26
Dic
2013

Se il 1000-proroghe è come il salva-Roma: più buchi e più tasse

Domani il governo vara il decreto “milleproroghe” per il 2014 e vedremo che cosa conterrà, a cominciare dalle norme salva-Roma saltate alla vigilia di Natale. Speriamo proprio non sia la stessa pappa.

Va riconosciuto al Quirinale il merito per aver fatto cadere – quando era praticamente approvato – un decreto-omnibus in cui a prescindere da Roma era entrata ogni tipo di mancia territorial-clientelare per centinaia di milioni, in violazione dei requisiti non solo di urgenza ma di coerenza tematica che sono – meglio ormai dire: dovrebbero essere – propri della decretazione d’urgenza. Ma prima di svolgere alcune considerazioni su ciò che aspetta i romani nel milleproroghe, un’osservazione va fatta proprio su tale strumento.

E’ dal dicembre 2005, che i governi italiani hanno la cattiva abitudine di riservare al milleproroghe di fine d’anno interventi su una congerie delle più disparate materie. Il motivo per il quale possono farlo è che deve trattarsi o di conferme di norme “a tempo” che scadono a fine anno, o di deroghe urgenti alle norme vigenti, e in entrambi i casi non è stato possibile intervenire col procedimento legislativo in corso d’anno.

In un paese ordinato e serio, il milleproroghe non dovrebbe esistere, la Corte Costituzionale dovrebbe impedirlo. Per la sua stessa genesi aggira i requisiti costituzionali della decretazione d’urgenza, e testimonia solo l’arretratezza di un sistema in cui più del 95% delle modifiche alla legislazione vigente avviene solo attraverso la sessione di bilancio. E’ un sistema che deriva dalla mancanza di riforme organiche affrontate in Parlamento, e che insieme ha finito per accentuare tale patologia. Non è un caso che in ogni milleproroghe – anche oggi sarà così – sia confermato per un anno il tetto agli incroci tra stampa e tv. Il sistema dei media è da vent’anni per definizione terreno sul quale destra e sinistra procedono solo per armistizi temporanei. Dunque è sempre proroga, mai riforma che metta avanti prospettive di sviluppo nazionali, rispetto al conflitto Rai-Mediaset. E’ patologia piena, che nel milleproroghe finiscano materie come il blocco degli sfratti, o il diritto di recesso degli affitti d’oro di Camera e Senato.

Ma veniamo a Roma. Da quando è stato approvato tra mille traversie il bilancio preventivo di Roma 2013 lo scorso 6 dicembre – altra patologia, ma su questo il governo Letta ha le sue colpe, è lui che ha protratto il termine ai Comuni nel 2013, per scrivere le fantastiche pagine del  romanzo IMU – l’amministrazione Marino vanta una sorta di “contratto” sottoscritto dal governo. I conti 2013 e degli anni successivi non starebbero in piedi se il governo non abbassasse di 600 milioni gli 867 di debito accertati dal sindaco Marino. Tutto ciò sebbene, nelle previsioni 2014 elaborate dalla Ragioneria Centrale del Comune, Roma dovrà accrescerere molte delle sue entrate: quasi il doppio rispetto all’incasso 2013 da tassa di soggiorno, 15 volte – ! – dal canone degli impianti pubblicitari, 3 volte quanto ricavato da accertamenti d’infrazioni. Ma a malapena tutto ciò, dicono in Campidoglio, fronteggia i minori trasferimenti ordinari al bilancio di Roma dallo Stato, in discesa dagli oltre 700 milioni del 2013 a circa 450 nel 2014 (tagliare le spese mai, eh?).

Di qui la trattativa tra il sindaco Marino e governo Letta, sfociata nel salva-Roma. I 600 milioni di minor debito vengono da un artificio contabile, la legislazione pubblica ne è diventata maestra. Quando nel 2008 divenne sindaco Alemanno e certificò in 12 miliardi il debito pregresso accumulato dalle amministrazioni “rosse”, allora Roma ripartì da zero “girando” tale debito a una gestione commissariale parallela, “inventata” dal governo Berlusconi in cambio di un ritocco verso l’alto dell’aliquota Irpef di spettanza comunale, e del fatto che Roma avrebbe “girato” ogni anno al commissario Varazzani una parte del gettito da Irpef pari allo 0,4%.

