27
Set
2013

Un paese formato Barilla?

Le parole di Guido Barilla sulla famiglia tradizionale e le coppie gay hanno destato una vasta discussione e addirittura un’iniziativa di boicottaggio delle sue produzioni. Le reazioni da parte della comunità omosessuale e di coloro che condividono la battaglia per l’equiparazione dei diritti sono comprensibili, anche se forse eccessive. Barilla può essere un paradigma del paese? Cosa direbbero un sindacalista, un industriale, un magistrato, un politico al posto suo?

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26
Set
2013

Sorpresa, nell’auto a guadagnare più di Usa e Asia è l’Europa. Naturalmente non noi, ma i tedeschi

Se guardiamo al grande salone di Francoforte con l’occhio italiano, probabilmente capiamo poco e ci sentiamo pesci fuor d’acqua. Concept cars come quelle presentate, da Audi Quattro,da Lexus, dai “cinesi” di Volvo con il coupé o la Opel Monza, il trionfo di auto ibride e iperconnesse che dominano negli oltre 70 tra nuovi modelli e restyling presentati al salone, sembrano lontani parsec più che annui luce dalla nostra sconfortante situazione nazionale. Eppure, a guardare la realtà per quella che è e non attraverso il filtro dello sconforto che grava sull’Italia, l’ottimismo e la vitalità respirati a Francofrte sono fondati. Eccome.
Diamo un’occhiata ai numeri, come sempre. E’ vero, le vendite in Europa anche nel 2014 non dovrebbero superare se non di pochissimo quota 12 milioni, rispetto ai 12,6 del 2012, e ai 16 milioni del pre-crisi. Anche gli osservatori più ottimisti, come IHS Automotive., non si spingono, nella ripresa a venire, oltre quota 14,8 milioni di unità vendute, ma nel 2020. Gli ultimi dati congiunturali vedono nei primi 7 mesi del 2013 le vendite in Ue scese di un ulteriore 5% sullo stesso periodo del 2012 e, a parte il boom britannico in corso per la solida ripresa, tutti stanno maluccio: dal -7% tedesco al -10% francese, al -12% dell’Irlanda, al -9% italiano.
Quel che negli ultimi mesi inizia a concretizzarsi è però una diversa velocità di uscita dalla crisi. Mentre in Italia anche agosto su luglio ha registrato un meno 2%, in Spagna e Portogallo il miglioramento è stato del 17%, in Grecia del 13%, in Irlanda addirittura del 163%.
Se esaminiamo i risultati delle case automobilistiche sul mercato europeo, in 7 mesi Volkswagen sta a 935mila unità vendute, Ford a 564mila, Opel 500mila. Poi, a scendere, in fila trovate Renault, Peugeot, Audi, Citroen, BMW e Mercedes prima di arrivare a Fiat, decima con 364mila unità. In testa alla lista nera dei brand che hanno perso di più, ancora una volta Alfa Romeo con il 32% di venduto in meno sul 2012, e dopo Lexus viene terza la Lancia, con- 24%.
Eppure, dopo questo bagno di realismo – anzi di umiltà, per i risultati di Fiat – sono ragionevolmente sicuro che molti di voi resteranno perplessi, nell’apprendere un dato. Io, almeno, l’ho controllato per bene, perché lì per lì mi sembrava eccessivo, viziato evidentemente come sono anch’io dai guai nostrani.
Un recente rapporto di Alix Partner ha rimesso in fila i profitti operativi nel mondo realizzati della case automobilistiche per macroarea di appartenenza, da metà degli anni Novanta ad oggi. Tra il 1995 e il ’99 eravamo ancora nella Golden Age dei grandi gruppi americani, con 71 miliardi di dollari di profitti cumulati rispetto ai 45 miliardi delle case europee, e ai 57 di quelle asiatiche. Tra il 2000 e il 2004 l’America inizia a piantarsi – i suoi profitti dell’auto scendono a 43 miliardi – e l’Asia decolla, toccando quota 133 miliardi. Mentre le case europee salgono anch’esse, ma a 67 miliardi. Nel 2005-09 avviene lo tsunami della crisi, che travolge l’America con 138 miliardi di perdite. Ma, sorpresa, in quegli anni le case europee guadagnano eccome: la bellezza di 99 miliardi di dollari. Mentre quelle asiatiche salgono ancora, a quota 136 miliardi di profitti.
Se poi guardiamo infine agli anni 2010-2012, ultima sorpresa: i produttori europei passano in testa, salgono a 116 miliardi di dollari di utili rispetto ai 100 miliardi dei produttori asiatici, e ai 46 delle case statunitensi, in recupero dopo il grande salvataggio con 80 miliardi di dollari decisi da Obama e messi dal contribuente americano. In altre parole., tra 2010 e 2012 le case europee hanno guadagnato nel mondo più di quanto avessero fatto nell’intero decennio 1995-2004.
Ecco, questi sono i dati finanziari che spiegano la forza, l’ottimismo e il profluvio di novità a tutti i livelli presentati e visti a Francoforte
Ovviamente e purtroppo per noi mentre bene per loro, l’86% dei megaprofitti nel mondo dei costruttori europei si concentra nei tre soli giganti tedeschi: VW, BMW, Mercedes. Tutti gli altri, sono semplicemente in diversi tratti di un percorso di razionalizzazione della produzione e di riposizionamento su segmenti e mercati, di ottimizzazione delle catene finanziarie e distributive. Erano troppo esposti su mercato europeo che si è più contratto, erano in ritardo sul dislocare produzione in Cina e investire nella distribuzione locale, non avevano una copertura di segmenti che dal più alto – dove si guadagnano più margini – garantisse negli anni risorse per investire. La forza nell’auto di tedeschi era e resta quella, triplice. Dovunque nel mondo, completi di gamma e soprattutto forti in quella alta, e mai saltare un ciclo di profitti reinvestiti.
Gli stabilimenti tedeschi sono sono interessati dalla sovraccapacità inutilizzata che continua a essere il problema irrisolto delle altre case europee -. americane comprese, visto che Ford in Europa ha perso 1,8 miliardi di dollari nel 2012 e altrettanti o poco meno me perderà in questo 2013, mentre GM è scesa a un ritmo di mezzo miliardo di perdite annue da 1,4 nel 2012. Solo 42 degli oltre 100 maggiori stabilimenti d’auto europei viaggiano oggi oltre il 45% di capacità utilizzata, mentre bisogna essere almeno oltre il 75% per guadagnare. Se consideriamo i 160 stabilimenti complessivi, 85 di essi sono sotto la quota del break even ,secondo IHS Automotive. Ed erano 74 nello stesso periodo dell’anno scorso, quindi la situazione sta ancora peggiorando. Per il ritardo profondamente radicato in Italia, Francia e altrove, nel comprendere che è meglio consentire alle case automobilistiche di razionalizzare al più presto impianti e processi produttivi, invece di credere che basta tenerli aperti coi sussidi pubblici perché tornino a guadagnare. E’ una sciocchezza, ma la politica e i sindacati credono che sia sciocco tornare a guadagnare più in fretta per investire, distinguendo il sostegno a chi perde lavoro nell’auto – sacrosanto – con la difesa di impianti che vanno semplicemente chiusi.
Nel frattempo, tifiamo ovviamente per il buon esisto dell’ascesa di Fiat in Chrysler. Ma di qui a credere che Alfa Romeo tornerà addirittura oltre quota 300 mila unità vendute entro il 2016, è altro paio di maniche.

