3
Nov
2013

La gioiosa macchina per la spesa

Uno degli aspetti più allarmanti della triste condizione in cui versa il nostro paese è costituito dalla scarsa considerazione, ai limiti dell’incoscienza, di quanto soffocare il nostro tessuto imprenditoriale possa danneggiare le prospettive di crescita del nostro paese e in definitiva diminuire il benessere futuro della collettività.
Qualche giorno fa la pubblicazione del rapporto doing business 2014 non ha destato particolare eco sulla stampa nostrana, se non per qualche sparuta considerazione superficiale La maggior parte degli interventi si è limitata a constatare il posizionamento del nostro paese nella classifica generale, registrando un modesto recupero rispetto allo scorso anno. Tuttavia è sufficiente un minimo di approfondimento per evidenziare quanto la situazione del nostro paese dovrebbe essere preoccupante: se restringiamo la classifica ai paesi ad alto reddito membri dell’OECD che sono i comparabili con i quali ha più senso fare un confronto troviamo che l’Italia è 29ma su 31 paesi solo Grecia e Repubblica Ceca hanno un posizionamento peggiore.

Rankings

Stiamo dicendo che in un mondo sempre più globalizzato, in cui è sempre più facile per i capitali muoversi e soprattutto il capitale umano ha raggiunto un’importanza senza precedenti nel determinare la “ricchezza delle nazioni” l’Italia è quasi il peggior posto dove fare impresa tra i paesi sviluppati. In termini relativi c’è un forte incentivo per le nostre imprese e i nostri cervelli ad andarsene e per quelli stranieri a non venire nel nostro paese e dunque non c’è da meravigliarsi se le imprese che ancora resistono abbiano scarsa convenienza a investire e creare nuova occupazione.

Eppure nel dibattito politico e sui mass media prevale una visione dello stato come una “gioiosa macchina per la spesa” in cui tutte le forze politiche da destra a sinistra si preoccupano solo di come redistribuire le risorse (tenendo per se ovviamente la parte del leone) incuranti dell’agonia in cui versa e delle tragiche prospettive di coloro i quali quelle risorse producono con sempre maggiore difficoltà. Tutti sembrano ragionare come se lo stato potesse sopravvivere tranquillamente anche dopo la morte per soffocamento dell’ultima impresa privata, forse pagando la propria spesa con qualche tipo di moneta filosofale  e a poco vale osservare che ormai siamo al livello in cui aumentato le aliquote il gettito diminuisce.
Mi sembra poi emblematico un commento ricevuto a questo post  che sentenziava

le tasse vengono pagate in maggiore misura da dipendenti pubblici e pensionati

Mi pare evidente che al commentatore non è chiara la differenza fondamentale tra il ruolo di quelli che si trovano al di fuori del perimetro della pubblica amministrazione (e delle sue propagini pseudoprivate) e producono le risorse che servono a mantenere coloro i quali invece ricevono il proprio reddito dallo stato (parlo in dettaglio della questione in questo post)

Mentre siamo troppo occupati a inseguire il pettegolezzo del giorno sulle primarie del PD, o l’ennesima puntata della telenovella sul signor B, la nostra classe dirigente sta lentamente segando il ramo su cui tutti siamo seduti e il risveglio da questo sogno ad occhi aperti non potrà che essere brusco ed estremamente sgradevole.