Marino ha chiesto e ottenuto da Letta un analogo escamotage. I 600 milioni di abbuono sono costituiti dai 485 milioni che lo Stato girò nel 2009 a Roma che a propria volta li girò al commissario, per conferirgli una dotazione patrimoniale iniziale. E che ora il governo “cancella” dal debito romano, ergo se mai Varazzani riuscirà a recuperarli li dovrà al governo. Altri 115 milioni vengono anch’essi iscritti a passivo del commissario nei prossimi 2 anni, dovuti a oneri anteriori al 2008 ma emersi negli anni successivi: una bella conferma che le amministrazioni pubbliche sono campioni, nel non dire la verità sui debiti che contraggono. Per continuare a onorare l’impegno di girare quasi 500 milioni di risorse l’anno al commissario – altrimenti come li paga, lui, i debiti fatti dai sindaci? in una ventina d’anni, sintende… – Roma avrebbe ottenuto un ulteriore sforamento verso l’alto della sovraliquota Irpef da applicare ai romani, passando dallo 0,9% all’1,2%. Il sindaco Marino ha ripetuto che l’addizionale non sarà applicata, ma in tal caso non si capisce perché tanta insistenza nel chiederla e ottenerla, nel salva-Roma.

Tre considerazioni, a questo punto. La prima, sul metodo. La seconda, sull’alternativa. La terza, sulle conseguenze.

Primo: i conti di Roma Capitale dimostrano un’evidenza. A ogni cambio di colore politico delle giunte, emergono buchi enormi. La via prescelta dai governi di destra e di sinistra è di tenere buoni i sindaci a sé vicini, inventandosi conti economici e bilanci patrimoniali paralleli, che a nessun privato italiano, famiglia o impresa, sarebbero mai consentiti. Anzi, porterebbero dritti alla galera. Di fatto, tale metodo è un incentivo a proseguire nelle voragini di bilancio. Come sono stati “abbuonati” i predecessori, così anch’io, ragiona ogni sindaco: e che, si vuole fare eccezione proprio per me e non abbuonarmi i debiti? Per i contribuenti, è un disastro.

Secondo: l’alternativa. C’è. E’ quella di farla finita con la finanza creativa, e di procedere a una revisione approfondita della spesa, e dell’oceano di partecipate e controllate pubbliche. Il salva-Roma era in realtà un salva-Atac, come ha scritto ottimamente Andrea Giuricin qui. Negli ultimi 4 anni l’Atac ha perso in termini operativi quasi 700 milioni, nonostante abbia ricevuto circa 3 miliardi di contributi pubblici. Eppure, quando nell’esame parlamentare del decreto salva-Roma è comparso un emendamento che vincolava Roma a rivedere le sue partecipate pubbliche, costi e personale – visto oltretutto che al Comune tornano i crediti verso le partecipate che nel 2009 erano stati girati al commissario: altra disinvoltura contabile – il sindaco e la giunta capitolina sono insorti. Pessima cosa proseguire coi ripiani a piè di lista, contando sul fatto che le società pubbliche romane sono gonfie di dipendenti e dirigenti perché destra e sinistra vi hanno fatto clientela a piene mani. E’ questa, l’unica vera ragione del proliferare di società e dirigenti: i partiti-clientela generano inefficienza, sovraccosti e debiti. E questi non sfociano mai in drastiche marce indietro, ma solo in più tasse e “buffi”, come si dice a Roma dei debiti non onorati.

Infine: le conseguenze. Tutti i sindaci lamentano che criticare è facile, amministrare tutt’altra cosa. Lo sappiamo. Ma a noi spetta avvisare cittadini e contribuenti di ciò che li aspetta, al di là di che cosa abbiano votato. Roma Capitale, procedendo di colpo di spugna in colpo di spugna e di tassa in sovrattassa, perde attrattività d’impresa e turistica, scende nelle graduatorie internazionali di efficienza e vivibilità. Ecco perché noi vorremmo che sindaco e governo, nel salva-Roma ieri ma soprattutto nel milleproroghe oggi, avessero convenuto discontinuità vere e profonde, e non degli immondi scarica-barile.

