22
Dic
2013

L’accordo politico-sindacale per salvare gli sprechi ATAC

Siamo all’assurdo. L’emendamento al “decreto Salva Roma” in realtà salva gli sprechi delle municipalizzate. In particolare quelli di aziende quali ACEA e ATAC, non certo campioni dell’efficienza.

Un emendamento del senatore Francesco Aracri, in quota Forza Italia, votato anche dal Partito Democratico con l’appoggio della CGIL, il sindacato che è formato al 52 per cento da pensionati, di fatto danno la golden share sui licenziamenti nelle inefficienti municipalizzate romane ai sindacati.

Quegli stessi sindacati che hanno dato sempre l’appoggio per assumere personale in eccesso di ATAC che tutti gli italiani devono pagare tramite le loro tasse. Read More

22
Dic
2013

Province: tutti i difetti della riforma Delrio. Diffidarne non è piacere, ma dovere

Verrebbe da dire: parliamone solo a testo approvato. Perché l’abrogazione delle province è uno dei temi tante di quelle volte annunciati negli anni dalla politica italiana da divenire un luogo comune, una barzelletta da bar, simbolo di ciò che la politica dice ma non fa. Sinora, ogni intervento si è trasformato in un vano calvario di trappole giuridiche e agguati politici.

Ma ieri l’aula di Montecitorio ha cominciato l’esame della riforma apprestata dal ministro Delrio, e non resta che vedere se e che cosa ne verrà davvero fuori. Visto che il diavolo si nasconde nei dettagli, per giudicare davvero la riforma occorrerà aspettare tre cose. Primo, che venga approvata davvero entro il termine necessario a impedire che si voti nella prossima primavera, nelle 54 province intanto in scadenza. Secondo, bisognerà leggerne con attenzione il testo finale, visto che la lobby delle province in parlamento è fortissima in ogni partito. Terzo: sul punto delicato dei risparmi, occorrerà aspettare i decreti attuativi perché in tanti si opporranno ai tagli veri e l’esperienza pluridecennale insegna che potrebbe anche scapparci, alla fine, che la spesa aumenti. Perché la riforma ha, sotto questo profilo, punti deboli oggettivi.

La riforma Delrio ha un doppio binario. Nasce dalla bocciatura riservata a luglio scorso dalla Corte Costituzionale alla riforma Monti. Non era difficile immaginare che la Consulta avrebbe dato ragione alle 8 Regioni che l’avevano impugnata. Era stata adottata con il decreto legge Salva Italia del dicembre 2011. Ma non si interviene per decreto in una materia ordinamentale – le province sono citate in Costituzione, all’articolo 114 e seguenti – senza requisiti di urgenza, abrogando oltre 50 delle 110 province attuali secondo requisiti minimi di popolazione e superficie che avevano provocato ondate di proteste in tutte quelle che non vi rientravano. Per questo la riforma Delrio da una parte è fatta di un ddl di riforma costituzionale per modificare le province nella Carta fondamentale e tener buona la Corte, ovviamente nella speranza che la legislatura duri davvero tanto da permetterne la doppia lettura. Nel frattempo, il ddl ordinario all’esame della Camera prevede che le province restino in vita finché la Costituzione non cambi, ma in vita artificiale.

Le province diventano infatti – secondo l’orrendo gergo tecnico della nostra burocrazia – enti di area vasta semplificati. Continueranno solo a pianificare per quanto riguarda territorio, ambiente, trasporto, rete scolastica. L’unica funzione di gestione resterà quella delle strade provinciali. Per tutto il resto, leggi regionali trasferiranno le funzioni di gestione delle province, il loro patrimonio, le loro risorse umane e strumentali ai Comuni e alle Unioni dei Comuni, alle Città Metropolitane o alle Regioni. Scompare la giunta provinciale, il presidente è un sindaco in carica scelto dall’assemblea dei sindaci dei Comuni provinciali. Mentre il Consiglio provinciale è costituito dai sindaci dei Comuni con più di 15.000 abitanti, e dal presidente delle Unioni di Comuni del territorio con più di 10.000 abitanti.

