21
Ott
2013

Un occhio alle finanziarie di Spagna, Portogallo e Irlanda. E al 6% di Pil di maggior spesa pubblica italiana rispetto alla Germania

Fino a Natale, la legge di stabilità andrà incontro a tumultuosa navigazione. Cominciando dall’esame preventivo a cui è sottoposto dalla Commissione Europea. E’ il primo anno che scatta la nuova regola europea, per la quale le leggi fondamentali di finanza pubblica sono sottoposte a un filtro comunitario prima ancora dell’approvazione parlamentare (la Francia, tradizionalmente sovranista, ha tirato dritto per la sua strada malgrado il bonus riconosciutogli da Bruxelles di più tempo per rientrare sotto il 3% di deficit,e il Parlamento ha già approvato la finanziaria).

Non è un caso che sabato Bruxelles abbia chiesto a Letta di saperne di più. Perché in Europa ne sanno quanto noi, e in definitiva un testo articolato delle misure praticamente ancora non si è visto. Bisogna accontentarsi di successive descrizioni generali, dei diversi interventi interventi di minor spesa e maggior gettito. Dalla tassazione sugli immobili alle minori detrazioni, in 6 giorni si è letto di ogni.  Mentre aspettiamo di capire meglio e Fassina resta al governo dicendo che insieme al Pd combatterà “il rigore imposto dalla Ue”, il Pdl alza muri contro gli aggravi fiscali che pure nei testi sin qui circolati ci sono eccome, il sindacato proclama il primo scioperino generale di 4 ore, e Squinzi di Confindustria dichiara che se solo gli avessero detto quanto era incasinata la situazione col cavolo che faceva il presidente, è forse utile dare un’occhiata anche in casa d’altri, soprattutto ai membri dell’euroarea che sono malandati come noi. E  che sono stati sottoposti al monitoraggio obbliogato della Trojika. C’è un ampio dibattito, economico e politico, sugli effetti che le politiche di austerità hanno scatenato nelle economie del Sud Europa. Ma è ancora da vedere se non sia stato meglio per i Paesi “obbligati” a manovre dure, alla fin fine, perché il morso del controllo trimestrale ha obbligato le loro classi dirigenti a riforme energiche. Noi abbiamo sperimentato invece soprattutto aggravi fiscali.

Spagna

A Madrid il premier Mariano Rajoy, del partito popolare, è quasi a metà del suo mandato quadriennale. E’ indebolito da scandali sul finanziamento illecito al suo partito, ma spera che in economia il peggio sia alle spalle. Il budget 2014 presentato a fine settembre è il più “leggero” dal 2011, ma la differenza è che da allora i governi, prima socialista e poi di Rajoy, son già dovuti intervenire con quattro manovre straordinarie in corso d’anno oltre alle finanziarie regolari. Avendo la Spagna un bonus biennale per rientrare sotto il 35 di deficit, il budget propone tagli e incrementi di entrate questa volta per soli 8 miliardi, per far scendere il deficit al 5,8% del Pil rispetto al 6,5% e probabilmente un po’ di più a cui dovrebbe chiudere a fine 2013. Ma già dal secondo trimestre dell’anno in corso l’economia spagnola ha ripreso ad andar leggerissimamente meglio, la disoccupazione raggiunto il 26.7% ha cessato di salire e mostra primi segni di decrescita, diversamente da noi, e le previsioni del Pil nel 2014 sono state ritoccate al rialzo, verso più 0,7-0,8%. Per la prima volta è insomma una finanziaria di “manutenzione” dei conti, con una diminuzione prevista soprattutto dai minori interessi sul debito per lo spread molto più basso di quello del 2012 e inizio 2013 (erano 100 punti base più del nostro, prima che l’instabilità italiana ce lo facesse riagganciare nel corso dell’estate). Ma alle spalle ci sono state misure da lacrime e sangue. Tra la finanziarie dell’anno scorso e l’intervento straordinario del marzo 2012, appena vinte le elezioni, Rajoy ha dovuto migliorare i saldi pubblici spagnoli per circa 30 miliardi di euro, le misure più pesanti da quando la Spagna democratica è succeduta al regime di Franco. Se prima di lui il socialista Zapatero aveva alzato l’IVA di 2 punti e tagliato del 5% il salario dei dipendenti pubblici, Rajoy ha alzato l’aliquota più elevata Irpef e ha dovuto tagliare con durezza i fondi alle Regioni autonome in dissesto. Anche in Spagna i contratti pubblici sono bloccati da 5 anni senza indicizzazione, ma le riforme del lavoro sotto Zapatero come Rajoy – a favore anche dei contratti a tempo, a differenza delle nostre, come dagli aggravi fiscali sono state tutelate le piccole imprese a differenza che da noi – hanno di molto abbassato il costo del lavoro per unità di prodotto. Infatti, export e competitività vanno meglio del previsto. Restano tre problemi gravi, oltre la disoccupazione: 700 mila case vuote,il relitto della bolla immobiliare; il dissesto bancario – la Spagna ha usato 42 dei 100 miliardi messi a disposizione dalla Ue – lungi dall’esser risolto;e la riforma delle pensioni da rivedere, visto che il sistema continua a perdere l’1,5% del Pil l’anno e gli effetti dell’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni – deliberato da Zapatero – ha troppi anni davanti a sé per riequilibrare i conti. La Spagna aveva una spesa pubblica pari al 46% del Pil nel 2009, a fine 2012 era salita al 47,8%, con entrate pubbliche totali salite solo dal 35% del Pil al 37,1%.