@massimofamularo

Apologia di Socrate

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2
Nov
2013

Oro: quello che si deve sapere. Parte II — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Nella prima parte di questo saggio abbiamo spiegato i fondamentali dell’oro. Il primo è la sua utilità marginale che decresce molto più lentamente di quella di qualsiasi altro bene tanto da potersi considerare costante per cui ogni incremento aggiunto a una scorta preesistente ha sempre la stessa utilità e questo è il motivo che rende l’oro la sostanza più tesoreggiabile in assoluto. Il secondo è l’elevato rapporto tra lo stock esistente e nuova produzione, più alto rispetto a qualsiasi altro bene per cui non se se verificano abbondanza o scarsità in grado di influenzarne il valore. La caratteristica oggettiva del valore dell’oro è dunque la sua stabilità, mentre quella del suo prezzo, la volatilità. Ma quest’ultima non è altro che quella riflessa delle valute legali manipolate in cui il metallo è correntemente quotato. L’oggettività del valore dell’oro non contraddice il principio di soggettività del valore di tutte le cose ma afferma soltanto che la soggettività non può prescindere dai fondamentali «oggettivi» del metallo. Senza queste proprietà l’oro non sarebbe diventato il denaro per eccellenza e l’espressione sintetica di tutti i valori. Come espressione di ricchezza reale nella sua forma più permutabile e liquida, costituisce il regolatore della quantità e qualità del credito impedendo gli abusi del debito di cui è il mezzo di estinzione definitiva. Sono stati proprio tali requisiti a caratterizzare il sistema aureo di cui, in questa seconda parte, spieghiamo il funzionamento, il significato storico e le tappe della sua eliminazione dal sistema monetario internazionale.

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31
Ott
2013

La fine della recessione spagnola – parte 2

Quali sono stati i fattori di maggiore rilevanza per la fine della recessione spagnola? In parte rispondevamo l’altro ieri su Leoniblog, con un grafico che rappresentava un settore importante dell’economia: l’automotive.

Negli ultimi anni in Italia si è parlato spesso di Fiat e dell’importanza di questo settore dell’economia in grado di produrre occupazione e veicoli da esportare. Mentre in Italia si parlava, molte volte a sproposito, e purtroppo poco cambiava, l’Italia rimaneva al palo, mentre in Spagna arrivavano gli investitori stranieri che portavano occupazione e sviluppavano il settore. Read More

31
Ott
2013

Banche: l’invito di Napolitano, 4 guai e le colpe dei regolatori

Ieri era la Giornata nazionale del risparmio, e il Capo dello Stato ha dato voce alla richiesta che si leva da famiglie e imprese italiane, dicendo chiaro e tondo alle banche “riaprite i rubinetti del credito”.
Giorgio Napolitano ha  ragione. Perché la decrescita italiana che prosegue – è di ieri la conferma dell’uscita dalla recessione della Spagna, mentre il trentaduesimo mese consecutivo di calo dei consumi italiani ieri ha depresso l’indice retail dell’intera eurozona – ha due ragioni di fondo. La prima è l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, mentre i redditi scendono (il Pil procapite è attualmente a quota -11% rispetto al 2007). Ma la seconda è proprio la restrizione di credito praticata dal sistema bancario.

