21
Nov
2013

I sacri cocci

Nel Fatto quotidiano di ieri, il prof. Montanari replicava con ferma indignazione a un articolo in cui Bruno Tinti, nell’edizione di sabato scorso del medesimo giornale, proponeva di vendere ai privati i siti archeologici riversando su di essi il costo di manutenzione, attesa l’incapacità dello Stato di tutelare il patrimonio storico e artistico.

Apriti cielo.

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19
Nov
2013

Carbosulcis, la miniera senza fondo della politica industriale

La brutta notizia è che la resistibilissima storia della Carbosulcis sia segnata da un altro scandalo, la bella notizia è che dovrebbe essere l’ultima pagina prima della chiusura. Secondo la Guardia di finanza amministratori della società, amministratori locali, dirigenti e funzionari avrebbero autorizzato per dieci anni l’acquisto di beni e servizi per circa 40 milioni di euro senza osservare le procedure di evidenza pubblica. Tra i tanti acquisti anche una serie di macchinari mai utilizzati e costati oltre 17 milioni di euro.

Quanto la Carbosulcis sia costata agli italiani è stato raccontato e documentato da Alessandro Penati in un articolo del 1996 per il Corriere: “Nel 1985 lo Stato decide di dare 512 miliardi di lire all’Eni per riattivare il bacino carbonifero; l’Eni a sua volta investe 200 miliardi nelle miniere. Si arriva però al luglio 1993 e non un solo chilo di carbone è stato estratto”. Si va verso la privatizzazione, ma non ci sono acquirenti perché il carbone del Sulcis è pieno di zolfo, quindi costoso ed improduttivo. Il governo evita di nuovo la chiusura nel ’94 e stanzia 420 miliardi a fondo perduto, “ma non bastano per garantire la redditività degli investimenti ai privati. Il decreto, pertanto, obbliga l’Enel a comprare per otto anni l’elettricità del Sulcis a 160 lire per kwh, quando il costo medio di produzione dell’Ente è di 72 lire”. La differenza la pagano gli italiani in bolletta. Nel 1995 Carbosulcis viene messa in vendita, ma l’asta va deserta. La prospettiva di una chiusura delle miniere porta nuovi scioperi e lotte sindacali, occupazioni e manifestazioni che convincono la regione Sardegna a prendere in carico la società per guidare la “transizione” verso la privatizzazione. Transizione che negli anni di gestione regionale è costata altri 600 milioni di euro (circa 1.160 miliardi di vecchie lire) di sussidi e che ha causato l’apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per aiuti di stato illegittimi. In trent’anni i contribuenti hanno speso dai 2 ai 4miliardi di lire per ogni minatore, la miniera ha bruciato più soldi che carbone (anche qui un po’ di conti) .

L’ultima geniale idea del governo per guidare la “transizione verso la privatizzazione” è quella contenuta nella bozza del decreto “Fare 2” (di cui abbiamo parlato qui) che prevede un contributo di 63 milioni l’anno per venti anni (1 miliardo e 260 milioni totali) ovviamente pagati tramite ulteriori prelievi in bolletta. Un intervento che per salvare il lavoro di circa 500 operai che guadagnano 20-30mila euro l’anno ne costerebbe circa 126mila a testa, altri 2 milioni e mezzo di euro per dipendente nei venti anni complessivi. Il piano di “politica industriale” sembra tramontato, anche per “colpa” della procedura di infrazione europea. L’unico vero progetto industriale in campo è quello che doveva essere attuato trent’anni fa, la chiusura, anche perché ora sono previsti sussidi pure per la fine dell’attività (si fa per dire) produttiva: Bruxelles ha pronti circa 250 milioni di euro per la bonifica e l’accompagnamento alla chiusura delle miniere improduttive entro il 2018.

