10
Set
2013

Cinque buone ragioni per cui la Spagna ci ha riagguantato sullo spread

Nel novembre 2011, quando l’Italia giunse a un passo dal baratro e lo spread sui titoli pubblici decennali tedeschi superò quota 580 punti base, il rischio sovrano italiano era prezzato dai mercati assai peggio di quello spagnolo. Poi, nel 2012, l’eurocrisi venne raffreddata complessivamente dalla BCE di Mario Draghi, a gennaio con le aste LTRO e a fine luglio con le OMT, lo scudo che finora non è mai stato utilizzato ma eccome se ha funzionato. Nella discesa generale degli spread, l’Italia riuscì a superare nel ribasso la Spagna, fino a quasi 100 punti base di inferiore rendimento nel decennale.

Ma in questo 2013 siamo tornati indietro. I titoli italiani hanno incassato un nuovo peggioramento di circa 80 punti base, mentre la Spagna ha sostanzialmente tenuto. Ed ecco che da agosto, quando la condanna di Silvio Berlusconi ha iniziato a profilare nuove minacce di crisi ed elezioni in Italia, il rendimento sui titoli pubblici biennali italiani ha cominciato a superare quello dei pari durata spagnoli. In questi giorni, anche sul decennale lo spread italiano si è allineato a quello iberico, intorno a quota 260 punti rispetto al Bund germanico.

Che cosa davvero spiega questo andamento peggiore dell’Italia, se la Spagna ha visto esplodere nella crisi bombe assai peggiori delle nostre, praticamente la sua intera economia fondata su una gigantesca bolla immobiliare – favorita dai bassi d’interesse praticati nei primi otto anni dell’euro- che si è riverberata in un’enorme crisi bancaria, con pressoché un terzo del credito spagnolo in condizioni fallimentari?

Richiamiamo qualche numero. Se guardiamo agli aiuti europei, la Spagna ne ha avuto bisogno più di noi: 100 miliardi per i salvataggi bancari via ESM, e 44 miliardi di titoli pubblici comprati dalla BCE entro fine 2012. L’Italia ha avuto zero euro per le sue banche – nessun fallimento, a parte il caso Mps che vi si avvicina – e 99 miliardi di propri titoli comprati dalla BCE. Noi abbiamo un debito pubblico assai più rilevante, al 130% del Pil, ma quello spagnolo è arrivato al 92% dal 36,3% a cui stava nel 2007, prima della crisi. E ancor oggi la Spagna chiuderà l’anno con un deficit che sfiora il 7% del Pil – con il via libera di Bruxelles a slittare di 2 anni per il rientro sotto quota 3%, rispetto al 2015 – perché ai deficit accumulati per salvare le banche si sono aggiunti quelli per gli enormi sfondamenti delle Regioni autonome, mentre noi siamo appena usciti dalla procedura d’infrazione europea.

Il sistema bancario spagnolo sta ancora a tocchi, le sofferenze lorde – depurate degli asset illiquidi conferiti alla grande bad bank creata con il salvataggi europeo – sono all’11,2% degli impieghi, rispetto al 7,2% italiano, che pure è una cifra elevata e che continua a crescere del 22% su base annua. I prezzi immobiliari spagnoli sono scesi dl 37% dal 2007, con milioni di spagnoli depauperati e sfrattati, una caduta più che tripla rispetto a quella italiana. Se infine consideriamo il PIL, la Spagna ha perso meno dell’Italia nel 2012 – -1,4% – e perderà anche quest’anno meno del nostro 2%, perché già nel secondo trimestre 2013 la caduta spagnola si è fermata al -0,1%, rispetto al -0,2% italiano. Ma la disoccupazione spagnola, rispetto alla nostra che supera di poco un ragguardevole 12%, è quasi al 27%. Anche se da luglio la situazione ha inziato lentamente a migliorare.

Perché dunque il rischio sovrano spagnolo ha riguadagnato tante posizioni su quello italiano? Le ragioni sono essenzialmente cinque.