Eppure Napolitano al contempo ha anche torto: perché, almeno dal mio modesto opunto di vista, i regolatori bancari italiani hanno messo in atto comportamentio tali da “far conseguire”, per così dire, proprio un indurimento del credit crunch.
La dimensioni del taglio degli impieghi è impressionante. Solo negli ultimi dodici mesi le banche hanno diminuito di oltre 3 punti di Pil, più di 52 miliardi di euro, i prestiti e finanziamenti a imprese e famiglie. Quelli al settore privato sono crollati del 3,5% , da 1.485 miliardi a 1.433 miliardi. E’ da due anni e mezzo, dall’inizio della fase più pesante dell’eurocrisi dei rischi sovrani e cioè dell’esposizione italiana allo spread elevato sui titoli pubblici tedeschi, che il calo si attesta su una media superiore al 3% annuo: dal precrisi, siamo a oltre 150 miliardi di euro di minori impieghi, quasi 10 punti di Pil. Mentre negli anni 2000-2009 i prestiti alle sole imprese erano aumentati del 100%.
Se andiamo a vedere come questa restrizione si distribuisce, le imprese più colpite sono al Nord. Per le imprese, a fine estate, quelle settentrionali registravano una contrazione di prestiti annuale del 3,8% nel Nord e Centro Italia, quelle meridionali del 2,4%. Ma è un dato dovuto al fatto che grandi e medie aziende – che “pesano di più nei prestiti bancari- sono soprattutto al Nord. Se infatti esaminiamo le sole piccole imprese familiari il dato è del tutto omogeneo: anzi il Sud registra un meno 3,8% e il CentroNord un meno 3,7%. Ma sono invece decisamente al Sud le famiglie più “tagliate” dai finanziamenti bancari. Le famiglie meridionali vedono mutui e prestiti al consumo diminuire tre volte più di quelle settentrionali, a inizio autunno 2013 rispetto all’anno precedente con un meno 1,4% rispetto al meno 0,5% del Centro Nord.
Dal 2011 in poi, l’ABI ha sostenuto che il più di questa restrizione di credito deriva da un calo della richiesta, cioè dal fatto che le imprese, colpite dal calo della domanda interna ed erose nei margini, investivano meno (in effetti abbiamo perso oltre un quarto di investimenti, tra pubblici e privati come quota sul Pil dal precrisi, siamo scesi intorno al 19% annuo) e dunque chiedevano meno prestiti. La realtà quotidiana spunta le unghie a questo argomento. Imprese e famiglie nelle difficoltà avrebbero bisogno di più credito, non di meno, e la difficoltà sta naturalmente nel valutare ed accordare il credito a chi lo merita, cioè a chi resta in condizioni di ripagarlo.
Ma il punto è che le banche italiane si trovano ad affrontare quattro diversi pesi, nelle loro ali. Alti costi. Un capitale “corto”, rispetto a maggiori prestiti . Alte sofferenze. E molti titoli pubblici in pancia: troppi.
Aver inseguito nel precrisi un modello di crescita del sistema bancario costruito su troppi sportelli – il rapporto tra popolazione e agenzie era 4 volte superiore a quello olandese, per dirne una – e troppi dipendenti, a seguito di acquisizioni bancarie senza successive razionalizzazioni di produttività, ha prodotto un’esplosione nella crisi. Dal 2008 a metà 2012 sono stati chiusi 700 sportelli, ma da allora altri 1300. E malgrado queste 2mila agenzie in meno siamo ancora a 54 sportelli per 100mila abitanti rispetto a 47 che è la media nell’eurozona. Il che significa anche, naturalmente, migliaia di bancari in meno: ed è per questo che siamo arrivati alla disdetta del contratto bancario, e al primo sciopero generale di settore, oggi dopo 13 anni. Tuttavia il taglio dei costi da solo non riporta in positiva una redditività di sistema che è diventata negativa nell’ultimo anno, rispetto a un ROE superiore al 6% del precrisi. Sempre a proposito di costi: retribuzioni e benefici aggiuntivi dei manager delle grandi banche restano troppo elevati, e istituti come Intesa ancora non tagliano le decine di amministratorin in eccesso derivanti dalla “tenuta in vita” di numerosissimi cda ereditati dalle ex banche “annesse”.

Sul capitale bancario, dopo il travagliato aumento di capitale in più tranche di Unicredit, a inizio dell’eurocrisi, i regolatori italiani hanno usato prudenza. Hanno preferito cioè non chiedere alle banche aumenti di capitale anche superiori ai requisiti minimi di capitale imposti dagli accordi di Basilea, per evitare che le fondazioni bancarie perdessero il controllo degli istituti di credito. Ed è anche per questo che oggi, prossimi all’inizio dei controlli su capitale rischi che saranno condotti per la prima volta dalla Bce, una decina di banche italiane corrono il rischio di non superare l’esame, a cominciare da Mps sul cui aumento di capitale da 2,5 miliardi appena imposto dall’Europa occorre intrecciare le dita, viste le condizioni in cui si trova.

Nella crisi tutti diventano cattivi pagatori. Per questo le banche italiane devono mettere capitale a riserva per fronteggiare l’esplosione dei crediti deteriorati, giunti alla cifra di 140 miliardi lordi: le banche preferiscono dare i numeri al netto ma ciò non toglie che quella è la cifra, e secondo Accenture il costo di questo rischio per le banche italiane, cioè le perdite per le rettifiche sui crediti, dal 2007 a fine 2012 è aumentato del 339 per cento.

