7
Nov
2013

La Google tax e l’oca digitale

Stupisce, in un paese così profondamente votato all’inseguimento, la capacità della nostra classe politica di trovarsi sempre all’avanguardia in un campo: quello fiscale. Questa volta l’obiettivo sono Google e le altre multinazionali del web, colpevoli d’essere sbarcate in Irlanda – dove il reddito d’impresa è sottoposto a un prelievo del 12,5% – anziché in Italia, paese del sole e dell’Irap e dell’Ires al 27,5%.

Prima un emendamento alla delega fiscale, mirante a introdurre «sistemi di tassazione delle imprese multinazionali basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale»: una formulazione talmente vaga da mandare in corto-circuito persino il nostro ordinamento tributario, non proprio un fulgido esempio di garantismo. Ora una proposta di modifica della legge di stabilità, che circoscriverebbe ai soggetti muniti di partita iva italiana la possibilità di vendere beni e servizi online nel nostro paese; proposta introdotta da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, con la sanzione esplicita di Guglielmo Epifani e quella implicita di Matteo Renzi ed Enrico Letta.

È evidente a chiunque conosca i rudimenti del diritto comunitario che si tratta di un provvedimento illegittimo, palesemente in contrasto con i principî del mercato unico e della libera circolazione dei servizi e tale da esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. In questo senso, sarebbe legittimo chiedersi se l’iniziativa sia figlia di grossolana ignoranza o del desiderio di veicolare un messaggio, in spregio alle regole. Tuttavia, questa fatale obiezione non dovrebbe dissuadere da un’analisi del merito: non ci occupiamo, infatti, di una misura irrealizzabile eppure animata da intenzioni condivisibili, bensì di un intervento criticabile già nella sua impalcatura concettuale.

In primo luogo, si denota una scarsa comprensione del fenomeno che s’intende regolare. Cosa significa vendere online in Italia? Significa concludere transazioni con clienti italiani, quando magari l’oggetto delle stesse è prodotto in Polonia e distribuito dalla Germania? Oppure dovrebbe rilevare la presenza del venditore sul territorio italiano? E se sì, con che livello di stabilità? Ovvero, ancora, vogliamo sottoporre a prelievo tutti i servizi ospitati da domini italiani? Il fatto è che lo scambio telematico mal sopporta le categorizzazioni geografiche: e se pure è possibile localizzare una particolare operazione, per esempio ai fini dell’individuazione del diritto applicabile, disporre traslochi ex lege è un altro paio di maniche.

In secondo luogo, quest’approccio travisa il senso della concorrenza fiscale. Boccia bercia di fiscal dumping e proclama la necessità di tutelare gli operatori italiani dalla concorrenza sleale di quelli stabiliti all’estero. Con studiata manipolazione del linguaggio, egli accredita l’idea che vi sia un livello di tassazione – per così dire – naturale: guardacaso, quello applicato in Italia e non quello, più basso, individuato in paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo. Se davvero volesse «agire nell’interesse delle nostre imprese», Boccia avrebbe a disposizione una soluzione ovvia: adeguare al ribasso l’entità del nostro prelievo.

Ciò equivarrebbe a riconoscere che gli investimenti esteri e lo sviluppo del mercato digitale sono fattori di sviluppo cui l’Italia non può permettersi di rinunciare; e che il gettito generato non è il solo né il principale contributo di un’azienda al sistema economico di un paese. Purtroppo, oggi come sempre, l’urgenza è quella di «spennare l’oca in modo da ottenere il maggion numero possibile di piume con il minor numero possibile di strilli»: poco importa che l’oca viva su internet, starnazzi in inglese e deponga unicamente uova di Pasqua.

6
Nov
2013

Virus pericolosi — di Andrea Battista

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Battista.

Il mero confronto di dati, policy e regole di uno Stato con gli altri paesi europei è tanto apparentemente ovvio quanto logicamente fragile. È un confronto intrinsecamente distorto, perché in un mondo globale non v’è motivo di cercare la best practice a due passi da casa, in base alle più o meno presunte affinità culturali.

Né è ipotizzabile essere competitivi con il resto d’Europa per esserlo nel mondo, poiché il Vecchio Continente complessivamente non brilla certo – nella storia recente, nel momento attuale né, ahinoi, prospetticamente – per capacità competitive e performance economiche.