25
Set
2013

Telecom Italia: la privatizzazione dimezzata

La vicenda Telecom-Telefónica domanda diverse chiavi di lettura. Un primo e più generale livello, attinente alle lezioni per il nostro sistema economico nel suo complesso, è stato analizzato magistralmente da Oscar Giannino: non siamo di fronte a una sconfitta del mercato, ma piuttosto alla sconfessione di quel peculiare modello di capitalismo di posizione e di relazione che ha trovato in Italia il suo habitat naturale.

Un secondo interrogativo – sul quale molti degli osservatori hanno concentrato la propria attenzione – riguarda le prospettive industriali del controllo spagnolo. Le preoccupazioni sulle sinergie e sulla capacità d’investimento che Madrid potrà (o vorrà) mettere in campo sono legittime: a patto di confrontarle non con un’inesistente figura di operatore benevolo e in salute bensì con la concreta esperienza della Telecom di sistema, espressione di un desiderio di controllo più che di un’idea di sviluppo del mercato delle telecomunicazioni.

Il che ci porta a una terza questione: il dibattito stucchevole e un po’ peloso sulla nazionalità delle aziende. Fa sorridere che – proprio in un settore come quello delle tlc, che ha sperimentato per anni i benefici degli investimenti esteri – trovi trazione la demagogia sul passaporto delle imprese, depositaria di un duplice equivoco: da un lato, l’idea che lo straniero miri a depredare il nostro tessuto produttivo e non, più banalmente, a diventarne parte e in qualche misura sfruttarlo per fare profitto; dall’altro, la credenza mistica che il controllo italiano automaticamente allinei la strategia dell’azienda all’interesse nazionale, qualsiasi cosa tale espressione significhi.

Quarto: in questo senso, la favola dell’italianità si rivela per quello che è: una patente di contiguità al potere: meglio l’italiano dello spagnolo – ma meglio lo spagnolo di messicani e americani – perché più vicino al palazzo, e più influenzabile dalle sue direttive. L’abdicazione degli investitori nazionali in Telco si può leggere, allora, come la conclusione di un processo di privatizzazione sostanzialmente incompiuto, una lunga stagione in cui numerosi e variegati strumenti – il “nocciolo duro”, la golden share, l’immoral suasion, le minacce di ripercussioni regolamentari, le promesse di rinazionalizzazione – hanno preservato il legame tra l’azienda e la politica, talora oltre il dato formale della sua natura privata e sempre oltre il livello di guardia dell’ingerenza pubblica.

Infine, è auspicabile che il passaggio di mano di Telecom possa contribuire all’igiene del dibattito e alla salubrità del contesto competitivo: politica e opinione pubblica dovranno smettere una volta per tutte di trattare come cosa loro un’azienda privatizzata da oltre quindici anni e, per altro verso, interventi regolamentari e para-regolamentari (si pensi al paventato ruolo della Cassa depositi e prestiti) si potranno valutare nel merito, senza alcuna logica di squadra e senza alcuna esigenza di tutela del campione nazionale. Nulla impedisce che Telecom Italia dimostri sul mercato di essere ancora un campione, ma certamente non sarà più nazionale.

@masstrovato

24
Set
2013

Il giorno del giudizio sul capitalismo italiano

Il capitalismo di relazione è caduto? Sono finite le privatizzazioni all’italiana?

