20
Set
2013

Iva, sarà aumento. A furia di non scegliere e non tagliare spesa, le frittate son l’unico piatto offetto da governi deboli

Scatterà l’aumento dell’IVA dal primo ottobre? E la legge di stabilità diventerà magari insieme all’IVA il pretesto per la crisi politica, mascherando la vicenda Berlusconi di polemiche di bandiera, magari sostanzialmente indifferenti a conti e contenuti? E’ questa la domanda centrale, sul terreno non solo della politica economica ma della tenuta del governo, dopo il tanto atteso video di Silvio Berlusconi.
I segni della colluttazione politica sull’IVA sono evidenti. Il viceministro dell’Economia Fassino ha senza mezze parole detto che l’IVA a questo punto salirà al 22% dal primo ottobre, perché altrimenti l’unica alternativa è rimettere mano all’abrogazione dell’IMU totale sulla prima casa. Inevitabli le reazioni all’arma bianca della prima fila del Pdl. Ieri, al Consiglio dei ministri, di IVA non si è parlato. Ma cerchiamo allora di capire in concreto che cosa significherebbe l’aumento dell’IVA, e quali siano i fattori oggettivi che spingono in questa direzione.
Innanzitutto, a 48 ore dalle parole del commissario europeo Olli Rhen al Parlamento italiano, parole che tante polemiche hanno suscitato, non si sbaglia nell’azzardare l’ipotesi che il richiamo europeo non sia risultato affatto sgradito al governo. Non vogliamo dire sia stato concordato, perché ne manca ogni evidenza, ma sgradito no di sicuro.

Rehn ha fatto benissimo a ricordare a tutti che da quest’anno – per una decisione assunta in sede europea con piena condivisione dei governi italiani – le leggi di stabilita’ di ciascun Paese sono sottoposte, prima della loro approvazione, all’esame comune degli organi europei. E ha aggiunto che, dopo il passo falso dell’abrogazione totale dell’IMU sulla prima casa, in contrasto con lo spostamento indicato dal governo a Bruxelles della tassazione dalle persone alle cose, e con coperture finanziarie ancora ballerine, a maggior ragione occorre evitare altri passi falsi.

Che il richiamo sia stato gradito al Tesoro ne è venuta conferma con l’immediata indiscrezione da via XX settembre per la quale siamo ancora oltre il tetto del 3% di deficit sul Pil, non sotto. Confermata ieri dalle voci sula disponibilità di Saccomanni a fare un passo indietro, se la maggioranza gli chiede di sforare sul deficit. E di conseguenza la coperta è più corta che mai. A furia di rinviare scelte e tagli di spesa, le frittate diventano obbligatoriamente la specialità principe dei deboli governi italiani.

E’ per questo, che l’aumento dell’IVA diventa molto più concreto di quanto la politica avesse sin qui detto. L’aumento dell’aliquota ordinaria IVA dal 21% al 22% vale sui conti pubblici un miliardo di euro di gettito nel 2013, e 4 miliardi nel 2014. Sono numeri che fanno testo a Bruxelles, anche se un po’ virtuali. Virtuali perché nel primo semestre 2013 il gettito IVA rispetto allo stesso periodo del 2012 era in Italia quello più in calo d’Europa, al – 5,7%, rispetto al +5,7% della Spagna – che ha alzato le aliquote – e al +0,8% della Germania. Da noi il calo della domanda e dei consumi interni è così forte – meno 4,3% nel 2012, ed è atteso intorno al meno 2,4% in questo 2013 – che l’IVA ne soffre. Ma dal Tesoro fanno intanto sapere che il gettito sta andando meglio, a luglio e agosto,la diminuzione sul 2012 risulta assai più contenuta.
E’ anche vero poi che l’Italia evade tantissimo l’IVA. In maniera geograficamente difforme, si passa dal meno del 10% dell’imposta a oltre il 40% in estese aree depresse del Sud, secondo l’Agenzia delle Entrate. Proprio l’altroieri è uscita l’anticipazione di un report europeo che stima nel 2012 il gettito IVA evaso in Italia intorno ai 36 miliardi, rispetto ai comunque non trascurabili 32 della Francia e ai 27 della Germania. E in caso di innalzamento dell’aliquota l’Agenzia delle Entrate dovrà fare ancora più fatica, a incidere sull’evasione.