Sta di fatto che tale “benchmarking” avviene con continuità e disinvoltura in molti contesti. È pertanto fondamentale che le scelte scellerate degli altri paesi europei siano esaminate e criticate.

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5
Nov
2013

L’euro si conferma area monetaria non ottimale: cambiarne le regole o farsene mangiare

C’è un tema al quale la politica italiana, presa dalle sue mille polemiche interne, presta assai poca attenzione. Tranne poi vellicarlo superficialmente, da destra, sinistra e grillinamente, con sparate demagogiche a fini di consenso. E’ un tema assolutamente centrale: se ma soprattutto come cambiare l’Unione europea e le regole dell’euro, per impedire che o la crisi dell’euro uccida l’Europa, oppure che il perseguimento dell’euro a regole invariate ottenga, di fatto, lo stesso risultato.

Tra il 1996 e il 1997, prima della scelta finale della terza fase della moneta unica cioè dell’avvio dell’euro in quanto tale, pochi italiani autorevoli, di culture ed esperienza economica, finanziaria e manageriale assai diversa, tentarono invano di attirare l’attenzione della politica e dei media. Erano manager come Cesare Romiti, economisti keynesiani rigorosi alla Franco Modigliani come Paolo Savona, e offertisti come Antonio Martino. C’era anche l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che nel consolidamento bancario italiano solleverà poi polemiche e inchieste, ma che di moneta per riconoscimento unanime ne capiva e ne capisce eccome. A organizzare eravamo, all’epoca noi della fondazione Liberal.

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3
Nov
2013

La gioiosa macchina per la spesa

Uno degli aspetti più allarmanti della triste condizione in cui versa il nostro paese è costituito dalla scarsa considerazione, ai limiti dell’incoscienza, di quanto soffocare il nostro tessuto imprenditoriale possa danneggiare le prospettive di crescita del nostro paese e in definitiva diminuire il benessere futuro della collettività.
Qualche giorno fa la pubblicazione del rapporto doing business 2014 non ha destato particolare eco sulla stampa nostrana, se non per qualche sparuta considerazione superficiale La maggior parte degli interventi si è limitata a constatare il posizionamento del nostro paese nella classifica generale, registrando un modesto recupero rispetto allo scorso anno. Tuttavia è sufficiente un minimo di approfondimento per evidenziare quanto la situazione del nostro paese dovrebbe essere preoccupante: se restringiamo la classifica ai paesi ad alto reddito membri dell’OECD che sono i comparabili con i quali ha più senso fare un confronto troviamo che l’Italia è 29ma su 31 paesi solo Grecia e Repubblica Ceca hanno un posizionamento peggiore.

Rankings

Stiamo dicendo che in un mondo sempre più globalizzato, in cui è sempre più facile per i capitali muoversi e soprattutto il capitale umano ha raggiunto un’importanza senza precedenti nel determinare la “ricchezza delle nazioni” l’Italia è quasi il peggior posto dove fare impresa tra i paesi sviluppati. In termini relativi c’è un forte incentivo per le nostre imprese e i nostri cervelli ad andarsene e per quelli stranieri a non venire nel nostro paese e dunque non c’è da meravigliarsi se le imprese che ancora resistono abbiano scarsa convenienza a investire e creare nuova occupazione.

Eppure nel dibattito politico e sui mass media prevale una visione dello stato come una “gioiosa macchina per la spesa” in cui tutte le forze politiche da destra a sinistra si preoccupano solo di come redistribuire le risorse (tenendo per se ovviamente la parte del leone) incuranti dell’agonia in cui versa e delle tragiche prospettive di coloro i quali quelle risorse producono con sempre maggiore difficoltà. Tutti sembrano ragionare come se lo stato potesse sopravvivere tranquillamente anche dopo la morte per soffocamento dell’ultima impresa privata, forse pagando la propria spesa con qualche tipo di moneta filosofale  e a poco vale osservare che ormai siamo al livello in cui aumentato le aliquote il gettito diminuisce.
Mi sembra poi emblematico un commento ricevuto a questo post  che sentenziava

le tasse vengono pagate in maggiore misura da dipendenti pubblici e pensionati

Mi pare evidente che al commentatore non è chiara la differenza fondamentale tra il ruolo di quelli che si trovano al di fuori del perimetro della pubblica amministrazione (e delle sue propagini pseudoprivate) e producono le risorse che servono a mantenere coloro i quali invece ricevono il proprio reddito dallo stato (parlo in dettaglio della questione in questo post)

Mentre siamo troppo occupati a inseguire il pettegolezzo del giorno sulle primarie del PD, o l’ennesima puntata della telenovella sul signor B, la nostra classe dirigente sta lentamente segando il ramo su cui tutti siamo seduti e il risveglio da questo sogno ad occhi aperti non potrà che essere brusco ed estremamente sgradevole.