Forse è ancora presto per dirlo, ma indubbiamente oggi è un po’ il “giorno del giudizio” sul capitalismo italiano. Un giudizio negativo sia se si guarda al caso Telecom Italia, sia se si guarda dal lato del trasporto aereo.

Come ricorda Oscar Giannino su queste colonne “questa non è la sconfitta del mercato”, ma delle privatizzazioni all’italiana. Lo spiegavamo anni fa come sarebbe andata a finire Alitalia (qui) e forse sarebbe stato bene non buttare miliardi di euro per ritrovarci alla stessa casella di partenza.

Alitalia ha necessità di trovare almeno 300 milioni di euro per superare l’inverno, poiché la liquidità è finita e il periodo più complicato è proprio quello invernale. Nei primi sei mesi la compagnia dovrebbe avere perso circa 250 milioni di euro e dall’inizio dell’avventura del Piano Fenice le perdite totali superano abbondantemente il miliardo di euro.

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24
Set
2013

Alitalia e Telecom, fine ingloriosa delle “banche di sistema”. Ma non una sconfitta del mercato: a braccetto con la politica hanno operato fuori dalle sue regole

Dedicheremo una serie di post alle numerose e rilevanti problematiche connesse agli sviluppi in corso in Telecom Italia e Alitalia. Intanto, una primissima opinione per inquadrare le vicende.

Che lo Stato sia mediamente un cattivo azionista tendente al pessimo, per averne conferma non si avvertiva bisogno del ritardo che ha imposto a Finmeccanica per cedere Breda, Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, che ora si vorrebbero “girare” a Fintecna, cioè a CDP. Ma i nodi al pettine venuti in perfetta sincronia per Telecom Italia e Alitalia riguardano un altro versante. A finire ko sono le grandi operazioni realizzate dalle cosiddette “banche di sistema”: Intesa in Alitalia, ancora Intesa con Mediobanca e Generali in Telco, la holding che esercita di fatto il controllo su Telecom. E che il ko sia sincrono, si deve al fatto che in entrambi i casi le banche hanno ormai fretta di non accollarsi più sul bilancio di quest’anno le rituali perdite, accantonamenti per svalutazioni, né tanto meno hanno intenzione di partecipare a ricapitalizzazioni, più che mai necessarie alle due società.

E’ troppo presto per giudicare i mille problemi che sorgeranno intorno ai nuovi accordi che consegnano – in tempi di diversi mesi – la governance della compagnia aerea ad Air France, e di quella di tlc a Telefonica. In questo secondo caso, la vendita delle attività in Brasile e Argentina, il punto interrogativo sullo spin off della rete fissa e l’eventuale partecipazione in essa di Cdp, la necessità comunque di un aumento di capitale “vero” per sostenere i valori di avviamento, il braccio di ferro con l’Agcom sull’unbundling, la verifica della reale intenzione spagnola di investire soldi veri, stante l’elevato loro debito: sono ciascuno e non ancora tutti i grani del rosario che occorrerà dipanare.

Ma quello che intanto appare chiaro è che finiscono in polvere le operazioni varate anni fa dalle grandi banche italiane, a braccetto con una politica che aveva finito i soldi, ma non la voglia di impicciarsi: vedi i piani di Prodi sulla rete fissa, l’appoggio di Berlusconi a Passera, allora CEO di Intesa, e le molte confuse iniziative che la politica annuncia ora. Cedere anni fa Telecom ad ATT e Alitalia ai francesi avrebbe spuntato prezzi molto più elevati, e insediato padroni stranieri in entrambi i casi, ma allora molto più desiderosi e capaci di investire.

Invece la retorica ha portato a perder tempo e denaro. Storicamente, è tramontato prima lo Stato padrone, poi i capitani coraggiosi, infine le banche con le loro cordate eterogenee e irrisolte a spingere i manager a fare tutto il necessario. C’è solo da sperare che i tanti ora a piangere sulla lesa italianità ricordino bene, in quanti hanno fallito la prova dell’efficienza, tra pubblico e privato. Ma ricordino anche e soprattutto che “questa” non è una sconfitta del mercato. Perché ai privati è stato consentito di operare troppo spesso come allo Stato, cioè “fuori dal mercato”: quasi sempre senza OPA, come puntualmente ancora una volta avviene anche oggi, cioè disconoscendo per i soci di minoranza il premio al controllo incamerato prima e bruciato poi da chi l’ha di fatto esercitato; con azionisti che hanno consentito – o imposto – per anni ai manager di non assumere decisioni obbligate, alla luce dell’insostenibilità crescente di redditività in calo, goodwill stratosferici e ingenti debiti; e infine quasi sempre senza considerare il miglior vantaggio nella ricerca e nella scelta dei nuovi compratori, ma affidandosi a logiche relazionali e di collateralismo affaristico-politico.

24
Set
2013

Trasparenza è qualità della regolamentazione

Dalla recente scomparsa di Ronald Coase si può prendere spunto per evidenziare l’importanza della trasparenza nel processo normativo. Essa costituisce, infatti, il mezzo essenziale per realizzare e dare pubblica evidenza all’analisi di costi e benefici anche in detta sede. Nel nostro ordinamento gli strumenti preposti a tal fine, anche se come si vedrà non efficacemente utilizzati, sono l’analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR), da effettuare nella fase antecedente l’adozione della norma, e la verifica di tale impatto (VIR), da condurre ex post (vedi qui per i principali provvedimenti in materia), nonché la misurazione degli oneri amministrativi (MOA). Essi trovano il proprio fondamento in quanto di seguito esposto.