Com’è ovvio, scritta così la riforma, l’unico taglio dei costi della politica sicuro è solo quello appunto dei politici eletti. Cioè circa 135 milioni, su dati relativi al 2010. Dopodiché, si apre il vasto mare delle divergenze di opinioni. Gli studi seri fatti dall’Istituto Bruno Leoni, che potete scaricare dal sito, indicano i risparmi conseguibili – se si aboliscono anche le relative prefetture e uffici dello Stato – in almeno metà dei 4 miliardi di euro di costi fissi delle province. Cioè i circa 2 miliardi rappresentati dai costi di gestione e di controllo, mentre la parte restante va al personale che, secondo politici e sindacati, va invece naturalmente e integralmente riassorbito.

Il ministro Delrio, prudenzialmente, dice che entro un paio d’anni si può risparmiare fino a un miliardo di euro e qualcosa di più.

La Corte dei conti, nell’audizione parlamentare sul ddl a fine novembre, ha sparato a zero, dicendo di non essere in grado di valutare né risparmi né sostenibilità finanziaria della riforma, stante che tutto dipende dalle sue norme attuative.

Quanto poi all’UPI, l’Unione province italiane, afferma che con certezza la riforma costerà ai contribuenti miliardi in più, perché moltiplicando a migliaia i centri di gestione – i Comuni – i costi unitari di manutenzione egli edifici scolastici come di esecuzione degli interventi ambientali si moltiplicheranno anch’essi. La riforma Monti dispomneva che le gestioni della cinquantina di province abrogate passasse a quella delle proivince a cui sarebbero state accorpate, e i risparmi in quyel caso sarebbero stati certi, anche se limitati a 3-400 milioni al massimo. Qui non si accorpa nulla, le gestioni passano al pulviscolo comunale. La tesi dell’Upi, purtroppo, non è priva di un certo fondamento: i Comuni hanno oggi, per questi interventi, costi superiori delle vecchie Province. Inutile dire poi che quanto a cessione del patrimonio i Comuni saranno felici, ma nulla di preciso sinora si è detto sulla cessione dei debiti delle province, che i comuni rifiutano. Per tutte queste ragioni, l’UPI ha confermato ieri che impugnerà la riforma. Allegria.

Il pessimo segnale è che le Città Metropolitane intanto sono aumentate a dismisura, ridicolmente. Ragionevolezza vorrebbe che si parlasse di Torino, Milano, Venezia, Napoli e in più, forse, Palermo. Ovviamente aggiungendo Roma Capitale, che ha uno status a parte. Invece si sono aggiunte già Genova, Bologna, Trieste, Firenze, Bari, Reggio Calabria, Catania e Messina. E altre sarebbero in arrivo, a giudicare dagli emendamenti in esame.

Un altro difetto della riforma è di limitarsi a prevedere che tutti i municipi con meno di 5 mila abitanti, fino a 3 mila se montani, si associno per svolgere le loro funzioni fondamentali. Ma il punto è che, solo associandosi, gli organi e la pluralità di gestioni restano. Per farli scomparire, bisognerebbe disporre delle unioni, non delle associazioni. E quanto agli altri 3.200 enti intermedi che oggi esistono tra comuni e regioni, tra comunità montane e compagnia cantando, il comma che parla della loro “razionalizzazione” è obiettivamente acqua fresca.

Delrio si arrabbia, se si parla di riforma all’italiana. Ma purtroppo e non per colpa solo sua, è così. La riforma Monti usava uno strumento sbagliato, il decreto legge, ma “accorpava”una cinquantina di Province, facendone sparire i costi di gestione in Province maggiori. Con la riforma Delrio, il rischio è che la gestione resti com’era , o attribuita a nuove Province senza eletti, o trasferita ai Comuni meno efficienti.

Se poi diamo un’occhiata alle tante “notizie di caos” che continuano a venire dalle province italiane, del tutto inossidabili al fatto che starebbero per sparire, è difficile concludere che davvero si prenda sul serio l’idea che la provincia stia finendo..