 

Portogallo

Anche il premier portoghese, Pedro Passos Coelho (socialdemocratico, a Lisbona il partito appartiene al centrodestra) è entrato nel terzo anno di mandato, e con la finanziaria appena presentata ha annunciato l’uscita dalla più pesante recessione in 40 anni. Nel secondo trimestre 2013, l’economia portoghese è cresciuta dell’1,1% sullo stesso trimestre 2012. L’Italia ci metterebbe la firma. La finanziaria 2014 presenta un miglioramento del saldo pubblico di circa 4,7 miliardi, rispetto al 6,3% sul Pil a cui dovrebbe chiudere il deficit 2013. Ma sulla finanziaria 2014 pesa ancora la crisi istituzionale apertasi in primavera, quando la Corte costituzionale – facendo sobbalzare la trojka Ue, Bce e Fondo Monetario che monitora il Paese – dichiarò illegittime 4 delle 9 principali misure assunte nella finanziaria 2013, per circa 1,3 miliardi così sfumati di miglioramento del deficit. Il Portogallo negli anni alle nostre spalle ha tra l’altro tagliato, oltre alle indicizzazioni e alle pensioni, 13esime e 14esime, le prime a privati e pubblici dipendenti, le seconde solo ai pubblici, e la Corte su quest’ultimo punto ha detto no. Come ha respinto i tagli ulteriori – era il terzo round, dal 2011 – alle indennità di malattia e a quelle di disoccupazione. Tutte cose impensabili, per l’Italia. Il Capo dello Stato, Cavaco Silva, si vide costretto costretto a chiedere un patto di larghe intese tra il centrodestra e l’opposizione di sinistra socialista, per una maggioranza dell’80% in grado di cambiare la Costituzione e rispondere così ai no della Corte. I socialisti hanno rifiutato. E su Passos Coelho resta così l’impedimento di procedere a drastici tagli dei 600 mila dipendenti pubblici, il 16,5% del totale degli occupati, difesi strenuamente dalla sinistra. Se le tensioni nell’euroarea riprendono, oltre al terzo pacchetto di aiuti alla Grecia potrebbe esserne necessario un secondo anche per Lisbona. La spesa pubblica era pari al 49,8% del Pil nel 2009, arrivò al 51,5% nel 2010, è scesa al 47,4% a fine 2012. Con totale delle entrate pubbliche inchiodato al 40% del Pil, rispetto al 39,6% del 2009.