@massimofamularo

Apologia di Socrate

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2
Nov
2013

Oro: quello che si deve sapere. Parte II — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Nella prima parte di questo saggio abbiamo spiegato i fondamentali dell’oro. Il primo è la sua utilità marginale che decresce molto più lentamente di quella di qualsiasi altro bene tanto da potersi considerare costante per cui ogni incremento aggiunto a una scorta preesistente ha sempre la stessa utilità e questo è il motivo che rende l’oro la sostanza più tesoreggiabile in assoluto. Il secondo è l’elevato rapporto tra lo stock esistente e nuova produzione, più alto rispetto a qualsiasi altro bene per cui non se se verificano abbondanza o scarsità in grado di influenzarne il valore. La caratteristica oggettiva del valore dell’oro è dunque la sua stabilità, mentre quella del suo prezzo, la volatilità. Ma quest’ultima non è altro che quella riflessa delle valute legali manipolate in cui il metallo è correntemente quotato. L’oggettività del valore dell’oro non contraddice il principio di soggettività del valore di tutte le cose ma afferma soltanto che la soggettività non può prescindere dai fondamentali «oggettivi» del metallo. Senza queste proprietà l’oro non sarebbe diventato il denaro per eccellenza e l’espressione sintetica di tutti i valori. Come espressione di ricchezza reale nella sua forma più permutabile e liquida, costituisce il regolatore della quantità e qualità del credito impedendo gli abusi del debito di cui è il mezzo di estinzione definitiva. Sono stati proprio tali requisiti a caratterizzare il sistema aureo di cui, in questa seconda parte, spieghiamo il funzionamento, il significato storico e le tappe della sua eliminazione dal sistema monetario internazionale.

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31
Ott
2013

La fine della recessione spagnola – parte 2

Quali sono stati i fattori di maggiore rilevanza per la fine della recessione spagnola? In parte rispondevamo l’altro ieri su Leoniblog, con un grafico che rappresentava un settore importante dell’economia: l’automotive.

Negli ultimi anni in Italia si è parlato spesso di Fiat e dell’importanza di questo settore dell’economia in grado di produrre occupazione e veicoli da esportare. Mentre in Italia si parlava, molte volte a sproposito, e purtroppo poco cambiava, l’Italia rimaneva al palo, mentre in Spagna arrivavano gli investitori stranieri che portavano occupazione e sviluppavano il settore. Read More

31
Ott
2013

Banche: l’invito di Napolitano, 4 guai e le colpe dei regolatori

Ieri era la Giornata nazionale del risparmio, e il Capo dello Stato ha dato voce alla richiesta che si leva da famiglie e imprese italiane, dicendo chiaro e tondo alle banche “riaprite i rubinetti del credito”.
Giorgio Napolitano ha  ragione. Perché la decrescita italiana che prosegue – è di ieri la conferma dell’uscita dalla recessione della Spagna, mentre il trentaduesimo mese consecutivo di calo dei consumi italiani ieri ha depresso l’indice retail dell’intera eurozona – ha due ragioni di fondo. La prima è l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, mentre i redditi scendono (il Pil procapite è attualmente a quota -11% rispetto al 2007). Ma la seconda è proprio la restrizione di credito praticata dal sistema bancario.

