16
Ott
2013

(M)Alitalia? Cambiamo canale! — di Massimo Famularo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Famularo.

A sorpresa, come nelle migliori soap opera del genere è arrivato l’incesto Poste in (M)alitalia.

Ancora soldi pubblici impiegati nel peggior modo possibile perché l’italianità, che di per sé  è una bufala di comodo, non verrà preservata, salvare esclusivamente i lavoratori (che nel nostro paese si sa non sono per niente tutti uguali) sarebbe costato molto meno e il concetto di bene strategico si può definire politicamente elastico.

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16
Ott
2013

I difetti della legge di stabilità, la nuova bastonata al risparmio

Sulle cosiddette “rendite finanziarie”, il Consiglio dei Ministri che ha varato la legge di stabilità ha finito apparentemente per sposare a metà entrambe le ipotesi che fino a ieri erano alternative. Il bivio iniziale era tra la linea sostenuta dal Pd sull’aumento della tassazione, oppure se i 900 milioni circa aggiuntivi da reperire per questa via si sarebbero ottenuti con la diminuzione di sgravi fiscali attualmente previsti con detrazioni Irpef al 19%, delle spese sostenute dai contribuenti a fini sanitari e d’istruzione, come preferiva il Tesoro. Diciamo subito che si tratta puramente di reperire cassa, non di perseguire finalità economicamente virtuose o di maggior equità. E che ciò smentisce platealmente la dichiarazione del premier Letta, “non più tasse ma solo sgravi”. L’elenco degli aggravi non si riduce infatti a questo capitolo: c’è l’introduzione a fini Irpef della tassazione sullòe case sfitte, aumenti d entrata da rivalutazione cespiti imprese, da nuovo regime ammortamento perdite bancarie, dalla fantasiosa trovata della rivalutazione delle quote di Bankitalia detenute dalle banche italiane, dalle nuove misure di regolarizzazione dei patrimoni detenuti all’estero…

Tutto ciò in una legge di stabilità che ha almeno tre difetti di fondo. Primo: delude in maniera totale ogni attesa di svolta, imperniata su energici tagli di spesa a copertura di meno imposte su lavoro e impresa, visto che senza tagli l’IRAP verrà solo limata in un triennio con una modesta mancia in più detrazioni al lavoro dipendente. Secondo: torna indietro di anni, di fatto alle finanziarie della prima Repubblica, lasciando aperte al Parlamento e alla trattativa tra partiti opzioni decisive su ogni essenziale capitolo. Terzo: non contiene alcuna indicazione su come dal 2015 inizieremo ad abbattere il debito pubblico nelle poporzioni assai rilevanti imposte dal fiscal compact.

Ma torniamo alla tassazione sul risparmio. Letta a metà serata di ieri ha annunciato che l’aumento di tassazione ci sarà, anche se diverso da come ce lo si aspettava, e in più per arrivare a un miliardo e 400 milioni di maggior gettito si aggiungeranno anche i tagli alle detrazioni IRPEF al 19%.
Tra le due alternative iniziali, era sicuramente l’ipotesi peggiore l’aumento ipotizzato al 22% dell’aliquota 2 anni fa stabilita al 20% per le rendite finanziarie insieme alla maggiorazione contestuale dell’imposta di bollo sui conti correnti. E’ rimasto solo un aumento del bollo maggiore del previsto – visto che solo da questo ci si aspetta 900 milioni di maggiori entrate – ed è comunque un errore.
Chiariamo intanto che cosa s’intende, per rendite finanziarie: i proventi generati alla sottoscrizione, alla chiusura dell’anno di imposta attraverso l’incasso di interessi o dividendi, o al momento del realizzo da parte sia delle persone fisiche che giuridiche. Quindi azioni o  titoli di Stato, interessi sui depositi di conto corrente, obbligazioni, mutui, impieghi pronti contro termine e anche semplici impieghi di capitali diversi però dall’acquisto di partecipazioni al capitale di rischio di imprese.
Due anni fa l’intervento che venne adottato in questa materia aveva sempre finalità di cassa, ma aveva anche su una giustificazione equitativa. In precedenza infatti sugli interessi maturati da obbligazioni emesse da privati di durata inferiore a 18 mesi si pagava un’aliquota del 27% e una del 12,5% se il bond era di durata maggiore. In teoria era per scoraggiare investimenti a breve e speculativi, in realtà finiva per esercitare effetti distorcenti sul finanziamento a breve delle imprese, consegnandole solo alle banche.