Il bluff Sicilia. La giunta Crocetta appena nata dichiarò l’abrogazione delle 9 province. Si fa per dire. Al posto della giunta e dei consigli ci sono i commissari nominati da Crocetta. Gli enti restano e dovrebbero continuare a gestire gli stessi servizi. Solo che lo Stato ha decurtato i contributi di quasi 100 milioni di euro e la Regione di 20: 110 milioni in meno. Ma gli unici risparmi veri sono stati di 8 milioni, gli emolumenti dei consiglieri, sui 750 milioni di costi delle 9 province nel 2012. I “liberi consorzi di Comuni” che Crocetta aveva annunciato, non si sono visti. La riforma complessiva per introdurre le Città metropolitane nemmeno, aspettando quella nazionale. I 6 mila dipendenti delle Province – costo oltre 350 milioni – non sanno che fine faranno. Il risultato è che i “commissari Crocetta” hanno tagliato solo servizi scolastici e manutenzione stradale. E il paradosso è che i commissari stessi verranno prorogati per altri 6 mesi. Senza escludere che in Sicilia si torni a votare per le vecchie province, anche nel caso la riforma Delrio venisse intanto approvata in tempo utile.

Il caos Sardegna. Altrettanto paradossale la situazione sarda. A maggio 2012, referendum consultivo per abrogare le 4 province storiche della regione (Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano), e abrogativo per sopprimere le nuove province (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio): i sardi approvano. La Regione scioglie i consigli, commissaria gli enti ma li proroga a quel punto due volte, in attesa di una riforma prima e poi fino a nuove elezioni. Lo Stato a quel punto impugna la legge regionale. Gli ex amministratori commissariati delle province impugnano a propria volta il commissariamento al Tar. Il Tar rinvia a sua volta l’impugnativa alla Corte costituzionale. E gli ex eletti provinciali chiedono intanto a Napolitano che, secondo l’articolo 50 dello Statuto regionale, si sciolga il Consiglio regionale per gravi atti contro la Costituzione.

Lo schiaffo di Siena. Ma quale abolizione della provincia? Ripresi proprio quest’anno i maxi lavori del nuovo palazzo provinciale, da 6.300 metri quadrati. Era la Fondazione Montepaschi a finanziare l’opera, con il suo contributo annuo di 40 milioni alla Provincia, contributo che è però azzerato dal 2013, stante che la Fondazione stessa è in predefault. Ma i lavori sono ripresi lo stesso. L’opera ha visto lievitare i costi dai 6 milioni previsti nel 2009 ai 12 attuali, l’intento è di portarla a compimento entro fine 2014, contando sul fatto che l’abrogazione della provincia naturalmente non ci sia.

Le aste truccate a Bolzano. Vien da dire che “in Italia” non se n’é parlato, Ma lo scandalo finanziariamente più grave in questo biennio di “attesa abrogazione” delle province è avvenuto a Bolzano, con un assessore e un direttore generale condannati per truffa e turbativa d’asta, relativa a tutte le concessioni energetiche ex Enel. Le società energetiche messe “fuori mercato” dalla politica e dai funzionari provinciali hanno richiesto alla provincia di Bolzano danni per oltre 600 milioni di euro. Naturalmente le due “province regionali” di Trento e Bolzano sono fuori portata rispetto alla riforma Delrio, ma tant’è…

20
Dic
2013

Le banche centrali e la coesistenza degli opposti — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Nel ricordare l’anniversario della fondazione della Banca Centrale americana o sistema federale delle banche di riserva (FED) avvenuta nel dicembre del 1913, la stampa americana ha rimarcato il fallimento del mandato di questa istituzione, preservare il potere d’acquisto del dollaro e l’occupazione. Ricordando che da allora il famoso biglietto verde ha perso il 90% del suo valore la conclusione è che l’istituzione andrebbe se non proprio abolita quantomeno riformata. Il che è quanto dire che andrebbe separata dal potere politico. La banca centrale è infatti lo strumento primo del potere politico o meglio la massima espressione dei cosiddetti poteri forti. Quale potere più forte infatti di quello di creare il denaro?

