13
Dic
2013

Ecotaxe, una tassa fine a se stessa

Paese che vai, forconi che trovi. Ha sollevato veementi proteste, in Francia, l’introduzione dell’ecotaxe, il provvedimento – patrocinato da Sarkozy e poi confermato da Hollande – che mira a combattere il problema delle emissioni inquinanti sottoponendo a prelievo i mezzi di stazza superiore alle 3,5 tonnellate che circolano sulla rete stradale e autostradale transalpina. Le proteste hanno avuto un discreto successo, se è vero che il ministro dell’Energia Philippe Martin ha, dapprima, prorogato al gennaio 2014 il debutto del tributo, adducendo ritardi nella predisposizione della piattaforma informatica e nella registrazione degli autotrasportatori interessati; e ha, in seguito, annunciato un’ulteriore sospensione fino al 2015.

Gli oppositori della tassa non si accontentano, rivendicandone la definitiva abrogazione, e hanno qualche buon argomento: si tratta, infatti, di una misura di non banale applicazione, in particolare nei  confronti dei soggetti stranieri, dato che richiede l’installazione di un apposito apparecchio; la destinazione del gettito è alquanto fumosa e i benefici ambientali sono tutti da dimostrare; infine, l’incidenza del prelievo pare destinata a imporre un grave pregiudizio soprattutto agli operatori minori. Tuttavia, sarebbe riduttivo caratterizzare l’ostilità all’ecotaxe come un mero interesse di classe.

Al contrario, la popolarità della misura è crollata anche presso il grande pubblico dacché sono emersi maggiori particolari sulle procedure di riscossione. La messa in opera dell’infrastruttura per il pedaggiamento (4.000 terminali e 170 portali su 15.000 chilometri di strade) è stata affidata alla società Ecomouv – controllata al 70% da Autostrade per l’Italia – a fronte di un canone di 18 milioni di euro al mese per gli oltre tredici anni del contratto, così da giungere a un totale di oltre 2,8 miliardi. Il gettito atteso è di 1,14 miliardi l’anno; il costo della riscossione si attesta, pertanto, appena sotto il 20%: una quantificazione senz’altro generosa, ma in linea con le esigenze tecniche del progetto e con l’esperienza di altri paesi europei, come la Germania, in termini di costo per camion e per chilometro. Inoltre, l’Eliseo dovrà cominciare a remunerare la società non appena la rete dei terminali sarà completamente in funzione – il che dovrebbe avvenire nelle prossime settimane – indipendentemente dalla sospensione del tributo; o, in alternativa, recedere dal contratto corrispondendo una penale di circa 800 milioni.

Il governo francese potrebbe riconoscere l’errore di valutazione insito in una tassa che, nella migliore delle ipotesi, comincerà a intascare a sei anni e svariati rinvii dalla sua istituzione, ma preferisce titillare gli elettori con un argomento di sicura presa: quello sciovinista. Secondo il ministro dell’Economia Pierre Moscovici, «è stupefacente che si sia delegata l’esazione di una tassa nazionale a un fornitore di origine estera». Moscovici omette che i partner di Autostrade in questa faccenda sono le francesissime Thales, Sncf, Sfr e Steria; ma, soprattutto, sorvola sul fatto che la commessa sia stata assegnata, a valle di un regolare bando europeo, all’operatore che aveva presentato l’offerta più conveniente.

L’esecutivo cerca un capro espiatorio, ma si è infilato in questo vicolo cieco in perfetta autonomia, pur conoscendo la diffusa ostilità al tributo e le condizioni dell’accordo per la riscossione. Si trova ora nella situazione più grottesca: non solo non incamera il gettito sperato, ma dovrà reperire risorse ulteriori per adempiere ai propri doveri verso Ecomouv: e proprio questo potrebbe, infine, indurlo a recuperare il progetto non appena le acque si saranno calmate. Una volta dissipato il fumo ideologico, la vicenda dell’ecotaxe si rivela per quello che è: la storia di una tassa fine a se stessa.