 

Irlanda

Dublino ha oggi il peggior deficit nell’euroarea,ancora all’8% del Pil. L’Irlanda ha cumulato con la Spagna il peggio: nella crisi è esplosa sia la bolla bancaria sia quella immobiliare. Per questo, il budget 2014 irlandese è ormai l’ottavo consecutivo di austerità. Le sette finanziarie precedenti, tra tagli di spesa brutali e innalzamenti fiscali assai meno tosti dei nostri – l’Irlanda si è opposta ad alzare l’aliquota IRES sulle imprese, al 12,5%, un sogno per le aziende italiane e per di più non esiste l’IRAP – hanno migliorato i saldi pubblici per l’equivalente del 17% del Pil. E’ sicuramente l’esempio di maggior successo in campo europeo, a fronte dei 67,5 miliardi di aiuti ottenuti dalla trojka nel 2010, e infatti l’Irlanda è tornata sui mercati a piazzare titoli e a dicembre il monitoraggio della trojka cessa. E il budget 2014 contiene una manovra pari a soli 2,5 miliardi. L’economia è attesa in crescita del 2% nel 2014, e la disoccupazione dai massimi del 15% nel 1012 è scesa al 13%. Il governo guidato da Enda Kenny del partito Fine Gael (moderato, appartiene alla famiglia dei Popolari europei) voleva abolire il Senato per risparmiare, ma pochi irlandesi son andati alle urne e ha vinto il no. I laburisti, alleati al partito di maggioranza relativa moderato al governo, sono oggi a un terzo dei voti ottenuti nel 2011. Pagano il prezzo di aver difeso le imprese, ma il Paese è al rilancio. Quante cose avremmo da imparare, da Dublino.  La spesa pubblica era il 48% del Pil nel 2009, esplose al 65,5% nell’anno successivo, e già l’anno scorso era stata tagliata al 4,6,2%. Il totale delle entrate pubbliche è rimasto pari al 34,5% del Pil, perché la volontà resta di tagliare la spesa.

 

Ricordo a tutti che a fine 2012 l’Italia aveva una spesa pubblica pari al 50,6% del Pil, ed entrate pubbliche totali pari al 47.8%. La Germania, tanto per capire il gap, aveva una spesa pubblica del 44,7%: 6 punti di pil meno di noi, il che fa 100 miliardi tondi tondi. Anche se levate gli oneri da debito pubblico dovuti al maggior spread italiano su quello tedesco, restano 50 miliardi di maggior spesa italiana. E la Germania non è certo un Paese senza Stato e senza welfare… I contenimenti di spesa energici qui da noi ancora non si vedono neanche col governo Letta, ergo continueremo ad avere pressione fiscale elevatissima. Non lo so proprio se non era meglio la trojika, ognuno pesi questi numeri.

 

 

 

20
Ott
2013

Grounding airlines. Quando gli aerei restano a terra.

Cosa avviene quando un’aviolinea non è più in grado di effettuare i suoi voli, quando il dissesto finanziario è tale che non è più in grado di pagare il carburante e gli aerei restano a terra? Chi ha fiducia nel funzionamento dei meccanismi di mercato è portato a ritenere che se vi sono viaggiatori disponibili a pagare prezzi ragionevoli e vettori capaci di produrre il servizio a costi unitari non superiori a quei prezzi ragionevoli, vi sarà presto al posto del produttore fallito una nuova offerta in grado di soddisfare in maniera più efficiente la domanda. E’ evidente la necessità che il mercato sia libero, senza barriere legali o di altro tipo all’accesso, e che in tal modo sia possibile la concorrenza. Read More

19
Ott
2013

SI TAV = Decrescita (infelice)

E’ stato pubblicato ieri un appello promosso dal senatore del Pd Stefano Esposito e firmato da 30 personalità della comunicazione dell’imprenditoria per sostenere la Torino-Lione.

La premessa da cui trae spunto il documento è del tutto condivisibile: la “cultura del no” è diventata in Italia uno degli ostacoli principali allo sviluppo, alla crescita economica ed alla modernizzazione.

