13
Nov
2013

Più del secondo figlio, conta se in Cina i comunisti aprono davvero a un pieno diritto di libera proprietà

I media italiani hanno deciso oggi di informare sul plenum del Partito Comunista Cinese dedicato alle riforme economiche puntando nei titoli all’apertura al “secondo figlio”, dopo che dal 1979 Pechino segue la linea del contenimento demografico. In effetti è un tema a forte presa popolare, e la demografia cinese è squilibrata poiché ad alcune coorti demografiche centrali – tipo quella tra i 50 e i 54 anni – mancano molti milioni di individui per effetto della Grande Carestia tra il 1958 e il 1962, nonché dei milioni di persone soppresse negli anni 1966-76 per effetto della Rivoluzione Culturale.

Ma l’importanza della nuova linea cinese sta altrove: nel fatto che si punta a una vera estensione del diritto fondamentale per ogni successiva idea evolutiva di libero mercato, il diritto di proprietà. Vedere per credere, naturalmente. Ma senza di questo dire “più mercato e meno Stato” è un ossimoro, con il partito comunista ferreamente al potere.

E’ vero, il comunicato diramato dal plenum è ancora troppo generico, persino i social network cinesi hanno protestato. Ma già dal tono e da alcuni passaggi del comunicato, emergono segnali di grande importanza.

Innanzitutto compare un aggettivo nuovo rispetto al gergo del PCC: si dice che nei prossimi anni il ruolo del mercato dovrà essere “decisivo”. Sinora, nel post Deng Xiao Ping, si era arrivati nei documenti ufficiali a dire che il mercato aveva un ruolo “basic”, ma mai “decisivo”. L’aggettivo apre la porta a una graduale revisione del meccanismo di controllo politico-amministrativo dei prezzi, che domina ancora vastissimi settori della seconda economia mondiale? Vedremo. La Cina oggi è salita al rango di secondo esportatore e terzo importatore, con un Pil che in un decennio è passato dal 15% planetario a superare il 20%.

Ma i passaggi  di potenziale  vera rottura sono altri. Innanzitutto quello in cui si annuncia di voler rivedere il sistema “a due livelli” di proprietà della terra, che sin qui inibiva – nella vastissima Cina rurale, estranea alle 19 aree a sviluppo speciale costiere – agli agricoltori il pieno diritto proprietario della terra, compresa la sua vendita. “Gli agricoltori devono partecipare ugualmente ai frutti della modernizzazione”, recita il comunicato.

Una successiva affermazione va al centro della questione su cui si gioca la sostenibilità del continuo processo di urbanizzazione avvenuto nell’ultimo quindicennio: 30 anni fa solo il 20% della popolazione cinese era urbanizzata, oggi il 48%. E questa migrazione è necessaria perché in 30 anni grazie ad essa il 40% della manodopera cinese si è spostata dall’agricoltura all’industria e ai servizi. Ebbene a questo proposito il comunicato del plenum annuncia un nuovo criterio di distinzione tra territorio urbano e rurale, consentendo alle città di espandersi più rapidamente e promettendo agli agricoltori un più alto risarcimento se la terra verrà espropriata a fini di sviluppo, oltre che di urbanizzazione.

Un mercato fondiario unificato tra città e campagne superererebbe la negazione stessa dell’idea di mercato sin qui mantenuta in oltre il 75% del territorio cinese. Significa anche la necessità di rivedere il sin qui vigente sistema di registrazione rigida della residenza per i lavoratori rurali, una vecchia eredità dello stalinismo. Ma fare davvero questo porta inoltre – altro passaggio importante della dichiarazione finale – ad aggiornare i livelli sin qui molto asimmetrici dei servizi pubblici tra città e campagne: vengono citati sanità, istruzione e pensioni. Senza servizi adeguati, non si diventa consumatori: ed è questo che serve alla Cina, che deve dipendere meno dal suo export e più dal suo mercato interno.

A deludere gli osservatori, sono invece le frasi dedicate alle grandi imprese che restano controllate dallo Stato. Qui il tono resta ispirato a grande prudenza. Si riconosce che i potenti monopoli di Stato hanno un rendimento economico medio pari alla metà dei gruppi privati delle zone speciali di sviluppo, ma attaccarli direttamente avrebbe significato minare alla base il potere dei militari e del partito. Si preferisce parlare di lotta alla corruzione e agli eccessi della burocrazia, e di graduali aperture per gli investimenti privati ​​e stranieri attraverso la deregolamentazione, già testata nelle zone di libero scambio .