 

Si è già qui rilevato come la trasparenza sia sempre più importante in ogni ambito amministrativo. Anche con riguardo all’attività di produzione normativa, la trasparenza e, dunque,  la conoscenza completa e condivisa di ogni azione che dispieghi sulla collettività i propri effetti è necessità che si impone con sempre maggiore evidenza. Da un lato, essa consente agli interessati di esercitare un controllo sulla gestione svolta da parte dell’autorità, contribuendo all’accountability di chi di volta in volta sia titolare del potere regolatorio, legittimandone la funzione e sostanziandone la responsabilità per le decisioni adottate. Dall’altro, profilo non meno rilevante, permette la partecipazione dei cittadini alla valutazione dei presupposti nonché delle conseguenze delle scelte di regolamentazione, facendoli sentire, oltre che più coinvolti, meglio salvaguardati. Un processo di rule making in cui, anche a mezzo di consultazioni, vengano portati alla luce e resi, appunto, trasparenti non solo gli interessi dei destinatari dei provvedimenti, ma anche gli obiettivi perseguiti, le modalità operative e i criteri adottati dal regolatore, giova alla collettività così come alle istituzioni. Elimina asimmetrie informative, favorisce l’adeguata ponderazione delle esigenze dei soggetti potenzialmente coinvolti, risolve preventivamente eventuali conflitti, evitando che sfocino in contenzioso, scongiura l’emanazione di regole i cui costi stimati sopravanzino i benefici attesi e permette la cancellazione di quelle superflue o inefficaci. Qualora i principi descritti non vengano rispettati, un’attività normativa così strutturata consente di trarne le adeguate conseguenze: dalla trasparenza del processo alla pubblicità dei risultati, il circolo è virtuoso.

 

La trasparenza è, dunque, funzionale a una regolamentazione che trovi nella “qualità” il proprio essenziale connotato. Quest’ultima si concreta nella scelta più efficace in relazione ai fini fissati; più efficiente, quindi idonea a realizzare gli interessi maggiormente rilevanti in presenza di risorse limitate; più flessibile, cioè tale essere facilmente modificata con l’evolversi delle esigenze considerate; più proporzionata, in quanto bilanciata ai bisogni da soddisfare, tale cioè da non incidere nella sfera giuridica degli interessati in misura superiore rispetto a quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo previsto. Ma la qualità è caratterizzata anche dalla semplicità: in senso formale, come comprensibilità che ne agevoli l’interpretazione e l’applicazione; in senso sostanziale, come scelta della soluzione meno gravosa per coloro nei cui riguardi produce effetti; in senso quantitativo, come eliminazione di norme non coerenti o ridondanti rispetto a quelle già esistenti. Una normativa di qualità, e dunque anche semplice nel senso esposto, semplifica a propria volta ogni ambito da essa disciplinato. In particolare, trovando, come si è detto, il proprio cardine nella misurazione degli adempimenti imposti e nella comparazione tra vantaggi realizzati e svantaggi sopportati, essa costituisce elemento essenziale per sfrondare un’azione pubblica barocca in gran parte delle sue espressioni. Infatti, solo la quantificazione del reale costo di un processo o di un obbligo imposto al privato nei riguardi dei pubblici poteri può far sì che la semplificazione amministrativa non resti un’intenzione meramente proclamata e divenga, invece, un’azione concretamente perseguita.

 

E’ stato evidenziato in varie sedi, (tra le altre, Banca d’Italia) che la stratificazione e, quindi, la sovrabbondanza di disposizioni e di oneri dalle stesse dettati, al di fuori di un quadro definito di coerenza dell’insieme, oltre a produrre complicazione normativa e amministrativa, è causa di indeterminatezza interpretativa e applicativa e, conseguentemente, di tempi di attesa incerti per la risoluzione delle controversie; comporta aggravi burocratici per cittadini e imprese e appesantimenti operativi per l’azione pubblica. Disorganicità, scarsa conoscibilità e mancanza di chiarezza della regolamentazione introducono fattori di imprevedibilità delle relazioni economico-giuridiche e rendono il mercato ambiente sfavorevole alla competizione, ostacolando così lo sviluppo economico e scoraggiando gli investimenti nazionali e stranieri. Queste conclusioni vengono annualmente dimostrate anche mediante gli indicatori “Doing Business” elaborati dalla Banca Mondiale, che effettua misurazioni comparative delle normative che interessano l’impresa in una serie di Stati, al fine di valutarne l’attrattività con riguardo all’iniziativa economica privata. Dal rapporto 2013, in cui ancora una volta l’Italia si trova in posizioni non lusinghiere, emerge non “vi siano dubbi che il posizionamento italiano rifletta un ambiente amministrativo oggettivamente meno favorevole all’attività d’impresa rispetto ad altri contesti simili anche per tradizioni giuridiche/amministrative” (I. Visco). Soprattutto in periodo di crisi, dunque, la qualità della regolamentazione, così come la trasparenza delle procedure necessarie a realizzarla, acquista una rilevanza ancora maggiore poiché, producendo semplificazione delle regole, riduce oneri e costi. E’, pertanto, evidente come essa assurga a oggetto di interesse pubblico autonomo rispetto ai fini di volta in volta perseguiti dalle varie normative di riferimento, dati gli effetti positivi che induce e può addirittura essere annoverata tra gli strumenti da utilizzare per incoraggiare gli investimenti (anche stranieri) nel nostro Paese (ed è un peccato che tale potenzialità non sia stata evidenziata nel programma “Destinazione Italia” da poco approvato dal Consiglio dei Ministri).