@masstrovato

12
Dic
2013

Poste: Letta si è deciso a quotarla, ora bisogna separarne le attività per liberalizzare

Negli interventi sulla fiducia in Parlamento ieri del premier, tra le novità – poche a dire il vero: eccezion fatta per la netta polemica anti Cinque Stelle, Letta ha preferito la prudenza – sicuramente c’è quella che riguarda le Poste. Mentre sino a pochi giorni prima Poste Italiane non figurava nella lista all’attenzione del governo per il programma di dismissioni di quote – senza perdita di controllo – di svariate società pubbliche, ieri Letta l’ha esplicitamente citata. E’ allo studio un collocamento azionario che ne apra ai privati il capitale, ha detto Letta. Anche per Poste senza perderne il controllo pubblico. E, infine, il premier ha aggiunto che nel collocamento una quota sarà riservata ai 150mila dipendenti postali. Cosa che è subito stata apprezzata da Bonanni della Cisl, l’organizzazione tradizionalmente forte in Poste, e dalle altre confederazioni.

Si tratta di capire ora che cosa ci aspetta, quale sarà il modello seguito, in vista di quali obiettivi. Di modelli sin qui seguiti da grandi Paesi ce ne possono essere almeno due. E a seconda di quale Letta e Saccomanni indicheranno, si capirà davvero a che cosa si mira. Diciamola tutta: se quotando Poste il governo Letta avesse in mente di piazzare sul mercato una quota dell’ attuale maxi conglomerato postal-finanziario aggiungendo in sovrappiù al suo perimetro il trasporto aereo e financo la rete di Telecom Italia, come vorrebbero alcuni spifferi giornalistici, allora saremmo al delirio: un’ipotesi da combattere sulle barricate.

Prima ricordiamo a tutti che cosa è Poste Italiane oggi. L’enorme carrozzone pubblico che perdeva 4.500 miliardi di lire nel 1993 divenne a quel punto da Amministrazione Autonoma Pubblica un Ente Economico Pubblico, primo passaggio di maggior disciplina contabile, e poi nel 1998 una SpA, il che ne rafforzò gli obblighi economico-finanziari. Tra il ’98 e il 2002 la guidò Corrado Passera, con una forte ristrutturazione – 22mila dipendenti in meno – e una focalizzazione del business che portò le perdite da 800 miliardi l’anno vicine al punto di equilibrio. Dal 2002 il capoazienda é Massimo Sarmi, confermato nel 2005, 2008 e 2011. E da un decennio il bilancio registra utili crescenti, fino a oltre 1 miliardo nel 2012. Su ristrutturazione e crescita degli utili, non poco ha contribuito il regime regolatorio di vantaggio concesso a Poste, mentre procedeva gradualmente la piena liberalizzazione europea di settore avvenuta solo nel 2011

Poste Italiane, rimasta al 100% del Tesoro, è oggi un enorme conglomerato, con oltre 24 miliardi di fatturato. Solo 4,6 vengono (a bilancio 2012) dai servizi postali e commerciali, in discesa anno dopo anno (erano 5 miliardi nel 2009). Ben 13,8 miliardi provengono dai servizi assicurativi – con il gigante PosteVita, che ha collocato quasi 5 milioni di prodotti in oltre 10 anni di esistenza con una raccolta di circa 55 miliardi di euro, e con la molto più modesta Poste Assicura, compagnia attiva nel ramo danni e con raccolta di alcune decine di milioni. Altri 5,3 miliardi vengono dai servizi finanziari, soprattutto attraverso BancoPosta Fondi, la società di gestione del risparmio che amministra un patrimonio di oltre 40 miliardi di euro, e una raccolta nell’ordine dei 400 miliardi tra conti postali, libretti e buoni fruttiferi. Poste è un colosso di raccolta del risparmio e assicurativo grazie alla più capillare rete territoriale presente sul territorio italiano, con oltre 14 mila sportelli. Ma non ha la piena licenza bancaria. Per due ragioni. L’ABI ha sempre puntato i fucili, contro un concorrente tanto temibile. E con ragione, finché sulla raccolta postale – avviata ad alimentare Cassa Depositi e Presiti – vale la piena garanzia pubblica, della quale non gode la raccolta bancaria.

Oltre alla concomitanza tra ramo finanziario e consegne postali, Poste controlla anche una corposa lista di società attive nei più diversi rami. Per fermarci alle maggiori, PosteMobile opera nella telefonia cellulare con 3 milioni di clienti, Postel lavora alla telematizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione, PosteShop vende gadget e oggettistica… e Mistral è la mini compagnia aerea – in perdita – dalla quale germina l’ingresso di Poste in Alitalia, attualmente in corso e senza alcuna analogia al mondo (c’è anche una PosteTributi, una PosteEnergia e così via, ma fermiamoci qui).