Una forte delusione riguarda poi il silenzio su alcune materie che erano invece molto attese, perché “promesse” dai documenti preparatori del plenum: in particolare per ciò che riguarda un graduale passaggio verso forme di liberalizzazione del tasso d’interesse, e una disciplina più di mercato degli intermediari finanziari pubblici. Il cattivo credito, la pessima qualità degli asset bancari, un vastissimo “sistema bancario ombra”, rappresentano grandi minacce sul futuro della Cina, (meglio non immaginare che cosa avverrebbe nel mondo, in caso di default cinesi a catena). Affrontare questi nodi è premessa obbligata per immaginare una valuta cinese, lo yuan-renmimbi, liberamente fluttuante sui mercati, e non più sottoposta al controllo rigido e politico (ma sin qui sapiente) del suo troppo graduale apprezzamento sul dollaro, come avvenuto in questi anni.

Tuttavia è già molto, che la Cina si metta in moto con tanta ufficialità per un nuovo orizzonte entro il 2020, indicando alcuni dei più importanti terreni della sua persistente arretratezza. Se la paragoniamo all’estenuata mancanza di volontà e coraggio del nostro continente europeo, c’è molto da riflettere.

 

 

12
Nov
2013

Il surplus tedesco e l’infrazione Ue: una grande occasione per ragionare e cambiare, non per insultarsi

Mercoledì la Commissione Europea apre formalmente il dibattito su un punto che, sul Messaggero, da tempo sono stato tra i primi a sollevare. Si tratta di una questione molto delicata. Perché riguarda la coesione europea e il pieno rispetto delle regole europee. Quelle regole alle quali, giustamente, da anni i Paesi eurodeboli – come l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda – vengono costantemente richiamati. Solo che questa volta non si tratta di verificare gli estremi di una violazione posta in essere da qualcuno di loro. Si parla della Germania. Ed evidentemente la cosa fa alzare immediatamente la temperatura politica. Perché la Germania è il Paese leader dell’euroarea, ha i bilanci pubblici in regola con un deficit di poco superiore allo 0% del Pil, e per quanto sia salito anche il suo debito pubblico nella crisi di questi anni, è comunque più basso del nostro di 50 punti di Pil.

Come è evidente, non siamo affatto gli unici a conoscere l’esistenza della regola europea violata. La spiegazione è un’altra. La politica italiana, quella di Parigi, e dell’intero blocco dei Paesi eurodeboli a cominciare dalla Spagna, si sente – ed è, inutile girarci intorno – tanto debole, sia pure per ragioni diverse, da preferire non ingaggiare un confronto diretto con Berlino, con la cancelliera Merkel, e con gli stessi socialdemocratici che, da ex forza di opposizione, sconfitti alle urne stanno ora trattando un patto di coalizione proprio con la Merkel. Tuttavia il problema esiste. Lo ha prima solevato il Tesoro statunitense. Ieri il silenzio è stato rotto dal commissario europeo agli affari economici Olli Rehn, e a questo punto il nodo va affrontato.

La regola in questione, in attuazione dell’articolo 121-2 del Trattato che attribuisce al Consiglio Europeo il potere di emanare raccomandazioni a ogni Stato membro, sulla base di proposte e di analisi fatte dalla Commissione esaminando le politiche economiche nazionali di ciascuno, riguarda gli squilibri della posizione netta sull’estero dei Paesi membri. La procedura d’infrazione, con tanto di eventuali sanzioni proporzionate al Pil, scatta se i Paesi registrano o un deficit eccessivo sull’estero di parte corrente, superiore al 4% del Pil sommando le partite commerciali e quelle di trasferimenti di redditi e rimesse, oppure un surplus troppo elevato, superiore per tre anni al 6% del Pil. Il dato di fatto è che la Germania va oltre quella soglia dal 2007, ogni anno.

Quando il Tesoro statunitense, due settimane fa, ha posto il problema, si è giustamente guardato dal richiamare al rispetto di una norma europea. Ne ha fatto una questione generale, e la politica come i media germanici hanno reagito con fastidio e qualche punta di stizza, pregando Obama di badare ai fatti suoi, visto che in Congresso non riesce a raggiungere alcun accordo strutturale con l’opposizione repubblicana su come ridurre il debito pubblico. Ma la regola di cui stiamo parlando è stata posta nel set di norme europee proprio perché gli squilibri sull’estero dei membri finiscono per esercitare effetti sistemici. E questi effetti sono tanto più rilevanti se il Paese in questione è quello leader. E’ esattamente questo l’argomento sostenuto ieri da Rehn. Che non a caso ha accompagnato il caso tedesco alla renitenza a riforme incisive sin qui mostrata dalla Francia, altro paese membro la cui forza e impatto sull’Unione monetaria è molto significativa.