Infine, un’altra ragione che “accorcia” il capitale bancario rispetto alla necessità di garantire prestiti a famiglie, è la contropartita che i regolatori pubblici hanno chiesto alle banche per non farne mutare il controllo proprietario: e cioè oltre 400 miliardi di titoli pubblici attualmente in portafoglio agli istituti di credito. Siamo il Paese dell’eurozona in cui la “repressione fiscale” a danno del sistema bancario nazionale è stata la più forte: persino più che in Grecia e Spagna.
Si poteva fare diversamente? Sì, con una grande bad bank alla spagnola, chiedendo aiuti europei, o se non lo si voleva fare usando le garanzie – le garanzie, non la liquidità – di Cdp a questo scopo, invece di usarla per replicare l’IRI e acquisendo aziende per farle restare pubbliche. Ma politica e Bankitalia hanno preferito di no. Qualcosa di diverso potrebbe fare anche la BCE, se compisse più operazioni sul mercato aperto (perfettamente cosnentite da Trattato e Statuto) “aiutando”, cioè, i finanziamenti non bancari, perché noi dipendiamo troppo dalle banche (il 92% dei finanziamenti a privati viene di lì) rispetto a qualunque altro Paese avanzato.

Una cosa è certa. La BCE ha comprato 100 miliardi di titoli pubblici italiani e prestato 250 miliardi alle banche italiane a costo praticamente zero. Ma tutto questo ha prodotto benefici al debito pubblico, mentre famiglie e imprese gemono.

29
Ott
2013

La fine della recessione spagnola – parte 1

Alla fine la Spagna è uscita dalla recessione. Una timida crescita del prodotto interno lordo nel terzo trimestre, come indica la Banca di Spagna, evidenzia la fine della recessione.

Da un punto di vista tecnico, si ricorda, una recessione è sostanziata da almeno due trimestri consecutivi di caduta del PIL e in Spagna erano due anni che l’economia mostrava il segno meno. Read More

28
Ott
2013

RAI: evitare finte privatizzazioni, il cosiddetto servizio pubblico si affidi con gara aperta

Da un mesetto, affiora sempre più spesso nelle parole del premier Letta e in quelle del ministro dell’Economia Saccomanni un piano di dismissioni pubbliche nel 2014. Ad aziende pubbliche di cui si è capito il governo pensa di cedere quote pubbliche senza per questo rinunciare al loro controllo – un grave errore per noi, l’abbiamo detto mille volte  – e a partite di giro immobiliari tasferite alla sgr Invimit del Tesoro con lo scopo di attuitrare capitali privati sdenza cedere immobili ma “valorizzandoli, altro errore per noi – l’ultima novità da parte di Saccomanni è stata ipotizzare un’operazione che potrebbe riguardare anche la Rai. Con immediate stroncature, del sindacato Usigrai come delle confederazionui nazionali, come delle diverse parti politiche.  Oggi a sparwere contro il ministro dell’Economia è il viceministro allo Sviluppo Catricalà, intervistato dal Messaggero: “la Rai deve restare pubblica”. Del resto lo stesso Saccomanni lo aveva lui per primo detto, che era comunque esclusa la cessione del controllo.

E come sbagliarsi: la politica non ne vuole neanche sentir parlare. Perché toccare la Rai significa intervenire al cuore di due problemi centrali della vita italiana: il conflitto d’interessi che oppone e insieme lega sin qui inscindibilmente i due ex duopolisti dell’emittenza, quello pubblico e Mediaset; nonché il più elevato livello di politicizzazione e partitizzazione realizzato in tutte le emittenti pubbliche dei Paesi avanzati. Eoppure, se sul resto delle privatizzazioni Letta pensa che tanto vale cominciare con dimissioni senza perdita di controllo perché è già qualcosa, in attesa che la politica capisca che la mano pubblica deve cedere anche il controllo e limitarsi al ruolo – quello pubblico sì, – di regolatore, certo che intervenire sulla Rai assumerebbe un’importanza ancor più rilevante di cambiamento possibile.