Ora va di moda elogiare il ruolo dello “Stato imprenditore” soprattutto nei campi dell’innovazione tecnologica e della ricerca, enunciando una serie di casi particolari di successo dimenticando di confrontarli con la stragrande maggioranza di fallimenti pubblici. Che è come presentare un video con i 5 o 6 casi in cui Luca Giurato abbia azzeccato un congiuntivo per dimostrare che sia un ottimo insegnante di italiano. La verità è che la storia della Carbosulcis è la norma più che l’eccezione della logica che ha guidato gli investimenti pubblici e le “politiche industriali” specialmente in Italia. Eppure nel nostro paese nessuno si oppone agli “investimenti pubblici”, né i politici, né gli elettori, né il mondo dell’informazione, tutti ritengono la locuzione sinonimo di “sviluppo”. In realtà nella spesa per investimenti non ci sono meno sprechi che nella spesa corrente visto che, come ha evidenziato Yoram Gutgled nel libro Più uguali, più ricchi, tra il 2000 e il 2010 l’Italia ha speso mediamente 20 miliardi l’anno più della Germania con risultati sconfortanti: “Da noi un chilometro di autostrada o ferrovia costa due volte e mezzo più che in Germania e Francia”. Come spesso accade la lingua può dire molto sul nostro atteggiamento rispetto alla questione, in italiano non esiste il corrispettivo del termine inglese malinvestment, “la parola investire suona meglio della parola spendere – ricorda Gutgeld – investire richiama l’idea di costruire qualcosa per il futuro”, anche se quel qualcosa molto spesso sono tasse e debito pubblico. Quando si sentono politici ed opinionisti parlare di “politica industriale” ed “investimenti pubblici”, si dovrebbe pensare anche alle parole “spreco” e “malinvestment”. E se non rendono l’idea, alla parola Carbosulcis.

Twitter @lucianocapone

18
Nov
2013

Il protezionismo svedese sull’alcool: una soluzione che peggiora il problema

Esercizio di immaginazione: sono le cinque di un sabato pomeriggio e siete nella capitale di uno dei più ricchi paesi occidentali. La sera avete in programma una cena da amici, e volete portare una bottiglia di vino. Per fare ciò, però, siete costretti a dirigervi nel retrobottega di un negozio dove il losco proprietario tiene ammucchiate casse di alcolici di ogni genere, che vende di contrabbando. Dopo aver girato tra gli scatoloni, prendete una bottiglia di vino, pagate e uscite senza dare nell’occhio. Domanda: dove vi trovate?

Avete risposto “nell’America ai tempi del proibizionismo”? Può anche darsi. Ma è quello che potrebbe succedervi anche oggi stesso a Stoccolma e in ogni altra città della Svezia.

Quello tra gli svedesi e l’alcool è sempre stato un rapporto tormentato. Che i nordici bevano parecchio non è una novità, e proprio per contrastare gli effetti del bere il Governo svedese decise, agli inizi del ‘900, di assumere il controllo capillare della distribuzione di bevande alcoliche. Un monopolio che dura fino a oggi. In realtà, i supermercati possono vendere “liberamente” birre e alcolici… A patto che non superino i 3,5° di volume. Il che, come può facilmente capire chiunque non sia astemio, significa non poter vendere nient’altro che birre annacquate.

Per acquistare bevande con una gradazione superiore, invece, bisogna recarsi nei Systembolaget, supermercati aventi l’esclusiva funzione di vendere alcolici e gestiti direttamente dallo Stato. E che, quindi, vendono solo ciò che lo Stato decide di vendere, nei giorni e negli orari in cui lo vuole vendere (non dopo le 15 di sabato né di domenica, per esempio). I Systembolaget, inoltre, sono solo 418 in tutto il territorio svedese (uno ogni 22.000 abitanti), in ottica evidentemente dissuasiva. E sempre per disincentivare l’acquisto di alcolici al loro interno sono vietate le pubblicità dei marchi e le offerte speciali.

Si aggiunge a tutto ciò, in un tristemente coerente pendant, un’elevatissima pressione fiscale. L’aliquota sugli alcolici dipende dalla gradazione: la vodka, per esempio, è tassata al 40%; il vino al 14%; la birra “solo” al 4.5%. Ma non è finita: questa imposta si cumula all’applicazione della VAT (l’equivalente dell’IVA), che è del 12% per le bevande con gradazione al di sotto dei 3.5° e del 25% per quelli con gradazione superiore. Fino al 2007 era riservata al monopolio statale anche l’importazione di bevande alcoliche: se un cittadino avesse voluto importare privatamente del vino italiano, avrebbe dovuto rivolgersi alla Systembolaget (che tratteneva il 17% del prezzo), finché una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha dichiarato la normativa in contrasto con il principio della libera circolazione delle merci all’interno dell’UE.

La prima considerazione che mi sembra opportuno fare su questo sistema proibizionista è di carattere psicologico: scoraggiare l’acquisto di alcool con metodi repressivi, invece che educativi, alimenta la percezione che si tratti di un prodotto eversivo, attirando così l’attenzione dei più giovani, notoriamente attratti da comportamenti borderline che li aiutino ad affermarsi ed emanciparsi. Con due ovvie conseguenze: innanzitutto, potendo acquistare alcolici solo fino a una cert’ora e in un solo luogo, la tendenza è quella di comprarne (e, di conseguenza, consumarne) più del necessario. In secondo luogo tutte queste restrizioni, unite a prezzi così elevati, favoriscono la formazione del mercato nero.