La difficoltà ora è quella di evitare che la vicenda assuma significati impropri. E’ molto probabile che media e opinioni pubbliche, nei Paesi stremati da fisco e recessione come l’Italia, cadano nel riflesso condizionato del “dagli al tedesco”. Vedi oggi il tono usato da grillo verso Letta, definito “un Quisling fantoccio dei etdeschi”. Sarebbe un errore gigantesco, sprofondare in questi toni. E non è soplo un rischio italiano. Se ne sono visti i segni, in questi giorni, anche su testate autorevolissime, come il Wall Street Journal che ha pubblicato opinioni pregiudizialmente a favore del fatto che il surplus tedesco non danneggi certo gli eurodeboli, e il Financial Times o il Daily Telegraph i cui commentatori la pensano invece esattamente all’opposto. In piccolissimo, io stesso ho amici tedeschi che, dopo anni da me trascorsi a polemizzare contro i mancati tagli a spesa pubblica e tasse italiane e le mancate riforme per alzare la produttività- idee alle quali non rinuncio –  mi han chiesto se per caso non mi abbia dato di volta il cervello, sollevando il problema germanico.

Al contrario, bisogna fare tutto il giusto e il possibile perché le regole vengano rispettate. In altre parole, la Commissione dovrà valutare quanto del surplus tedesco in questi anni derivi dalla forza oggettiva delle sue esportazioni, quanto dai flussi di capitale interni ed esterni all’euroarea verso un paese considerato ancora di sicurezza, quanto poi di questi flussi verso gli intermediari bancari germanici abbiano a propria volta influito sostenendo e alimentando le diverse “bolle” degli eurodeboli, prima del 2011.

Il surplus tedesco non è solo mera espressione di forza economica, perché in quel caso si deve solo rendere omaggio alle riforme che i tedeschi hanno fatto – nella finanza pubblica, nel mercato del lavoro e nel welfare – prima e meglio di noi, quando erano il grande malato europeo e seppero rimettersi in piedi. Ma il surplus sale anche per il fatto che il tasso di cambio dell’euro viene temperato verso il basso dalla recessione e dai guai degli eurodeboli, e per l’asimmetria esistente tra eurodeboli ed euroforti non solo nel tasso di cambio ma anche quanto a tasso d’inflazione, visto che gli eurodeboli devono evitare di finire a prezzi negativi mentre l’economia tedesca avrebbe bisogno di un tasso d’interesse più elevato del nostro, vista la sua maggior forza.

Ed è esattamente per queste persistenti asimmetrie del ciclo economico tra deboli e forti, che al Consiglio della BCE della settimana scorsa tedeschi, austriaci e olandesi hanno votato contro il taglio dei tassi proposto da Draghi. Non per cattiveria o perché ci odino, ma perché oggettivamente gli interessi nazionali di chi marcia più spedito sono diversi da quelli di chi giace a terra. Nei grandi Paesi che in passato hanno registrato forti surplus, come il Giappone che pure finì in stagnazione per vent’anni, quasi sempre il riallineamento avviene sotto la spinta del tasso di cambio. Da noi, per gli eurodeboli, l’unica compensazione possibile – per chi non capisce che bisogna rapidamente alzare la produttività e alleggerire la mano del fisco – è la svalutazione del potere reale dei redditi, salari e pensioni. Ma così facendo oltre una certa misura sono le opinioni pubbliche, a ribellarsi nelle urne.

Nessuno può pensare che Berlino voglia in un batter d’occhio alzare salari e pensioni, per “tirare” più importazioni dai Paesi deboli dell’euro. Non è troppo utile neppure illudersi sulla posizione della Spd, visto che le indiscrezioni la vogliono d’accordo con la Merkel nel negare fondi europei dell’ESM alla vigilanza sull’Unione bancaria esercitata dal 2014 dalla BCE. E nel negare altresì che su eventuali salvataggi e fallimenti bancari sia la Commissione ad aver voce in capitolo, invece dei governi nel Consiglio europeo. Ciò malgrado, un confronto serio e ragionevole con Berlino sul suo surplus costituisce una grande occasione: tutti insieme, nella ragionevolezza dei toni, per far fare un passo avanti a un’Europa che oggi è ancora molto lontana dall’aver raggiunto regole che la rendano un’acquisizione stabile davvero, nel tempo e sui mercati. Certo: credere che vinca la ragionevolezza, visto i tempi, è sempre un esercizio di sfrenato ottimismo.

 

11
Nov
2013

La Legge di stabilità, ovvero come ignorare il merito per finanziare gli sprechi

Immaginate di essere l’allenatore di una squadra di calcio e di avere a disposizione due attaccanti. Durante gli allenamenti, in settimana, il primo si allena duramente e segna valanghe di gol; il secondo, invece, arriva sempre in ritardo, è indolente e segna poco. Chi fareste giocare titolare la domenica? Suppongo il primo. Lo Stato, invece, farebbe probabilmente giocare il secondo, e sapete perché? Perché ha manifestato l’intenzione di comprarsi dei nuovi scarpini di marca… Pagati dai tifosi della squadra!