 

L’attuazione di politiche di better regulation, e, in particolare, il legame tra sviluppo e policy volte a migliorare la “qualità delle leggi” è tema da tempo trattato in sede europea e nazionale. Nel 1995, l’OCSE ha avviato un progetto denominato Regulatory Reform, al fine di realizzare una campagna di review dei processi normativi degli Stati europei e alleggerire cittadini e aziende da prescrizioni inutili e onerose, favorendo processi di liberalizzazione e deregolamentazione. Ha, quindi, elaborato una prima definizione internazionale di principi di buona regolamentazione nella Checklist for Regulatory Decision-making. Le domande ivi poste delineano una metodologia articolata in fasi, contenente i criteri cui va improntato un processo di rule making idoneo a semplificare le norme, a ridurre gli adempimenti e i costi amministrativi e a favorire un ambiente concorrenziale. Nella stessa ottica, e dunque al fine di stimolare la competitività e il dinamismo delle imprese, con l’“Action Programme for Reducing Administrative Burdens in the European Union”, COM (2007), nel quadro della Strategia di Lisbona, l’UE ha posto agli Stati membri l’obiettivo della riduzione del 25% degli oneri burocratici presenti nei rispettivi ordinamenti entro il 2012. Lo specifico metodo di misurazione degli oneri suddetti è lo EU-Standard Cost Model (la già citata MOA): nato in Olanda, consente di quantificare i costi sostenuti dai destinatari della regolazione per assolvere agli obblighi da essa imposti.

 

A seguito degli indirizzi fissati dal Consiglio Europeo, l’Italia ha avviato in modo sistematico la suddetta misurazione sulla base di uno specifico Piano di azione, seguito dalla legge c.d. Taglia-oneri (d.l. 2008/112). La MOA ha consentito di rilevare, secondo le stime del Dipartimento per la Funzione Pubblica pubblicate nel maggio 2012, costi burocratici pari a oltre 26 miliardi di euro in otto aree di regolazione (lavoro e previdenza, prevenzione incendi, paesaggio e beni culturali, ambiente, fisco, privacy, appalti, sicurezza sul lavoro). I risparmi associati agli interventi di riduzione approvati in base agli esiti della citata misurazione sono stati calcolati in oltre 8 miliardi (circa il 30,5% dei costi misurati). Un nuovo programma per la misurazione degli oneri amministrativi (periodo 2012-1015), dati gli effetti positivi di quello precedente, è stato sancito dal d.l. n. 5/2012 (c.d. decreto semplificazioni). La stima di detti oneri assume, dunque, un’importanza rilevante, consentendo, attraverso la semplificazione, di ridurre adempimenti ultronei e, quindi, costi. Tale semplificazione, alla stregua di quanto avviene in altri Paesi, costituirebbe, se seriamente e sistematicamente perseguita, uno strumento alternativo all’erogazione di finanziamenti pubblici per un ammontare pari ai risparmi realizzati: ciò senza alcun aumento di spesa, ma anzi eliminando elementi distorsivi del mercato e producendo effetti positivi per l’intero sistema.

 

L’Ocse ha più volte rilevato come la stratificazione di regole (regulatory inflation) e i costi amministrativi (compliance cost) e burocratici (red tape) da esse indotti costituiscano fattori determinanti per la crisi di competitività in una serie di Paesi. Sull’impulso degli studi effettuati in tale sede riguardo alle semplificazioni normative/amministrative (vedi ad esempio qui, qui e qui) sono stati elaborati, prima in ambito europeo e poi nazionale, vari strumenti cui improntare una law making decision policy. Nell’ordinamento italiano essi si sono concretati nelle citate AIR e VIR.

 