Ma fatte queste due osservazioni, alla prima ragione a favore dell’aumento dell’IVA – tutelare i saldi di bilancio, visto che tagli di spesa aggressivi sin qui non se ne sono visti – se ne aggiunge un’altra altrettanto pesante: la crescita. Certo, l’IVA ha effetti regressivi rispetto ai redditi del consumatore finale. Ma e’ la stessa Confcommercio a sostenere che che l’effetto depressivo sui consumi dell’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria IVA si fermerebbe a un meno 0,1%.

Ma se parliamo di crescita, cioè di che cosa in termini comparati abbia più influenza nell’uscire dalla recessione e avvicinare la crescita reale a quella potenziale, allora la prospettiva cambia. Ciò che serve di più a questo scopo è l’abbattimento delle eccessive imposte e contributi sul lavoro e sulle imprese. E tale intervento, per avere effetti a breve tangibili, deve avere la maggior quantità di risorse possibili concentrate: gli 8 miliardi concessi da Prodi, tra meno IRAP e meno IRPEF ai redditi più bassi, sortirono conseguenze trascurabili. E poiché la coperta – come ricordano insieme Bruxelles e il Tesoro – è molto corta, allora il cerchio si chiude.

Nell’amara alternativa tra un ulteriore scatto dell’IVA e avere ancor meno risorse da destinare ad abbattere il cuneo fiscale, l’aumento dell’imposizione indiretta risulta come il minore dei mali. Vale anche nell’ipotesi che il ministero dell’Economia pensi di evitare l’aumento del 22% ribilanciando le entrate con il ritocco delle aliquote IVA inferiori, perché l’effetto complessivo non cambia.

E’ molto amaro dirlo, per chi come noi immagina una spesa pubblica e un fisco di peso entrambi assai più lieve. Ma in un Paese in ginocchio,e tale innanzitutto per il suo mix tutto tasse di finanza pubblica sin qui seguito, occorrono scelte realistiche. Elezioni al buio con questa legge elettorale sono una follia evidente. Ma è altrettanto irragionevole non saper mai scegliere da quale posta fiscale partire, per riorientare la crescita, facendolo dipendere solo dal calendario. A conti e convenienze stimate, non solo l’aumento dell’IVA è il minore dei mali. Ma tanto vale farlo partire al più presto, con la morte nel cuore ma concentrando la legge di stabilità sulle priorità più urgenti per rilanciare impresa e lavoro.

18
Set
2013

Beni culturali: se l’intervento dello Stato deresponsabilizza i cittadini

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha dedicato spazio all’esperienza del National Trust: una emerita istituzione britannica che protegge e salvaguarda beni culturali e paesaggistici (ville, monumenti, parchi, giardini, coste, collezioni d’arte, ecc). Nata sul finire dell’Ottocento, è servita da esempio al FAI (Fondo Ambiente Italiano) per far nascere anche nel nostro paese un soggetto capace di radunare un vasto numero di persone per valorizzare il patrimonio culturale sparso per l’Italia. Sull’esperienza del National Trust è intervenuto oggi, sempre sul quotidiano milanese, Salvatore Settis. Read More

18
Set
2013

Mr Zanonato, Tear Down This Bond!

Da qualche tempo si è fatta strada un’idea curiosa, sui prezzi dell’energia: che se ti indebiti di più, spendi di meno.

Questo ragionamento, fatto entusiasticamente proprio dal ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, è uno straordinario esempio di come si possa partire da una diagnosi corretta per arrivare a una cura sbagliata. I passaggi logici sono più o meno questi: l’elevato costo dell’energia elettrica è una zavorra per la competitività delle imprese italiane; le cause sono molteplici, ma negli ultimi anni ha acquisito un’importanza crescente il peso dei sussidi alle fonti rinnovabili; di conseguenza, se vogliamo dare respiro al paese, è lì che dobbiamo mettere le mani (un’analisi più articolata si trova qui).