Per questo si decise di unificare l’aliquota al 20%, lasciando la condizione di favore dell’aliquota più bassa al 12,5% solo per i titoli di Stato e di emittenti pubblici di qualunque tipo (come Poste e risparmio postale), italiani ed esteri riconosciuti. Lo Stato fa sempre un favore a se stesso, con le tasse. Ai fini dell’afflusso di maggior investimenti alle imprese sarebbe stato utile riservare l’aliquota agevolata non solo allo Stato, ma anche per esempio ai fondi comuni di investimento mobiliari e immobiliari, ma la politica se ne guardò bene, applicando a quegli strumenti l’aliquota generale del 20%. Idem dicasi per i fondi pensione complementari. La cosa positiva era però abbassare dal 27% al 20% l’aliquota sui depositi di conto corrente.
Sempre per far cassa, mentre lo Stato levava peso dalla tassazione sui conti correnti con una mano, dall’altra faceva il contrario, introducendo una non troppo mini patrimoniale sul risparmio con l’imposta di bollo, dal primo gennaio 2012 di 34 euro l’anno per i conti delle persone fisiche e  di 100 per quelle giuridiche (con soglia di esenzione minima, 5mila euro). A questa patrimoniale sul risparmio lo Stato ne ha aggiunta un’altra, sempre di bollo, sui prodotti finanziari posseduti. E’ questa a salire ulteriormente molto, con la legge di stabilità. E quest’anno è anche arrivata la Tobin tax all’italiana, sulle transazioni finanziarie, adottata mentre l’Europa frena e dunque ulteriormente scoraggiando agli investimenti su borsa italiana.
Gli effetti cumulati della sete di entrate statale si sono puntualmente visti.  Nel 2012 il gettito da “rendite finanziarie” è salito del 46,8% aumentando  di 3,5 miliardi, e analogamente l’imposta di bollo ha registrato un incremento dell’11% con 622 milioni in più, dovuto proprio alla patrimoniale su conti correnti, strumenti di pagamento, titoli e prodotti finanziari.
Ora l’aumento di aliquota al 22% è stato evitato, ma non un forte aumento del bollo. Lasciando solo allo Stato il vantaggio fiscale sui suoi titoli, punendo una Borsa che resta la più depressa in tutto l’Ocse con un rapporto tra prezzo per azione e valore di libro inferiore all’unità per la stragrande maggioranza delle quotate, e picchiando in testa a un risparmio che andebbe convogliato a imprese e lavoro invece che a Stato e banche.

Non si dica che è più giusto tassare il capitale del lavoro, perché su questo sono d’accordo, e non mancano Paesi europei con aliquote più elevate del 20% sulle rendite finanziarie come in Germania (l’aliquota media OCSE è però del 16%). Ma nel caso tedesco la pressione fiscale sul PIL è inferiore alla nostra di 4 punti, ed è molto inferiore della nostra su lavoro e impresa. Da noi lo Stato prende dove può ogni qualvolta gli serve, ma a lavoro e impresa restituisce briciole. Come ancora una volta in questa legge di stabilità, purtroppo.

16
Ott
2013

Alitalia-Poste: è aiuto di Stato. Ecco come segnalare l’abuso alla Commissione Europea

L’intervento del governo nell’operazione Alitalia-Poste costituisce, secondo l’Istituto Bruno Leoni, una forma di aiuto di Stato illegale. Il salvataggio di Alitalia non dovrebbe avvenire a queste condizioni, in quanto viola le norme comunitarie sugli aiuti di Stato e la libera prestazione dei servizi. Per questo abbiamo segnalato l’Italia alla Commissione Europea. Ecco come fare se anche voi volete segnalare l’abuso.