Fuor di metafora, questo è ciò che, essenzialmente, prevede la bozza del Ddl collegato alla Legge di stabilità. il Governo s’impegna a erogare a micro, piccole e medie imprese “finanziamenti a fondo perduto per favorire la digitalizzazione dei processi aziendali e l’ammodernamento tecnologico” per 200 milioni di euro, il tutto nell’ambito di un nuovo programma di politica industriale. Un termine, quest’ultimo, che già da solo fa rabbrividire. Sia chiaro: lo svecchiamento delle imprese italiane è una priorità assoluta per la ripresa economica, e non c’è dubbio che anche la politica debba fare la sua parte in questa direzione. Ma qui non si discute dell’an, bensì del quomodo.

Innanzitutto, ci sono settori e settori, imprese e imprese. E non tutti hanno gli stessi bisogni e necessità, per non parlare di chi gli investimenti nell’ammodernamento della propria azienda li ha già fatti, ma di tasca propria. Non solo. La UE ci ha bacchettato già in diverse occasioni per gli sprechi commessi nella distribuzione a pioggia dei suoi fondi strutturali, e come darle torto?

Abbiamo già assistito troppe volte ad aiuti pubblici alle imprese che, tolta la maschera, si rivelano operazioni clientelari costose e dannose per (quasi) tutti. Secondo una ricerca condotta da Marco Cobianchi nel suo libro “Mani bucate”, i procedimenti aperti dalla UE contro l’Italia per aiuti alle imprese ritenuti potenzialmente illegali ammonterebbero a 38.070 negli ultimi 10 anni. Senza contare gli aiuti de minimis, cioè quelli inferiori a 200.000 euro e che pertanto non devono essere notificati alla UE. Ed è stata la stessa Ragioneria Generale dello Stato a sottolineare, nel suo ultimo rapporto annuale sulla spesa pubblica, la pessima gestione che viene fatta di questi finanziamenti, e in particolare di quelli a fondo perduto. D’altra parte, come si può pensare che lo Stato conosca meglio delle imprese quali siano gli investimenti migliori per renderle competitive?

Il tutto è reso ancor più paradossale dalle dichiarazioni rilasciate poco dopo, in pompa magna, dal premier Letta, secondo cui il cuneo fiscale “si può ridurre di più, ma dobbiamo decidere come”. La pressione fiscale sulle PMI ha raggiunto, nel 2012, la cifra record del 68%. Le imprese che riescono a reggere la concorrenza nonostante questo enorme carico fiscale continuano a sacrificarsi per redistribuire risorse a realtà imprenditoriali fallimentari tramite favori elettorali travestiti da agevolazioni. Di fronte a tutto questo, il nostro Presidente del Consiglio si chiede dove trovare risorse per tagliare il cuneo fiscale: indizio inequivocabile che all’orizzonte non appare nessun segno di discontinuità con quel circolo vizioso di matrice keynesiana tra spesa e tassazione che strozza la nostra economia da decenni.

Se la priorità del Governo è il sostegno alla crescita, ridurre le tasse su lavoro e impresa è la prima misura da prendere. Il che, si badi, non significa necessariamente tagliare la spesa sociale (abbondantemente tutelata da questo Governo, peraltro; si pensi alla social card), ma quelle stesse spese teoricamente a favore dell’economia e che, invece, le si ritorcono contro, togliendo a chi produce e premiando realtà improduttive e sprecone. Non è una questione di ideologie, ma di priorità. Anche perché a favore dell’abbattimento dei finanziamenti alle imprese giocano ragioni di equità: un taglio dell’IRAP o del cuneo fiscale aiuterebbe tutte le imprese, e non solo le poche beneficiarie (vincolate, peraltro, ai diktat del Governo sulle strategie di investimento da intraprendere). Inoltre, la gestione dei fondi da assegnare alle imprese ha dei costi amministrativi da non sottovalutare tra predisposizione dei bandi di gara e verifica degli adempimenti da parte delle imprese beneficiarie. A cui si aggiungono i costi sostenuti dalle imprese per studiare i bandi e predisporre progetti adeguati ai requisiti richiesti. Infine, bisogna considerare i fenomeni di corruzione e di infiltrazione di organizzazioni criminali che fin troppo spesso accompagnano le gare pubbliche.