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15
Set
2013

A 5 anni dalla grande crisi figlia dei regolatori pubblici, i luoghi comuni imperano

Viene da sorridere, all’idea che il candidato numero uno di Barack Obama a succedere a Ben Bernanke alla guida della Fed, tra poche settimane, sia Larry Summers. È uno dei segni più evidenti che si è di fatto imparato poco, dalla terribile crisi covata sui mercati dal 2007, ed esplosa sui mercati con il default Lehman esattamente 5 anni fa. Chi qui scrive da sempre sostiene che quella crisi fu dovuta non al cosiddetto “mercato che si autoregola”, come vorrebbe l’instancabile vulgata keyenesian-statalista, ma al contrario a errori dei regolatori, politici come di settore, a cominciare dalla FED di Greenspan e la sua Greenspan put. Ebbene fa sorridere l’ipotesi di Summers ora alla FED, perché è di Larry Summers, allora segretario al Tesoro di Clinton, la firma sotto il Financial Services Modernization Act del 1999 e il Commodity Futures Modernization Act del 2000, i due provvedimenti che spalancarono le porte alla verticalizzazione di una altissima leva finanziaria, ad asset illiquidi coperti a lungo termine da raccolta a breve e con opacità contabile, ai fondamenti cioè della più grave e grande crisi finanziaria di tutti i tempi.

Chi scrive difende il mercato, ma il mercato è e vive di buone regole. Quando il regolatore pubblico emana cattive regole, e il banchiere centrale – Greenspan, allora – tiene i tassi troppo bassi per anni dopo l’esplosione della bolla Internet nel 2001, ecco che le cattive regole provocano bolle, le bolle esplodono, gli asset bancari diventano senza prezzo riconosciuto e trattabile dal mercato, e le banche entrano in una crisi di fiducia a spirale che ne fa andare alle stelle il costo di funding.

Eppure, dopo centinaia di libri e decine di migliaia di pagine di indagini – a cominciare da quella del Congresso americano – il bilancio dopo 5 anni è molto amaro. Non è vero che si è capito. Non è vero che si è rimediato. Esaminiamo alcuni brevi, schematici punti.

Primo: una nuova governance globale della finanza. Questa fu la parola d’ordine, dopo la caduta del commercio mondiale che in due trimestri del 2009 arrivò al 50% in valore e volumi. Condividiamo ed estendiamo nuove regole, per abbassare la leva finanziaria e rendere più congruo il capitale bancario rispetto agli asset, e facciamolo non nel G7 ma nel G20, insieme a Cina, Brasile, India e Paesi emergenti. Queste, le parole di Obama. Chiacchiere. L’America ha approvato nel 2010 per i fatti suoi una riforma bancaria – la Dodd-Frank – che rinvia all’orizzonte del 2020 le sue timide novità. Dopo 3 anni solo il 38% dei provvedimenti attuativi è stato emanato. Europa e America restano con princìpi contabili diversi, regole sul capitale obbligatorio di vigilanza diverse, e direttive completamente diverse su chi e cosa se come salvare, tra gli intermediari finanziari “troppo grandi per fallire”.

Secondo: banche più “umane”. Si è rivelato uno slogan per fare titoli a effetto. Le sei maggiori banche USA hanno oggi il 28% di combined asset in più del 2007. I derivati restano contabilizzati negli Usa solo al netto delle perdite quando realizzate, non per valore nozionale nella valutazione complessiva degli asset pesati per il rischio. Il risultato è che i derivati OTC oggi superano secondo alcuni i 600 trilioni di dollari – un trilione significa mille miliardi – e secondo altri i 700. Più del 2008. Lo shadow banking, il sistema del credito in capo a intermediari non bancari, oggi compra pacchi di asset illiquidi dalle banche e vale a propria volta tra i 60 e i 70 trilioni di dollari. È raddoppiato, dal 2008.

Terzo: l’Europa farà da sé. Balle. Neanche nell’Ue e nell’euroarea, siamo riusciti a scrivere regole comune sui copiosi salvataggi bancari e industriali. I 500 miliardi di euro, è questo l’ordine di grandezza delle ricapitalizzaioni per le sole 16 maggiori istituzioni bancarie “salvate” dai diversi governi europei coi soldi dei contribuenti – sono stati attribuiti a livello nazionale con criteri e limiti completamente diversi. La Germania continua a non volere il nostro naso negli attivi maleodoranti di molte delle sue banche pubbliche regionali. La BCE trema, nel disaccordo degli Stati, al vedersi ora attribuire una vigilanza che, quando dovesse decidere default e come contenerne effetti, si troverebbe i governi nazionali contro. Tanto per dare una cifra, regolarmente smentita da banchieri e autorità nazionali, a fine luglio l’OCSE valutava che le 200 maggiori banche europee avessero ancora bisogno di 400 miliardi di euro di più capitale, per raggiungere il rapporto del 5% tra capitale e asset detenuti.