Introdotta in via sperimentale nel 1999 (l. n. 50) per gli “atti normativi adottati dal Governo e di regolamenti ministeriali o interministeriali”, nel 2003 (l. n. 229) l’AIR è stata estesa alle Autorità Indipendenti, nel 2005 (l. n. 246, attuata con DPCM n. 170/2008) è stata resa obbligatoria. L’analisi d’impatto della regolamentazione è cardine della better regulation e rappresenta il regulatory policy instrument che garantisce, attraverso procedure trasparenti, il miglioramento della qualità della regolazione, nel perseguimento della sua semplificazione. L’AIR, infatti, è diretta a consentire una stima preventiva degli effetti (vantaggi/svantaggi) che un progetto normativo produce sui suoi destinatari: parte dalla valutazione delle informazioni circa il contesto, gli interessi rilevanti, le priorità e i fini perseguiti, correlando il risultato di tale valutazione alle conseguenze della regolazione adottata. Evita così al policy maker di assumere provvedimenti di scarsa utilità e lo indirizza verso soluzioni il meno possibile onerose rispetto agli obiettivi prefissati. Nell’ambito di una serie di opzioni di regolazione (ma anche di non-regolazione, considerato che l’opzione c.d. zero è il non-intervento, ciò che Montesquieu così aveva riassunto: “quando non è necessario fare una legge, allora è necessario non farla”), l’AIR serve a restringere il numero di quelle rilevanti fino ad arrivare alla scelta ritenuta migliore. La verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR), introdotta formalmente nel 2009 (DPCM n. 212) consente, invece, di misurare il conseguimento dei risultati attesi, al fine di dare coerenza al processo di regolazione e chiuderne il cerchio. E’ evidente come in tale processo la MOA rappresenti un momento essenziale per entrambe le attività di analisi e valutazione di impatto. Infatti, se pure inizialmente concepita in sede europea e nazionale, come visto, per la fase ex post, cioè per individuare adempimenti eccessivi e onerosi prescritti da leggi già esistenti, al fine di liberare risorse utili allo sviluppo, essa risulta fondamentale anche ex ante, durante lo svolgimento dell’AIR, poiché idonea a consentire una ponderazione comparata degli interessi da soddisfare e degli oneri da imporre al fine di addivenire alla regolamentazione più efficiente. La verifica successiva (tramite la VIR e avvalendosi della MOA) degli effetti prodotti dalle norme emanate nonché del raggiungimento delle finalità tramite le stesse perseguite risulta oltremodo importante, laddove si consideri che l’AIR si basa su mere evidenze empiriche. Peraltro, solo una buona preliminare analisi d’impatto, effettuata mediante un’adeguata misurazione degli oneri connessi alle diverse opzioni, consente un efficace e concreto controllo successivo circa la realizzazione di quanto previsto.

 

Le norme in materia di AIR, di  VIR e di MOA, nelle quali l’ordinamento ha tradotto l’esigenza di trasparenza nella regolamentazione al fine del perseguimento della qualità nella stessa, sono oggetto di attenzione e aggiornamento. Si segnala, ad esempio, l’introduzione, a mezzo della legge 180/2011 (c.d. statuto delle imprese, che ha recepito le indicazioni contenute nello “Small Business Act” emanato dalla Commissione Europea nel 2008), del riferimento alla “necessità di assicurare il corretto funzionamento concorrenziale del mercato e la tutela delle libertà individuali”, quale elemento rilevante nelle individuazione e comparazione delle opzioni di regolamentazione. Sempre nella stessa legge viene evidenziata l’importanza delle consultazioni, richiedendo che prima dell’approvazione di una proposta normativa in materia di imprese debbano essere sentite le organizzazioni maggiormente rappresentative di queste ultime. Di grande rilievo è, inoltre, il principio di compensazione nel budget regolatorio, introdotto dalla legge citata e modificato dal menzionato decreto semplificazioni, che si sostanzia nella c.d. ‘‘one in one out rule’’, in forza della quale ai destinatari della regolazione non possono essere imposti oneri amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri. Eppure, il bilancio operativo dei suddetti strumenti di valutazione dell’impatto non è soddisfacente secondo l’Ocse, che ne ha considerato l’utilizzo in Italia in maniera approfondita e ad ampio raggio. L’organizzazione internazionale rileva, tra l’altro, che nel nostro Paese viene prodotto un numero forse eccessivamente elevato di documenti AIR a detrimento della qualità e, quindi, della sua efficacia e concreta valenza. L’AIR viene cioè trattata alla stregua di una qualsiasi formalità da espletare, non invece come mezzo per sostanziare e rendere efficiente ed efficace la scelta del decisore. Inoltre, essa non viene sempre svolta: è consentito possa essere evitata per la normativa adottata in via d’urgenza (in Italia, ormai, di prassi), com’è evidente dati i tempi rapidi che quest’ultima richiede, nonché per le proposte di legge particolarmente complesse, che per l’Ocse rappresentano le fattispecie in cui l’AIR sarebbe più opportuna, per cui occorrerebbe eliminare l’eccezione prevista. Poco praticato è, inoltre, il ricorso alle consultazioni pubbliche (che buona prova hanno dato nelle Authority, come ad esempio qui testimoniato): esse sono rimesse alla discrezionalità delle amministrazioni coinvolte e, quando non effettuate, il processo legislativo risulta privato degli elementi che per il loro tramite possono essere forniti. Peraltro, anche quando svolte, non vi è certezza che di quanto da esse emerge sia tenuto conto: non vi è un sito ove i risultati delle consultazioni concluse siano sistematicamente inseriti e, dunque, verificabili dagli interessati. Inoltre, carente risulta il sistema dei controlli sull’AIR, che la legge rimette al DAGL (Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri): peraltro, stante anche la valutazione Ocse, se quest’ultimo iniziasse a rimandare alle amministrazioni proponenti gli atti carenti di una buona analisi di impatto, forse finirebbe di fatto per bloccare l’attività del Governo (mentre in Europa l’Impact Assessment Board, IAB, che valuta la qualità delle AIR prodotte, richiede puntualmente modifiche nei casi in cui l’analisi non sia rispondente ai requisiti necessari).