Letta afferma che le uniche due strade percorribili per tagliare il cuneo fiscale sono restringere la categorie di chi può usufruire delle agevolazioni o attendere il rimpatrio di risorse provenienti dalla Svizzera. Questa seconda ipotesi è evidentemente aleatoria, per non dire irrealistica. La prima, invece, soffre dello stesso identico vizio di questa Legge di Stabilità: ancora una volta prevede l’intervento del Leviatano statale per decidere chi sia meritevole o meno di godere degli sgravi sui redditi. Ma la soluzione, pur non semplice, sarebbe ridurre l’ammontare complessivo degli incentivi erogati alle imprese (la cui media è di 10 miliardi annui, una cifra impressionante) e utilizzare il gettito risparmiato per dar loro un po’ di respiro fiscale, a fronte del totale delle “imposte sugli affari” considerate nel bilancio dello Stato.

Varrebbe la pena lasciare che del tradizionale aut aut tra redistribuzione ed efficienza si occupino i manuali di economia. L’Italia è stufa di perdere le partite per colpa delle scelte autoritarie dei suoi allenatori: lasciamo fuori chi non merita di stare in campo e iniziamo a far giocare i migliori. E vedrete che anche i panchinari inizieranno a impegnarsi di più.

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

 

10
Nov
2013

Responsabilità civile dei magistrati: testo del governo inaccettabile, seguire il modello spagnolo

L’ultimo Consiglio dei ministri ha varato un emendamento in due commi alla più ampia legge annuale di adempimenti comunitari. E’ un testo che riguarda la responsabilità civile pubblica a risarcire danni giudiziali. Il vicepremier Alfano ha creduto lì per lì, o almeno così è sembrato da un suo tweet, che si trattasse finalmente di una piccola e insieme grande rivoluzione, sulla cui necessità l’Italia è spaccata da 26 anni. Ma non è così, e ha subito dovuto fare marcia indietro.

E’ un tema delicatissimo, quello di chi e come debba pubblicamente risarcire i danni prodotti da procedimenti e decisioni della giustizia. Perché investe l’eguaglianza di tutti i cittadini, cioè l’articolo 3 della Costituzione. Investe l’uguglianza di tutti i pubblici dipendenti tra loro, cioè l’articolo 28, il quale prevede che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti», e che «in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Ma investe anche le particolari prerogative di autonomia e indipendenza della magistratura da ogni altro potere, fissate all’articolo 101,104 e 108 .

E’ un tema al quale la magistratura associata e le diverse correnti togate riservano il fucile spianato, pronte a gridare alla lesa indipendenza del magistrato. Ed è un tema su cui, nella seconda Repubblica, Pdl e Pd hanno incessantemente litigato, con decine di progetti di legge nessuno dei quali è mai stato approvato.

Che l’Italia sia spaccata su questo, è storia lunga. Nel novembre 1987, ottenne una maggioranza dell’80% il referendum abrogativo dei tre articoli del codice di procedura civile del 1940, norme che sottoponevano la responsabilità civile a tali limitazioni, filtri, autorizzazioni e designazioni di giudici ad hoc diversi da quello naturale, da rendere per 47 anni il principio vergognosamente del tutto inoperante. Lo Stato, di fatto, si era reso sinora irresponsabile, come un antico monarca assoluto.

Dopo il referendum fu approvata una legge, la 117 del 1988 conosciuta anche come legge Vassalli. E’ una legge che di fatto, a giudizio di molti e anche di chi qui scrive, travisa l’esito del referendum (come del resto è avvenuto molte volte, pensate a quello sulla Rai). Perché la 117 ci lascia con la bocca amara? Perché apparentemente all’articolo 1 estende l’applicabilità della responsabilità civile – in capo allo Stato – a tutti i magistrati, monocratici e collegiali, ordinari e contabili, amministrativi e militari, e anche a coloro che partecipano alla funzione giudiziaria da estranei all’ordine. Ma poi, all’articolo 2, fissa dei paletti strettissimi all’esercizio concreto di tale responsabilità. Viene limitata a chi ha subito un danno per dolo, colpa grave o denegata giustizia da parte dei magistrati, ma esclude che in tali ipotesi possa ricadere ogni interpretazione delle norme di diritto, valutazioni di fatti o prove. E’ la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, benedetta e difesa a spada tratta da Anm e CSM.

Inoltre l’azione di responsabilità è preventivamente sottoposta a un giudizio di ammissibilità del tribunale competente che deve preventivamente valutare, oltre al rispetto dei termini, la non manifesta infondatezza della domanda. Nel caso di danno riconosciuto è lo Stato che ne risponde, ed esso può poi rivalersi nei confronti del magistrato ma solo se questi ha compiuto un reato. E inoltre non in termini proporzionali al danno che lo Stato ha dovuto liquidare alla parte lesa, bensì entro il limite di un terzo dell’annualità di stipendio del magistrato stesso.

Non c’è da stupirsi se, con una legge concepita come mera versione aggiornata e corretta dello scudo prima impenetrabile, di fronte a oltre 400 cause di responsabilità civile avviate contro lo Stato (con circa 500 milioni di euro risarciti in 25 anni a vario titolo, a cittadini e imprese) solo 4 volte – quattro! – la rivalsa sul giudice responsabile sia effettivamente scattata.