Quarto: tutti ci daremo una mano. Macché. Dei 14 trilioni di dollari di aggravio del debito in 5 anni nei paesi del G7 (debito complessivo, sommando quello pubblico e privato siamo ormai a un debito che vale il 440% del Pil del G7) , 5.8 trilioni sono effetto degli interventi di salvataggio e garanzia operati dalle banche centrali. Ma l’America e la FED vale da sola metà di questa cifra, mentre con 870 miliardi di dollari di maggior debito Usa in termini di spesa pubblica varata da Obama nei 2 anni post crisi – un 5% di Gdp annuo di spesa in deficit che avrebbe proiettato la crescita del debito pubblico decennale del più 50% senza il sequester automatico in corso– l’America ha fatto apparire come un nano qualunque altro Paese dalla finanza pubblica allegra. Epure non è una contraddizione, che da inizio 2011 la crisi abbia messo alle corde il rischio sovrano dei Paesi eurodeboli tra cui l’Italia. Finché il dollaro è il tallone monetario mondiale, com’è ovvio Washington può fare nel suo interesse quel che vuole – o quasi – delle altrui debolezze.

Fermiamoci qui, si potrebbe continuare all’infinito. Fannie e Freddie, i due colossi pubblici americani del mutui “facili” esplosi, sono ancora vivi e vegeti grazie ai soldi dei contribuenti. Con la differenza che valgono il 90% del mercato dei mutui Usa, rispetto al 60% di 5 anni fa. Quando scoppia, la finanza fa vittime asimmetriche, colpisce i deboli e salva i forti ben relazionati. Le grandi banche USA avevano speso 3,8 miliardi di dollari nella politica USA, nel decennio pre-crisi. Ma almeno lo sappiamo, gli USA in questo sono più trasparenti di noi europei e italiani. Anche da noi i forti relazionati si salvano e i deboli periscono. In Italia le grandi banche salvano Zaleski, il raider che per conto di Intesa per anni ha fatto incetta di pacchetti azionari con linee di credito illimitate, ma che oggi in Tassara ha un NAV di un terzo scarso rispetto alle esposizioni miliardarie con le grandi banche italiane. Eppure, a lui le banche rinnovano i prestiti e non escutono i pegni, mentre negano credito a famiglie e imprese e al contempo si riempiono la pancia di titoli pubblici.

Ma chi ha pagato, infine, per la crisi più grave della storia? Anche qui, la demagogia imperante grida una cosa e ne fa un’altra. Dopo il fallimento di Lehman e il salvataggio obbligato di decine di grandi banche europee e americane., la politica inneggiò alla necessità di grandi purghe. I numeri dicono il contrario. Dopo la grande crisi sistemica delle casse di risparmio americane, nei primi anni Novanta, vennero a diverso titolo – civile, amministrativo, penale – perseguiti ai diversi livelli oltre 18 mila amministratori di banche e manager finanziari, e oltre 2mila professionisti della finanza vennero sanzionati dai regolatori pubblici finanziari e dai tribunali federali, statali e di contea A 5 anni dalla crisi Lehman, la SEC ha finora perseguito solo 198 manager bancari e della finanza. Ma a beccarsi anni e decenni di prigione sono i Bernie Madoff, gli outsider della grande finanza organizzatori di banali catene di sant’Antonio. I fat cats. i banchieri dagli opimi bonus multipli sino a mille o duemila volte il salario medio e mediano dei loro dipendenti, sono stati appena scalfiti.

Se infine volete un consiglio e intendete approfondire fuori dai luoghi comuni, comprate su Amazon Bad History, Worse Policy: How a False Narrative About the Financial Crisis Led to the Dodd-Frank Act di Peter Wallison, un ricercatore dell’American Enterprise Institute che fin dal 2004, invano, tentò di mettere in guardia dal disastro che sarebbe avvenuto per gli errori dei regolatori che si credevano onniscienti, e che smentisce con penna acuminata i luoghi comuni con i quali la politica ci dice che abbiamo riparato ai danni.