Quando abbiamo detto che ci sono almeno due modelli diversi di collocamento sul mercato, ci riferiamo alla Royal Mail britannica, di cui l’11 ottobre scorso è stata collocata una prima metà sul mercato come primo passo in vista di successive cessioni, e alla Deutsche Post tedesca. Per analogie e finalità da perseguire, c’è da sperare che il modello adottato da Letta e Saccomanni sia il secondo.

Il motivo è presto detto. Royal Mail non era e non è un conglomerato di attività maggiormente finanziarie, come Poste Italiane. I dubbi per la sua privatizzazione, alla quale i sindacati erano tenacemente ostili, discendevano sin dai tempi della Thatcher proprio da questo, visto che l’inefficienza postale era forte anche in UK e i biolanci in perdita, duqnue la privatizzazione era assai poco appetibile. Il miglioramento di efficienza conseguito grazie a una fortissima apertura regolatoria al mercato, per la quale solo il 5% delle attività di Royal Mail è nell’ambito dell’ex servizio universale, solo negli ultimi 2 anni ha spinto a realizzare utili, e comunque l’EBIT 2012-2013 di Royal Mail è solo al 3,8% del fatturato, rispetto al 9,8% di Poste. C’è da sperare dunque che Letta si riferisca al modello britannico solo per la quota di 2200 sterline in azioni riservata a ciascun dipendente, praticamente un 10% della prima offerta al mercato, ma che non voglia seguire la via della quotazione dell’attuale conglomerato Poste così com’è.

Per questo la via tedesca è preferibile. Anche la Deutsche Poste integralmente pubblica di fine anni anni Ottanta, oltre al servizio postale, aveva dentro di sé un’enorme raccolta finanziaria, ed era al contempo monopolista delle Tlc. Ne conseguì la separazione di Deutsche Telekom, poi quotata ma non integralmente perdendone il controllo come la nostra Telecom Italia, e di PostBank, la divisione di servizi finanziari anch’essa poi integralmente ceduta al mercato, tanto da venire inglobata tra fine anni ’90 e 2011 nella “privata” Deutsche Bank. Nel 2000 avvenne invece la quotazione di una prima tranche di Deutsche Post, che nel frattempo, rilevando DHL, diveniva un gigante della logistica globalizzata, con 500 mila dipendenti in 200 Paesi. Nel 2005 il governo realizzava una seconda tranche di cessione, spogliandosi di ogni azione e concentrandone il 30% di controllo nelle mani di KfW, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti.

Quel che serve da noi è analogo. Non solo e non tanto per il controllo pubblico da far restare in Cdp, controllo del quale noi faremmo ovviamente a meno, ma non l’attuale governo né l’intera politica italiana, da destra a sinistra oggi unanime nel difendere lo Stato proprietario e gestore.  Quanto perché separare le attività finanziarie da quelle postali-commerciali è il giusto metodo per accelerare l’apertura al mercato innanzitutto del servizio postale. Settore nel quale siamo molto indietro, come testimoniato dal fatto che è il penultimo per apertura alla concorrenza anche nell‘Indice Liberalizzazioni 2013 appena edito dall’Istituto Bruno Leoni.

Infine, quotare Poste serve anche a risolvere una questione … previdenziale. Certo, coinvolgere i sindacati nel capitale è cosa buona. Ma la quotazione è il miglior metodo per risolvere un problemino “storico” che Poste sin qui si trascinano: l’assegno di quasi un miliardo di euro l’anno – 990 milioni, per la precisione, nel 2013 e nel 2014 – che sin qui il Tesoro gira a Poste per coprire il buco dell’ex gestione previdenziale dei postelegrafonici (sono stati 5,5 miliardi di sbilancio previdenziale a carico pubblico solo negli ultimi 6 anni). Anche a Royal Mail accadeva, e l’Europa l’ha costretta a risolvere il problema, prima della quotazione. Da noi avverrà la stessa cosa, ed è giusto così. E, a proposito, speriamo che oltre alla sorpresa Poste, il governo voglia dirci qualcosa di chiaro anche sul rebus Alitalia, e sulle tante voci che girano intorno alla rete di Telecom Italia…

9
Dic
2013

Renzi-Letta: tre modesti suggerimenti dal ciglio del baratro

Dopo la decadenza di Berlusconi, la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, la vittoria netta di Renzi alle primarie Pd, l’11 dicembre, con il nuovo passaggio parlamentare della fiducia al governo Letta, inizia obbligatoriamente una fase diversa. Visto che il governo intende andare avanti, deve ridare credibilità a nuovi impegni. Sono mutati insieme perimetro della maggioranza, leadership del Pd, e urgenza di nuove regole elettorali ed istituzionali.

