14
Ott
2013

AliSulcis: perché non far andare gli aerei a carbone?

È difficile aggiungere altro sull’incredibile vicenda Alitalia, specie su questo blog, dopo gli interventi di Ugo Arrigo e Carlo Stagnaro. E visti i nugoli di critiche piovuti da ogni dove – personalmente vorrei condividere quella di Alessandro De Nicola – forse non ce ne sarebbe neanche bisogno. Certo, ci si sente quasi in dovere di dire: non fatelo, non nel mio nome (ecco: si potrebbe pure organizzare una bella raccolta firme). Oppure, si potrebbe tentare una serie di battute (generazionali) sugli interventi a sostegno tipo: prendere il mercato per una Royal Rumble, dove per continuare lo spettacolo entra sempre qualcuno. O ancora raccontare di qualche episodio di incredibile spreco visto di persona, da semplice viaggiatore.

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13
Ott
2013

Rifugiati e asilo, quote immigrazione, cittadinanza: a occhi liberali il nodo non è slogan reato-sì-reato-no

Purtroppo, continua il flusso di disperati verso le coste italiane, in fuga dagli “Stati falliti” africani e mediorientali – al Corno d’Africa e all’Africa subsahariana dal mail al Sudan si aggiungono siriani e afghani. La pessima novità è che il fenomeno, classicamente estivo, non si ferma neanche davanti ai marosi autunnali. E le vittime aumentano. La questione dell’immigrazione riesplode a ogni dramma, figuriamoci davanti a tragedie come quelle attuali, con centinaia di vittime in un giorno solo.

Ogni volta bisogna porsi un limite che dovrebbe essere ferreo: evitare la demagogia, gli scontri di bandiera, le parole d’ordine contrapposte. I temi epocali del nostro tempo su queste materie – i migranti, il diritto di asilo, quello di cittadinanza, la sicurezza di un’idea sempre più labile come quella delle frontiere, il respingimento e l’espulsione, l’integrazione nei diritti civili e amministrativi, le necessità dell’economia e la sua capacità in tempi di crisi – non si risolvono a colpi di slogan. Per tantissimi versi, è uno slogan anche quello molto politicamente corretto oggi, l’abrogazione del reato di clandestinità introdotto dalla Bossi-Fini. Anche se, a dirlo, si corre il rischio inevitabile di essere incapsulati nella camicia di Nesso di ogni confronto pubblico italiano, quello tra destra e sinistra che viene prima di ogni merito delle cose.

Qualche riflessione di merito, appunto, per dare sostanza a un paio di conclusioni diverse da quelle più ricorrenti. Se ci fermassimo al solo nodo del reato, è evidente che la sua prassi applicativa, risolta in archiviazioni di massa da parte dei magistrati e in sanzioni pecuniarie quasi mai pagate, dovrebbe portare alla rapida conclusione che non è il vero problema da affrontare. Ha avuto in questi anni più che altro l’effetto – comunque utile – di ispessire l’anagrafe documentale della recidività e dei comportamenti legati alla sottrazione dolosa dall’obbligo di espulsione e reimpatrio. Cose amare a fronte della tragedia umanitaria di migliaia e migliaia di esseri umani in fuga da violenza e miseria, ma comunque necessarie allo Stato.

Quelli che appaiono come veri nodi non hanno a che vedere con il giro di vite – reato e procedure di espulsione amministrativa – introdotte dalla Bossi Fini rispetto alla Turco-Napolitano. Non si risolvono neppure con le pur auspicabili misure in via di potenziamento europeo dopo l’ultima strage di Lampedusa, cioè il potenziamento di risorse del sistema comunitario Frontex, uomini e mezzi per la sorveglianza del Mediterraneo fin dalle coste dei paesi da cui partono le navi-madre degli scafisti e i barconi della morte. Misure necessarie – ripetiamolo – per contenere il fenomeno all’origine e per disporre di mezzi che limitino le vittime con più tempestivi salvataggi. Ma poi il problema resta, di migliaia di salvati dalle acque ai quali dare risposta all’approdo in Italia. Distinguiamo, allora, tre questioni diverse.