La prima equivale – al contrario – alla causa della nuova caduta italiana: la Spagna è politicamente assai più stabile. Il premier Mariano Rajoy, moderato-conservatore del PPE, è in carica da dicembre 2011 e terminerà il mandato a fine 2015, reggendo persino agli scandali di finanziamento occulto del suo partito rivelati dall’ex tesoriere. Ha perso tantisismo nei sondaggi, da oltre il 40% a poco più del 25%, ma non per questo i socialisti lo superano, e due altre formazioni sono salite oltre il 12-15%. Pur con tutti questi guai, ai mercati la stabilità di Rajoy piace molto più di un bis di elezioni italiane col Porcellum, che nessuno a ragione crede garantirebbe un governo stabile e riformatore.

La seconda ragione ha a che vedere con le politiche di consolidamento e le riforme applicate dalla Spagna. Anche Madrid ha alzato le tasse sulla casa come le imposte indirette, ma la riforma del mercato del lavoro è stata incisiva, come i tagli al settore pubblico. A inizio d’anno, nel nuovo pacchetto pro-crescita, la Spagna ha fatto scelte opposte a quelle della riforma Fornero: favorire i contratti part time per i dipendenti con meno di 30 anni, con una riduzione del 75% degli oneri sociali per le imprese con più di 250 dipendenti e del 100% per quelle più piccole. Sono stati messi in pagamento 32 miliardi di debito commerciale dovuti dalla PA alle imprese, praticamente l’intero ammontare, come se noi in Italia avessimo pagato 100 miliardi alle aziende entro il 2013. E’ stata introdotta per le piccole imprese e artigiani l’IVA per cassa.

La terza ragione è l’effetto che tutto questo ha avuto su una voce essenziale dello sbilancio estero del paese. Quello della bilancia dei pagamenti: il riequilibrio del deficit cumulato di parte corrente rispetto all’export spagnolo è passato da oltre il 300% alla metà in soli 3 anni, con un export che tira benissimo e che ridurrà nel prossimo quinquennio il rapporto verso quota 50% che è quella attuale dell’Italia.

La quarta ragione ha a che vedere con un altro indicatore “feroce” di competitività, l’andamento del CLUP, il costo del lavoro per unità di prodotto: la Spagna rispetto al 2005 l’ha abbassato del 6%, noi continuiamo in Italia a vederlo aumentare tra il 2 e il 3% annuo.

Infine, quinta ragione, pur con un’economia più piccola della nostra e colpita in profondità, la Spagna gode di un numero di grandi imprese percentualmente maggiore delle nostre. I 15 grandi gruppi spagnoli come fatturato valgono il 35% del Pil e il 70% della capitalizzazione della Boprsa, danno lavoro a 1,7 milioni di spagnoli. Acciona, Acs, Banco Santander, Bbva, El corte ingles, Ferrovial, Grupo Planeta, Iberdrola, Inditex, La Caixa, Mango, Mapfre, Mercadona, Repsol, Telefonica, Zara, sono protagonisti dei mercati globali, in molti settori in posizioni più avanzate delle nostre.

Non è dunque un cattivo scherzo del destino, se i titoli pubblici italiani hanno perso posizioni su quelli spagnoli. Stabilità, riforme, competitività, costo del lavoro, imprese, sono ragioni solide. Classi dirigenti serie, nel nostro Paese, dovrebbero sapere a memoria tutti questi dati. E guardarsi bene, di conseguenza, dal rimettersi a giocare irresponsabilmente la carta di nuove elezioni a pochi mesi dalle precedenti.

9
Set
2013

Ronald Coase, diritto di proprietà e tutela dell’ambiente

Uno dei tanti meriti di Ronald Coase è quello di aver dimostrato come si possa ricorrere ad un approccio di mercato, fondato sui diritti di proprietà, per offrire una soluzione efficace alla tutela dell’ambiente.

Prima della pubblicazione dell’articolo The Problem of Social Cost, a firma di Ronald Coase, nell’ottobre 1960, il tema delle esternalità negative di un’impresa era stato trattato applicando gli strumenti di analisi elaborati da Arthur Cecil Pigou, autore di The Economics of Welfare.