E’ un numero che la dice lunga. Non sul rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario. Ma sul fatto che i magistrati continuano a non rispondere del danno ingiusto a terzi, quando sbagliano. E’ il principio del “cane non mangia cane” (i magistrati insorgono, quando si usa tale espressione): quello per cui i tribunali sono “strettissimi” nell’ammissibilità dell’azione e nel giudicare atti di colleghi.

L’infrazione europea

Non è per questo, però, che il governo Letta torna sulla materia. E’ obbligato a farlo perché c’è un ballo una procedura d’infrazione europea. La Corte di Giustizia Europea ha più volte, negli anni, censurato i “paletti” della legge Vassalli. Lo ha fatto nel 2003, affermando che una limitazione del risarcimento al danno causato esclusivamente con dolo o colpa grave del giudice costituisce una restrizione della responsabilità dello Stato che non può essere accettata, in quanto non rispettosa del parametro della “violazione sufficientemente caratterizzata” – cioè manifesta – che può da sola determinare l’insorgere della responsabilità dello Stato. La legge italiana sui limita insomma ai soli “errori aberranti”, è troppo restrittiva. Sempre la Corte di Giustizia nel 2006 e nel 2011 ha poi precisato che la responsabilità dello Stato deve sorgere anche quando detta violazione manifesta del diritto vigente “risulti da un’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero di valutazione dei fatti e delle prove”. Esattamente ciò che la legge Vassalli esclude. Se da una parte l’infrazione comunitaria si riferisce a circa l’80% delle norme vigenti che ormai hanno fonte europea, a maggior ragione dovrebbe valere anche nei residui casi che riguardano il solo diritto nazionale. Ma per anni il governo italiano ha fatto l’indiano. Malgrado le centinaia di condanne rimediate dalla Corte Europea, per casi conclamati di malagiustizia. E a settembre la procedura d’infrazione contro l’Italia è stata alla fine formalmente incardinata.

La risposta del governo

Ma il testo approvato in Consiglio dei ministri è, ancora una volta, per così dire, il minimo sindacale. Mui verrebbe da dire: un vergognoso minimo sindacale. Un primo comma prevede che lo Stato risponda del danno ingiusto su violazioni del diritto comunitario effetto di decisioni giurisdizionali del solo ultimo grado, esaurite le impugnazioni ed entro i tre anni dalla sentenza. Un secondo comma abbraccia sì l’estensione della responsabilità civile pubblica al caso di interpretazione delle norme prima escluso, ma con una sfilza di circostanze restrittive tali per cui ancora una volta i magistrati non vi ricadranno praticamente mai, e sarà eventualmente il solo Stato a pagare. Si prevede infatti che deve essere accertata: l’intenzionalità della sbagliata interpretazione – figuriamoci!; la scusabilità o meno dell’errore – idem come sopra; nonché il grado di chiarezza della norma applicata – con il singolare caso di uno Stato che ammette a discolpa propria e del magistrato il bizantinismo incomprensibile delle sue norme, che noi invece come cittadini-sudditi siamo obbligati a rispettare. Manca ogni tipo di intervento abrogativo o correttivo sul filtro oggi esistente di ammissibilità, come sulla rivalsa possibile sul magistrato nel solo caso di reato da questi commesso, ipotesi che restringe ulteriormente ogni ipotesi che qualche magistrato paghi (e sempre nei limiti del terzo di stipendio….)

 

Come funziona altrove

Ma è vero quel che i magistrati ripetono sempre, e cioè che in tutto il mondo avanzato il responsabile diretto non è mai il magistrato ma solo lo Stato? Sì e no. Anzi, i no pesano eccome. Nei Paesi di Common Law, Stati Uniti, Regno Unito e Commonwealth, in effetti il giudice è irresponsabile, direttamente e indirettamente. Tuttavia sia in America che a Londra questa irresponsabilità è equilibrata da misure disciplinari che arrivano alla rimozione per misbehaviour, cioè per cattiva condotta nella quale ricadono non solo tutti casi richiesti dalla Corte di Giustizia europea e negati dalla legge italiana, ma altresì la stessa semplice negligenza.