Ma è completamente fuori bersaglio il caso assunto come esemplificazione della tesi generale. Read More

16
Ott
2013

(M)Alitalia? Cambiamo canale! — di Massimo Famularo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Famularo.

A sorpresa, come nelle migliori soap opera del genere è arrivato l’incesto Poste in (M)alitalia.

Ancora soldi pubblici impiegati nel peggior modo possibile perché l’italianità, che di per sé  è una bufala di comodo, non verrà preservata, salvare esclusivamente i lavoratori (che nel nostro paese si sa non sono per niente tutti uguali) sarebbe costato molto meno e il concetto di bene strategico si può definire politicamente elastico.

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16
Ott
2013

I difetti della legge di stabilità, la nuova bastonata al risparmio

Sulle cosiddette “rendite finanziarie”, il Consiglio dei Ministri che ha varato la legge di stabilità ha finito apparentemente per sposare a metà entrambe le ipotesi che fino a ieri erano alternative. Il bivio iniziale era tra la linea sostenuta dal Pd sull’aumento della tassazione, oppure se i 900 milioni circa aggiuntivi da reperire per questa via si sarebbero ottenuti con la diminuzione di sgravi fiscali attualmente previsti con detrazioni Irpef al 19%, delle spese sostenute dai contribuenti a fini sanitari e d’istruzione, come preferiva il Tesoro. Diciamo subito che si tratta puramente di reperire cassa, non di perseguire finalità economicamente virtuose o di maggior equità. E che ciò smentisce platealmente la dichiarazione del premier Letta, “non più tasse ma solo sgravi”. L’elenco degli aggravi non si riduce infatti a questo capitolo: c’è l’introduzione a fini Irpef della tassazione sullòe case sfitte, aumenti d entrata da rivalutazione cespiti imprese, da nuovo regime ammortamento perdite bancarie, dalla fantasiosa trovata della rivalutazione delle quote di Bankitalia detenute dalle banche italiane, dalle nuove misure di regolarizzazione dei patrimoni detenuti all’estero…

Tutto ciò in una legge di stabilità che ha almeno tre difetti di fondo. Primo: delude in maniera totale ogni attesa di svolta, imperniata su energici tagli di spesa a copertura di meno imposte su lavoro e impresa, visto che senza tagli l’IRAP verrà solo limata in un triennio con una modesta mancia in più detrazioni al lavoro dipendente. Secondo: torna indietro di anni, di fatto alle finanziarie della prima Repubblica, lasciando aperte al Parlamento e alla trattativa tra partiti opzioni decisive su ogni essenziale capitolo. Terzo: non contiene alcuna indicazione su come dal 2015 inizieremo ad abbattere il debito pubblico nelle poporzioni assai rilevanti imposte dal fiscal compact.

Ma torniamo alla tassazione sul risparmio. Letta a metà serata di ieri ha annunciato che l’aumento di tassazione ci sarà, anche se diverso da come ce lo si aspettava, e in più per arrivare a un miliardo e 400 milioni di maggior gettito si aggiungeranno anche i tagli alle detrazioni IRPEF al 19%.
Tra le due alternative iniziali, era sicuramente l’ipotesi peggiore l’aumento ipotizzato al 22% dell’aliquota 2 anni fa stabilita al 20% per le rendite finanziarie insieme alla maggiorazione contestuale dell’imposta di bollo sui conti correnti. E’ rimasto solo un aumento del bollo maggiore del previsto – visto che solo da questo ci si aspetta 900 milioni di maggiori entrate – ed è comunque un errore.
Chiariamo intanto che cosa s’intende, per rendite finanziarie: i proventi generati alla sottoscrizione, alla chiusura dell’anno di imposta attraverso l’incasso di interessi o dividendi, o al momento del realizzo da parte sia delle persone fisiche che giuridiche. Quindi azioni o  titoli di Stato, interessi sui depositi di conto corrente, obbligazioni, mutui, impieghi pronti contro termine e anche semplici impieghi di capitali diversi però dall’acquisto di partecipazioni al capitale di rischio di imprese.
Due anni fa l’intervento che venne adottato in questa materia aveva sempre finalità di cassa, ma aveva anche su una giustificazione equitativa. In precedenza infatti sugli interessi maturati da obbligazioni emesse da privati di durata inferiore a 18 mesi si pagava un’aliquota del 27% e una del 12,5% se il bond era di durata maggiore. In teoria era per scoraggiare investimenti a breve e speculativi, in realtà finiva per esercitare effetti distorcenti sul finanziamento a breve delle imprese, consegnandole solo alle banche.