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9
Set
2013

Tre ragioni economiche per cui è meglio evitare avventurismi politici

Oggi si riunisce la giunta per le elezioni del Senato, all’ordine del giorno le conseguenze della pena comminata a Silvio Berlusconi per evasione fiscale sui diritti tv. Tutti sanno che non c’è alcun accordo su decadenza e incandidabilità, eventuale rinvio alla Corte costituzionale della legge Severino, natura stessa delle pene interdittive – se amministrative o penali – e conseguente possibilità o meno di applicazione dei limiti di retroattività delle norme in questione. Da oggi si apre dunque un nuovo accidentato sentiero di instabilità per l’Italia. La tenuta del governo Letta è a rischio, ed è stato sinora impossibile capire quanto Berlusconi sia convinto dei possibili frutti di uno scontro assoluto, e quanto invece di quelli di un atteggiamento ragionevole.

Ma di tutto questo valuterà e deciderà Berlusconi, insieme al Pdl. Sono scelte però che hanno una ricaduta che riguarda tutti. Ed è dunque necessario dare una risposta chiara a una domanda precisa. Perché considerare un bene degno di tutela, la prosecuzione dell’attuale governo?

Un conto è se a rispondere sono i soggetti politici presenti in Parlamento, ciascuno dei quali persegue il proprio legittimo interesse. Quel che è evidente è che se il Pdl aspetta le decisioni del suo fondatore, Grillo punta a capitalizzare in nuove elezioni a breve e anche con l’esecrato Porcellum la sua irriducibile alterità rispetto a Pdl e Pd. Mentre il Pd sta approdando faticosamente alla scelta di un nuovo leader, Renzi, ma a propria volta in ampie fasce del suo elettorato e dirigenza è convinto che prima finisce la formula di emergenza Pd-Pdl-Scelta civica, meglio è.

Altro conto è se alla domanda si tenta di rispondere guardando agli interessi generali. Ovviamente, anche nella valutazione degli interessi generali pesano eccome le idee e opinioni degli osservatori, visto che nessuno è depositario della verità. Ma cerchiamo comunque di fissare almeno tre ragioni di fondo, per le quali è meglio evitare una crisi al buio, forse una rielezione del Capo dello Stato, ed elezioni con una legge che comunque non garantirebbe governabilità, né scelta degli eletti da parte dei cittadini.

La prima ragione è europea e internazionale. Negli ultimi tre giorni, al Forum Ambrosetti a Cernobbio, è stato un coro univoco tra gli ospiti internazionali: l’Italia eviti di farsi altro male. Dall’ex governatore della BCE Trichet al grande storico di imperi e mercati Niall Ferguson, da Ian Bremmer specialista della valutazione del rischio come criterio principe non solo dei mercati ma della politica estera, al commissario europeo Almunia al presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, tutti hanno considerato nuove elezioni italiane sul caso Berlusconi come una scelta che esporrebbe l’Italia a un rischio terribile. Quello di essere il maggior Paese avanzato a frenare l’intera crescita mondiale, ora che l’Ue in quanto tale è uscita dalla crescita negativa.

Siamo usciti da pochissimo dallo status di sorvegliati speciali, perché eravamo soggetti alla procedura d’infrazione europea per il nostro deficit pubblico. Andare a nuove elezioni ci esporrebbe a risforare il 3% di PIl come deficit nel 2014. E, soprattutto, impedirebbe alla presidenza di turno italiana dell’Unione, che scatta dopo quella greca dal primo luglio 2014, di avere un qualsivoglia credibile programma di reindirizzo dell’Europa verso metriche diverse rispetto a quelle del fiscal compact, metriche su cui misurare investimenti e bilancia dei pagamenti oltre a deficit e debito pubblico.

Tornare a calcare il cappello del somaro per l’Italia è una conseguenza internazionale ed europea oggettiva e certa, in caso di elezioni. Figuriamoci poi in un quadro in cui la vicenda della Siria porta al diapason tutte le contraddizioni della politica americana in Medio Oriente, e mentre abbiamo i nostri soldati schierati sul confine tra Libano e Israele, cioè tra Hezbollah filoiraniani e l’obiettivo di ogni possibile ritorsione fondamentalista.