Vedremo in particolare Renzi come articolerà la svolta energica che h annunciato. Personalmente, ritengo molto positiva la botta a una leadership Pd che aveva sbagliato tutto. E che ha voluto-dovuto accettare di farsi misurare  dal libero voto, in primarie non chiuse ai soli iscritti. Niente di simile – quanto a come si legittima una nuova leadership – esiste a destra. Il che affida un compito gravoso ai quattro gatti liberal-liberisti italiani. Condivido l’attesa e le richieste già avanzate a Renzi da esponenti come Pietro Ichino.

Ma fin da ora lancio a Letta un modesto richiamo. Per favore, non sottovaluti per orgoglio della sua continuità di governo la situazione economico-finanziaria. E’ la vera grande emergenza nazionale: la perdita di prodotto, reddito e patrimonio delle famiglie e delle imprese. Non commetta l’errore di anteporle fumose formule politiche o complesse architetture istituzional-elettorali. Perché nel frattempo è la mancanza di lavoro e crescita, il primo problema degli italiani. E l’esplosione della protesta non è monopolio della sinistra e del M5S, come mostra oggi nelle strade d’Italia il fenomeno 9dicembre-Forconi.

Il governo chiederà una nuova fiducia mentre l’approvazione della legge di stabilità alla Camera è appena all’inizio. Ma essa ha intanto perso ogni pretesa di “svolta” che le era stata associata. Vicende pazzotiche come quella dell’IMU, il contenzioso aperto per ancora un miliardo e mezzo con i Comuni, la stima degli uffici tecnici di Montecitorio, per i quali il 63% delle risorse della manovra finanziaria viene da nuove entrate, l’irrisorietà dell’intervento sul cuneo fiscale, tutto ciò e molto altro ne hanno fatto un atto di galleggiamento, non di spinta. Il giudizio della Commissione europea, dopo lo scambio ruvido di battute tra Letta e il commissario Rehn, è stato ribadito dal portavoce del commissario, per il quale mancherebbero ancora 6 miliardi di euro agli obiettivi contrattati per il 2014. L’opera sulla spesa pubblica di Cottarelli è appena all’inizio, e sarà il caso di affidargli un obiettivo credibile e ufficiale di interventi a cominciare dal 2014. Con la BCE resta aperto il capitolo della riforma del capitale della Banca d’Italia, dei soci e dei diritti che vengono loro attribuiti, tra cui l’incredibile incasso di miliardi per Unicredit-Intesa attraverso la cessione delle quote eccedentarie il 5%.

Letta ha un bell’attaccare l’antieuropeismo populista. Essi si nutre del continuo rinvio delle riforme e della strage fiscale perpetrata dai governi, e il suo non fa eccezione. Servono altre priorità. Sentiremo quelle di Renzi, ma intanto almeno tre.

Primo: il lavoro. E’ uno dei tre punti già dichiarati del nuovo patto chiesto da Renzi. Limitiamoci qui a esempi muniti di copertura finanziaria. I tagli di spesa 2014 affidati a Cottarelli vanno da subito cifrati perché si traducano in minor cuneo fiscale alle imprese. In corso d’anno, non oltre marzo quando il governo dovrebbe presentare in parlamento le misure attuative. Idem dicasi per i proventi da lotta all’evasione: vanno dal 2014 non più assunti in bilancio a copertura del deficit o di nuova spesa, ma retrocessi abbattendo oneri contributivi. Sommando le due poste si supera 1 punto di Pil, che è la scala minima per proporsi effetti a breve davvero sostanziali.

Secondo: il Consiglio Europeo del 19 dicembre. L’Unione e Berlino hanno abbracciato l’ipotesi di aggiungere agli strumenti di controllo esistenti – fiscal compact, six pack e two pack, considerati ormai gli acronimi dell’austerità, come se la via tutta-tasse non fosse stata scelta dalla politica italiana– dei nuovi strumenti premiali. I contractual arrangements, in parole povere intese bilaterali tra Commissione e Paesi membri, che aprano a margini di concessione di risorse in cambio dell’attuazione di riforme. L’Italia ne ha bisogno, visto che dopo la Grecia siamo il Paese con la più elevata perdita di Pil procapite dal 2001 a oggi.