Eppure Napolitano al contempo ha anche torto: perché, almeno dal mio modesto opunto di vista, i regolatori bancari italiani hanno messo in atto comportamentio tali da “far conseguire”, per così dire, proprio un indurimento del credit crunch.
La dimensioni del taglio degli impieghi è impressionante. Solo negli ultimi dodici mesi le banche hanno diminuito di oltre 3 punti di Pil, più di 52 miliardi di euro, i prestiti e finanziamenti a imprese e famiglie. Quelli al settore privato sono crollati del 3,5% , da 1.485 miliardi a 1.433 miliardi. E’ da due anni e mezzo, dall’inizio della fase più pesante dell’eurocrisi dei rischi sovrani e cioè dell’esposizione italiana allo spread elevato sui titoli pubblici tedeschi, che il calo si attesta su una media superiore al 3% annuo: dal precrisi, siamo a oltre 150 miliardi di euro di minori impieghi, quasi 10 punti di Pil. Mentre negli anni 2000-2009 i prestiti alle sole imprese erano aumentati del 100%.
Se andiamo a vedere come questa restrizione si distribuisce, le imprese più colpite sono al Nord. Per le imprese, a fine estate, quelle settentrionali registravano una contrazione di prestiti annuale del 3,8% nel Nord e Centro Italia, quelle meridionali del 2,4%. Ma è un dato dovuto al fatto che grandi e medie aziende – che “pesano di più nei prestiti bancari- sono soprattutto al Nord. Se infatti esaminiamo le sole piccole imprese familiari il dato è del tutto omogeneo: anzi il Sud registra un meno 3,8% e il CentroNord un meno 3,7%. Ma sono invece decisamente al Sud le famiglie più “tagliate” dai finanziamenti bancari. Le famiglie meridionali vedono mutui e prestiti al consumo diminuire tre volte più di quelle settentrionali, a inizio autunno 2013 rispetto all’anno precedente con un meno 1,4% rispetto al meno 0,5% del Centro Nord.
Dal 2011 in poi, l’ABI ha sostenuto che il più di questa restrizione di credito deriva da un calo della richiesta, cioè dal fatto che le imprese, colpite dal calo della domanda interna ed erose nei margini, investivano meno (in effetti abbiamo perso oltre un quarto di investimenti, tra pubblici e privati come quota sul Pil dal precrisi, siamo scesi intorno al 19% annuo) e dunque chiedevano meno prestiti. La realtà quotidiana spunta le unghie a questo argomento. Imprese e famiglie nelle difficoltà avrebbero bisogno di più credito, non di meno, e la difficoltà sta naturalmente nel valutare ed accordare il credito a chi lo merita, cioè a chi resta in condizioni di ripagarlo.
Ma il punto è che le banche italiane si trovano ad affrontare quattro diversi pesi, nelle loro ali. Alti costi. Un capitale “corto”, rispetto a maggiori prestiti . Alte sofferenze. E molti titoli pubblici in pancia: troppi.
Aver inseguito nel precrisi un modello di crescita del sistema bancario costruito su troppi sportelli – il rapporto tra popolazione e agenzie era 4 volte superiore a quello olandese, per dirne una – e troppi dipendenti, a seguito di acquisizioni bancarie senza successive razionalizzazioni di produttività, ha prodotto un’esplosione nella crisi. Dal 2008 a metà 2012 sono stati chiusi 700 sportelli, ma da allora altri 1300. E malgrado queste 2mila agenzie in meno siamo ancora a 54 sportelli per 100mila abitanti rispetto a 47 che è la media nell’eurozona. Il che significa anche, naturalmente, migliaia di bancari in meno: ed è per questo che siamo arrivati alla disdetta del contratto bancario, e al primo sciopero generale di settore, oggi dopo 13 anni. Tuttavia il taglio dei costi da solo non riporta in positiva una redditività di sistema che è diventata negativa nell’ultimo anno, rispetto a un ROE superiore al 6% del precrisi. Sempre a proposito di costi: retribuzioni e benefici aggiuntivi dei manager delle grandi banche restano troppo elevati, e istituti come Intesa ancora non tagliano le decine di amministratorin in eccesso derivanti dalla “tenuta in vita” di numerosissimi cda ereditati dalle ex banche “annesse”.

Sul capitale bancario, dopo il travagliato aumento di capitale in più tranche di Unicredit, a inizio dell’eurocrisi, i regolatori italiani hanno usato prudenza. Hanno preferito cioè non chiedere alle banche aumenti di capitale anche superiori ai requisiti minimi di capitale imposti dagli accordi di Basilea, per evitare che le fondazioni bancarie perdessero il controllo degli istituti di credito. Ed è anche per questo che oggi, prossimi all’inizio dei controlli su capitale rischi che saranno condotti per la prima volta dalla Bce, una decina di banche italiane corrono il rischio di non superare l’esame, a cominciare da Mps sul cui aumento di capitale da 2,5 miliardi appena imposto dall’Europa occorre intrecciare le dita, viste le condizioni in cui si trova.