La seconda ragione è economica, e coincide con l’impatto per noi tutti lavoratori e contribuenti italiani degli effetti se il governo cade. Anche qui vale il criterio delle conseguenze oggettive, comunque la pensiate di ciò che il governo avrebbe dovuto potuto fare e non ha fatto, o di come ha fatto ciò che ha fatto.

Cento punti di spread in più sui titoli decennali tedeschi, per i mesi necessari a scioglimento, campagna elettorale e nuovo governo, significano un punto di Pil in più – circa 15 miliardi – di interessi da pagare sul debito pubblico italiano nel triennio successivo. Facile immaginare  che cosa capiterebbe alla legge di stabilità, da presentare entro il 15 ottobre e che va poi sottoposta  all’esame di Bruxelles entro novembre e approvata entro fine dicembre. Per l’IMU, cadrebbe la copertura della seconda rata sulla prima casa, che va disposta entro il 15 ottobre in concomitanza con la Legge di stabilità. Né ci sarebbero i termini per definire la nuova Service Tax sugli immobili per il 2014, attualmente avviata a essere un pasticcio immondo che va evitato con norme precise. L’aumento dell’IVA al 22% dal primo ottobre tornerebbe a scattare. Metà delle banche italiane quotate rischiano di vedere i loro titoli scendere sotto il livello “spazzatura”, in caso di inevitabile downgrading del rating del debito pubblico italiano. I tassi sui mutui tornerebbero a salire, la restrizione di credito per famiglie e imprese – già dura – si prolungherebbe invece di attenuarsi. Salterebbe l’ultima rata di finanziamento della CIG entro fine anno, e l’ulteriore garanzia a nuove coorti di esodati. Salterebbe il Patto per la salute appena avviato tra Stato e Regioni. E fermiamoci qui, perché l’elenco è molto più lungo.

La terza ragione investe non ciò che il governo ha fatto finora, ma ciò che ha promesso di fare nei prossimi mesi. Entriamo nell’opinabile, ma è anche vero che si tratta proprio di ciò che è più necessario, per rilanciare la crescita di un Paese che resta fanalino di coda ora che l’Europa si riprende, e persino il Portogallo nell’ultimo trimestre è tornato a un più 1,1% di Pil.

Impugnare le forbici davvero sulla spesa pubblica – ieri Saccomanni ha promesso un cambio di marcia sulla spending review, ma purtroppo ha riparlato di un commissario e di una task force ad hoc, mentre i tagli dopo anni vanno fatti e non più studiati – abbattere imposte sul lavoro e impresa cominciando da Irap e cuneo fiscale – parola di Letta, a Cernobbio – effettuare dismissioni pubbliche di mattoni di Stato e innumerevoli utilities locali, estendere il tentativo di abolire le province a una rivisitazione vera e profonda del Titolo V della Costituzione nelle competenze di impatto finanziario ed economico. Sono solo quattro dei più pesanti esempi, di ciò che si attendeva da un governo Letta più coraggiosamente proteso a orizzonti riformisti di lungo periodo, e meno condizionato dalle pesanti eredità della campagna elettorale.

Nessuno può davvero sapere, se la svolta di energia che il governo promette verrà davvero. Letta si sforza di promuoverla, ed è anche per questo che ha lanciato la palla della candidatura italiana alle Olimpiadi 2024, altra proposta della quale chi qui scrive pensa che sia una fuga in avanti rischiosa, in un paese tanto indietro su centinaia di opere infrastrutturali necessarie, e che allo stato attuale ancora non ha speso per proprie incapacità istituzionali il 60% dei fondi strutturali europei che ci erano attribuiti negli anni 2007-2013.

Ogni scetticismo è dovuto. Ma nelle condizioni in cui Italia e italiani si trovano, una cosa è sicura. Meglio rischiare nuove delusioni sul bene e sull’ottimo che forse non verrà, rispetto al male di altri nuovi colpi ai nostri redditi e portafogli, effetto certo di un ritorno all’avventurismo politico.