UPDATE: Aggiunte le istruzioni per protestare col governo italiano.

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15
Ott
2013

In Svezia privatizzano le università. E il buon senso sconfisse l’ideologia.

Scrivevo qualche giorno fa (qui) che il welfare svedese è molto diverso da come appare, e che il sistema d’istruzione è l’archetipo di questo modello. Proprio in queste settimane si discute molto, nel paese scandinavo, del sistema universitario: in Svezia quasi tutte le università sono pubbliche e generosamente finanziate dallo Stato (che spende, per l’istruzione, più del 6% del suo PIL). L’istruzione è gratuita per tutti i cittadini dell’Unione Europea, e molti studenti svedesi vengono addirittura sovvenzionati dallo Stato per studiare. I rankings internazionali mostrano dati eccellenti per quanto riguarda la qualità delle università svedesi (vedi, per esempio, qui e qui). Sembrerebbe un sistema perfetto, ma negli ultimi anni le esperienze della Chalmers University of Technology, della Stockholm School of Economics e della Jönköping University Foundation, le uniche tre fondazioni universitarie private che possono riconoscere titoli equivalenti a quelli delle altre università, hanno destabilizzato l’opinione pubblica.

Queste tre università hanno subito un processo simile a quello che il Governo italiano rese possibile con la Legge 133/2008 (con ben poco seguito, a dire il vero): si sono trasformate in fondazioni private, cioè enti non commerciali sottoposti ad alcuni criteri stabiliti dall’Utbildningsdepartementet (il Ministero dell’Istruzione svedese) ma liberi in ordine alle modalità di finanziamento delle proprie attività, alla selezione del personale e a metodi e programmi accademici. Coloro che immaginavano un fallimento precoce di questi esperimenti si sbagliavano: le fondazioni hanno saputo reggere la concorrenza con le università pubbliche, attingendo a finanziamenti privati e offrendo sistemi organizzativi e didattici all’avanguardia (come dimostrano i dati della Swedish Higher Education Authority, che trovate qui).

Il dibattito è arrivato al punto che meno di un mese fa il Ministro dell’Istruzione ha presentato un progetto per offrire a tutte le università del paese la possibilità di trasformarsi in fondazioni, con l’obiettivo di garantire maggior autonomia agli istituti, motivandoli a generare utili da reinvestire nelle attività universitarie. Il progetto prevede una consultazione tra le parti interessate da concludersi entro il 15 novembre 2013. L’idea di fondo è quella di garantire un finanziamento pubblico parziale alle fondazioni per i primi sei anni, per poi lasciare totale autonomia finanziaria agli istituti (così come successo con le tre fondazioni attualmente esistenti).

Chi appoggia la proposta insiste sul surplus di fondi per la ricerca che si trarrebbero dalla riforma (dovuti al necessario perseguimento della razionalizzazione di costi e investimenti da parte dei singoli istituti), nonché sui benefici che maggiore flessibilità e autonomia apporterebbero alle strutture universitarie. Erik Arroy, rappresentante della Swedish National Union of Students, non nega l’opportunità di offrire maggiore autonomia accademica e finanziaria alle università, ma lamenta la poca chiarezza del documento presentato dal Ministero, auspicando che la consultazione porti alle dovute delucidazioni. Arroy manifesta dubbi soprattutto relativamente alla scelta delle fondazioni come forma giuridica e al problema di assicurare i diritti degli studenti nel passaggio da istituzione pubblica a istituzione privata. Vedremo, al termine della consultazione, quali saranno le manovre del Governo svedese.

In Italia una proposta di legge analoga fu avanzata in Parlamento per la prima volta già nel 2006 da Nicola Rossi, allora senatore del PD. La proposta fu poi inserita nella legge 133/2008 (la c.d. riforma Gelmini), ma il dato tristemente emblematico è lo scandalo che suscitò il fatto che a proporre un’idea simile fosse un parlamentare di sinistra. E a questo proposito è opportuno fare, indipendentemente da ogni giudizio sulla trasformazione delle università in fondazioni private, una breve considerazione generale.