 

25
Dic
2013

Il “Salva Roma”, il “mille proroghe” e gli sprechi non contestati di ATAC

Il “Salva Roma” è arrivato al capolinea. Il Governo non ha deciso per la conversione in legge e di fatto si rimanda tutto al “Mille proroghe”, il quale farà i conti con il solito “assalto alla diligenza”.

Si potrebbe pensare che la mancata conversione sia un bene, perché come ricorda la nota del Ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini “sarà contenuta la correzione, annunciata in Parlamento, alla norma relativa agli affitti di immobili da parte della pubblica amministrazione”.

Ben venga questa correzione, ma nessuno parla di un punto che costa molto di più alle tasche degli italiani, vale a dire la norma “Salva ATAC” che serve di fatto a conservare gli sprechi dell’azienda municipale romana.

Non è un caso forse che il Movimento 5 Stelle sia rimasto in silenzio su questo, forse perché avevano degli interessi da difendere, quali la salvaguardia dei posti degli autisti. Read More

22
Dic
2013

L’accordo politico-sindacale per salvare gli sprechi ATAC

Siamo all’assurdo. L’emendamento al “decreto Salva Roma” in realtà salva gli sprechi delle municipalizzate. In particolare quelli di aziende quali ACEA e ATAC, non certo campioni dell’efficienza.

Un emendamento del senatore Francesco Aracri, in quota Forza Italia, votato anche dal Partito Democratico con l’appoggio della CGIL, il sindacato che è formato al 52 per cento da pensionati, di fatto danno la golden share sui licenziamenti nelle inefficienti municipalizzate romane ai sindacati.

Quegli stessi sindacati che hanno dato sempre l’appoggio per assumere personale in eccesso di ATAC che tutti gli italiani devono pagare tramite le loro tasse. Read More

22
Dic
2013

Province: tutti i difetti della riforma Delrio. Diffidarne non è piacere, ma dovere

Verrebbe da dire: parliamone solo a testo approvato. Perché l’abrogazione delle province è uno dei temi tante di quelle volte annunciati negli anni dalla politica italiana da divenire un luogo comune, una barzelletta da bar, simbolo di ciò che la politica dice ma non fa. Sinora, ogni intervento si è trasformato in un vano calvario di trappole giuridiche e agguati politici.

Ma ieri l’aula di Montecitorio ha cominciato l’esame della riforma apprestata dal ministro Delrio, e non resta che vedere se e che cosa ne verrà davvero fuori. Visto che il diavolo si nasconde nei dettagli, per giudicare davvero la riforma occorrerà aspettare tre cose. Primo, che venga approvata davvero entro il termine necessario a impedire che si voti nella prossima primavera, nelle 54 province intanto in scadenza. Secondo, bisognerà leggerne con attenzione il testo finale, visto che la lobby delle province in parlamento è fortissima in ogni partito. Terzo: sul punto delicato dei risparmi, occorrerà aspettare i decreti attuativi perché in tanti si opporranno ai tagli veri e l’esperienza pluridecennale insegna che potrebbe anche scapparci, alla fine, che la spesa aumenti. Perché la riforma ha, sotto questo profilo, punti deboli oggettivi.

La riforma Delrio ha un doppio binario. Nasce dalla bocciatura riservata a luglio scorso dalla Corte Costituzionale alla riforma Monti. Non era difficile immaginare che la Consulta avrebbe dato ragione alle 8 Regioni che l’avevano impugnata. Era stata adottata con il decreto legge Salva Italia del dicembre 2011. Ma non si interviene per decreto in una materia ordinamentale – le province sono citate in Costituzione, all’articolo 114 e seguenti – senza requisiti di urgenza, abrogando oltre 50 delle 110 province attuali secondo requisiti minimi di popolazione e superficie che avevano provocato ondate di proteste in tutte quelle che non vi rientravano. Per questo la riforma Delrio da una parte è fatta di un ddl di riforma costituzionale per modificare le province nella Carta fondamentale e tener buona la Corte, ovviamente nella speranza che la legislatura duri davvero tanto da permetterne la doppia lettura. Nel frattempo, il ddl ordinario all’esame della Camera prevede che le province restino in vita finché la Costituzione non cambi, ma in vita artificiale.