La prima riguarda il diritto di asilo. Nel solo ultimo ventennio, abbiamo avuto in Italia circa 350mila richieste, il doppio d quanto se ne fossero registrate dal 1946 agli anni Novanta. Qui sì che occorre un negoziato serrato con l’Europa. Abbiamo strutture – lo Sprar, servizio per i richiedenti asilo e rifugiati – molto sottodimensionati alla bisogna tra Stato ed Enti Locali. Abbiamo tempi troppo lunghi per esaminare le domande. E, soprattutto, grandi paesi europei hanno nel tempo sistematicamente praticato il respingimento di migranti verso l’Italia, in cui era stata registrata la loro domanda di asilo. E’ una prassi più volte condannata dalla Corte europea come dagli stessi tribunali nazionali, per esempio vi sono sentenze tedesche, ma sul diritto di asilo occorre oggi una convenzione europea – e ONU perché il problema dei rifugiati ricade in pieno nelle competenze sovranazionali del suo Trattato – che valichi le differenti leggi nazionali in materia di immigrazione. Perché è all’Unione europea, non all’Italia da sola, che l’asilante chiede il riconoscimento del suo status.

La seconda e la terza questione riguardano invece la nostra legislazione nazionale. Parliamo cioè delle quote d’immigrazione regolare e della cittadinanza: scinderle è un errore.

I flussi annuali con garanzia di lavoro in Italia, il consolidato dell’evoluzione da Turco-Napolitano a Bossi-Fini, sono il punto più importante da innovare, più della stessa nozione della clandestinità come reato. La rapidità del fenomeno immigrazione dagli anni ’90 in Italia ha fatto sì che da metà degli anni 2000 la percentuale di abitanti – contano quelli, più dei residenti – nati all’estero nel Centro-Nord italiano abbia superato la media nazionale francese, e abbia raggiunto la media nazionale tedesca, sopra il 10%. Ha generato da una parte un buon assorbimento nelle qualifiche di lavoro più basse, “scansate” dagli italiani, ma poi ha iniziato a fare i conti con il milione di disoccupati in più dal 2011 a oggi, per effetto della crisi. E’ venuto il tempo anche in Italia di adottare non solo quote annuali, ma riserve per qualifiche e titoli più elevati: com’è avvenuto prima di noi in Paesi ad alta immigrazione, negli anni 2000 nel Regno Unito e in Germania, con riserve per ingegneri e tecnologi.

La stessa esperienza dei Gasterbeiter tedeschi, i “lavoratori ospiti a tempo” necessari alla ripresa tedesca negli anni ’50 tra cui moltissimi italiani e turchi, a molti fa arricciare il naso ma ha qualcosa da insegnarci. Noi siamo un paese a bassissima curva demografica, con poco più di 1,2 nati per donna rispetto a 2 che sarebbe necessario per evitare il declino. Questo significa che – sperando nella ripresa – avremo bisogno per anni di 120-150 mila immigrati regolarizzati l’anno per l’equilibrio dei conti intergenerazionali (banalmente, servono contributi all’Inps). Ma, al contempo, proprio perché siamo a bassa natalità italiana, non è che si possa trascurare l’effetto che una percentuale di immigrati ormai “europea” rappresenta rispetto a una comunità italiana declinante (170-180 nuovi stranieri per 100 nuovi nati italiani, ormai, nelle grandi città del Nord).

A questo genere di nuove scelte economiche per rendere meglio integrabile l’immigrazione regolare si lega anche la questione della cittadinanza. Essa parte da una disciplina più ampia dei permessi di soggiorno per studenti minori e maggiorenni (oggi il diritto al ricongiungimento familiare è da noi negato per pure questioni economiche, mentre dal punto di vista dell’interesse sia umanitario che economico nazionale è una fesseria privarsi di ragazzi che studino e crescano qui), passa per la modifica della nozione attuale di residenza legale – gli immigrati cambiano spesso località di soggiorno, e questo finisce per inibire la richiesta di cittadinanza – per arrivare poi fino alla vexata quaestio dell’eventuale superamento dello ius sanguinis, visto che i nati – ma io dico anche solo i cresciuti – qui dovrebbero essere agevolati a sentirsi e a divenire formalmente cittadini italiani a pieni diritti.