13
Set
2013

Costituzione: l’art.138 e la riforma della Bibbia

Prima e dopo l’approvazione dell’istituzione del Comitato per le riforme costituzionali abbiamo visto e letto di tutto. «Riforma piduista», «stupro della Costituzione», «colpo di mano», persino comitati di cittadini che scrivono lettere ai defunti: «caro Sandro Pertini, nei prossimi giorni ci sarà la fine dell’Italia: verrà cambiata la Carta Costituzionale». Antonio Padellaro, direttore del Fatto quotidiano, che ha lanciato la raccolta firme contro il ddl ha scritto: “di chi è la Costituzione della Repubblica? Prima di tutto di chi l’ha realizzata, proprio come fosse un grande monumento o un capolavoro dell’arte (non è stata forse definita “la più bella del mondo”?). I Costituenti l’hanno affidata al popolo italiano poiché a esso appartiene “la sovranità” che esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E poi Rodotà, Zagrebelsky, i parlamentari grillini col megafono sul tetto della Camera come si fa nelle occupazioni liceali. I sacerdoti della Bibbia laica difendono le tavole della legge che i Padri Costituenti hanno donato al proprio popolo, e in particolare si oppongono al tentativo di manomissione della «valvola di sicurezza» della Costituzione, cioè l’art.138.

In effetti il testo approvato alla Camera riduce i tempi (da 90 a 45 giorni) della doppia votazione di revisione, ma prevede un meccanismo di garanzia che nessuno dei protestatari ricorda: con la cosiddetta procedura in deroga all’art.138, le modifiche costituzionali verranno sottoposte a «referendum popolare – dice l’art.5 del ddl – anche qualora siano state approvate nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi». Sarà sufficiente  che ne facciano richiesta un quinto dei parlamentari, o cinquecentomila elettori, o cinque consigli regionali. In pratica la stessa procedura prevista dall’art.138, ma rafforzata: la possibilità del referendum viene prevista anche in dopo un voto a maggioranza qualificata. Si tratta quindi di un’ulteriore garanzia che impedirebbe al “Parlamento dei nominati” di modificare la Costituzione contro il volere popolare, anche se per assurdo le modifiche venissero approvate con un voto all’unanimità (in quel caso basterebbero le 500mila firme del Fatto per indire un referendum).

In pratica si è fatto e si sta facendo molto rumore per nulla, tanto più che il Parlamento non ha fatto niente di rivoluzionario, riprendendo quasi alla lettera la legge 1 del 97, quella che istituiva la Bicamerale durante il governo D’Alema. Tralasciando i feticisti della Costituzione, la posizione più paradossale è proprio quella di Grillo e del M5S che da un lato criticano la Costituzione per essere «la terza gamba della dittatura partitocratica» (e lanciano V-day per la Nuova Costituzione partecipativa) e dall’altro fanno le barricate contro una procedura che lascia l’ultima parola ai cittadini, proprio nello spirito referendario e partecipativo che è una delle bandiera del M5S.

Come ha giustamente ha giustamente sottolineato Giovanni Guzzetta (promotore del comitato Scegliamoci la Repubblica che invece auspica una riforma presidenziale), molte posizioni sono solo strumentali e «hanno come unica finalità  quella di gridare al complotto. È paradossale che si contesti la fretta quando sono cinquant’anni che si discute di una riforma che non arriva. Io mi preoccuperei più di manovre dilatorie e non di un tentativo che dia certezza sui tempi. La Costituzione fu approvata in un anno e mezzo, che è esattamente lo stesso tempo previsto nel ddl». A parte la demagogia e il populismo dei partiti (e fin qui nulla di nuovo), ciò che sorprende sono le barricate degli studiosi e dei giuristi che sovrappongono le convinzioni politiche al giudizio tecnico. Si può essere contrari alle modifiche costituzionali, ma non si grida al complotto. Non è in corso nessun attentato alla Costituzione che anzi, molto probabilmente, rimarrà uguale a sé stessa anche questa volta.

13
Set
2013

Il programma OMT della Banca Centrale Europea è illegittimo ed economicamente sbagliato

Come contributo al dibattito, pubblichiamo la traduzione di questo appello di 136 economisti tedeschi, in risposta all’appello promosso a sostegno delle Outright Monetary Transactions in vista del giudizio della corte di Karlsruhe.

Alcune settimane orsono un consistente numero di “economisti di professione” europei e americani (comprendente un piccolo numero di docenti universitari tedeschi) ha diffuso una difesa pubblica dell’acquisto diretto di titoli di Stato da parte della BCE (Outright Monetary Transactions). I firmatari di questo appello (136 docenti tedeschi di economia) ritengono che le argomentazioni avanzate dai sostenitori delle politiche di OMT non siano valide. Inoltre, siamo dell’opinione che tale acquisito di titoli da parte della BCE sia illegittimo.