Read More

19
Dic
2013

Job Act: se Renzi ci prova davvero da liberista non mi soddisferà ma sarà comunque positivo

Riguarda il lavoro, uno dei punti qualificanti del “contratto di governo” al quale il neosegretario del Pd Matteo Renzi subordina il sostegno alla prosecuzione dell’esecutivo Letta e della legislatura. Testi e proposte dettagliate del cosiddetto Job Act ancora non ci sono, la squadra di Renzi ci sta lavorando. Ma è già possibile cercare di capire, basandosi su quanto il leader del Pd ha finora detto. Anche perché in questi anni di proposte e tentativi ce ne sono stati eccome. E poiché nulla nasce dal nulla nelle cose umane, riferimenti concreti si possono fare eccome.

Sin qui, il Job Act sembra mirare a due pilastri essenziali. Il primo è quello di un intervento semplificatore delle – troppe – leggi vigenti in materia di mercato del lavoro. Il secondo è un intervento volto a rispondere all’emergenza acuita da questi anni di crisi, la disoccupazione.

Sul primo terreno, è di solo poche settimane fa l’iniziativa congiunta di due tra i più noti esperti di diritto del lavoro, e ciò che è più apprezzabile è che abbiano opinioni diverse, visto che si tratta di Piero Ichino da una parte, e dall’altra di Michele Tiraboschi, che è stato il punto di riferimento del ministro Sacconi. Entrambi hanno due proposte strutturate, da una parte il Codice semplificato del lavoro predisposto da Ichino, con due disegni di legge depositati: uno sui rapporti individuali e uno sui rapporti sindacali. Dall’altra lo Statuto dei Lavori elaborato da Tiraboschi e Marco Biagi tra il 1997 e il 1998, base per il Testo Unico del Lavoro predisposto nel 2011. L’obiettivo che hanno dichiarato insieme è di lavorare insieme, per una proposta congiunta.

E’ concretamente possibile, ridurre a una settantina di articoli le norme di emanazione nazionale sul lavoro, rispetto alle 35 diverse leggi attuali sulla sola Cassa Integrazione, o alle decine di pagine in materia di apprendistato come di ogni rapporto a tempo parziale. La complessità della normativa italiana sul lavoro fa felici gli esperti dei sindacati e delle associazioni d’impresa, i giuslavoristi e i consulenti. Ma respinge le imprese estere, ed è onerosa per gli adempimenti e interpretazioni richieste a qualunque impresa italiana, a cominciare dalle più microscopiche.

Tuttavia si pone un problema. In passato la Cgil si è sempre detta contraria. E allo stesso modo si sono espressi tanti esponenti del Pd, come Cesare Damiano. In realtà questo è il problema politico di fondo, per il Job Act renziano. Non è un caso che il neosegretario ripeta da sempre che a interessargli è la nuova proposta del Pd, non quella della Cgil che fa un altro mestiere. E’ una posizione netta che va apprezzata, visto che dalla vecchia Cgil cinghia di trasmissione del Pci si è passati, negli anni, al partito cinghia di trasmissione del sindacato. In maniera sempre più netta da quando la Cgil sconfisse D’Alema al congresso del Pds nel febbraio 1997, quando era D’Alema ad attaccare Cofferati in nome della flessibilità.

Questo atteggiamento sarà ancor più necessario a Renzi sul secondo pilastro, l’intervento sull’occupabilità. Su questo, è davvero azzardato parlare senza testi. Ma diversi renziani hanno nel tempo fatto intendere che si tratterebbe di riprendere e modificare l’idea di “contratto unico”, a tutele crescenti nel tempo. L’idea del contratto unico è anch’essa di Pietro Ichino, il caposaldo della sua flexsecurity. Mira a sostituire all’attuale rigido modello, basato su articolo 18 in materia di licenziabilità e al regime Cig (estesasi nel tempo di crisi: ordinaria, straordinaria e in deroga), un sistema diverso in cui le tutele giudiziali restano solo contro i licenziamenti discriminatori. Ma per tutto il resto, man mano che il lavoratore progredisce nel suo rapporto di anzianità, sale per l’impresa un doppio costo certo: quello del numero di mensilità da pagargli come indennità di fine rapporto, insieme alla copertura triennale a percentuali decrescenti – dal 90 al 70% del suo salario – come indennità di ricollocazione. E’ una proposta che abbatte il costo delle imprese, rispetto agli oneri contributivi fissi del sistema Cig, e che presuppone una profonda riforma del sistema del collocamento, oggi totalmente inefficiente.