Mi rendo conto, questioni complesse. Ma senza una visione organica e toni adeguati, inseguire i drammi con urla contrapposte non risolve il problema. E’ la terribile esperienza di tutti questi anni, mettiamola a frutto.

 

12
Ott
2013

Caro governo,su Alitalia nun ce sta a cogliona’

La politica è sangue e merda. Non veniteci a raccontare che Poste-Alitalia è barolo e cioccolato.

UPDATE: Appena pubblicate le condizioni di AirFrance. Rispetto a quello che scrivevo ieri, è probabile che l’intera operazione non riesca neppure a ottenere il risultato di produrre benefici privati per gli azionisti di Alitalia. Soldi buttati, che tanto in Italia ce ne sono quanti vogliamo no?

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11
Ott
2013

Una scuola doppia, anzi tripla (e i risultati sono…)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Ivan Beltramba.

Lo Statuto della Provincia Autonoma di Bolzano approvato con il DPR n. 670 del 31 agosto 1972 a seguito della Legge Costituzionale n. 1 del 10 novembre 1971, all’art. 19 prevede il diritto all’insegnamento nella propria lingua “materna”. È l’ulteriore recepimento, dopo il primo Statuto di autonomia della Regione T-AA (legge costituzionale del 26 febbraio 1948), dell’art. 1 comma a) del trattato De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946, allegato all’Accordo di Parigi (trattato di Pace di Parigi) del 10 febbraio 1947. Solo le versioni in francese, inglese e russo del suddetto trattato sono “autentiche”.

Rispetto al 1946 e al 1947 ci si è accorti che esistono anche i ladini. La lingua ladina fa parte del ceppo “romancio”, che è parlato nell’arco alpino in varie versioni praticamente dal Medioevo, e ne fanno parte anche i retoromanci del Cantone Svizzero dei Grigioni (Grischun in rr) e dell’Alto Vallese, ed il Friulano. L’assenza di una versione ufficiale o “statale” ha fatto sì che praticamente ogni valle ne avesse una versione propria (il ladino della Val Badia ha notevoli differenze dal Gardenese, che a loro volta differiscono dal Fassano e dall’Ampezzano). Read More

10
Ott
2013

Il “modello svedese” tra mito e realtà

Quante volte vi è capitato di sentir dire che “in Svezia pagano più tasse di noi, ma hanno molti più servizi”? Quest’affermazione è evidentemente semplicistica, così come le repliche che puntualmente seguono. Ma come funziona davvero, questo “modello svedese”? È davvero basato sul ruolo centrale del settore pubblico? La verità è che è molto diverso da come appare. E forse, per questo, ancora più interessante. Un libro molto chiaro sull’argomento è “Private choice in the public sector: the new swedish welfare model”, di Karin Svanborg-Sjövall (Timbro, 2012).

Un anno importante per comprendere le particolarità del modello svedese è stato il 1976. Il governo era stato presieduto per i sette anni precedenti da Olof Palme, leggendario primo ministro socialdemocratico alle cui riforme si deve la fama del welfare state. Eppure già in quello stesso anno Friedrich Hayek -non proprio uno statalista- scriveva che “La Svezia è organizzata molto meno socialisticamente della Gran Bretagna o dell’Austria, benché sia comunemente vista come molto più socialista”. E in quello stesso anno la coalizione liberal-conservatrice, dopo aver vinto le elezioni, istituiva una commissione con lo scopo di studiare strategie per lo snellimento, la decentralizzazione e la deregolamentazione dell’apparato statale.