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13
Set
2013

ILVA, in malora un pezzo di economia italiana. Politica imbelle e decreto Letta hanno le loro colpe

La notizia non è stata una sorpresa. Ma è scoppiata comunque come una bomba. L’ennesima, nella terremotatissima vicenda dell’ILVA di Taranto. Prima di riepilogare i fatti e il lungo braccio di ferro tra politica e magistratura sul caso ILVA, un’opinione secca. Succede quel che succede perché la politica italiana da vent’anni ha totalmente perso il bandolo di come intervenire sulle fattispecie penali e sui poteri ordinamentali della magistratura. Sappiamo tutti il perché. Ma la ferita che si è aperta negli anni sulle conseguenze di inchieste penali in materia di continuità d’impresa esiste solo in Italia. I magistrati assumono provvedimenti sulla base di una legislazione che moltiplica le fattispecie sulle quali i loro poteri cautelari sono molto estesi. E di volta in volta che se ne manifestano le conseguenze, la politica non riesce ad avere il senso della misura di dover correre ai ripari, perché significherebbe stare dalla parte dei “cattivi”. Succede anche nel caso ILVA. E così, nell’impotenza generale solcata da ondate di demagogia, si manda alla malora un pezzo intero e rilevante dell’economia italiana.
I fatti. Da oggi, il gruppo Riva ha messo in libertà circa 1.500 addetti che operano nelle 13 società riconducibili alla famiglia e oggetto del sequestro di beni e conti correnti per 916 milioni di euro operato tre giorni fa dalla Guardia di Finanza, nell’ambito dell’inchiesta tarantina per disastro ambientale. Cessano tutte le attività dell’azienda esterne al perimetro dell’ILVA, in tutta Italia. Chiudono gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco), chiudono i servizi energetici e i trasporti aziendali. Chiudono per il sequestro di 8,1 miliardi di cui quello di tre giorni fa era una tranche, sequestro disposto il 24 maggio scorso dalla magistratura tarantina, pari al valore del disastro ambientale stabilito dai periti della Procura. Un sequestro appunto compiuto dovunque le società del gruppo offrano la possibilità ai magistrati di eseguirlo, per liquidità, immobili o cespiti. Sequestrare i saldi attivi di conto corrente significa bloccare le attività bancarie, e noi non possiamo più pagarvi, dicono i Riva a dipendenti e sindacati. Giornali e politica lo prendono come un ricatto. Invece, è un fatto.
Ed eccoci tornati a 14 mesi fa, quando i primi interventi della magistratura rischiarono di provocare non la bonifica, ma la chiusura dell’ILVA a Taranto. Con la differenza che a insorgere adesso sono non solo i dipendenti senza lavoro disseminati in tutta Italia, ma anche la politica del Nord, con Flavio Tosi e il presidente del Piemonte Cota che immediatamente alzano la voce a difesa degli impianti. In un modo che anch’esso è peculiare dell’Italia, perché rivela che la politica e anche il Nord scoprono gli effetti negativi solo quando se li ritrovano in casa.
Per dare un giudizio su ciò che avviene, purtroppo bisogna fare un passo indietro. Era il 26 luglio 2012, quando Emilio e Nicola Riva e 6 dirigenti dell’ILVA di Taranto furono arrestati. A ottobre, il governo Monti e il ministro Clini rilasciarono una nuova e più accurata Autorizzazione Integrata Ambientale, perché le emissioni e le polveri a Taranto fossero messe in regola con opportuni investimenti. Era novembre, quanto i magistrati tarantini disposero altri arresti, per Fabio Riva e il direttore dell’acciaieria. A dicembre il governo Monti intervenne con un decreto ad hoc, convertito in legge e che per paradosso si chiama legge 231 del 2012. Come 231 è il numero decreto legislativo del 2001 che estende alle persone giuridiche, cioè alle imprese, le responsabilità per i reati commessi dalle persone fisiche che vi operano, cioè lo strumento principe con cui i magistrati operano in questa vicenda.