 

Da quanto esposto, appare chiaro che l’AIR in Italia non è seriamente realizzata  (almeno a livello centrale per gli atti di regolazione primaria), sì che la trasparenza, esigenza teoricamente proclamata come necessaria dall’azione amministrativa a quella normativa, ancora una volta non risulta concretamente perseguita. Vengono così vanificati e non si traducono in risultati effettivi i benefici attesi, in precedenza evidenziati: l’emersione degli interessi dei destinatari della disciplina, il controllo da parte dei medesimi del procedimento seguito e delle azioni svolte, la scelta della migliore opzione normativa, la maggiore accountability del titolare del potere normativi. L’AIR, anziché strumento volto a garantire la qualità della regolamentazione mediante la valutazione di diverse opzioni normative, finisce così per divenire mera giustificazione di decisioni già prese sulla base di scelte politiche precostituite. Quanto alla VIR, non esistono obblighi temporali precisi al riguardo, mentre la MOA, nonostante i buoni risultati prodotti, continua a essere funzionale a risultati di breve periodo, di cui i governi di volta in volta interessati possano far vanto, e non invece a una programmazione di più lunga durata, tesa a operare con coerenza interventi di semplificazione progressivi, ma costanti.

 

Il quadro, come visto, è sconfortante. Se ormai è evidente che l’attuale stato della regolazione e gli oneri che essa pone rappresentano uno dei principali fattori che soffocano la crescita della nostra economia, peraltro producendo burocrazia e dunque corruzione (come qui si evidenziava), non si comprende perché non vi sia ancora un reale impegno a perseguire quella qualità normativa che, eliminando vincoli, libererebbe risorse per lo sviluppo e la competitività, senza il ricorso a sussidi né ad aggravi di spesa. Ogni onere ha un costo e lo si può misurare, ex ante oltre che ex post, perché non finisca per diventare eccessivo e, quindi, vessatorio. Gli strumenti ci sono e si declinano in termini di trasparenza: è ora di farli funzionare.

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

23
Set
2013

Ipotesi sul trionfo Merkel. Per l’Italia una buona chanche, se non ci suicidiamo

Al trionfo elettorale di Angela Merkel moltissimi masticano amaro, in Italia. A sinistra come a destra, come tra i grillini. In un Paese che stenta sempre più a riconoscere proprie responsabilità per una crisi che lo colpisce tanto duramente, avrebbe preferito tutt’altro risultato sia il più della politica italiana, sia i tanti che ormai parlano a gogo di uscita dall’euro come fosse bere un bicchier d’acqua. Eppure il trionfo della Merkel ma con un risultato aperto a diverse interpretazioni dovrebbe essere considerato come una grande chanche per l’Italia, se solo volesse giocarsi il semestre europeo di presidenza Ue nel 2014 nella condizione di “Paese in regola”, e non precipitato a disastrose elezioni.

La maggioranza assoluta dei seggi del Bundestag viene sfiorata dalla Merkel da sola. Allo stato, il conto dei seggi attribuiti a Cdu-Csu è di circa 311 su 630, contando quelli attribuiti con il secondo voto alle urne. Ciò la porta alle vette di grandi statisti come Adenauer. E’ alla Cancelliera, che viene comunque confermata la leadership della politica germanica. Rafforzandola, perché a nessuno può venire in mente di negare che la vittoria è sua e sua personale.

Il neonato movimento euroscettico “da destra”, AfD, non entra nel Bundestag. Soprattutto non è esploso raggiungendo quota 7 o 8%, e questo conta eccome. Per i liberali della FDP la débâcle è clamorosa e più prevedibile, per l’inconcludenza in questi anni, tanto al ministero dell’Economia che per le ondivaghe posizioni del partito. In ogni caso, la sconfitta della sinistra è netta. La Spd guadagna sul 2009 ma resta lontana dalla Merkel di circa 16 punti, e sia Verdi sia Linke, la sinistra estrema, perdono rispetto ad allora.

La differenza tra avere grandi partiti europei e non averli, come nel caso italiano, sta in un buon esempio: gli impegni assunti in campagna elettorale. La Merkel ha sempre escluso alleanze a destra con AfD. Mentre il leader sfidante della Spd, Steinbrück, ha sempre escluso alleanze con la sinistra estrema. Ciò che conta per loro è apparire credibili coi propri programmi di governo, non mettere insieme eterogenee alleanze che non reggono alla prova dei fatti, come da 20 anni avviene in Italia. Per questo oggi l’unica vera strada per il governo tedesco è la grande coalizione tra democristiani e socialdemocratici. Con la Merkel però in posizione di assoluta forza. Sarà una trattiva dura. Il presidente della Spd Sigmar Gabriel è uno tosto, non gli va affatto di ripetere l’esperienza 2005-09 in cui Schroeder spinse le riforme più incisive di finanza pubblica, welfare e mercato del lavoro, la Merkel ne incassò i benefici mentre la Spd perse un mare di voti a sinistra. La cancelliera può giocare la carta dell’alleanza coi Verdi, se le cose si mettessero male. ma la strada maestra è la grande coalizione. Che tenga conto  del senso generale di questo voto tedesco, ancorato a due pilastri: sì all’euro e all’Unione europea contro chi ne vuole uscire, ma sì anche a regole che evitino la messa in comune di debiti sovrani degli euromembri. Che cosa potrà cambiare nella politica economica europea, e per i Paesi eurodeboli come l’Italia? Molte cose, in realtà. L’euro non è affatto assicurato una volta per sempre. La stragrande maggioranza delle unioni monetarie sono fallite, nella storia. L’euro, una moneta diventata comune senza aver unificato davvero i mercati sottostanti e dunque con molte fortissime asimmetrie non autoequilibranti di prezzi, produttività, offerta di credito e via continuando, potrebbe benissimo anch’esso  rispettare la regola, invece di essere eccezione.