Il difetto di questa impostazione è che riguarderebbe solo i neo assunti, mentre per i già occupati resterebbe in vigore il precedente sistema. E dunque nel mercato del lavoro – come avviene nel sistema previdenziale, tra sistema retributivo e contributivo – per decenni andremmo avanti con un’asimmetria profonda di sistemi e tutele.

Per dei liberali schietti, come il sottoscritto, sarebbe assai meglio abbracciare questo sistema per tutti, esattamente come sarebbe stato meglio applicare il sistema previdenziale contributivo per tutti e pro rata, sin dalla riforma Dini. Semplificando il più possibile i contratti di lavoro, limitandoli alla sola parte normativa delle garanzie, e lasciando tutto il resto alla contrattazione il più possibile decentrata, aziendale e di produttività. Il che significherebbe, per il sindacato, trasformarsi da una rappresentanza storica delle garanzie a una delle opportunità per il futuro. Una vera rivoluzione culturale.

Ma è inutile illudersi. Se guardiamo alle reazioni che la proposta ha sin qui suscitato, siamo ben lungi da critiche come quelle che avete appena letto. Prevalgono tutt’altri toni. La destra ha sin qui preferito replicare che non c’è bisogno della flexsecurity, perché il contratto d’inserimento dovrebbe essere l’apprendistato. Errore: con la riforma Fornero l’abbiamo – l’hanno – appesantito di oneri e gravami, in nome della guerra ideologica alle imprese che vi ricorrevano – dicevano Pd e Cgil – per risparmiare solo sui contributi, senza fare formazione vera. Quanto alla parte largamente maggioritaria della Cgil e lasciamo perdere la Fiom , il solo accennare all’articolo 18 provoca reazioni feroci.

Ora noi non sappiamo ancora quale tutela crescente nel tempo abbia in mente Renzi, per elevare l’occupabilità e il numero dei neoassunti. Ma una cosa è sicura. Pur coi difetti di un’asimmetria pesante tra già occupati e nuovi, tra il rompere un muro ideologico e alzare gli incentivi ad assumere subito, e lasciarlo in piedi con più disoccupati, è da preferire un segretario del Pd che indichi con coraggio la prima strada. Anche se non è la migliore possibile, un pezzo di bene è da preferire al massimo del male, in un Paese arretrato come il nostro.

18
Dic
2013

Web tax prêt-à-porter e web tax su misura

Di una cosa va dato merito ai sostenitori della web tax, sulle cui criticità ci siamo già soffermati su Leoni Blog (clic e clic) e – più dettagliatamente – in questo Focus: della tenacia con cui si ostinano a presidiare un provvedimento troppe volte dato per morto e poi risorto. Ma i motivi di plauso si esauriscono qui.

Dopo che la scomunica di Renzi e le perplessità di Letta sembravano averne segnato il destino, oggi la web tax si ripresenta con qualche ritocco. Svanisce il primo comma, quello che faceva un confuso riferimento all’acquisto di servizi online e al commercio elettronico diretto e indiretto, mentre sopravvive l’obbligo di acquistare gli spazi pubblicitari e i link sponsorizzati «visualizzabili sul territorio italiano» da soggetti quali «editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita IVA italiana». Allo stesso modo, si circoscrive al settore dell’advertising la previsione dell’emendamento Covello, che altera le modalità di determinazione del reddito d’impresa.