È innegabile che a contraddistinguere politiche virtuose sia sempre la costante volontà di migliorarsi. L’abbiamo già detto: la Svezia ha uno dei sistemi educativi più invidiati al mondo. Eppure al suo interno si discute su come aggiornarlo e migliorarlo ulteriormente, senza che trovi alcuno spazio l’ideologia o la difesa a tutti i costi dello status quo. Fare paragoni è sempre ardito, ma riuscite a immaginare il polverone che scatenerebbe l’accostamento di principi simili -per esempio- alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale, che pure ne avrebbe un disperato bisogno?

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

 

14
Ott
2013

Napolitano, Renzi e l’indulto: i numeri dei disastri del passato, le ragioni di chi chiede di non ripeterli

La politica è immediatamente esplosa al giudizio espresso da Matteo Renzi sulla pressante richiesta al Parlamento rivolta dal Capo dello Stato, per un provvedimento di clemenza volto ad affrontare l’emergenza carceraria. Le polemiche sono centrate sul rispetto a Napolitano, sul sospetto che il candidato leader del Pd intenda colpire insieme il garante istituzionale di Letta e il governo stesso. E parole forti volano di conseguenza sia all’interno del Pd, sia tra sinistra e destra. Tanto per cambiare, la politica sembra prediligere facili giudizi di principio. Mentre la questione carceri, tanto la sua costante emergenza umanitaria che l’impatto concreto che il crimine esercita sulla società italiana, andrebbero invece esaminati freddamente, dati alla mano, allo scopo di evitare errori già più volte compiuti nella storia. E’ quello che da anni propongono – vanamente – alcuni autorevoli economisti italiani che monitorano il fenomeno, come Giovanni Mastrobuoni, Enrico Perotti, Francesco Daveri. Ed è alle loro analisi che si devono molte delle cifre che qui vi proponiamo. Per riflettere, e per giudicare meglio.

La situazione attuale – 66mila detenuti rispetto a 47 mila di capienza del circuito penitenziario – sembra esattamente riproporre quella del 2006, quando il Parlamento varò l’ultimo indulto. Allora, i detenuti erano oltre 61mila rispetto a una capienza massima dei penitenziari stimata di 43mila unità. Con l’indulto, i carcerati scesero nel dicembre 2006 a 39mila unità. Per risalire a 48mila un anno dopo, 58mila a fine 2008, 64 mila a fine 2009, 68mila un anno dopo. Da allora l’emergenza è permanente.

Ha torto o ha ragione Renzi quando chiede: ma che cosa ha fatto, la politica, da allora? vuole ripartire dagli errori commessi, invece di replicarli? I fatti sembrano dargli ragione.

Cominciamo dall’edilizia carceraria. Il Piano Carceri post-indulto, varato dal decreto legge 207 del 2008, ha conosciuto una vera e propria odissea. Da allora, tra nuovi decreti legge, decreti ministeriali e della Presidenza del Consiglio, ben 10 altri interventi normativi si sono succeduti. I poteri straordinari attribuiti al capo del DAP, il Dipartimento Affari Penitenziari del ministero della Giustizia, sono diventati 2 anni dopo poteri commissariali con pieno effetto sostitutivo di quelli ordinari, per poi essere attribuiti, da inizio 2012 a un prefetto ad hoc fuori dal recintod el DAP. E’ evidente la ragione, il commissario identificato con il responsabile tecnico del servizio penitenziario non funzionava. Lo dicono i numeri. Dai 37 mila posti di cui si parlava enfaticamente nel 2008 entro il 2012 si scese in 2 anni a 21mila, l’anno dopo a 18mila, e di fronte ai tagli dovuti al rientro di finanza pubblica – 229 milioni in meno sui circa 675 previsti – si è scesi nell’ultima versione del Piano carceri, quella del 31 gennaio 2012, a 11mila nuovi posti entro il 2014. Di fatto, rispetto al 2006, si sono aggiunti solo 3.100 nuovi posti entro dicembre 2012, e 1000 entro giugno di quest’anno. Resta l’obiettivo di 11mila nuovi posti entro il 2014, ma la serie storica mostra cheraggiungerlo è assai improbabile. La deroga alle nome urbanistiche ordinarie si è rivelata impossibile, il taglio delle risorse e la solita burocrazia hanno fatto il resto.