La Rai ha perso 244,6 milioni nel 2012, oggi il direttore generale Gubitosi dice che nel 2014 il pareggio operativo sembra a portata di mano. vedere per credere. Ma il nodo non è solo l’equilibrio dei conti. E’ l’insuccesso dell’idea italiana di servizio pubblico. Ieri a Londra il partito conservatore ha ammonito la BBC che può perdere la conferma al canone di oltre 3 miliardi di sterline annue, al 2016 quando si discute il contratto di servizio, senza svolte profonde nei conti e nella trasparenza. Da noi il contratto di servizio Rai 2013-2015, in vista della nuova convenzione generale del 2016, non suscita alcun interesse pubblico.

Il punto non è quotare la Rai aprendola a capitali minoritari privati: non servono ennesime finte privatizzazioni. Né puntare a far cassa, magari cedendone delle reti tematiche o degli asset. La questione è interrogarsi su come adottare un modello di privatizzazione facendolo discendere da una ridefinizione del servizio pubblico. Sarebbe una svolta vera anche rispetto al tema centrale per la vita del governo, cioè il superamento – o meno – del ventennio berlusconiano.

Ma ci vuole coraggio e visione, per questo. Non esiste un modello unico di servizio pubblico, nei Paesi avanzati. C’è un modello “liberale”, come in Gran Bretagna, dove il servizio pubblico è molto indipendente dalla politica del governo. C’è un modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di lottizzazione e clientelismo politici, con l’Italia al peggio, insieme – un po’ meno peggio di noi– a Spagna e Grecia. C’è poi un modello di “stakeholder sociali”, a cavallo tra politica, fondazioni, consumatori, enti locali: tipico dei paesi scandinavi, Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania.

Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per conti economici e ascolti. Se la BBC ha ancora il 50% dello share radio-televisivo, l’Italia vede la Rai combattere per il 40% nella tv e per difendere il 15% nella radio. L’offerta di servizio pubblico generalista iperpoliticizzata funziona assai peggio di quella indipendente. Il paradosso è che sia fallita prima in Grecia, dove il canone bassissimo finanziava solo l’1% delle entrate dell’azienda pubblica mentre l’80% veniva da pubblicità.

Solo partendo da un modello diverso, ha senso scegliere nel ventaglio possibile di opzioni societarie per la Rai di domani, e con quale ruolo dei privati. Purtroppo, da noi il modello BBC, cioè di una Royal Charter che davvero impedisce ogni quotidiana intromissione partitica in carriere e nomine, né prevede formule di governance iperpoliticiste come la nostra Commisisone di vigilanza parlamentare con poteri d’intervento,  appare lunarmente antitetica ruispetto a natura e appetiti “storici” della politica italiana: destra, sinistra e centro. Quanto al “federalismo all’italiana”, che ha aumentato costi senza inroraggiare virtù, eviterei di immaginarne uno virtuoso applicato a una RAI “germanizzata”, affidata ai presidenti e alle giunte delle Regioni.

Qui occorrerebbe immaginare una gara aperta a più soggetti del settore, per aggiudicarsi la convenzione di servizio pubblico. Il solo fatto di doverla bandire, obbligherebbe a ridefinire con precisione l’evanescente concetto italico di “servizio pubblico”, oggi fritto mistyo di puro intrattenimento, bassa qualità culturale, grande spazio a informazione “orientata” filo schieramenti politici. Una gara aperta che affidasse il servizio a gestori che potrebbero affiancare, in caso di vittoria, alle reti sottoposte a standard qualitativi di servizio pubblico e con meno pubblicità in cambio di un canone di servizio, anche proprie reti distinte societariamente e finanziariamente , e puramente commerciali. Una Rai contestualmente aperta a privati dovrebbe partecipare alla gara su base paritaria, e allora avrebbe davvero un senso la mutazione della sua veste giuridica e societaria. E  in quel caso i partiti – alla lunga – non avrebbero più voce in capitolo. Non è affatto un sogno. L’Italia ha bisogno di visioni forti, per tornare a correre.