Le province diventano infatti – secondo l’orrendo gergo tecnico della nostra burocrazia – enti di area vasta semplificati. Continueranno solo a pianificare per quanto riguarda territorio, ambiente, trasporto, rete scolastica. L’unica funzione di gestione resterà quella delle strade provinciali. Per tutto il resto, leggi regionali trasferiranno le funzioni di gestione delle province, il loro patrimonio, le loro risorse umane e strumentali ai Comuni e alle Unioni dei Comuni, alle Città Metropolitane o alle Regioni. Scompare la giunta provinciale, il presidente è un sindaco in carica scelto dall’assemblea dei sindaci dei Comuni provinciali. Mentre il Consiglio provinciale è costituito dai sindaci dei Comuni con più di 15.000 abitanti, e dal presidente delle Unioni di Comuni del territorio con più di 10.000 abitanti.

Com’è ovvio, scritta così la riforma, l’unico taglio dei costi della politica sicuro è solo quello appunto dei politici eletti. Cioè circa 135 milioni, su dati relativi al 2010. Dopodiché, si apre il vasto mare delle divergenze di opinioni. Gli studi seri fatti dall’Istituto Bruno Leoni, che potete scaricare dal sito, indicano i risparmi conseguibili – se si aboliscono anche le relative prefetture e uffici dello Stato – in almeno metà dei 4 miliardi di euro di costi fissi delle province. Cioè i circa 2 miliardi rappresentati dai costi di gestione e di controllo, mentre la parte restante va al personale che, secondo politici e sindacati, va invece naturalmente e integralmente riassorbito.

Il ministro Delrio, prudenzialmente, dice che entro un paio d’anni si può risparmiare fino a un miliardo di euro e qualcosa di più.

La Corte dei conti, nell’audizione parlamentare sul ddl a fine novembre, ha sparato a zero, dicendo di non essere in grado di valutare né risparmi né sostenibilità finanziaria della riforma, stante che tutto dipende dalle sue norme attuative.

Quanto poi all’UPI, l’Unione province italiane, afferma che con certezza la riforma costerà ai contribuenti miliardi in più, perché moltiplicando a migliaia i centri di gestione – i Comuni – i costi unitari di manutenzione egli edifici scolastici come di esecuzione degli interventi ambientali si moltiplicheranno anch’essi. La riforma Monti dispomneva che le gestioni della cinquantina di province abrogate passasse a quella delle proivince a cui sarebbero state accorpate, e i risparmi in quyel caso sarebbero stati certi, anche se limitati a 3-400 milioni al massimo. Qui non si accorpa nulla, le gestioni passano al pulviscolo comunale. La tesi dell’Upi, purtroppo, non è priva di un certo fondamento: i Comuni hanno oggi, per questi interventi, costi superiori delle vecchie Province. Inutile dire poi che quanto a cessione del patrimonio i Comuni saranno felici, ma nulla di preciso sinora si è detto sulla cessione dei debiti delle province, che i comuni rifiutano. Per tutte queste ragioni, l’UPI ha confermato ieri che impugnerà la riforma. Allegria.

Il pessimo segnale è che le Città Metropolitane intanto sono aumentate a dismisura, ridicolmente. Ragionevolezza vorrebbe che si parlasse di Torino, Milano, Venezia, Napoli e in più, forse, Palermo. Ovviamente aggiungendo Roma Capitale, che ha uno status a parte. Invece si sono aggiunte già Genova, Bologna, Trieste, Firenze, Bari, Reggio Calabria, Catania e Messina. E altre sarebbero in arrivo, a giudicare dagli emendamenti in esame.