8
Set
2013

Omaggio a Ronald Coase, lettore di Adam Smith

Sebbene si schermisse dicendo di aver “conosciuto alcuni grandi economisti, ma non mi sono mai considerato uno di loro”, Ronald Coase è stato fra i massimi scienziati sociali del secolo passato. Coase è ricordato (ed è stato insignito del Premio Nobel), per due saggi, “La natura dell’impresa” (PDF) e “Il problema del costo sociale” (PDF) (trovate la traduzione italiana di entrambi in questa antologia) . LeoniBlog sta ospitando una serie di contributi (Carlo Stagnaro, Francesco Forte intervistato da Lucia Quaglino, Serena Sileoni e Massimiliano Trovato) che rendono bene l’idea sia dell’importanza di questi due lavori, sia di come la produzione di Coase sia stata ben più vasta.

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6
Set
2013

Omaggio a Ronald Coase, per la privatizzazione dello spettro

La ricerca di Ronald Coase – straordinariamente duratura e influente – può essere descritta come una perlustrazione dei confini del mercato: prima ristretti con “The Theory of the Firm” (1937), in cui l’economista britannico diede ragione dell’esistenza delle imprese, isole di pianificazione in un mare di spontanee relazioni commerciali orientate dal sistema dei prezzi; poi ampliati – rivoluzionando l’interpretazione di alcuni dei cosiddetti fallimenti del mercato – con “The Lighthouse in Economics” (1974), che incrinò il mito dei beni pubblici, e ancor più con “The Problem of Social Cost” (1960), che superò quarant’anni di letteratura sulle esternalità.

Proprio a questo secondo filone va ascritto “The Federal Communications Commission” (1959), un articolo sovente trascurato, ma che già conteneva in nuce la tesi del seminale contributo che Coase avrebbe pubblicato l’anno seguente. Prendendo le mosse da un’accurata ricostruzione storiografica, l’autore evidenziava il considerevole margine di discrezionalità che la FCC esercitava nell’assegnare le licenze di cui ogni operatore radiofonico (e poi televisivo) doveva munirsi per ottenere le indispensabili risorse frequenziali. La desiderabilità di tale soluzione, che confliggeva con il principio della libertà d’espressione incarnato dal Primo Emendamento, era affermata con due distinti argomenti: da un lato, la necessità di evitare interferenze tra trasmissioni attigue; dall’altro, quella di regolare l’accesso a un bene scarso come lo spettro elettromagnetico.

A tali argomenti Coase oppose un’idea eretica per lo stato della disciplina, ma che egli stesso considerava solo apparentemente innovativa (“novel with Adam Smith”): quella di assegnare al miglior offerente un diritto di proprietà chiaramente definito su una data porzione di spettro. Quanto alla scarsità, essa è  (in senso assoluto) condizione comune alla totalità dei beni economici, ed è (in senso relativo) funzione della tecnolologia disponibile: alla luce di entrambe le caratteristiche, i meccanismi di mercato sono meglio equipaggiati di quelli amministrativi per garantire un utilizzo efficiente.

Quite apart from the misallocations which are the result of political pressures, an administrative agency which attempts to perform this function normally carried out by the pricing mechanism operates under two handicaps. First of all, it lacks the precise monetary measure of benefit and cost provides by the market. Second, it cannot, by the nature of things, be in possession of all the relevant information possessed by the managers of every business which uses or might use radio frequencies, to say nothing of the preferences of consumers for the various goods and services in the production of which radio frequencies could be used. (p. 18)

Venendo alle interferenze, Coase conclude che – una volta che i diritti dei titolari delle frequenze siano precisamente definiti – saranno poi le transazioni di mercato, senza la necessità di un preliminare intervento pubblico, a risolvere i conflitti e ottimizzare l’utilizzo dello spettro. Si tratta di un caso particolare del tema più generale di “The Problem of Social Cost”: con il caveat che, in questo caso, la natura almeno in parte reciproca di tutte le “esternalità” è più evidentemente percepita.