 

 

27
Ott
2013

Ufficio parlamentare per il bilancio: chi l’ha visto?

L’anno scorso è entrata in vigore la riforma costituzionale che ha introdotto nell’ordinamento italiano il pareggio di bilancio.

Come l’istituto Bruno Leoni ha fin da subito (PDF) e ripetutamente sostenuto, non basta tuttavia scrivere pareggio di bilancio nella rubrica della legge perché pareggio effettivamente sia.

In effetti, rispetto alla rigidità del concetto di pareggio di bilancio, che resta solo nella rubrica della legge costituzionale, il primo comma accoglie il concetto di un saldo elastico rispetto al ciclo, con esclusione di un vincolo di parità tra entrate e uscite assoluto per ogni bilancio, consegnando una “visione dinamica del principio dell’equilibrio, grazie alla quale in caso di output gap negativo la regola è rispettata in presenza di un disavanzo, nell’ambito di un saldo strutturale di medio periodo in pareggio”.

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25
Ott
2013

Romanzo d’evasione — di Antonio de Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Il Corriere della Sera di ieri nell’edizione on-line ha pubblicato l’ennesima notizia di un imprenditore assolto dal GUP dal delitto previsto dall’art. 10-ter del DLgs. 74/2000 “omesso versamento di IVA” (“Evade l’Iva per 180 mila euro, assolto «È stato costretto per via della crisi»”).

Al di là della semplificazione giornalistica che evidenzia l’inadeguatezza terminologia già nel titolo, di cui diremo subito dopo, la notizia ci consente di fare luce su un delitto che oramai colpisce molti imprenditori come effetto collaterale della crisi in atto ma anche su un aspetto giurisprudenziale disomogeneo.

Andiamo con ordine.

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24
Ott
2013

I sei punti critici della nuova imposta immobiliare, che da 20 bn può arrivare a 30 di gettito

La legge di stabilità è solo all’inizio del suo esame parlamentare. Ma a otto giorni dal suo varo abbiamo finalmente testi, e si è fatta così giustizia di alcuni proclami troppo roboanti, al suo varo mentre per altro il Consiglio dei ministri ancora era ben lungi dall’esser concluso. Sappiamo per esempio che il saldo della manovra per il 2014 vede la spesa pubblica aumentare di 2,6 miliardi, e che sul fronte fiscale la somma degli sgravi fiscali previsti e dei numerosi aggravi contestualmente disposti smentisce l’annuncio “niente più tasse”, visto che lo Stato incassa circa un miliardo di euro in più nel 2014 rispetto al 2013. Sappiamo che sul fronte delle pensioni la mancata indicizzazione vale 3,5 miliardi di euro in meno ai pensionati in un triennio, mentre il contributo di solidarietà sulle maxi rendite vale solo 21 milioni di euro l’anno. E via continuando.

Molte saranno le voci sulle quali il Parlamento cambierà in profondità il testo. Basta vedere le dichiarazioni di Pd e Pdl negli ultimi due giorni. Ma una cosa è sicura. La correzione dovrà per forza riguardare la nuova imposizione immobiliare che ingloba le “vecchie” IMU e Tares sostituendole con la Trise, composta dalla somma di Tasi e Tari. Stando alla relazione tecnica della legge di stabilità, il nuovo tributo dovrebbe portare ai Comuni dalle abitazioni principali 3.764 milioni di euro, invece dei 3.331 milioni garantiti dalla vecchia IMU. Sempre in teoria, la nuova imposta non dovrebbe superare il gettito complessivo – compreso di seconde case e immobili strumentali – del 2013, cioè 20 miliardi visto che dai 24 dell’anno precedente andrebbe defalcata la seconda rata 2013 di 4 miliardi (ancora da coprire). Al contrario, stando al dispositivo varato, l’imposizione sulla prima casa sembra proprio poter passare come detto da 3,3 ad almeno 3,7 miliardi. E quella complessiva può sfiorare addirittura i 30 miliardi invece dei 20 previsti nel 2013. E’ ovvio che incertezze di questo genere, per milioni di italiani alle prese con un reddito disponibile a prezzi correnti tornato a quello di 25 anni fa e con rate di mutui per questo sempre più ardue da coprire, esercitino un pesante effetto-sfiducia. Che non si riverbera solo sull’immobiliare, già in crisi verticale di suo e con compravendite nei primi sei mesi scese a 200mila unità dai 400mila precrisi, ma che colpisce anche i consumi generali. Per difendere la casa, se non so quanto pagherò davvero fino a che i Comuni approveranno i bilanci l’anno prossimo, risparmierò anche più del giusto e comprimerò così ulteriormente la domanda interna. E’ veramente bizzarro, come si possa essere concepito un simile pasticcio proprio mentre si dichiara di voler dare fiducia agli italiani.