Eurobond. Richiesti da anni dall’Italia come dagli altri Paesi eurodeboli, non hanno possibilità di essere accolti. La Merkel ha chiuso la campagna elettorale escludendoli esplicitamente. Ma gli eurobond non solo l’unica soluzione possibile. Si può pensare invece ad affiancare agli euro criteri attuali – i tetti a deficit e debito ben noti, il pareggio di bilancio e il fiscal compact per il rientro dei debiti pubblici – nuove metriche che tengano in più conto la convergenza reale delle economie: a cominciare dall’andamento delle bilance di pagamenti per requilibrare l’eccessivo surplus tedesco, e la quota di investimenti pubblici e privati sul Pil. Certo, per avere i titoli per farlo magari è meglio che l’Italia sia in regola, che rischiare il commissariamento andando a nuove elezioni alla cieca.

Trattati. A Berlino sono molto freddi, sull’ipotesi di nuovi grandi accordi istituzionali. Prima vogliono vedere come gli eurodeboli applicheranno il fiscal compact -che obbliga a scendere dal 2015 ogni anno di un ventesimo dall’eccesso di debito pubblico oltre la quota del 60% di Pil – e il two pack – il criterio che abbiamo condiviso per il quale, dalla legge di stabilità da presentare in Parlamento entro poche settimane, ogni legge finanziaria degli euromembri viene esaminata a Bruxelles prima e non dopo che il parlamento lo approvi. La Bundesbank e la Corte di Karlsruhe già faticano molto a convincersi che i limiti degli attuali Trattati, dello Statuto della Bce e della GrundGesetz, la Costituzione tedesca, non siano già stati superati.

BCE. Anche per l’Eurotower, al di là dell’indifferenza ufficiale alla quale è tenuta, la grande coalizione tedesca è preferibile ad altre soluzioni. Per la Cancelliera, più che un aiuto sono state una spina nel fianco, le critiche – e le dimissioni dalla BCE – di esponenti dell’ala ortodossa della Bundesbank portate alla linea seguita da Draghi con le aste di liquidità LTRO e con lo scudo OMT – i due “capolavori” che hanno impedito all’eurocrisi di degenerare e la spingono lentamente a rientrare. Ma l’euroscetticismo alle urne comunque non ha sfondato. Il giudizio che stiamo attendendo in autunno della Corte di Karlsruhe non per questo sarà meno fermo nel porre “paletti al futuro”, per la BCE. Ma si abbassano le probabilità di bocciature su quel che è avvenuto in questi anni.

Unione bancaria. E’ il più delicato punto aperto, oggi. Il meccanismo di vigilanza unico europeo, incentrato sulla BCE, è stato deciso e votato. Ma restano da sciogliere i nodi di un fondo autonomo da mobilitare per finanziare gli eventuali interventi d’emergenza su banche “sistemiche” cioè transfrontaliere, al di là dei salvataggi eventualmente a carico delle finanze pubbliche nazionali e del coinvolgimento al loro fianco del mercato. Il ministro delle Finanze uscenti, Schauble, è notoriamente se non ostile moltop scettico su un fondo comune europeo. In realtà sarebbe necessario, per chi intende l’Unione bancaria come un passo verso l’Unione di bilancio e l’Unione politica. Senza uno strumento finanziario comune, la vigilanza comune della BCE sarebbe più forte e più omogenera di quella attuale affidata alle banche centrali dell’eurosistema a livello nazionale, ma anche meno credibile.

Il motore europeo. Nell’ultimo anno, il grande punto debole della tradizionale locomotiva europea, l’alleanza franco-tedesca, è entrato in crisi per via delle crescenti difficoltà e delusioni del presidente Hollande, a Parigi. La famiglia socialista europea si attendeva un grande ribilanciamento rispetto all’ortodossia germanica, dopo Sarkozy. Ma la prospettiva è presto sfumata. La Francia ha portato a casa uno slittamento del rientro dal suo deficit di bilancio, ma nulla per il riequilibrio di una crescita europea che – è diventato un mantra condiviso da socialisti europei e popolari “non tedeschi” – non può funzionare sul solo modello export led germanico. Londra, con il governo conservatore Cameron, si è insinuata nello spazio lasciato aperto, e recentemente ha vinto molte partite. Ecco lo spazio ideal-teorico per un’Italia coi conti in ordine a nome di tutti gli eurodeboli, se non saremo autodistruttivi come purtroppo le cronache di questi giorni lasciano credere.

La politica estera. E’ un punto debole, per la Merkel. Molti scambiano l’elasticità delle sue posizioni per non aver le idee chiare, e per questo anche da noi fiorisce una letteratura sullo “stile grigio” di Mutti Merkel. Al contrario, da grande politica ha assecondato negli anni il pensiero profondo della maggioranza dei tedeschi, dallo sposare un costosissimo mega piano di energie rinnovabili che ha tagliato l’erba sotto i piedi dei Verdi – e non credo li spingerà a collaborare con la Merkel – a un crescente isolazionismo mondiale, dopo che la Germania era stata in Afghanistan. L’Europa inesistente di questi anni nelle vicende mediorientali indebolisce tutti. Gli Usa ne sono molto delusi. E la Germania avrà bisogno fino a 200mila immigrati l’anno per reggere la sua curva demografica. Chissà se sapremo farci più intraprendenti e più furbi, invece di continuare a guardarci l’ombelico e a contare a migliaia i disperati che sbarcano sulle nostre coste.