Coase pubblicò il suo articolo nel neonato Journal of Law and Economics, e fu proprio il circolo che – all’University di Chicago – si raccoglieva intorno a quella rivista a testarne duramente i risultati: la conclusione (la convergenza verso gli utilizzi più efficienti in presenza di diritti di proprietà bene definiti, ma a prescindere dalla loro allocazione) fu l’oggetto di una cena ospitata da Aaron Director e a cui parteciparono – tra gli altri – Milton Friedman e George Stigler, che ne parla nelle sue memorie. Quello che all’antipasto era un verdetto di venti a uno contro Coase, si trasformò entro il dessert in un unanime verdetto a favore. Quella sera, Director suggerì a Coase che il punto da lui sollevato meritava una specifica trattazione, il cui risultato apparve – appunto – nel 1960. Quattro anni dopo, Coase si sarebbe trasferito a Chicago – sia pure presso la Law School.

L’influenza diretta dell’articolo del 1959 fu, invece, meno immediata. Solo negli anni ’90 la FCC e gli analoghi regolatori di altri paesi cominciarono a mettere all’asta i diritti d’uso delle frequenze, mantenendone – nella maggior parte dei casi – la proprietà e spesso limitandone la circolazione; ancor oggi, la classe politica pare più interessata alle connesse opportunità di gettito che non al ritorno d’efficienza che solo da una netta demarcazione dei diritti di proprietà può discendere. Da questo punto di vista, l’approccio dell’economista inglese alla gestione dello spettro non ha ancora trovato una completa implementazione.

A ben vedere, esso si potrebbe persino criticare “da destra”, contestando l’idea stessa che  lo stato possieda lo spettro e sia dunque legittimato ad alienarlo; mentre una coerente logica di mercato sottoporrebbe le frequenze, come ogni altro bene, a un regime di appropriabilità originaria, secondo lo schema lockeano. Tuttavia, una simile riflessione – oltre ad avere scarsa utilità pratica – mancherebbe l’obiettivo: il cuore dell’argomento di Coase è l’applicabilità di principi economici (prezzi e circolazione) alla gestione delle frequenze, un’idea che ben pochi – almeno tra gli accademici – osano oggi mettere in dubbio.

6
Set
2013

Bitcoin: la via d’uscita dal controllo monetario centralizzato — di Martin Vlachynsky

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Atlas Network.

Nel corso della crisi finanziaria, i governi occidentali hanno fatto ricorso a interventi monetari senza precedenti. Alleggerimenti quantitativi (quantitative easing), minore privacy, controllo sui capitali e criminalizzazione delle transazioni in contanti hanno costretto le persone a cercare una moneta migliore. Per fortuna, vi sono possibili alternative.

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5
Set
2013

Voi poveri rimarrete sempre poveri – di Ulrich Zanconato

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Ulrich Andreas Zanconato.

Questo è il messaggio della puntata “Ricchi e Poveri” della trasmissione Presa Diretta andata in onda su Rai Tre lo scorso lunedì 2 settembre. A meno che, ovviamente, che i poveri non si battano per la tassa patrimoniale, l’apparente soluzione di tutti i mali.

Peccato però che si sia persa un’occasione: i giornalisti di Presa Diretta avrebbero avuto la possibilità di comunicare un messaggio diverso, positivo e di speranza per i tanti giovani italiani che faticano a ottenere un’educazione di qualità prima e un buon lavoro poi. 

Io sono lo studente che è stato intervistato di fronte alla London School of Economics e che, grazie al sapiente lavoro dei tecnici di Presa Diretta, appare come il rampollo di super ricchi in grado di finanziare studi costosissimi e una lussuosa vita londinese, per diverse migliaia di sterline al mese, al proprio figlio. La realtà però è un’altra. Non sono, ahimè, figlio di ricchi o super ricchi. Come avevo raccontato alla giornalista Elena Stramentinoli, gli studi legali inglesi pagano la retta agli studenti che inizieranno poi a lavorare per loro. E danno loro anche qualcosa in più per finanziare la costosa vita londinese (dove me la cavo comunque con circa 800 sterline al mese, non le migliaia di cui si parla nella trasmissione). Avevo inoltre raccontato che lavoro parallelamente ai miei studi, così come ho lavorato prima di laurearmi a ventiquattro anni in giurisprudenza a Monaco di Baviera. Cosa che mi ha permesso di accumulare esperienza lavorativa e mettere da parte dei soldi.