Tra queste idee accese un notevole dibattito, e risultò paradigmatica negli anni a venire, quella di aprire il settore dell’istruzione ai privati. Scuole e asili nido, infatti, erano sempre stati gestiti dallo Stato, e la scelta della scuola affidata al Comune di appartenenza. Nel 1982 il Partito Conservatore presentò al Riksdag (il Parlamento svedese) una mozione a tutela della “libertà delle famiglie di scegliere l’asilo e la scuola dove mandare i propri figli”. Nei mesi successivi interviste e sondaggi rilevarono l’insoddisfazione di genitori e insegnanti, oltre al risparmio di soldi pubblici che avrebbe sortito una riforma del sistema. E alla fine del 1983, una S.r.l. -la Pysslingen- aprì il primo asilo nido privato, puntando a razionalizzare le risorse in modo da mantenere costi ridotti pur offrendo servizi più mirati alle famiglie. Il caso suscitò tanto scalpore che il governo (nuovamente capeggiato da Olof Palme) emanò nel 1985 una legge ad hoc (la Lex Pysslingen) per vietare il conferimento di denaro pubblico agli asili privati.

La Lex Pysslingen restò in vigore fino al 1992, quando l’allora ministro Per Unckel riformò l’istruzione introducendo il sistema tuttora vigente, basato sul sistema dei voucher ideato da Milton Friedman. Con questo sistema i Comuni versano all’istituto che lo studente decide di frequentare un voucher d’importo pari al costo medio di una scuola pubblica del Comune stesso. Le scuole non possono prevedere costi aggiuntivi, né scegliere gli studenti da accogliere: entra chi s’iscrive prima.

Prima della riforma gli allievi di scuole private erano meno dell’1% del totale; oggi sono il 30%. Le scuole private devono seguire, nella determinazione dei programmi e dei metodi educativi, alcuni criteri, ma godono di un’ampia libertà di scelta. Il costo medio annuo per studente nel 2011 è stato, per le scuole pubbliche, di 10.900 euro per le elementari e 11.340 euro per le superiori; per le scuole private rispettivamente di 9.860 e 10.240 euro. Il sistema, così costruito, ha creato concorrenza non solo nella razionalizzazione delle spese ma anche, e soprattutto, nel livello dell’istruzione. E non è certo una novità che quella svedese sia una delle migliori al mondo, come confermano numerose statistiche (questo un recente esempio fra i tanti).

Anche chi opponeva pregiudizi e ideologie al fatto che a gestire l’istruzione fossero società a scopo di lucro ha dovuto ricredersi. Gli stessi socialdemocratici, che vent’anni fa paventavano una correlazione automatica tra profitto e minore qualità dell’istruzione, richiedono oggi solamente l’allineamento di tutte le scuole a determinati standard qualitativi. Il che, peraltro, non sembra essere affatto un problema. Nei test nazionali del 2010, per esempio, 47 delle 50 scuole peggio classificate erano pubbliche. Per quanto riguarda il profitto, questo non è e non può essere lo scopo su cui si regge il sistema educativo di un paese. Ma è uno stimolo all’innovazione e all’efficienza.

Le scuole private ricevono un importo pari alla media del costo di una scuola pubblica per ogni studente iscritto. Dunque, guadagnano in base al numero di studenti che riescono ad attirare. E come li attirano? Non certo con costi più bassi, che non possono offrire. Bensì, evidentemente, con un più alto tasso qualitativo. Una delle “società di scuole” più grandi del paese, la “Kunskapsskolan”, ha aperto il primo istituto nel 2000. Ma i profitti hanno iniziato a superare le perdite solo nel 2009. Cos’avrà fatto questa società in quei 9 anni? La risposta è semplice: cercato di attrarre più studenti, migliorando la qualità dei servizi offerti.

Quello dell’istruzione è solo uno dei molti campi in cui un nuovo patto pubblico/privato e un allentamento della tensione ideologica fra diverse bandiere politiche potrebbero aiutare l’Italia a migliorarsi. Prendendo esempio da paesi -come la Svezia- la cui “vena sociale” non possa essere messa in discussione.

Giacomo Lev Mannheimer

10
Ott
2013

Il crociato dell’economia. Tributo a Ludwig von Mises — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Il 10 ottobre di quarant’anni fa Ludwig von Mises (29 settembre 1881-10 ottobre 1973) lasciava questa valle di lacrime. Il post-keynesiano Paul Samuelson lo incluse nella lista dei meritevoli del Nobel per gli anni trenta del XX secolo e da molti altri è stato considerato uno dei più importanti economisti del Novecento. Come si spiega allora che l’economista austriaco è come non fosse mai esistito? Perché è stato ignorato dai manuali di economia o nel migliore dei casi relegato in nota? Qualche riflessione storica aiuterà a comprenderlo.