Due esempi allora, il trasporto pubblico locale e l’immigrazione. Siamo il Paese europeo col più alto margine di contribuzione pubblica al trasporto locale, quasi l’80%, e insieme quello col più alto numero di aziende in perdita. Con città paralizzate come Genova e Firenze, e scandali come quello dell’Atac romano. Non ci sono né ci saranno, risorse pubbliche aggiuntive per pagare a più di lista deficit e debiti. Occorre cambiare le regole e introdurre la concorrenza.

Pensiamo al dopo Prato, sull’immigrazione, ora e ancora visto che a una settimana non sappiamo ancora l’identità delel vittime. E guardiamo al mondo. L’Arabia Saudita ha iniziato l’espatrio forzato di 2 milioni di lavoratori stranieri, 90 mila sono stati messi sugli aerei verso l’Etiopia in poche settimane. Gli Stati Uniti invece danno la green card a chi dalla Cina si presenta investendo 500mila dollari e dando lavoro ad almeno 10 persone, impegnandosi al ferreo rispetto delle leggi. Tra le due alternative seguiamo quella americana , attiriamo insieme capitali esteri e imprese, ma con un patto di legalità adamantina. Oltretutto al Consiglio europeo si tireranno anche le file dell’impegno europeo per aiutarci a pattugliare il Mediterraneo e a smistare immigrati e asilanti: si parla di soli 19 milioni di euro aggiuntivi per Frontex, un’inezia.

Terzo: il fisco. Non è solo il cuneo fiscale, a strangolare l’Italia. Lo Stato mantiene il gettito invariato mentre Pil e reddito scendono, e così deprime la domanda interna cioè i consumi. Se il 10% dei contribuenti assicura oltre il 50% dei 152 miliardi incassati dallo Stato con l’Irpef, la progressività è non solo eccessiva, ma concentrata sulla fascia media. Quel diabolico scalino di 11 punti percentuali, dal 27% al 38%, che scatta oggi per chi supera i 28 mila euro lordi annui, è diventato davvero la corda che uccide il ceto medio. E’ tempo di ripensarci, prima che sia troppo tardi. Ora. Il delirio degli acconti d’imposta oltre il 100% è incostituzionale, bisogna che Renzi-Letta chiedano scusa ai contribuenti giurando “mai più”.

Sono solo esempi, naturalmente. Ma quando il mare è in tempesta chi non ha buon motore e saldo timone va a fondo. Milioni di italiani hanno perso quanto, a prezzi correnti, non avevano mai perduto le generazioni succedutesi dall’Unità ad oggi. E non sono più disposti, a concedere attenuanti alla politica. Se vincerà chi la spara più grossa, una gara in cui la destra ormai va a braccetto con Grillo, la colpa è di chi al governo ha fatto l’imbelle.

9
Dic
2013

Come creare nuovo lavoro pagando le ore effettivamente lavorate—di Gian Luigi Capriz

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gian Luigi Capriz.

Esiste nella normativa italiana uno strumento molto flessibile e pratico per gestire le attività di tipo occasionale: sono i cosiddetti “Voucher” regolati dal D.L. 276/2003 che sono tuttavia uno strumento ancora poco diffuso ed il cui utilizzo è limitato ad un numero ristretto di possibili fruitori e ad uno spazio temporale e di reddito circoscritti.

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8
Dic
2013

Ufficio parlamentare di bilancio: qualcosa si muove, speriamo nella giusta direzione

La giunta per il regolamento della camera dei deputati, nella seduta del 21 novembre 2013, ha finalmente discusso la procedura per l’istituzione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, accorgendosi – sembra – solo ora dell’urgenza a provvedere. Infatti, secondo la legge attuativa del principio di pareggio di bilancio, tale ufficio dovrebbe entrare in funzione dal 2014, ma fino ad ora non si era avuto cenno di interesse da parte delle Camere, come l’Istituto Bruno Leoni aveva proprio di recente denunciato qui e qui. Read More

6
Dic
2013

Il fracking è l’unica vera rivoluzione ambientalista

Si è discusso molto negli ultimi mesi (non in Italia, per la verità, o perlomeno non nei contenuti) di fracking, un sistema innovativo di estrazione di gas dalle rocce che i suoi critici dicono essere molto inquinante.
Per combattere i pregiudizi, ultimamente sempre più studiosi stanno cercando di sensibilizzare le persone sull’utilizzo responsabile dello shale gas, nonostante le tante preoccupazioni dei detrattori (spesso frutto di un ambientalismo ideologico e controproducente). Read More