Nella crisi tutti diventano cattivi pagatori. Per questo le banche italiane devono mettere capitale a riserva per fronteggiare l’esplosione dei crediti deteriorati, giunti alla cifra di 140 miliardi lordi: le banche preferiscono dare i numeri al netto ma ciò non toglie che quella è la cifra, e secondo Accenture il costo di questo rischio per le banche italiane, cioè le perdite per le rettifiche sui crediti, dal 2007 a fine 2012 è aumentato del 339 per cento.

Infine, un’altra ragione che “accorcia” il capitale bancario rispetto alla necessità di garantire prestiti a famiglie, è la contropartita che i regolatori pubblici hanno chiesto alle banche per non farne mutare il controllo proprietario: e cioè oltre 400 miliardi di titoli pubblici attualmente in portafoglio agli istituti di credito. Siamo il Paese dell’eurozona in cui la “repressione fiscale” a danno del sistema bancario nazionale è stata la più forte: persino più che in Grecia e Spagna.
Si poteva fare diversamente? Sì, con una grande bad bank alla spagnola, chiedendo aiuti europei, o se non lo si voleva fare usando le garanzie – le garanzie, non la liquidità – di Cdp a questo scopo, invece di usarla per replicare l’IRI e acquisendo aziende per farle restare pubbliche. Ma politica e Bankitalia hanno preferito di no. Qualcosa di diverso potrebbe fare anche la BCE, se compisse più operazioni sul mercato aperto (perfettamente cosnentite da Trattato e Statuto) “aiutando”, cioè, i finanziamenti non bancari, perché noi dipendiamo troppo dalle banche (il 92% dei finanziamenti a privati viene di lì) rispetto a qualunque altro Paese avanzato.

Una cosa è certa. La BCE ha comprato 100 miliardi di titoli pubblici italiani e prestato 250 miliardi alle banche italiane a costo praticamente zero. Ma tutto questo ha prodotto benefici al debito pubblico, mentre famiglie e imprese gemono.

29
Ott
2013

La fine della recessione spagnola – parte 1

Alla fine la Spagna è uscita dalla recessione. Una timida crescita del prodotto interno lordo nel terzo trimestre, come indica la Banca di Spagna, evidenzia la fine della recessione.

Da un punto di vista tecnico, si ricorda, una recessione è sostanziata da almeno due trimestri consecutivi di caduta del PIL e in Spagna erano due anni che l’economia mostrava il segno meno. Read More

28
Ott
2013

RAI: evitare finte privatizzazioni, il cosiddetto servizio pubblico si affidi con gara aperta

Da un mesetto, affiora sempre più spesso nelle parole del premier Letta e in quelle del ministro dell’Economia Saccomanni un piano di dismissioni pubbliche nel 2014. Ad aziende pubbliche di cui si è capito il governo pensa di cedere quote pubbliche senza per questo rinunciare al loro controllo – un grave errore per noi, l’abbiamo detto mille volte  – e a partite di giro immobiliari tasferite alla sgr Invimit del Tesoro con lo scopo di attuitrare capitali privati sdenza cedere immobili ma “valorizzandoli, altro errore per noi – l’ultima novità da parte di Saccomanni è stata ipotizzare un’operazione che potrebbe riguardare anche la Rai. Con immediate stroncature, del sindacato Usigrai come delle confederazionui nazionali, come delle diverse parti politiche.  Oggi a sparwere contro il ministro dell’Economia è il viceministro allo Sviluppo Catricalà, intervistato dal Messaggero: “la Rai deve restare pubblica”. Del resto lo stesso Saccomanni lo aveva lui per primo detto, che era comunque esclusa la cessione del controllo.

E come sbagliarsi: la politica non ne vuole neanche sentir parlare. Perché toccare la Rai significa intervenire al cuore di due problemi centrali della vita italiana: il conflitto d’interessi che oppone e insieme lega sin qui inscindibilmente i due ex duopolisti dell’emittenza, quello pubblico e Mediaset; nonché il più elevato livello di politicizzazione e partitizzazione realizzato in tutte le emittenti pubbliche dei Paesi avanzati. Eoppure, se sul resto delle privatizzazioni Letta pensa che tanto vale cominciare con dimissioni senza perdita di controllo perché è già qualcosa, in attesa che la politica capisca che la mano pubblica deve cedere anche il controllo e limitarsi al ruolo – quello pubblico sì, – di regolatore, certo che intervenire sulla Rai assumerebbe un’importanza ancor più rilevante di cambiamento possibile.