Sono stato anche aiutato dai miei genitori, è vero. Ma è una colpa essere aiutato da genitori che, loro sì senza alcun aiuto, hanno iniziato come me la carriera all’estero e sono poi tornati in Italia a lavorare in primis per pagare le tasse, e con quello che avanza vivere e mettere da parte qualcosa per i figli?

La mia esperienza non ha però suscitato l’interesse dei giornalisti di Presa Diretta. Non era infatti funzionale al lavaggio del cervello in favore della tassa patrimoniale che intendevano perpetrare ai danni del pubblico di Rai Tre.

Scopo di cui ero peraltro all’oscuro. Quando sono stato contattato per l’intervista mi era stato raccontato che Presa Diretta stava preparando una trasmissione sui giovani italiani che studiano all’estero e cercano opportunità per un futuro migliore. Ero quindi felice di mostrare ai miei coetanei italiani che esiste la possibilità di avere un’educazione di qualità anche quando non si hanno genitori super ricchi.

La maggior parte dei giovani italiani, fra cui molti miei amici, va all’estero per fuggire un Paese dove la libertà economica è bassissima (l’Italia si classifica all’ottantatreesimo posto nell’Index of Economic Freedom, appena dietro all’Arabia Saudita e ad anni luce da Germania e Gran Bretagna). Senza libertà economica la mobilità sociale non può esistere, a tutto vantaggio di chi già occupa i piani alti o comunque posizioni garantite, come i dipendenti pubblici con il loro posto fisso. Non stupisce quindi che la televisione pubblica voglia trasmettere un messaggio a favore di più tasse, in modo che lo Stato abbia più risorse da distribuire ai suoi dipendenti e alla miriade di banchieri e imprenditori che, anziché operare in un mercato libero, preferiscono ripararsi dalla concorrenza e vivere di favori reciprochi scambiati con la classe politica.

Mi ero illuso di poter raccontare una storia diversa, e invece i giornalisti di Presa Diretta mi hanno utilizzato per il loro scopo. A tutti i miei coetanei italiani in cerca di un futuro migliore, dove contano solo i loro meriti, consiglio di non demoralizzarsi: non ascoltate chi attraverso le tasse già sottrae ai nostri genitori più del 50% del loro reddito, non ascoltate chi attraverso una miriade di leggi ci ha privato della nostra libertà, ma cogliete le opportunità offerte dal mondo globale e lavorate per un futuro migliore.

5
Set
2013

Omaggio a Ronald Coase. Analisi economica e giustificazione del diritto

Nel primo degli omaggi a Ronald Coase pubblicati in questo blog, Carlo Stagnaro ha scritto che “la sua idea di fondo è che gli economisti avessero perso la bussola a causa di un eccesso di astrazione”. La ricaduta del pensiero di Coase nel mondo del diritto si deve a questa stessa idea e può sintetizzarsi, similmente, in un acquisito scetticismo verso l’eccesso di astrazione della legge e delle sue finalità.

Grazie all’approccio di Coase ai fenomeni dell’economia, nelle scienze giuridiche si è sviluppato un metodo di indagine del diritto più interessato alla effettiva praticabilità delle regole giuridiche che non alla loro teorica desiderabilità.

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4
Set
2013

Microsoft, Vodafone e la battaglia globale delle data company.

Grandi venti di cambiamento colpiscono il settore mobile mondiale. Negli ultimi giorni due grandi operazioni sono state concluse, riprendendo quella verve che era stata caratteristica del settore tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio.

Vodafone ha venduto per 130 miliardi di dollari il 45 per cento di Verizon Wireless, dimostrando le grandi capacità di Vittorio Colao, CEO del gruppo britannico, che ha saputo indubbiamente vendere “al momento giusto e al prezzo giusto”.

Nel frattempo Microsoft ha comprato parte di Nokia per poco più di 7 miliardi di dollari, dimostrando che internet e mobile sono ormai un unico mercato. Quello che ormai sembra ovvio, in realtà è una tendenza che si è andata consolidando solo negli ultimi anni, come anticipavamo nel “Rapporto sulla telefonia Mobile”, libro pubblicato per IBL libri nel 2009. Read More