Passiamo alle misure alternative. In teoria, il cosiddetto terzo pilastro del Piano prevedeva novità al sistema sanzionatorio con misure che prevedessero, da un lato, la possibilità della detenzione domiciliare per pene detentive fino ad un anno, nonché la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, con conseguente sospensione del processo. E’ stata approvata nel 2011 la legge 62 volta a rendere più umana la detenzione di madri con figli piccoli, ma i risultati sono trascurabili: siamo fermi ancor oggi a poche decine di casi. E’ stata approvata la legge 199 del 2010, che ha dato la possibilità di scontare presso la propria abitazione, o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore ad un anno, poi innalzata a diciotto mesi l’anno successivo. Una norma che, in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione, scade il 31 dicembre di quest’anno. Perché nella scorsa legislatura non sono stati approvate le proposte del ministro Severino: né la delega al governo per l’introduzione della detenzione domiciliare come pena detentiva principale, nel caso di condanne per delitti puniti con la reclusione fino a quattro anni; né l’introduzione nel processo penale, come in quello minorile, della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato, quando il reato preveda la sola pena edittale pecuniaria o la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni; né, infine, il provvedimento generale di depenalizzazione, con una delega al governo per trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati di non particolare gravità. Ciascuno di questi capitoli ha bisogno di interventi ad hoc, se si vuole evitare di riempire nuovamente le carceri in pochi mesi come nel 2006. Ragionevolezza vorrebbe, inoltre, che da tali provvedimenti di depenalizzazione e “pene alternative” al carcere – se ben congegnati – scaturissero contenimenti permanenti del’affollamento carcerario, non effetti-elastico come quelli sin qui sempre riscontrati nella storia penitenziaria italiana dopo provvedimenti di clemenza stop and go.

Infine, veniamo al punto delicatissimo tra tutti, quello della pericolosità sociale. Quello su cui la politica si intesta la gara a chi vuol rassicurare gli italiani. Anche qui, i numeri parlano chiaro. Gli effetti dell’indulto del 2006 furono pessimi. I delitti per mille abitanti solo nel 2009 tornarono al livello – 42,8 – del 2005. Il dato si impennò invece nel 2006-07, raggiungendo il massimo di 49,4 per poi iniziare a normalizzarsi nel biennio successivo. Non furono solo le rapine in banca a pressoché raddoppiare nell’anno post indulto, ma anche la frequenza degli altri reati aumentò in misura consistente. Gli omicidi aumentarono da 601 del 2005 a 630 nel 2007, per scendere a 579 nel 2009. Il numero dei furti salì da 1 milione mezzo del 2005 a 1.636mila del 2007.

Sono numeri assai temibili, e gli italiani fanno bene dunque nei sondaggi a invitare alla cautela. Per evitare nuovi errori, la politica deve individuare con chiarezza non solo gli esclusi da misure di clemenza per reati di particolare odiosità e gravità, ma anche e soprattutto i recidivi, non a caso soggetti anche ad aggravi di pena con la ex Cirielli. Per i recidivi la risposta può venire solo riparando al disastro sin qui rimediato dal Piano carceri. Mentre senza norme generali di depenalizzazione, non si esce nemmeno dalla vergogna del 41% di detenuti in attesa di giudizio, e del 19% addirittura in attesa del giudizio di primo grado. Non sbaglia dunque, numeri alla mano, chi come Renzi invita a riflettere sulle pesanti responsabilità politiche del passato. A mio modesto avviso, il ruolo del capo dello Stato e la considerazione nei suoi confronti nonc’entrano proprio nulla.

14
Ott
2013

AliSulcis: perché non far andare gli aerei a carbone?