5
Dic
2013

Giovannini e il potere di dare i numeri

pubblicato su Libero il 5 dicembre 2013

Gli italiani non riceveranno la “busta arancione” perché sono ignoranti. La busta è il documento usato in Svezia, dopo la riforma pensionistica di metà anni ’90, attraverso cui i cittadini vengono informati sull’ammontare della pensione che riceveranno dallo Stato. A differenza dei cittadini svedesi, gli italiani non hanno mai ricevuto un’informazione del genere, né mai l’avranno: «Busta arancione vuol dire tutto e vuol dire nulla – ha dichiarato il ministro del Lavoro Enrico Giovannini – se vuol dire inviare a casa di tutti un foglio con dei numeri non credo faremmo un buon servizio al sistema, visto anche, come dimostrano i dati Ocse, la scarsa dimestichezza di molta parte della popolazione con la capacità matematica». Gli italiani non capiscono nulla di numeri e quindi non hanno diritto di sapere quanto gli spetterà di pensione. Il sospetto è che in realtà il ministro non voglia far sapere ai cittadini, e ai giovani in particolare, la miseria di pensione che riceveranno in cambio dei pesantissimi contributi che pagano per mantenere un sistema costoso ed inefficiente.

Se invece il ministro crede realmente a ciò che dice, dovrebbe fare una seria riflessione sul suo percorso professionale e sugli anni passati alla presidenza dell’Istat. È stato infatti proprio Giovannini nel 2009 a descrivere la mission dell’istituto: “La missione dell’Istituto nazionale di statistica è quella di servire la collettività attraverso la produzione e la comunicazione di informazioni statistiche. Lo scopo è quello di sviluppare un’approfondita conoscenza della realtà economica e sociale dell’Italia e favorire i processi decisionali di tutti i soggetti della società”. Se ora il ministro ritiene che gli italiani non comprendano i numeri vuol dire che per anni è stato pagato dai cittadini per svolgere un lavoro inutile, di cui gli italiani non comprendono il senso. Inutile come il lavoro a capo della Commissione che prendeva il suo nome, istituita per livellare gli stipendi dei parlamentari italiani alla media degli altri paesi europei. Dopo diversi mesi di studio, Giovannini ed altri “quattro esperti di chiara fama” hanno gettato la spugna: “Nonostante l’intenso lavoro svolto, l’eterogeneità delle situazioni negli altri Paesi e le difficoltà nella raccolta dei dati non hanno consentito alla Commissione di produrre i risultati attesi”.

Le parole del ministro cozzano anche con la lettura che ha tenuto solo un anno fa davanti al gruppo bolognese del Mulino – davanti a Piero Giarda, Ignazio Visco e Romano Prodi – dal titolo einaudiano Conoscere per decidere. Giovannini ricordava che la conoscenza dei numeri è fondamentale per il funzionamento di una buona democrazia, è l’unico strumento per ridurre “l’asimmetria informativa” con il potere statale: “«Conoscere per decidere» è una sfida dalla quale dipende l’effettivo esercizio delle libertà individuali, la democrazia e lo stesso benessere dei cittadini”. L’allora presidente dell’Istat Giovannini anticipava il motivo per cui oggi il ministro Giovannini non vuole comunicare le informazioni ai cittadini: “Una volta eletto, il politico gode di un vantaggio informativo rispetto al cittadino, vantaggio che può essere usato per giustificare gli insuccessi di una certa scelta politica”. E allora l’essere diventa dover essere: gli italiani non sono ignoranti, devono essere ignoranti.

Twitter @lucianocapone

4
Dic
2013

L’equivoco protezionista e i topi nel formaggio

Il blocco odierno dei TIR carichi di generi alimentari al Brennero da parte degli iscritti di Coldiretti è stata una messa in scena offensiva, oltre che della libertà di circolazione delle merci, anche delle ragioni di consumatori.

Coldiretti sostiene di aver agito esasperata dall’ingresso su territorio italiano di merci marcate Made in Italy ma che di italiano hanno solo la produzione finale e non l’origine degli ingredienti principali. Ciò indurrebbe in inganno il consumatore che comprerebbe un prodotto fatto in Italia (Made in Italy, appunto) ma con materie prime coltivate o allevate all’estero, in paesi con un differente standard di controllo rispetto al nostro.

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