Per questo si decise di unificare l’aliquota al 20%, lasciando la condizione di favore dell’aliquota più bassa al 12,5% solo per i titoli di Stato e di emittenti pubblici di qualunque tipo (come Poste e risparmio postale), italiani ed esteri riconosciuti. Lo Stato fa sempre un favore a se stesso, con le tasse. Ai fini dell’afflusso di maggior investimenti alle imprese sarebbe stato utile riservare l’aliquota agevolata non solo allo Stato, ma anche per esempio ai fondi comuni di investimento mobiliari e immobiliari, ma la politica se ne guardò bene, applicando a quegli strumenti l’aliquota generale del 20%. Idem dicasi per i fondi pensione complementari. La cosa positiva era però abbassare dal 27% al 20% l’aliquota sui depositi di conto corrente.
Sempre per far cassa, mentre lo Stato levava peso dalla tassazione sui conti correnti con una mano, dall’altra faceva il contrario, introducendo una non troppo mini patrimoniale sul risparmio con l’imposta di bollo, dal primo gennaio 2012 di 34 euro l’anno per i conti delle persone fisiche e  di 100 per quelle giuridiche (con soglia di esenzione minima, 5mila euro). A questa patrimoniale sul risparmio lo Stato ne ha aggiunta un’altra, sempre di bollo, sui prodotti finanziari posseduti. E’ questa a salire ulteriormente molto, con la legge di stabilità. E quest’anno è anche arrivata la Tobin tax all’italiana, sulle transazioni finanziarie, adottata mentre l’Europa frena e dunque ulteriormente scoraggiando agli investimenti su borsa italiana.
Gli effetti cumulati della sete di entrate statale si sono puntualmente visti.  Nel 2012 il gettito da “rendite finanziarie” è salito del 46,8% aumentando  di 3,5 miliardi, e analogamente l’imposta di bollo ha registrato un incremento dell’11% con 622 milioni in più, dovuto proprio alla patrimoniale su conti correnti, strumenti di pagamento, titoli e prodotti finanziari.
Ora l’aumento di aliquota al 22% è stato evitato, ma non un forte aumento del bollo. Lasciando solo allo Stato il vantaggio fiscale sui suoi titoli, punendo una Borsa che resta la più depressa in tutto l’Ocse con un rapporto tra prezzo per azione e valore di libro inferiore all’unità per la stragrande maggioranza delle quotate, e picchiando in testa a un risparmio che andebbe convogliato a imprese e lavoro invece che a Stato e banche.

Non si dica che è più giusto tassare il capitale del lavoro, perché su questo sono d’accordo, e non mancano Paesi europei con aliquote più elevate del 20% sulle rendite finanziarie come in Germania (l’aliquota media OCSE è però del 16%). Ma nel caso tedesco la pressione fiscale sul PIL è inferiore alla nostra di 4 punti, ed è molto inferiore della nostra su lavoro e impresa. Da noi lo Stato prende dove può ogni qualvolta gli serve, ma a lavoro e impresa restituisce briciole. Come ancora una volta in questa legge di stabilità, purtroppo.

16
Ott
2013

Alitalia-Poste: è aiuto di Stato. Ecco come segnalare l’abuso alla Commissione Europea

L’intervento del governo nell’operazione Alitalia-Poste costituisce, secondo l’Istituto Bruno Leoni, una forma di aiuto di Stato illegale. Il salvataggio di Alitalia non dovrebbe avvenire a queste condizioni, in quanto viola le norme comunitarie sugli aiuti di Stato e la libera prestazione dei servizi. Per questo abbiamo segnalato l’Italia alla Commissione Europea. Ecco come fare se anche voi volete segnalare l’abuso.