È difficile aggiungere altro sull’incredibile vicenda Alitalia, specie su questo blog, dopo gli interventi di Ugo Arrigo e Carlo Stagnaro. E visti i nugoli di critiche piovuti da ogni dove – personalmente vorrei condividere quella di Alessandro De Nicola – forse non ce ne sarebbe neanche bisogno. Certo, ci si sente quasi in dovere di dire: non fatelo, non nel mio nome (ecco: si potrebbe pure organizzare una bella raccolta firme). Oppure, si potrebbe tentare una serie di battute (generazionali) sugli interventi a sostegno tipo: prendere il mercato per una Royal Rumble, dove per continuare lo spettacolo entra sempre qualcuno. O ancora raccontare di qualche episodio di incredibile spreco visto di persona, da semplice viaggiatore.

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13
Ott
2013

Rifugiati e asilo, quote immigrazione, cittadinanza: a occhi liberali il nodo non è slogan reato-sì-reato-no

Purtroppo, continua il flusso di disperati verso le coste italiane, in fuga dagli “Stati falliti” africani e mediorientali – al Corno d’Africa e all’Africa subsahariana dal mail al Sudan si aggiungono siriani e afghani. La pessima novità è che il fenomeno, classicamente estivo, non si ferma neanche davanti ai marosi autunnali. E le vittime aumentano. La questione dell’immigrazione riesplode a ogni dramma, figuriamoci davanti a tragedie come quelle attuali, con centinaia di vittime in un giorno solo.

Ogni volta bisogna porsi un limite che dovrebbe essere ferreo: evitare la demagogia, gli scontri di bandiera, le parole d’ordine contrapposte. I temi epocali del nostro tempo su queste materie – i migranti, il diritto di asilo, quello di cittadinanza, la sicurezza di un’idea sempre più labile come quella delle frontiere, il respingimento e l’espulsione, l’integrazione nei diritti civili e amministrativi, le necessità dell’economia e la sua capacità in tempi di crisi – non si risolvono a colpi di slogan. Per tantissimi versi, è uno slogan anche quello molto politicamente corretto oggi, l’abrogazione del reato di clandestinità introdotto dalla Bossi-Fini. Anche se, a dirlo, si corre il rischio inevitabile di essere incapsulati nella camicia di Nesso di ogni confronto pubblico italiano, quello tra destra e sinistra che viene prima di ogni merito delle cose.

Qualche riflessione di merito, appunto, per dare sostanza a un paio di conclusioni diverse da quelle più ricorrenti. Se ci fermassimo al solo nodo del reato, è evidente che la sua prassi applicativa, risolta in archiviazioni di massa da parte dei magistrati e in sanzioni pecuniarie quasi mai pagate, dovrebbe portare alla rapida conclusione che non è il vero problema da affrontare. Ha avuto in questi anni più che altro l’effetto – comunque utile – di ispessire l’anagrafe documentale della recidività e dei comportamenti legati alla sottrazione dolosa dall’obbligo di espulsione e reimpatrio. Cose amare a fronte della tragedia umanitaria di migliaia e migliaia di esseri umani in fuga da violenza e miseria, ma comunque necessarie allo Stato.

Quelli che appaiono come veri nodi non hanno a che vedere con il giro di vite – reato e procedure di espulsione amministrativa – introdotte dalla Bossi Fini rispetto alla Turco-Napolitano. Non si risolvono neppure con le pur auspicabili misure in via di potenziamento europeo dopo l’ultima strage di Lampedusa, cioè il potenziamento di risorse del sistema comunitario Frontex, uomini e mezzi per la sorveglianza del Mediterraneo fin dalle coste dei paesi da cui partono le navi-madre degli scafisti e i barconi della morte. Misure necessarie – ripetiamolo – per contenere il fenomeno all’origine e per disporre di mezzi che limitino le vittime con più tempestivi salvataggi. Ma poi il problema resta, di migliaia di salvati dalle acque ai quali dare risposta all’approdo in Italia. Distinguiamo, allora, tre questioni diverse.