Gli effetti economici, poi, sono drammatici: il monopolio statale annichilisce la concorrenza, sprecando enormi opportunità imprenditoriali e sacrificando numerosi posti di lavoro potenziali. Come sempre in questi casi a farne le spese sono soprattutto i consumatori, in particolare quelli meno abbienti (che, tra l’altro, saranno istintivamente portati a percepire l’alcool come un bene di lusso, e come tale ad esserne attratti). Basta passare un weekend a Malmö per rendersi conto di quanti siano gli svedesi che prendono il traghetto fino in Germania e tornano con la macchina strapiena di scorte. E lo stesso accade ai confini con la Danimarca e la Finlandia. Si potrebbe pensare che, quanto meno, il consumo di alcool si sia ridotto grazie a queste politiche. E invece è aumentato del 30% dal 1995 al 2005, con una (seppur lieve) diminuzione negli ultimi 8-10 anni, cioè proprio da quando la Svezia ha aperto le frontiere all’importazione. Una coincidenza?

Piuttosto l’ennesima dimostrazione dell’assoluta inefficacia dei sistemi monopolistici, in particolare laddove ci siano in ballo questioni etiche. Il punto è che il consumo di alcool è connaturato alla società occidentale, piaccia o meno. E l’unica strada per limitarne abusi e conseguenze problematiche è di natura culturale: libertà e consapevolezza, unite, possono fare molto più della repressione. Evitando che gli svedesi si trovino costretti a dover trattare con l’Al Capone di turno per poter comprare una bottiglia di vino il sabato pomeriggio.

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

17
Nov
2013

Alitalia e il lungo raggio (I parte)

La nuova Alitalia non ha chiuso in attivo alcun esercizio dalla sua nascita ad oggi, tuttavia le aviolinee mondiali hanno registrato buoni risultati nel triennio successivo alla recessione del 2009: le 76 maggiori compagnie dei cinque continenti hanno ottenuto complessivamente nel triennio 2010-12 un risultato operativo pari a 58 miliardi di dollari e profitti netti dopo le tasse pari a 28 miliardi. Read More

16
Nov
2013

Lo schiaffo di Bruxelles meritato dal governo

Ieri è arrivata la pagella europea sulle leggi di bilancio per il 2014 dei paesi membri. E’ la prima volta che il giudizio avviene prima che vengano adottate dai Parlamenti, almeno nel più dei membri e comunque in Italia. Ed è una decisione assunta di comune accordo, proprio per rendere più stringente il controllo sulla convergenza delle politiche di spesa e fiscali. Per l’Italia, appena uscita pochi mesi fa dalla procedura d’infrazione per eccesso di deficit pubblico, e guidata da un governo nato in aprile per navigare sul mare della politica italiana che tempestoso era e tempestoso resta, era un esame da non sbagliare. Per definizione. Invece non è andata così. E se la politica italiana crede di limitarsi a far spallucce, concentrata com’è sulla conta interna al Pdl e sullo scontro congressuale nel Pd, oppure se pensa di limitarsi a una nuova polemica sull’Europa che pensa solo al rigore, sbaglia. Rischia di farsi ancora più male.

Dividiamo i due aspetti, quello nazionale e quello europeo. Sono naturalmente collegati. Perché con le carte pienamente in regola si conta di più al tavolo comunitario. Ma distinguiamoli pure.

Dal punto di vista interno, il no di Bruxelles al margine aggiuntivo di investimenti pubblici – sia pur di pochi miliardi – sbandierato per mesi come conquista acquisita dal governo Letta alla fine della procedura d’infrazione, è un incidente serio. Ancor più serio perché Letta e Saccomanni sono appassionati conoscitori e attori in prima persona degli interna corporis europei. La messa in mora della manovra finanziaria da parte di Bruxelles è motivata per gli insufficienti passi avanti nel contenimento del debito pubblico, che salirà al 134% del Pil, e per non aver dato retta alla raccomandazione dello scorso maggio di tassare meno persone e imprese e più le cose. Oggettivamente, il governo ha prestato il fianco a queste osservazioni. Ed è questa, per molti versi, la cosa incredibile.

Non è un mistero per nessuno che il rischio del deficit sopra il 3%, in ballo per 2013 e 2014, sia dipesa dalla guerra sull’IMU. Niente da dire sul fatto che il governo abbia deciso, per necessità più che per convinzione, di farla propria seppure obtorto collo. Ma la decisione di non indicare mai con chiarezza le coperture necessarie, tanto che ancora in Parlamento sulla tassazione immobiliare è rodeo puro, quella decisione è stata sbagliata.