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8
Ott
2013

No all’elemosina di 10 euro al mese: se Letta non osa ora su spesa e tasse, quando?

Il governo Letta-Alfano ha esattamente una settimana di fronte a sé per il varo della legge di stabilità. Sono sette giorni decisivi. Più di mille polemiche intorno al dopo Berlusconi nel Pdl o Forza Italia che sia, è solo l’annunciato cambio di marcia sulla politica economica del governo a poter concretamente dare evidenza agli italiani che davvero qualcosa di profondo è mutato. Così ha detto il presidente del Consiglio, all’indomani della fiducia riottenuta in aula, sfidando il no di Berlusconi divenuto alla fine un paradossale sì, di fronte alla sconfitta che si profilava nel suo stesso partito. Ma se sia così o meno sarà l’impianto della legge di stabilità, i suoi numeri e le misure di cui sarà composta, a doverlo testimoniare.

Ieri abbiamo avuto due nuove evidenze di ciò che a tutti dovrebbe essere già molto chiaro da tempo. La prima è che la via tutta-tasse al riequilibrio del bilancio deprime il Pil e non genera il gettito atteso. La seconda è che la ripresa del braccio di ferro tra Pd e Pdl alza nuovo fumo, rispetto alle priorità.

Sul primo versante, fa testo il gettito IVA nei primi otto mesi dell’anno. Da quando l’aliquota ordinaria salì dal 20 al 21% nel settembre 2011, l’IVA incassata scende. Ora l’aliquota è salita al 22%. Ma nei primi otto mesi del 2013 il suo gettito è diminuito del 5,2% rispetto al 2012, con 3,7 miliardi di euro in meno. Scendono infatti per la recessione gli scambi interni, e diminuiscono le importazioni contribuendo sì a migliorare la bilancia dei pagamenti, ma facendo piangere le casse dello Stato. Anche l’Irpef scende leggermente, sempre per la recessione. E cresce invece del 7,5% l’Ires pagata dalle imprese: il che spinge ad abbassarne ulteriormente il margine per investire ed espandere la base degli occupati. In un quadro europeo dove tutti i Paesi sottoposti alla trojka – Irlanda, Portogallo, Spagna – hanno attese di crescita per il 2014 superiori a quelle italiane, anche la Grecia potrebbe batterci. E’ di ieri la previsione di un più 0,4% del Pil greco nell’anno a venire. L’Italia deve dunque cambiare segno alla micidiale linea sin qui da essa seguita, basata sugli aggravi d’imposta.

E per far questo, sicuramente non serve riprendere il teatrino dell’IMU esattamente dove si era interrotto all’esplosione del caso Berlusconi. Ieri emendamenti del Pd relativi a far pagare l’imposta alle “case dei ricchi” sono prima stati accantonati, e torneranno oggi all’esame. Tra mille roventi parole tra destra e sinistra.

Non è sull’IMU che può avvenire il cambio di passo per la crescita. Lo sanno tutti. O la maggioranza di governo trova il modo di evitare cornate su questo, oppure sarà ancora più difficile immaginare qualsivoglia “spirito nuovo”, capace di identificare e perseguire poche chiare priorità.

Il governo ha di fronte a sé tre strade. La prima è quella che sembrava pronto a percorrere prima della nuova fiducia, e di tutto ciò che vi è ancora di politicamente irrisolto. Letta aveva fatto intendere una legge di stabilità intorno al punto di Pil, interventi non oltre 15 miliardi compreso il miliardo e mezzo necessario per evitare di sforare il tetto del 3% di deficit per il 2013. La seconda è quella di un orizzonte più impegnativo, ma sempre nei confini dello stretto rispetto degli impegni europei. La terza è quella di misure ancora più energiche, ma nel contesto di un confronto serrato con Bruxelles e i partner europei sulle ricadute positive di una maggior crescita italiana, visto cheormai siamo tornati a essere una mina per tutti malgrado i nostri corposi avanzi primari.