La prima riguarda il diritto di asilo. Nel solo ultimo ventennio, abbiamo avuto in Italia circa 350mila richieste, il doppio d quanto se ne fossero registrate dal 1946 agli anni Novanta. Qui sì che occorre un negoziato serrato con l’Europa. Abbiamo strutture – lo Sprar, servizio per i richiedenti asilo e rifugiati – molto sottodimensionati alla bisogna tra Stato ed Enti Locali. Abbiamo tempi troppo lunghi per esaminare le domande. E, soprattutto, grandi paesi europei hanno nel tempo sistematicamente praticato il respingimento di migranti verso l’Italia, in cui era stata registrata la loro domanda di asilo. E’ una prassi più volte condannata dalla Corte europea come dagli stessi tribunali nazionali, per esempio vi sono sentenze tedesche, ma sul diritto di asilo occorre oggi una convenzione europea – e ONU perché il problema dei rifugiati ricade in pieno nelle competenze sovranazionali del suo Trattato – che valichi le differenti leggi nazionali in materia di immigrazione. Perché è all’Unione europea, non all’Italia da sola, che l’asilante chiede il riconoscimento del suo status.

La seconda e la terza questione riguardano invece la nostra legislazione nazionale. Parliamo cioè delle quote d’immigrazione regolare e della cittadinanza: scinderle è un errore.

I flussi annuali con garanzia di lavoro in Italia, il consolidato dell’evoluzione da Turco-Napolitano a Bossi-Fini, sono il punto più importante da innovare, più della stessa nozione della clandestinità come reato. La rapidità del fenomeno immigrazione dagli anni ’90 in Italia ha fatto sì che da metà degli anni 2000 la percentuale di abitanti – contano quelli, più dei residenti – nati all’estero nel Centro-Nord italiano abbia superato la media nazionale francese, e abbia raggiunto la media nazionale tedesca, sopra il 10%. Ha generato da una parte un buon assorbimento nelle qualifiche di lavoro più basse, “scansate” dagli italiani, ma poi ha iniziato a fare i conti con il milione di disoccupati in più dal 2011 a oggi, per effetto della crisi. E’ venuto il tempo anche in Italia di adottare non solo quote annuali, ma riserve per qualifiche e titoli più elevati: com’è avvenuto prima di noi in Paesi ad alta immigrazione, negli anni 2000 nel Regno Unito e in Germania, con riserve per ingegneri e tecnologi.

La stessa esperienza dei Gasterbeiter tedeschi, i “lavoratori ospiti a tempo” necessari alla ripresa tedesca negli anni ’50 tra cui moltissimi italiani e turchi, a molti fa arricciare il naso ma ha qualcosa da insegnarci. Noi siamo un paese a bassissima curva demografica, con poco più di 1,2 nati per donna rispetto a 2 che sarebbe necessario per evitare il declino. Questo significa che – sperando nella ripresa – avremo bisogno per anni di 120-150 mila immigrati regolarizzati l’anno per l’equilibrio dei conti intergenerazionali (banalmente, servono contributi all’Inps). Ma, al contempo, proprio perché siamo a bassa natalità italiana, non è che si possa trascurare l’effetto che una percentuale di immigrati ormai “europea” rappresenta rispetto a una comunità italiana declinante (170-180 nuovi stranieri per 100 nuovi nati italiani, ormai, nelle grandi città del Nord).

A questo genere di nuove scelte economiche per rendere meglio integrabile l’immigrazione regolare si lega anche la questione della cittadinanza. Essa parte da una disciplina più ampia dei permessi di soggiorno per studenti minori e maggiorenni (oggi il diritto al ricongiungimento familiare è da noi negato per pure questioni economiche, mentre dal punto di vista dell’interesse sia umanitario che economico nazionale è una fesseria privarsi di ragazzi che studino e crescano qui), passa per la modifica della nozione attuale di residenza legale – gli immigrati cambiano spesso località di soggiorno, e questo finisce per inibire la richiesta di cittadinanza – per arrivare poi fino alla vexata quaestio dell’eventuale superamento dello ius sanguinis, visto che i nati – ma io dico anche solo i cresciuti – qui dovrebbero essere agevolati a sentirsi e a divenire formalmente cittadini italiani a pieni diritti.

Mi rendo conto, questioni complesse. Ma senza una visione organica e toni adeguati, inseguire i drammi con urla contrapposte non risolve il problema. E’ la terribile esperienza di tutti questi anni, mettiamola a frutto.