La legge 231 del 2012 venne chiamata “salva-Ilva”, perché nasceva proprio dalla necessità di non interrompere la continuità dell’acciaeria di Taranto, per effetto dei sequestri degli impianti disposti dai magistrati. Ma i magistrati la considerarono incostituzionale. E la Corte costituzionale invece la confermò, nell’aprile 2013. A maggio, contro il parere della Procura, il Riesame dissequestrò i semilavorati e le materie prime dell’acciaeria, garantendole l’operatività, sia pure ridotta a due soli altiforni perché altrove si lavora alla bonifica. Una settimana dopo, la Procura sequestra ad Adriano ed Emilio Riva 1,2 miliardi. Due giorni dopo, i magistrati dispongono il sequestro di ben 8,1 miliardi di euro, intervenendo su tutto il perimetro delle società controllate in Italia dalla holding, non sull’acciaeria di Taranto. Questa volta non intervengono con la 231, né quella del 2001 né tanto meno quella del 2012, ma si fanno forza dell’articolo 2359 del Codice vivile sul coordinamento e il controllo delle società. E nel frattempo il governo Letta interviene il 4 giugno scorso con un altro decreto, di segno opposto rispetto a quello del governo Monti. E’ un decreto del quale si è mormorato che lo stesso Quirinale, pressato dalla magistratura, avesse dato il benestare preventivo, per un “cambio di segno” rispetto agli interventi del governo Monti e del ministro Clini, considerati troppo “filo-azienda”. Un decreto che fa stato del nuovo sequestro di 8,1 miliardi ai Riva disposto dai magistrati, e stabilisce norme di commissariamento per tutte le eventuali imprese sopra i 200 dipendenti la cui attività produttiva comporti pericoli per ambiente e salute. Il commissariamento pubblico potrà così sostituirsi agli organi di amministrazione, con contestuale sospensione dell’assemblea dei soci. E assumere su di sé, tramite un commissario, tutti i poteri e le funzioni per un massimo di ben 3 anni, senza rispondere di eventuali diseconomie a meno che non abbia agito con dolo o colpa grave. E’ sulla base di questo decreto, che conferma ed estende in maniera inusitata la sospensione dei diritti di proprietà, che il ministro Zanonato parla ora di commissariamento complessivo non più solo di Taranto – dove nel frattempo anche i nuovi manager espressi dai Riva sono stati travolti e arrestati anch’essi – ma dell’intero gruppo Riva in Italia.
Lo so che tirare le fila di tutta questa vicenda è lungo. Ma dà l’idea del punto essenziale. L’Italia è l’unico Paese avanzato ad avere forti problemi ambientali per impianti siderurgici ed energetici di vecchio tipo? No, basta conoscere la realtà di nazioni come Germania e Polonia per sapere che non è vero. Eppure, è l’unico paese avanzato in cui l’ordinamento consente che, per misure cautelari disposte dalla magistratura cioè fuori dal contraddittorio,venga profondamente intaccata la continuità aziendale, fino a farla cessare se si dispone il sequestro di liquidità e conti bancari.
Qui non si tratta di difendere i Riva, o di sottovalutare responsabilità gravi e gravissime loro contestate, che devono essere giudicate in Tribunale sul rispetto delle normative ambientali, e sulla corruzione delle stesse autorità pubbliche locali chiamate a farle rispettare. Si tratta di assumere un elementare principio di buon senso: scrivere norme precise e chiare, che separino le responsabilità penali personali, le integrino con le responsabilità delle aziende a integrare gli investimenti e a procedere alle bonifiche, rispetto invece alla messa a morte delle stesse imprese, alla perdita di lavoro, reddito e crescita.
Il gruppo Riva era il secondo europeo e l’undicesimo al mondo negli acciai, l’intera manifattura italiana se ne serviva. Dopo 14 mesi di braccio di ferro tra magistratura e politica, con quest’ultima incapace di scrivere norme diverse da quelle che “obbligano” i magistrati a colpire dovunque la legge lo consenta, siamo riusciti a mettere in ginocchio non solo il gruppo Riva e chi ci lavora, ma ad aggravare l’ntera crisi dell’acciaio italiano nel mondo, come giustamente protesta il presidente di Federacciai, Gozzi. E come se ce ne fosse bisogno, in un paese che è già in ginocchio di suo.
E tutto questo perché la politica, alla sola idea dell’impopolarità rispetto alle conseguenze dell’inquinamento tarantino su salute e sicurezza, dimentica che era lo Stato ad aver realizzato l’impianto così e ad averlo portato a fallimento. E preferisce non sfidare la protesta di chi vorrebbe, impossibilmente, che le aziende continuino a produrre nello stesso frattempo in cui vengono messe in ginocchio.
E’ una politica così, a portare a fondo l’Italia.