La Rai ha perso 244,6 milioni nel 2012, oggi il direttore generale Gubitosi dice che nel 2014 il pareggio operativo sembra a portata di mano. vedere per credere. Ma il nodo non è solo l’equilibrio dei conti. E’ l’insuccesso dell’idea italiana di servizio pubblico. Ieri a Londra il partito conservatore ha ammonito la BBC che può perdere la conferma al canone di oltre 3 miliardi di sterline annue, al 2016 quando si discute il contratto di servizio, senza svolte profonde nei conti e nella trasparenza. Da noi il contratto di servizio Rai 2013-2015, in vista della nuova convenzione generale del 2016, non suscita alcun interesse pubblico.

Il punto non è quotare la Rai aprendola a capitali minoritari privati: non servono ennesime finte privatizzazioni. Né puntare a far cassa, magari cedendone delle reti tematiche o degli asset. La questione è interrogarsi su come adottare un modello di privatizzazione facendolo discendere da una ridefinizione del servizio pubblico. Sarebbe una svolta vera anche rispetto al tema centrale per la vita del governo, cioè il superamento – o meno – del ventennio berlusconiano.

Ma ci vuole coraggio e visione, per questo. Non esiste un modello unico di servizio pubblico, nei Paesi avanzati. C’è un modello “liberale”, come in Gran Bretagna, dove il servizio pubblico è molto indipendente dalla politica del governo. C’è un modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di lottizzazione e clientelismo politici, con l’Italia al peggio, insieme – un po’ meno peggio di noi– a Spagna e Grecia. C’è poi un modello di “stakeholder sociali”, a cavallo tra politica, fondazioni, consumatori, enti locali: tipico dei paesi scandinavi, Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania.

Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per conti economici e ascolti. Se la BBC ha ancora il 50% dello share radio-televisivo, l’Italia vede la Rai combattere per il 40% nella tv e per difendere il 15% nella radio. L’offerta di servizio pubblico generalista iperpoliticizzata funziona assai peggio di quella indipendente. Il paradosso è che sia fallita prima in Grecia, dove il canone bassissimo finanziava solo l’1% delle entrate dell’azienda pubblica mentre l’80% veniva da pubblicità.

Solo partendo da un modello diverso, ha senso scegliere nel ventaglio possibile di opzioni societarie per la Rai di domani, e con quale ruolo dei privati. Purtroppo, da noi il modello BBC, cioè di una Royal Charter che davvero impedisce ogni quotidiana intromissione partitica in carriere e nomine, né prevede formule di governance iperpoliticiste come la nostra Commisisone di vigilanza parlamentare con poteri d’intervento,  appare lunarmente antitetica ruispetto a natura e appetiti “storici” della politica italiana: destra, sinistra e centro. Quanto al “federalismo all’italiana”, che ha aumentato costi senza inroraggiare virtù, eviterei di immaginarne uno virtuoso applicato a una RAI “germanizzata”, affidata ai presidenti e alle giunte delle Regioni.

Qui occorrerebbe immaginare una gara aperta a più soggetti del settore, per aggiudicarsi la convenzione di servizio pubblico. Il solo fatto di doverla bandire, obbligherebbe a ridefinire con precisione l’evanescente concetto italico di “servizio pubblico”, oggi fritto mistyo di puro intrattenimento, bassa qualità culturale, grande spazio a informazione “orientata” filo schieramenti politici. Una gara aperta che affidasse il servizio a gestori che potrebbero affiancare, in caso di vittoria, alle reti sottoposte a standard qualitativi di servizio pubblico e con meno pubblicità in cambio di un canone di servizio, anche proprie reti distinte societariamente e finanziariamente , e puramente commerciali. Una Rai contestualmente aperta a privati dovrebbe partecipare alla gara su base paritaria, e allora avrebbe davvero un senso la mutazione della sua veste giuridica e societaria. E  in quel caso i partiti – alla lunga – non avrebbero più voce in capitolo. Non è affatto un sogno. L’Italia ha bisogno di visioni forti, per tornare a correre.