Vediamo quali sono, gli almeno sei aspetti sui quali i conti non tornano.

 

Primo: l’aliquota Tasi prima casa. La Tasi, ricordiamolo, è l’imposta sui servizi indivisibili, che ingloba dunque una componente patrimoniale. Il Tesoro ha fatto un conto medio del gettito tenendo per ferma l’aliquota base, dell’1 per mille. Ma in realtà il conto è fatto senza l’oste, perché l’aliquota Tasi può salire fino al 2,5 nello stesso 2014. E per gli anni successivi nulla si dice, aprendo la porta all’incertezza di ulteriori aumenti. A fare la differenza saranno i Comuni, pienamente titolari della decisione sull’aliquota a seconda delle condizioni del proprio conto economico. Inutile dire che, in una situazione di tensione generalizzata delle finanze locali, supporre che a tenersi al minimo dell’aliquota saranno in tanti sindaci non è un esercizio ragionevole, ma di fantascienza. Apparentemente, visto che l’aliquota IMU andava dal 4 per mille base al 6 maggiorabile dai Comuni, il vantaggio dovrebbe essere netto, ma…

 

Secondo: le detrazioni sulla prima casa. La vecchia Imu prevedeva una detrazione di 200 euro per tutti. In più, anche se la norma scadeva a dicembre 2013, a questa soglia si aggiungevano altri 50 euro per ogni figlio convivente nella prima abitazione e inferiore ai 26 anni di età. Il combinato disposto era tale che oltre 4 milioni di unità immobiliari registrate come “prime case”, un buon 20% dei potenziali soggetti d’imposta, risultavano “sotto la linea” ed erano così completamente esenti dal tributo. Le detrazioni non sono più previste con la nuova TASI. In realtà i 400 milioni di maggior gettito TRISE dalla prima casa, che si deducono dai testi varati dal Tesoro, vengono tutti di qui. Al ministero hanno ragionato che poiché la detrazione sui figli conviventi veniva meno a fine anno, la base impositiva andava reintegrata esattamente come se la detrazione non ci fosse stata. Ma c’era eccome, e una furbizia contabile non può giustificare che che chi non pagava ora pagherà, al contempo dicendogli che non è vero.

 

Terzo. L’aliquota complessiva. La vecchia aliquota massima IMU sulle altre abitazioni diverse dalla prima casa era fissata nel 10,6 per mille. Le nuove norme prevedono che quello resti come tetto, aggiungendovi però l’aliquota base della nuova Tasi, e così arriviamo all’11,6. Ragioniamo sempre nell’ipotesi realistica delle estese difficoltà finanziarie dei Comuni. Poiché sappiamo dai dati del gettito 2012 che l’aliquota media IMU sulle abitazioni diverse dalla prima casa è stata intorno al 9,3 per mille, fare i conti dell’aggravio possibile nel 2014 è agevole. La Tasi, se ha come tetto l’11,6 per mille della rendita immobiliare, può salire di 2,3 punti rispetto alla vecchia IMU. Cioè del 30% del gettito complessivo precedente. Ed ecco perché, se sommate gli aggravi su tantissime prime case prima esenti dall’IMU, la vasta applicazione possibile della Tasi al 2,5 per mille invece che all’1 per mille (che da solo secondo il Tesoro vale 3,7 miliardi), e l’aumento generalizzato fino a un terzo del prelievo sugli altri immobili, spannometricamente ma non sbagliando arrivate fino a oltre 9 miliardi di gettito potenziale aggiuntivo tra prime case e altre abitazioni (senza prima casa abrogata nel 2013, se si conferma anche l’abrogazione della seconda rata). In altre parole, si potrebbe passare da 20 a quasi 30 miliardi sul totale.