Un altro difetto della riforma è di limitarsi a prevedere che tutti i municipi con meno di 5 mila abitanti, fino a 3 mila se montani, si associno per svolgere le loro funzioni fondamentali. Ma il punto è che, solo associandosi, gli organi e la pluralità di gestioni restano. Per farli scomparire, bisognerebbe disporre delle unioni, non delle associazioni. E quanto agli altri 3.200 enti intermedi che oggi esistono tra comuni e regioni, tra comunità montane e compagnia cantando, il comma che parla della loro “razionalizzazione” è obiettivamente acqua fresca.

Delrio si arrabbia, se si parla di riforma all’italiana. Ma purtroppo e non per colpa solo sua, è così. La riforma Monti usava uno strumento sbagliato, il decreto legge, ma “accorpava”una cinquantina di Province, facendone sparire i costi di gestione in Province maggiori. Con la riforma Delrio, il rischio è che la gestione resti com’era , o attribuita a nuove Province senza eletti, o trasferita ai Comuni meno efficienti.

Se poi diamo un’occhiata alle tante “notizie di caos” che continuano a venire dalle province italiane, del tutto inossidabili al fatto che starebbero per sparire, è difficile concludere che davvero si prenda sul serio l’idea che la provincia stia finendo..

Il bluff Sicilia. La giunta Crocetta appena nata dichiarò l’abrogazione delle 9 province. Si fa per dire. Al posto della giunta e dei consigli ci sono i commissari nominati da Crocetta. Gli enti restano e dovrebbero continuare a gestire gli stessi servizi. Solo che lo Stato ha decurtato i contributi di quasi 100 milioni di euro e la Regione di 20: 110 milioni in meno. Ma gli unici risparmi veri sono stati di 8 milioni, gli emolumenti dei consiglieri, sui 750 milioni di costi delle 9 province nel 2012. I “liberi consorzi di Comuni” che Crocetta aveva annunciato, non si sono visti. La riforma complessiva per introdurre le Città metropolitane nemmeno, aspettando quella nazionale. I 6 mila dipendenti delle Province – costo oltre 350 milioni – non sanno che fine faranno. Il risultato è che i “commissari Crocetta” hanno tagliato solo servizi scolastici e manutenzione stradale. E il paradosso è che i commissari stessi verranno prorogati per altri 6 mesi. Senza escludere che in Sicilia si torni a votare per le vecchie province, anche nel caso la riforma Delrio venisse intanto approvata in tempo utile.

Il caos Sardegna. Altrettanto paradossale la situazione sarda. A maggio 2012, referendum consultivo per abrogare le 4 province storiche della regione (Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano), e abrogativo per sopprimere le nuove province (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio): i sardi approvano. La Regione scioglie i consigli, commissaria gli enti ma li proroga a quel punto due volte, in attesa di una riforma prima e poi fino a nuove elezioni. Lo Stato a quel punto impugna la legge regionale. Gli ex amministratori commissariati delle province impugnano a propria volta il commissariamento al Tar. Il Tar rinvia a sua volta l’impugnativa alla Corte costituzionale. E gli ex eletti provinciali chiedono intanto a Napolitano che, secondo l’articolo 50 dello Statuto regionale, si sciolga il Consiglio regionale per gravi atti contro la Costituzione.

Lo schiaffo di Siena. Ma quale abolizione della provincia? Ripresi proprio quest’anno i maxi lavori del nuovo palazzo provinciale, da 6.300 metri quadrati. Era la Fondazione Montepaschi a finanziare l’opera, con il suo contributo annuo di 40 milioni alla Provincia, contributo che è però azzerato dal 2013, stante che la Fondazione stessa è in predefault. Ma i lavori sono ripresi lo stesso. L’opera ha visto lievitare i costi dai 6 milioni previsti nel 2009 ai 12 attuali, l’intento è di portarla a compimento entro fine 2014, contando sul fatto che l’abrogazione della provincia naturalmente non ci sia.