Sembrerebbe ragionevole scartare la prima ipotesi, cioè comportarsi da parte del governo come se nulla fosse accaduto. O peggio, credendo che nei pochi giorni si possano chiarire tutti gli elementi non chiari a destra, nel rapporto tra chi continua a riconoscersi in Berlusconi, chi in Alfano, e chi sta semplicemente a guardare per capire chi vince. Bisogna osare. E qui si pone il bivio europeo.

Facciamo un esempio, per essere chiari. Letta ha annunciato con forza che la bandiera della svolta sarà quella di un intervento finalmente volto ad alleviare le troppe imposte su impresa e lavoro. Si è parlato di 4 o 5 miliardi di euro in meno. Con un taglietto all’IRAP pagato dalle imprese sulla componente lavoro della base imponibile, e il più concentrato ai lavoratori, con maggiori detrazioni IRPEF ai redditi più bassi. Senonché, le anticipazioni pre-fiducia erano di un beneficio ai lavoratori concentrato in un solo mese, a fine giugno, pari a 100 o 150 euro. Qualcuno si è spinto a immaginare 200 euro e più, ottenendo dal Tesoro calorosi inviti a tenersi bassi.

Guardiamoci in faccia. Vogliamo dirlo o no, che un intervento nell’ordine di dieci euro in più al mese in portafoglio non cambia la sostanza depressiva di redditi procapite tornati, a prezzi correnti, a quelli di 25 anni fa? Possono davvero, Letta e Saccomanni, farsi illusioni in proposito? Quando Prodi nel 2007 abbassò di 4,5 miliardi l’IRAP l’effetto sul 2008 si rivelò modestissimo. Certo, saltarono in aria la Lehman e il commercio mondiale. Ma da allora abbiamo perso 9 punti di Pil e 25 di produzione industriale, ergo bisogna per forza pensare a qualcosa di più ambizioso.

Significa da una parte avere il coraggio di mettere mano a tagli di spesa come sinora se ne sono visti troppo modesti, come poco ambiziosi sembrano i primi obiettivi affidati al nuovo commissario alla spending review, Cottarelli.

Ma significa anche esser disposti ad aprire da subito un round negoziale a Bruxelles quando, appena varata la legge di stabilità, comincerà il suo esame da parte della Commissione europea. Nell’ambito del percorso tendenziale di azzeramento del deficit, contrattare ad esempio per ogni euro di spesa corrente in meno individuato e tradotto in meno imposte su lavoro e reddito, un euro aggiuntivo di minor imposizione che nel breve alza l’asticella del deficit, per però generare da subito crescita aggiuntiva e gettito, pareggiando i conti nei due anni successivi. Vi sono parlamentari che lo propongono esplicitamente nella maggioranza senza per questo ripudiare euro ed Europa, come Enrico Zanetti che in queste materie non improvvisa, visto che è uno dei più esperti in materia fiscale e contabile. E’ una buona idea.

Letta e Alfano hanno una settimana per convincersi ad osare. Trovino la forza di stupirci. Dieci euro in più al mese sarebbero un’irrisione dopo tutto quel che si continua a vedere: l’ennesimo buco a Roma, il finto taglio alle retribuzioni dei consiglieri regionali siciliani in realtà ancorandole alla busta paga dei senatori, le finte privatizzazioni fatte con partita di giro dal Tesoro a Cassa depositi e Prestiti come in Ansaldo Energia, e la triste commemdia in atto su Alitalia, in cui altri “privati falliti” con banche private alla testa richiedono l’intervento statale dopo aver beneficato dell’oneroso salvataggio a spese del cotnribuente nel 2008.

 

 

7
Ott
2013

Alitalia spiegata con due grafici

Poiché mi sono occupato molto di Alitalia durante la crisi del 2008 e il successivo salvataggio pubblico, criticando il medesimo e formulando non poche perplessità sulle possibilità di riuscita del piano Fenice, non ho piacere di intervenire pubblicamente in questa fase molto difficile per l’azienda. Tuttavia credo sia opportuna una breve riflessione sulla cause che hanno portato alla fase attuale. Read More