 

Quarto. Le facoltà dei Comuni. Il governo si difende da questo conto – ripetiamo deducibile dalle norme varate – affermando di aver dato un bonus ai Comuni di un miliardo, per “star sotto” al precedente gettito IMU. Capite bene che 30 miliardi di possibile gettito meno un miliardo fa sempre 29 miliardi rispetto a 20, e la stangata resta. Con un nuovo siluro al mercato immobiliare, sceso nel primo semestre 2013 a 200mila compravendite dalle oltre 400 mila del precrisi. Come è evidente, occorre porre delle “griglie” più penetranti alle facoltà concesse ai Comuni. E’ giusto che la nuova imposta sia pienamente “locale”. Ma nel cambio di passo e con l’acqua alla gola tanto diffusa nelle Autonomie, l’effetto può essere disastroso. In questi giorni, per fare un esempio, Roma e Milano sono ancora alle prese con l’approvazione del bilancio preventivo 2013, e tengono tutte le aliquote del prelievo fiscale al massimo loro possibile. Oltretutto, visti i tempi di approvazione dei bilanci preventivi comunali, che slittano sempre più verso fine anno, significa che quanto davvero si pagherà potremo apprenderlo solo in sede di conguaglio, poco prima dell’ultima rata: tra un anno, appunto.

 

Quinto. Dalle imprese, ditte individuali e società, nel 2012 venivano 16,7 miliardi di IMU pagato all’aliquota del 7,6 per mille su capannoni a immobili vari e diversi strumentali all’attività di lavoro. Da questa cifra, le deduzioni previste con la Tasi a fini Irpef – per i titolari di ditte individuali – e Ires – per le società, varranno in tutto 274 milioni, secondo la relazione tecnica della legge di stabilità. Stiamo parlando di uno sgravio alle imprese pari a meno di un sessantesimo del gettito totale precedente. In quanto la deducibilità Ires-Irpef del 20% dell’imposta sugli immobili strumentali, prevista dalla stessa legge di stabilità, crea uno sconto medio da 58 euro ogni 100mila di valore catastale, ma la Tasi produce un aggravio che può arrivare ai 100 euro. Ergo ancora una volta gli effetti tendono ad elidersi,e le imprese resteranno a portafoglio assai più vuoto di quanto sperassero all’annuncio della deduzione.

 

Sesto. L’Irpef sullo “sfitto”. In ogni caso, le deduzioni per le imprese sono collegate al ritorno in tassazione Irpef delle abitazioni sfitte, sia pur promettendo di non prevederlo nella generalità dei casi ma con attenzione a congiunti. Qui la questione è di principio: per molti proprietari tenere sfitte una seconda casa significa da una parte temere i mancati pagamenti di affittuari in difficoltà, dall’altra necessità se si sta tentando di venderla, dovendo scontare i tempi di molto allungatisi su un asfittico mercato immobiliare per la realizzazione del valore del bene. Significa, in altre parole, colpire chi è in difficoltà. Insieme ai titolari prima casa prima esenti, a coloro che hanno seconde abitazioni in Comuni dove l’aliquota era prima lontana da quella massima, mentre oggi magari i Comuni faranno una scelta diversa, e agli imprenditori che avranno solo una modestissima boccata d’ossigeno. Niente male, come bilancio di un’operazione presentata come “epocale”, e concepita invece dal Tesoro come strumento per liberarsi dalle pretese dei Comuni a spese del contribuente e con aliquote crescenti negli anni.