La Google tax e l’oca digitale
Stupisce, in un paese così profondamente votato all’inseguimento, la capacità della nostra classe politica di trovarsi sempre all’avanguardia in un campo: quello fiscale. Questa volta l’obiettivo sono Google e le altre multinazionali del web, colpevoli d’essere sbarcate in Irlanda – dove il reddito d’impresa è sottoposto a un prelievo del 12,5% – anziché in Italia, paese del sole e dell’Irap e dell’Ires al 27,5%.
Prima un emendamento alla delega fiscale, mirante a introdurre «sistemi di tassazione delle imprese multinazionali basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale»: una formulazione talmente vaga da mandare in corto-circuito persino il nostro ordinamento tributario, non proprio un fulgido esempio di garantismo. Ora una proposta di modifica della legge di stabilità, che circoscriverebbe ai soggetti muniti di partita iva italiana la possibilità di vendere beni e servizi online nel nostro paese; proposta introdotta da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, con la sanzione esplicita di Guglielmo Epifani e quella implicita di Matteo Renzi ed Enrico Letta.
È evidente a chiunque conosca i rudimenti del diritto comunitario che si tratta di un provvedimento illegittimo, palesemente in contrasto con i principî del mercato unico e della libera circolazione dei servizi e tale da esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. In questo senso, sarebbe legittimo chiedersi se l’iniziativa sia figlia di grossolana ignoranza o del desiderio di veicolare un messaggio, in spregio alle regole. Tuttavia, questa fatale obiezione non dovrebbe dissuadere da un’analisi del merito: non ci occupiamo, infatti, di una misura irrealizzabile eppure animata da intenzioni condivisibili, bensì di un intervento criticabile già nella sua impalcatura concettuale.
In primo luogo, si denota una scarsa comprensione del fenomeno che s’intende regolare. Cosa significa vendere online in Italia? Significa concludere transazioni con clienti italiani, quando magari l’oggetto delle stesse è prodotto in Polonia e distribuito dalla Germania? Oppure dovrebbe rilevare la presenza del venditore sul territorio italiano? E se sì, con che livello di stabilità? Ovvero, ancora, vogliamo sottoporre a prelievo tutti i servizi ospitati da domini italiani? Il fatto è che lo scambio telematico mal sopporta le categorizzazioni geografiche: e se pure è possibile localizzare una particolare operazione, per esempio ai fini dell’individuazione del diritto applicabile, disporre traslochi ex lege è un altro paio di maniche.
In secondo luogo, quest’approccio travisa il senso della concorrenza fiscale. Boccia bercia di fiscal dumping e proclama la necessità di tutelare gli operatori italiani dalla concorrenza sleale di quelli stabiliti all’estero. Con studiata manipolazione del linguaggio, egli accredita l’idea che vi sia un livello di tassazione – per così dire – naturale: guardacaso, quello applicato in Italia e non quello, più basso, individuato in paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo. Se davvero volesse «agire nell’interesse delle nostre imprese», Boccia avrebbe a disposizione una soluzione ovvia: adeguare al ribasso l’entità del nostro prelievo.
Ciò equivarrebbe a riconoscere che gli investimenti esteri e lo sviluppo del mercato digitale sono fattori di sviluppo cui l’Italia non può permettersi di rinunciare; e che il gettito generato non è il solo né il principale contributo di un’azienda al sistema economico di un paese. Purtroppo, oggi come sempre, l’urgenza è quella di «spennare l’oca in modo da ottenere il maggion numero possibile di piume con il minor numero possibile di strilli»: poco importa che l’oca viva su internet, starnazzi in inglese e deponga unicamente uova di Pasqua.