UPDATE: Aggiunte le istruzioni per protestare col governo italiano.

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15
Ott
2013

In Svezia privatizzano le università. E il buon senso sconfisse l’ideologia.

Scrivevo qualche giorno fa (qui) che il welfare svedese è molto diverso da come appare, e che il sistema d’istruzione è l’archetipo di questo modello. Proprio in queste settimane si discute molto, nel paese scandinavo, del sistema universitario: in Svezia quasi tutte le università sono pubbliche e generosamente finanziate dallo Stato (che spende, per l’istruzione, più del 6% del suo PIL). L’istruzione è gratuita per tutti i cittadini dell’Unione Europea, e molti studenti svedesi vengono addirittura sovvenzionati dallo Stato per studiare. I rankings internazionali mostrano dati eccellenti per quanto riguarda la qualità delle università svedesi (vedi, per esempio, qui e qui). Sembrerebbe un sistema perfetto, ma negli ultimi anni le esperienze della Chalmers University of Technology, della Stockholm School of Economics e della Jönköping University Foundation, le uniche tre fondazioni universitarie private che possono riconoscere titoli equivalenti a quelli delle altre università, hanno destabilizzato l’opinione pubblica.

Queste tre università hanno subito un processo simile a quello che il Governo italiano rese possibile con la Legge 133/2008 (con ben poco seguito, a dire il vero): si sono trasformate in fondazioni private, cioè enti non commerciali sottoposti ad alcuni criteri stabiliti dall’Utbildningsdepartementet (il Ministero dell’Istruzione svedese) ma liberi in ordine alle modalità di finanziamento delle proprie attività, alla selezione del personale e a metodi e programmi accademici. Coloro che immaginavano un fallimento precoce di questi esperimenti si sbagliavano: le fondazioni hanno saputo reggere la concorrenza con le università pubbliche, attingendo a finanziamenti privati e offrendo sistemi organizzativi e didattici all’avanguardia (come dimostrano i dati della Swedish Higher Education Authority, che trovate qui).

Il dibattito è arrivato al punto che meno di un mese fa il Ministro dell’Istruzione ha presentato un progetto per offrire a tutte le università del paese la possibilità di trasformarsi in fondazioni, con l’obiettivo di garantire maggior autonomia agli istituti, motivandoli a generare utili da reinvestire nelle attività universitarie. Il progetto prevede una consultazione tra le parti interessate da concludersi entro il 15 novembre 2013. L’idea di fondo è quella di garantire un finanziamento pubblico parziale alle fondazioni per i primi sei anni, per poi lasciare totale autonomia finanziaria agli istituti (così come successo con le tre fondazioni attualmente esistenti).

Chi appoggia la proposta insiste sul surplus di fondi per la ricerca che si trarrebbero dalla riforma (dovuti al necessario perseguimento della razionalizzazione di costi e investimenti da parte dei singoli istituti), nonché sui benefici che maggiore flessibilità e autonomia apporterebbero alle strutture universitarie. Erik Arroy, rappresentante della Swedish National Union of Students, non nega l’opportunità di offrire maggiore autonomia accademica e finanziaria alle università, ma lamenta la poca chiarezza del documento presentato dal Ministero, auspicando che la consultazione porti alle dovute delucidazioni. Arroy manifesta dubbi soprattutto relativamente alla scelta delle fondazioni come forma giuridica e al problema di assicurare i diritti degli studenti nel passaggio da istituzione pubblica a istituzione privata. Vedremo, al termine della consultazione, quali saranno le manovre del Governo svedese.

In Italia una proposta di legge analoga fu avanzata in Parlamento per la prima volta già nel 2006 da Nicola Rossi, allora senatore del PD. La proposta fu poi inserita nella legge 133/2008 (la c.d. riforma Gelmini), ma il dato tristemente emblematico è lo scandalo che suscitò il fatto che a proporre un’idea simile fosse un parlamentare di sinistra. E a questo proposito è opportuno fare, indipendentemente da ogni giudizio sulla trasformazione delle università in fondazioni private, una breve considerazione generale.