Il governo ha risposto ieri che il giudizio di Bruxelles non tiene conto del fatto che le coperture, per centrare l’obiettivo di deficit al 2,5% per il 2014, nella legge di stabilità ci sono. Ma noi come osservatori abbiamo il dovere di dire che il contrasto parlamentare è tale che nessuno, oggi, è in grado ancora di dire a quanto davvero saliranno gli anticipi d’imposta per imprese e banche, né quanto saliranno le accise e su che cosa, e nemmeno come e se si eviterà il taglio automatico di 3 miliardi di detrazioni Irpef al 19%, attualmente previsto per il 2014 se non vi saranno tagli alla spesa. Ieri Letta e Saccomanni hanno parlato della spending review affidata a Cottarelli. Ma egli ha appena iniziato a lavorare. E Bruxelles ne sa quanto noi, di quel che davvero saranno i tagli di spesa nel 2014 proposti da Cottarelli. Cioè nulla.

Quanto al debito pubblico in aumento, certamente è colpa della recessione, che in Italia perdura. Ma proprio per questo il governo doveva da mesi pensare a un piano serio di dismissioni pubbliche. Sino a questo momento è stata decisa una modesta partita di giro immobiliare tra Tesoro e Cdp. Mentre Europa e mondo hanno visto il governo, attraverso le Poste, rientrare in Alitalia. Altro che privatizzazioni. Parole su cessioni di quote Eni e altro, ma solo parole.

Agli elementi fattuali, e allo scorno per vedersi arrivare il ceffone proprio dall’Europa quando si è europeisti al punto da non aver voluto dire una parola sulla procedura d’infrazione alla Germania per il suo eccesso di surplus, si aggiungono le conseguenze nella maggioranza. Non crediamo che Letta possa evitare di pensare che Berlusconi non aveva bisogno di questo assist, proprio il giorno in cui mette nel mirino come sleali coloro che nel suo partito distinguono la decadenza del leader dal Senato dal sostegno al governo. Invece, è successo anche questo.

C’è infine il versante europeo. Le osservazioni critiche non sono riservate solo all’Italia, ma tra i maggiori Paesi alla Spagna, alla Francia e alla stessa Germania. Resta il fatto che coloro che hanno beneficato di uno slittamento dal rientro previsto sotto il 3% di deficit, come appunto Spagna e Francia, continuano a cavarsela meglio di noi, che siamo rientrati sotto il limite grazie alla brutale spremuta fiscale che i governi ci hanno riservato. Mentre istituzioni come la Camera continuano ad avere a libro paga anche consulenti artistici. E mentre pensionati attuali e pensionandi futuri, di fronte al buco plurimiliardario dell’Inps per via dell’Inpdap del settore pubblico, si sentono rispondere dal Tesoro che è un banale problema tecnico, un singolare modo per rassicurare milioni di italiani.

Al tavolo per ridiscuterli e cambiarli, questi balzani criteri europei del 3% di deficit, l’Italia nel suo semestre di presidenza europea a giugno prossimo avrebbe dovuto e potuto arrivarci con altra forza e credibilità. Non mancano solo le privatizzazioni, se lo stesso governo ha riconosciuto che l’intervento sul cuneo fiscale era così limitato che tanto valeva destinarlo alla lotta alla povertà. In ogni caso, replicare con stizza o indifferenza è altrettanto sbagliato che piangere sul latte versato. Letta e Saccomanni devono tirare fuori più energia e rischiare il proprio nome su misure energiche, invece di delegare alla giostra parlamentare per il solo fine di durare. Il Capo dello Stato non ha mai detto né pensato, che il governo delle cosiddette larghe intese doveva nascere per tirare a campare. Più volte, nelle ultime settimane, il Quirinale ha usato la striglia, dicendo che bisognava cambiare passo, stringere i tempi, avanzare proposte precise. Ora, è il momento. Altrimenti, se saranno ancor più forti i populismi, questa volta il governo dovrà prendersela anche con se stesso.

15
Nov
2013

Il metodo della trasparenza: lobby e dintorni (seconda parte)

E’ stata qui in precedenza evidenziata l’importanza che un metodo trasparente riveste per lo svolgimento di qualunque attività abbia pubblica rilevanza. Con riferimento a quella di produzione normativa, esso consente alla collettività di operare una verifica del procedimento che ha condotto all’effettuazione di determinate scelte riguardanti specifici interessi e delle motivazioni che ne costituiscono il fondamento. Considerata la sempre maggiore rilevanza dei gruppi di pressione, è necessario che anche la loro operatività sia connotata da criteri di chiarezza ed evidenza: da trasparenza, appunto.

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