e troppo sistemiche sono le inefficienze, i gravami di una Pubblica amministrazione e di un fisco che ha accresciuto le entrate pubbliche del 58% in 13 anni, mentre la spesa pubblica – lasciando perdere quella per interessi sul debito, che scendeva grazie all’euro – saliva del 68%.
Direte voi forse, a questo punto, che il richiamo alla concretezza è inutile, che suona persino retorico, rispetto a ciò a cui la politica italiana ci ha spesso abituato. E invece no, non può essere vero. Alla lunga, una politica che antepone destini personali e guerre per bande e mai migliora le condizioni del Pese, deve sapere che è condannata non al successo, ma al disastro. Se non è bastato ai partiti tradizionali il 25% di voti andati a Grillo, si illudono a pensare che nuove elezioni a pochi mesi e non avendo risolto nulla possano attenuare la frattura tra condizioni degli italiani e fiducia verso i partiti.
Un’ultima cosa. Certo, Berlusconi fatica molto, da condannato, ad accettare di poter svolgere il ruolo di leader fuori dal Parlamento. Ma ricordi quel che diceva il grande liberale Luigi Einaudi. “Tutte le garanzie di difesa, attacco e replica son richieste quando in gioco è la vita di un uomo,ma quando in gioco è la vita di un Paese, spesso i politici son disadatti”. E infine: “è dubitabile se al buon governo giovino più gli uomini grandi, o quelli semplicemente savi”. Ecco: essere savi, è la scelta responsabile.

24
Ago
2013

C’erano sette deputati e un ambasciatore

Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere la lettera inviata da sette deputati di fede renziana all’Ambasciatore americano, per chiedere un intervento di Obama contro il Monopoli. LeoniBlog è entrato in possesso di altre sollecitazioni inviate da diversi gruppi di Parlamentari di tutti i partiti a diplomatici stranieri, e una al Presidente Napolitano. Ci sentiamo in dovere di condividerle coi lettori. Potrebbero essere vere.

 

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