È innegabile che a contraddistinguere politiche virtuose sia sempre la costante volontà di migliorarsi. L’abbiamo già detto: la Svezia ha uno dei sistemi educativi più invidiati al mondo. Eppure al suo interno si discute su come aggiornarlo e migliorarlo ulteriormente, senza che trovi alcuno spazio l’ideologia o la difesa a tutti i costi dello status quo. Fare paragoni è sempre ardito, ma riuscite a immaginare il polverone che scatenerebbe l’accostamento di principi simili -per esempio- alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale, che pure ne avrebbe un disperato bisogno?

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

 

14
Ott
2013

Napolitano, Renzi e l’indulto: i numeri dei disastri del passato, le ragioni di chi chiede di non ripeterli

La politica è immediatamente esplosa al giudizio espresso da Matteo Renzi sulla pressante richiesta al Parlamento rivolta dal Capo dello Stato, per un provvedimento di clemenza volto ad affrontare l’emergenza carceraria. Le polemiche sono centrate sul rispetto a Napolitano, sul sospetto che il candidato leader del Pd intenda colpire insieme il garante istituzionale di Letta e il governo stesso. E parole forti volano di conseguenza sia all’interno del Pd, sia tra sinistra e destra. Tanto per cambiare, la politica sembra prediligere facili giudizi di principio. Mentre la questione carceri, tanto la sua costante emergenza umanitaria che l’impatto concreto che il crimine esercita sulla società italiana, andrebbero invece esaminati freddamente, dati alla mano, allo scopo di evitare errori già più volte compiuti nella storia. E’ quello che da anni propongono – vanamente – alcuni autorevoli economisti italiani che monitorano il fenomeno, come Giovanni Mastrobuoni, Enrico Perotti, Francesco Daveri. Ed è alle loro analisi che si devono molte delle cifre che qui vi proponiamo. Per riflettere, e per giudicare meglio.

La situazione attuale – 66mila detenuti rispetto a 47 mila di capienza del circuito penitenziario – sembra esattamente riproporre quella del 2006, quando il Parlamento varò l’ultimo indulto. Allora, i detenuti erano oltre 61mila rispetto a una capienza massima dei penitenziari stimata di 43mila unità. Con l’indulto, i carcerati scesero nel dicembre 2006 a 39mila unità. Per risalire a 48mila un anno dopo, 58mila a fine 2008, 64 mila a fine 2009, 68mila un anno dopo. Da allora l’emergenza è permanente.

Ha torto o ha ragione Renzi quando chiede: ma che cosa ha fatto, la politica, da allora? vuole ripartire dagli errori commessi, invece di replicarli? I fatti sembrano dargli ragione.

Cominciamo dall’edilizia carceraria. Il Piano Carceri post-indulto, varato dal decreto legge 207 del 2008, ha conosciuto una vera e propria odissea. Da allora, tra nuovi decreti legge, decreti ministeriali e della Presidenza del Consiglio, ben 10 altri interventi normativi si sono succeduti. I poteri straordinari attribuiti al capo del DAP, il Dipartimento Affari Penitenziari del ministero della Giustizia, sono diventati 2 anni dopo poteri commissariali con pieno effetto sostitutivo di quelli ordinari, per poi essere attribuiti, da inizio 2012 a un prefetto ad hoc fuori dal recintod el DAP. E’ evidente la ragione, il commissario identificato con il responsabile tecnico del servizio penitenziario non funzionava. Lo dicono i numeri. Dai 37 mila posti di cui si parlava enfaticamente nel 2008 entro il 2012 si scese in 2 anni a 21mila, l’anno dopo a 18mila, e di fronte ai tagli dovuti al rientro di finanza pubblica – 229 milioni in meno sui circa 675 previsti – si è scesi nell’ultima versione del Piano carceri, quella del 31 gennaio 2012, a 11mila nuovi posti entro il 2014. Di fatto, rispetto al 2006, si sono aggiunti solo 3.100 nuovi posti entro dicembre 2012, e 1000 entro giugno di quest’anno. Resta l’obiettivo di 11mila nuovi posti entro il 2014, ma la serie storica mostra cheraggiungerlo è assai improbabile. La deroga alle nome urbanistiche ordinarie si è rivelata impossibile, il taglio delle risorse e la solita burocrazia hanno fatto il resto.