Le aste truccate a Bolzano. Vien da dire che “in Italia” non se n’é parlato, Ma lo scandalo finanziariamente più grave in questo biennio di “attesa abrogazione” delle province è avvenuto a Bolzano, con un assessore e un direttore generale condannati per truffa e turbativa d’asta, relativa a tutte le concessioni energetiche ex Enel. Le società energetiche messe “fuori mercato” dalla politica e dai funzionari provinciali hanno richiesto alla provincia di Bolzano danni per oltre 600 milioni di euro. Naturalmente le due “province regionali” di Trento e Bolzano sono fuori portata rispetto alla riforma Delrio, ma tant’è…

20
Dic
2013

Le banche centrali e la coesistenza degli opposti — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Nel ricordare l’anniversario della fondazione della Banca Centrale americana o sistema federale delle banche di riserva (FED) avvenuta nel dicembre del 1913, la stampa americana ha rimarcato il fallimento del mandato di questa istituzione, preservare il potere d’acquisto del dollaro e l’occupazione. Ricordando che da allora il famoso biglietto verde ha perso il 90% del suo valore la conclusione è che l’istituzione andrebbe se non proprio abolita quantomeno riformata. Il che è quanto dire che andrebbe separata dal potere politico. La banca centrale è infatti lo strumento primo del potere politico o meglio la massima espressione dei cosiddetti poteri forti. Quale potere più forte infatti di quello di creare il denaro?

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19
Dic
2013

Job Act: se Renzi ci prova davvero da liberista non mi soddisferà ma sarà comunque positivo

Riguarda il lavoro, uno dei punti qualificanti del “contratto di governo” al quale il neosegretario del Pd Matteo Renzi subordina il sostegno alla prosecuzione dell’esecutivo Letta e della legislatura. Testi e proposte dettagliate del cosiddetto Job Act ancora non ci sono, la squadra di Renzi ci sta lavorando. Ma è già possibile cercare di capire, basandosi su quanto il leader del Pd ha finora detto. Anche perché in questi anni di proposte e tentativi ce ne sono stati eccome. E poiché nulla nasce dal nulla nelle cose umane, riferimenti concreti si possono fare eccome.

Sin qui, il Job Act sembra mirare a due pilastri essenziali. Il primo è quello di un intervento semplificatore delle – troppe – leggi vigenti in materia di mercato del lavoro. Il secondo è un intervento volto a rispondere all’emergenza acuita da questi anni di crisi, la disoccupazione.

Sul primo terreno, è di solo poche settimane fa l’iniziativa congiunta di due tra i più noti esperti di diritto del lavoro, e ciò che è più apprezzabile è che abbiano opinioni diverse, visto che si tratta di Piero Ichino da una parte, e dall’altra di Michele Tiraboschi, che è stato il punto di riferimento del ministro Sacconi. Entrambi hanno due proposte strutturate, da una parte il Codice semplificato del lavoro predisposto da Ichino, con due disegni di legge depositati: uno sui rapporti individuali e uno sui rapporti sindacali. Dall’altra lo Statuto dei Lavori elaborato da Tiraboschi e Marco Biagi tra il 1997 e il 1998, base per il Testo Unico del Lavoro predisposto nel 2011. L’obiettivo che hanno dichiarato insieme è di lavorare insieme, per una proposta congiunta.

E’ concretamente possibile, ridurre a una settantina di articoli le norme di emanazione nazionale sul lavoro, rispetto alle 35 diverse leggi attuali sulla sola Cassa Integrazione, o alle decine di pagine in materia di apprendistato come di ogni rapporto a tempo parziale. La complessità della normativa italiana sul lavoro fa felici gli esperti dei sindacati e delle associazioni d’impresa, i giuslavoristi e i consulenti. Ma respinge le imprese estere, ed è onerosa per gli adempimenti e interpretazioni richieste a qualunque impresa italiana, a cominciare dalle più microscopiche.

Tuttavia si pone un problema. In passato la Cgil si è sempre detta contraria. E allo stesso modo si sono espressi tanti esponenti del Pd, come Cesare Damiano. In realtà questo è il problema politico di fondo, per il Job Act renziano. Non è un caso che il neosegretario ripeta da sempre che a interessargli è la nuova proposta del Pd, non quella della Cgil che fa un altro mestiere. E’ una posizione netta che va apprezzata, visto che dalla vecchia Cgil cinghia di trasmissione del Pci si è passati, negli anni, al partito cinghia di trasmissione del sindacato. In maniera sempre più netta da quando la Cgil sconfisse D’Alema al congresso del Pds nel febbraio 1997, quando era D’Alema ad attaccare Cofferati in nome della flessibilità.