La Francia è invece persino peggio dell’Italia. La responsabile del magistrato è indiretta, e lo Stato può rivalersi su di lui solo per dolo o frode ma non per colpa grave. In Germania è prevista la responsabilità dello Stato, che può rivalersi nei confronti dei magistrati per dolo e colpa grave. Nei Paesi Bassi la responsabilità civile è solo dello Stato, nessuna sua rivalsa verso il magistrato. La Spagna è invece l’ordinamento europeo più avanzato. Lo Stato risponde non solo di ogni errore giudiziale ma anche del funzionamento anormale della giustizia – e da noi sarebbe più la regola che l’eccezione, col 41% dei detenuti in attesa di condanna passata in giudicato e il 19% in attesa di giudizio di primo grado. La Spagna risponde del danno per le carcerazioni preventive seguite da assoluzioni. E la Ley organica del Poder Judicial del 1988 consente al cittadino danneggiato di citare in giudizio, oltre allo Stato, direttamente il giudice responsabile per dolo o colpa grave, in quanto la sua responsabilità è diretta e concorrente. In Spagna Stato e giudice possono essere così chiamati direttamente a risarcire il danno, superato anche lì il filtro di un apposito Tribunale che verifica i presupposti dell’azione. Insomma n Spagna la responsabilità duale, dello Stato e a fianco del giudice, esiste eccome. Ed è quella alla quale si potrebbe benissimo guardare, anche in Italia.

 

Come procedere?

La tesi sostenuta dai magistrati è semplice. Poiché la decisione di un magistrato può produrre sempre conseguenze considerate come un danno dalla parte interessata, il togato va sollevato dalla responsabilità generale a risarcire di chiunque arrechi danni a terzi, posta all’articolo 2043 del Codice Civile. Numerosissime sentenze della Corte Costituzionale, negli anni, hanno appoggiato la tesi che contempera due princìpi: la responsabilità civile deve valere anche per i magistrati, come da articolo 28 della Costituzione, ma con limitazioni per rispettare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Sono pienamente coerenti a questi dettami, a mio giudizio, i due quesiti sulla responsabilità civile compresi nell’ultimo “pacchetto referendario” dei radicali: coi quali si chiede l’abrogazione dell’articolo della legge Vassalli che esclude l’interpretazione di norme dalla responsabilità civile, come chiede la Corte Europea, e altresì dell’articolo che introduce il “filtro” giudiziale all’azione di responsabilità, facendo così cadere il “cane non mangia cane.” Ma, in realtà, un Parlamento che volesse davvero – a mio giudizio – essere coerente con la volontà espressa dagli italiani 25 anni fa, avrebbe dovuto e dovrebbe ispirarsi all’esempio della “responsabilità duale” spagnola. E’ difficile che avvenga se non impossibile, finché la giustizia sarà un terreno di scontro obbligato per via delle vicende di Berlusconi a cui si contrappone giustizialismo a prescindere. Ma sono i cittadini e le imprese italiane, intanto, a pagare la malagiustizia troppo diffusa. Una malagiustizia che vede lo Stato ancora più monarca assoluto, che eguale a noi nei suoi diritti e doveri.

8
Nov
2013

50 anni di Alitalia spiegati in 7 grafici

Gli studenti del mio corso di Finanza Pubblica, molto interessati a comprendere l’attuale crisi di Alitalia, erano alle superiori ai tempi della  crisi del 2008, quella che vide la cacciata di Air France e la discesa in  pista dei ‘capitani coraggiosi’, erano alle medie ai tempi del fallimento del primo tentativo di aggregazione con Air France e alle elementari quando falli l’accordo con KLM, all’asilo quando fu terminata la liberalizzazione dei cieli europei e neonati o ancor nel grembo materno quando nel giugno 1992 i ministri dei trasporti dei paesi dell’Unione si accordarono sui tempi e sulle modalità della completa liberalizzazione. Fu allora che furono programmati gli strumenti concorrenziali in grado di ottenere le migliori condizioni per i consumatori, tra cui gli stessi studenti che con poche decine di euro alla volta possono da anni visitare l’Europa, studiare in altri paesi, trovarvi lavori migliori e anche formare famiglie europee.

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7
Nov
2013

La Google tax e l’oca digitale

Stupisce, in un paese così profondamente votato all’inseguimento, la capacità della nostra classe politica di trovarsi sempre all’avanguardia in un campo: quello fiscale. Questa volta l’obiettivo sono Google e le altre multinazionali del web, colpevoli d’essere sbarcate in Irlanda – dove il reddito d’impresa è sottoposto a un prelievo del 12,5% – anziché in Italia, paese del sole e dell’Irap e dell’Ires al 27,5%.

Prima un emendamento alla delega fiscale, mirante a introdurre «sistemi di tassazione delle imprese multinazionali basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale»: una formulazione talmente vaga da mandare in corto-circuito persino il nostro ordinamento tributario, non proprio un fulgido esempio di garantismo. Ora una proposta di modifica della legge di stabilità, che circoscriverebbe ai soggetti muniti di partita iva italiana la possibilità di vendere beni e servizi online nel nostro paese; proposta introdotta da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, con la sanzione esplicita di Guglielmo Epifani e quella implicita di Matteo Renzi ed Enrico Letta.