Passiamo alle misure alternative. In teoria, il cosiddetto terzo pilastro del Piano prevedeva novità al sistema sanzionatorio con misure che prevedessero, da un lato, la possibilità della detenzione domiciliare per pene detentive fino ad un anno, nonché la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, con conseguente sospensione del processo. E’ stata approvata nel 2011 la legge 62 volta a rendere più umana la detenzione di madri con figli piccoli, ma i risultati sono trascurabili: siamo fermi ancor oggi a poche decine di casi. E’ stata approvata la legge 199 del 2010, che ha dato la possibilità di scontare presso la propria abitazione, o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore ad un anno, poi innalzata a diciotto mesi l’anno successivo. Una norma che, in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione, scade il 31 dicembre di quest’anno. Perché nella scorsa legislatura non sono stati approvate le proposte del ministro Severino: né la delega al governo per l’introduzione della detenzione domiciliare come pena detentiva principale, nel caso di condanne per delitti puniti con la reclusione fino a quattro anni; né l’introduzione nel processo penale, come in quello minorile, della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato, quando il reato preveda la sola pena edittale pecuniaria o la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni; né, infine, il provvedimento generale di depenalizzazione, con una delega al governo per trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati di non particolare gravità. Ciascuno di questi capitoli ha bisogno di interventi ad hoc, se si vuole evitare di riempire nuovamente le carceri in pochi mesi come nel 2006. Ragionevolezza vorrebbe, inoltre, che da tali provvedimenti di depenalizzazione e “pene alternative” al carcere – se ben congegnati – scaturissero contenimenti permanenti del’affollamento carcerario, non effetti-elastico come quelli sin qui sempre riscontrati nella storia penitenziaria italiana dopo provvedimenti di clemenza stop and go.

Infine, veniamo al punto delicatissimo tra tutti, quello della pericolosità sociale. Quello su cui la politica si intesta la gara a chi vuol rassicurare gli italiani. Anche qui, i numeri parlano chiaro. Gli effetti dell’indulto del 2006 furono pessimi. I delitti per mille abitanti solo nel 2009 tornarono al livello – 42,8 – del 2005. Il dato si impennò invece nel 2006-07, raggiungendo il massimo di 49,4 per poi iniziare a normalizzarsi nel biennio successivo. Non furono solo le rapine in banca a pressoché raddoppiare nell’anno post indulto, ma anche la frequenza degli altri reati aumentò in misura consistente. Gli omicidi aumentarono da 601 del 2005 a 630 nel 2007, per scendere a 579 nel 2009. Il numero dei furti salì da 1 milione mezzo del 2005 a 1.636mila del 2007.

Sono numeri assai temibili, e gli italiani fanno bene dunque nei sondaggi a invitare alla cautela. Per evitare nuovi errori, la politica deve individuare con chiarezza non solo gli esclusi da misure di clemenza per reati di particolare odiosità e gravità, ma anche e soprattutto i recidivi, non a caso soggetti anche ad aggravi di pena con la ex Cirielli. Per i recidivi la risposta può venire solo riparando al disastro sin qui rimediato dal Piano carceri. Mentre senza norme generali di depenalizzazione, non si esce nemmeno dalla vergogna del 41% di detenuti in attesa di giudizio, e del 19% addirittura in attesa del giudizio di primo grado. Non sbaglia dunque, numeri alla mano, chi come Renzi invita a riflettere sulle pesanti responsabilità politiche del passato. A mio modesto avviso, il ruolo del capo dello Stato e la considerazione nei suoi confronti nonc’entrano proprio nulla.