Questo atteggiamento sarà ancor più necessario a Renzi sul secondo pilastro, l’intervento sull’occupabilità. Su questo, è davvero azzardato parlare senza testi. Ma diversi renziani hanno nel tempo fatto intendere che si tratterebbe di riprendere e modificare l’idea di “contratto unico”, a tutele crescenti nel tempo. L’idea del contratto unico è anch’essa di Pietro Ichino, il caposaldo della sua flexsecurity. Mira a sostituire all’attuale rigido modello, basato su articolo 18 in materia di licenziabilità e al regime Cig (estesasi nel tempo di crisi: ordinaria, straordinaria e in deroga), un sistema diverso in cui le tutele giudiziali restano solo contro i licenziamenti discriminatori. Ma per tutto il resto, man mano che il lavoratore progredisce nel suo rapporto di anzianità, sale per l’impresa un doppio costo certo: quello del numero di mensilità da pagargli come indennità di fine rapporto, insieme alla copertura triennale a percentuali decrescenti – dal 90 al 70% del suo salario – come indennità di ricollocazione. E’ una proposta che abbatte il costo delle imprese, rispetto agli oneri contributivi fissi del sistema Cig, e che presuppone una profonda riforma del sistema del collocamento, oggi totalmente inefficiente.

Il difetto di questa impostazione è che riguarderebbe solo i neo assunti, mentre per i già occupati resterebbe in vigore il precedente sistema. E dunque nel mercato del lavoro – come avviene nel sistema previdenziale, tra sistema retributivo e contributivo – per decenni andremmo avanti con un’asimmetria profonda di sistemi e tutele.

Per dei liberali schietti, come il sottoscritto, sarebbe assai meglio abbracciare questo sistema per tutti, esattamente come sarebbe stato meglio applicare il sistema previdenziale contributivo per tutti e pro rata, sin dalla riforma Dini. Semplificando il più possibile i contratti di lavoro, limitandoli alla sola parte normativa delle garanzie, e lasciando tutto il resto alla contrattazione il più possibile decentrata, aziendale e di produttività. Il che significherebbe, per il sindacato, trasformarsi da una rappresentanza storica delle garanzie a una delle opportunità per il futuro. Una vera rivoluzione culturale.

Ma è inutile illudersi. Se guardiamo alle reazioni che la proposta ha sin qui suscitato, siamo ben lungi da critiche come quelle che avete appena letto. Prevalgono tutt’altri toni. La destra ha sin qui preferito replicare che non c’è bisogno della flexsecurity, perché il contratto d’inserimento dovrebbe essere l’apprendistato. Errore: con la riforma Fornero l’abbiamo – l’hanno – appesantito di oneri e gravami, in nome della guerra ideologica alle imprese che vi ricorrevano – dicevano Pd e Cgil – per risparmiare solo sui contributi, senza fare formazione vera. Quanto alla parte largamente maggioritaria della Cgil e lasciamo perdere la Fiom , il solo accennare all’articolo 18 provoca reazioni feroci.

Ora noi non sappiamo ancora quale tutela crescente nel tempo abbia in mente Renzi, per elevare l’occupabilità e il numero dei neoassunti. Ma una cosa è sicura. Pur coi difetti di un’asimmetria pesante tra già occupati e nuovi, tra il rompere un muro ideologico e alzare gli incentivi ad assumere subito, e lasciarlo in piedi con più disoccupati, è da preferire un segretario del Pd che indichi con coraggio la prima strada. Anche se non è la migliore possibile, un pezzo di bene è da preferire al massimo del male, in un Paese arretrato come il nostro.