È evidente a chiunque conosca i rudimenti del diritto comunitario che si tratta di un provvedimento illegittimo, palesemente in contrasto con i principî del mercato unico e della libera circolazione dei servizi e tale da esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. In questo senso, sarebbe legittimo chiedersi se l’iniziativa sia figlia di grossolana ignoranza o del desiderio di veicolare un messaggio, in spregio alle regole. Tuttavia, questa fatale obiezione non dovrebbe dissuadere da un’analisi del merito: non ci occupiamo, infatti, di una misura irrealizzabile eppure animata da intenzioni condivisibili, bensì di un intervento criticabile già nella sua impalcatura concettuale.

In primo luogo, si denota una scarsa comprensione del fenomeno che s’intende regolare. Cosa significa vendere online in Italia? Significa concludere transazioni con clienti italiani, quando magari l’oggetto delle stesse è prodotto in Polonia e distribuito dalla Germania? Oppure dovrebbe rilevare la presenza del venditore sul territorio italiano? E se sì, con che livello di stabilità? Ovvero, ancora, vogliamo sottoporre a prelievo tutti i servizi ospitati da domini italiani? Il fatto è che lo scambio telematico mal sopporta le categorizzazioni geografiche: e se pure è possibile localizzare una particolare operazione, per esempio ai fini dell’individuazione del diritto applicabile, disporre traslochi ex lege è un altro paio di maniche.

In secondo luogo, quest’approccio travisa il senso della concorrenza fiscale. Boccia bercia di fiscal dumping e proclama la necessità di tutelare gli operatori italiani dalla concorrenza sleale di quelli stabiliti all’estero. Con studiata manipolazione del linguaggio, egli accredita l’idea che vi sia un livello di tassazione – per così dire – naturale: guardacaso, quello applicato in Italia e non quello, più basso, individuato in paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo. Se davvero volesse «agire nell’interesse delle nostre imprese», Boccia avrebbe a disposizione una soluzione ovvia: adeguare al ribasso l’entità del nostro prelievo.

Ciò equivarrebbe a riconoscere che gli investimenti esteri e lo sviluppo del mercato digitale sono fattori di sviluppo cui l’Italia non può permettersi di rinunciare; e che il gettito generato non è il solo né il principale contributo di un’azienda al sistema economico di un paese. Purtroppo, oggi come sempre, l’urgenza è quella di «spennare l’oca in modo da ottenere il maggion numero possibile di piume con il minor numero possibile di strilli»: poco importa che l’oca viva su internet, starnazzi in inglese e deponga unicamente uova di Pasqua.

6
Nov
2013

Virus pericolosi — di Andrea Battista

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Battista.

Il mero confronto di dati, policy e regole di uno Stato con gli altri paesi europei è tanto apparentemente ovvio quanto logicamente fragile. È un confronto intrinsecamente distorto, perché in un mondo globale non v’è motivo di cercare la best practice a due passi da casa, in base alle più o meno presunte affinità culturali.

Né è ipotizzabile essere competitivi con il resto d’Europa per esserlo nel mondo, poiché il Vecchio Continente complessivamente non brilla certo – nella storia recente, nel momento attuale né, ahinoi, prospetticamente – per capacità competitive e performance economiche.

Sta di fatto che tale “benchmarking” avviene con continuità e disinvoltura in molti contesti. È pertanto fondamentale che le scelte scellerate degli altri paesi europei siano esaminate e criticate.

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5
Nov
2013

L’euro si conferma area monetaria non ottimale: cambiarne le regole o farsene mangiare

C’è un tema al quale la politica italiana, presa dalle sue mille polemiche interne, presta assai poca attenzione. Tranne poi vellicarlo superficialmente, da destra, sinistra e grillinamente, con sparate demagogiche a fini di consenso. E’ un tema assolutamente centrale: se ma soprattutto come cambiare l’Unione europea e le regole dell’euro, per impedire che o la crisi dell’euro uccida l’Europa, oppure che il perseguimento dell’euro a regole invariate ottenga, di fatto, lo stesso risultato.

Tra il 1996 e il 1997, prima della scelta finale della terza fase della moneta unica cioè dell’avvio dell’euro in quanto tale, pochi italiani autorevoli, di culture ed esperienza economica, finanziaria e manageriale assai diversa, tentarono invano di attirare l’attenzione della politica e dei media. Erano manager come Cesare Romiti, economisti keynesiani rigorosi alla Franco Modigliani come Paolo Savona, e offertisti come Antonio Martino. C’era anche l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che nel consolidamento bancario italiano solleverà poi polemiche e inchieste, ma che di moneta per riconoscimento unanime ne capiva e ne capisce eccome. A organizzare eravamo, all’epoca noi della fondazione Liberal.

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