18
Dic
2013

Web tax prêt-à-porter e web tax su misura

Di una cosa va dato merito ai sostenitori della web tax, sulle cui criticità ci siamo già soffermati su Leoni Blog (clic e clic) e – più dettagliatamente – in questo Focus: della tenacia con cui si ostinano a presidiare un provvedimento troppe volte dato per morto e poi risorto. Ma i motivi di plauso si esauriscono qui.

Dopo che la scomunica di Renzi e le perplessità di Letta sembravano averne segnato il destino, oggi la web tax si ripresenta con qualche ritocco. Svanisce il primo comma, quello che faceva un confuso riferimento all’acquisto di servizi online e al commercio elettronico diretto e indiretto, mentre sopravvive l’obbligo di acquistare gli spazi pubblicitari e i link sponsorizzati «visualizzabili sul territorio italiano» da soggetti quali «editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita IVA italiana». Allo stesso modo, si circoscrive al settore dell’advertising la previsione dell’emendamento Covello, che altera le modalità di determinazione del reddito d’impresa.

Le modifiche partorite nella notte dalla commissione Bilancio della Camera intervengono solo sul perimetro del provvedimento, senza rettificarne in alcun modo l’impianto sbilenco. Si tratta ancora di una norma “illegittima, inutile, dannosa e autolesionista”, sebbene di portata più limitata. In questo senso, è naturale chiedersi se il gioco valga la candela, dal momento che la candela è diventata un moccolo. Perché persistere nella difesa di un intervento che ci esporrebbe a una sicura procedura d’infrazione e che minerebbe gli interessi del nostro ecosistema digitale a fronte di un’attesa di gettito ancor più modesta della previsione originaria?

La web tax formato mignon non risponde alle perplessità dei critici e, a ben vedere, ne aggiunge di nuove. Il riformato ambito di applicazione, infatti, indebolisce le altisonanti giustificazioni in termini di equità fiscale ed evidenzia l’assetto degli interessi sottostanti alla discussione. Raramente quanto in questo caso, è possibile identificare con chiarezza i soggetti che beneficiano di una proposta legislativa e quelli che ne sono danneggiati. L’articolato della web tax li indica chiaramente, a cominciare da quella gerarchia editori-concessionarie-motori di ricerca.

Insomma, ai problemi già sollevati si aggiunge l’impressione che il provvedimento miri espressamente a favorire alcuni soggetti economici a scapito di altri, violando un principio cardinale di civiltà tributaria. Un sospetto, per il vero, evidente sin dall’origine, ma rafforzato dall’evoluzione degli ultimi giorni, perché – con buona pace di Andrea Pezzi – l’opinione di Carlo De Benedetti ha un peso specifico ben superiore e perché l’aver cassato gli altri servizi online rende immediatamente visibile che quella che poteva apparire come una delle conseguenze della web tax è, invece, la sua principale ragion d’essere.

Ancora sul Sole di oggi, Francesco Boccia si difende dall’accusa di aver ideato una tassa ad aziendam, quando – proprio nelle ore in cui l’articolo andava in stampa – il dibattito parlamentare si spingeva in quella direzione. È ora davvero cruciale che il governo intervenga, perché se la web tax prêt-àporter era una misura profondamente sbagliata, questa versione su misura è uno scempio inaccettabile.

@masstrovato

13
Dic
2013

Perché la web-tax non conviene all’Italia

Come noto, è attualmente all’esame della Commissione Bilancio della Camera l’emendamento 1.1702, a firma Fanucci (PD), presentato al Disegno di Legge di Stabilità 2014. La proposta è volta ad introdurre l’obbligo di acquistare servizi online solo da soggetti titolari di una partita IVA italiana ed è passata agli onori della cronaca con il brutto nome di Web Tax. La proposta sta avendo nelle ultime settimane alterne fortune: prima presentata (al Senato), poi ritirata, ricomparsa a Montecitorio, ora accantonata per una decisione entro i prossimi giorni. Come spesso accade, purtroppo, la propaganda rischia di coprire il merito delle questioni. Con una breve analisi, divisa in paragrafetti, si prova a spiegare perché la proposta della Web Tax avrebbe molti svantaggi e nessun vantaggio per l’economia italiana, le imprese, i consumatori e finanche le casse dell’erario.

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