Le modifiche partorite nella notte dalla commissione Bilancio della Camera intervengono solo sul perimetro del provvedimento, senza rettificarne in alcun modo l’impianto sbilenco. Si tratta ancora di una norma “illegittima, inutile, dannosa e autolesionista”, sebbene di portata più limitata. In questo senso, è naturale chiedersi se il gioco valga la candela, dal momento che la candela è diventata un moccolo. Perché persistere nella difesa di un intervento che ci esporrebbe a una sicura procedura d’infrazione e che minerebbe gli interessi del nostro ecosistema digitale a fronte di un’attesa di gettito ancor più modesta della previsione originaria?

La web tax formato mignon non risponde alle perplessità dei critici e, a ben vedere, ne aggiunge di nuove. Il riformato ambito di applicazione, infatti, indebolisce le altisonanti giustificazioni in termini di equità fiscale ed evidenzia l’assetto degli interessi sottostanti alla discussione. Raramente quanto in questo caso, è possibile identificare con chiarezza i soggetti che beneficiano di una proposta legislativa e quelli che ne sono danneggiati. L’articolato della web tax li indica chiaramente, a cominciare da quella gerarchia editori-concessionarie-motori di ricerca.

Insomma, ai problemi già sollevati si aggiunge l’impressione che il provvedimento miri espressamente a favorire alcuni soggetti economici a scapito di altri, violando un principio cardinale di civiltà tributaria. Un sospetto, per il vero, evidente sin dall’origine, ma rafforzato dall’evoluzione degli ultimi giorni, perché – con buona pace di Andrea Pezzi – l’opinione di Carlo De Benedetti ha un peso specifico ben superiore e perché l’aver cassato gli altri servizi online rende immediatamente visibile che quella che poteva apparire come una delle conseguenze della web tax è, invece, la sua principale ragion d’essere.

Ancora sul Sole di oggi, Francesco Boccia si difende dall’accusa di aver ideato una tassa ad aziendam, quando – proprio nelle ore in cui l’articolo andava in stampa – il dibattito parlamentare si spingeva in quella direzione. È ora davvero cruciale che il governo intervenga, perché se la web tax prêt-àporter era una misura profondamente sbagliata, questa versione su misura è uno scempio inaccettabile.

@masstrovato

13
Dic
2013

Perché la web-tax non conviene all’Italia

Come noto, è attualmente all’esame della Commissione Bilancio della Camera l’emendamento 1.1702, a firma Fanucci (PD), presentato al Disegno di Legge di Stabilità 2014. La proposta è volta ad introdurre l’obbligo di acquistare servizi online solo da soggetti titolari di una partita IVA italiana ed è passata agli onori della cronaca con il brutto nome di Web Tax. La proposta sta avendo nelle ultime settimane alterne fortune: prima presentata (al Senato), poi ritirata, ricomparsa a Montecitorio, ora accantonata per una decisione entro i prossimi giorni. Come spesso accade, purtroppo, la propaganda rischia di coprire il merito delle questioni. Con una breve analisi, divisa in paragrafetti, si prova a spiegare perché la proposta della Web Tax avrebbe molti svantaggi e nessun vantaggio per l’economia italiana, le imprese, i consumatori e finanche le casse dell’erario.

Read More

13
Dic
2013

Ecotaxe, una tassa fine a se stessa

Paese che vai, forconi che trovi. Ha sollevato veementi proteste, in Francia, l’introduzione dell’ecotaxe, il provvedimento – patrocinato da Sarkozy e poi confermato da Hollande – che mira a combattere il problema delle emissioni inquinanti sottoponendo a prelievo i mezzi di stazza superiore alle 3,5 tonnellate che circolano sulla rete stradale e autostradale transalpina. Le proteste hanno avuto un discreto successo, se è vero che il ministro dell’Energia Philippe Martin ha, dapprima, prorogato al gennaio 2014 il debutto del tributo, adducendo ritardi nella predisposizione della piattaforma informatica e nella registrazione degli autotrasportatori interessati; e ha, in seguito, annunciato un’ulteriore sospensione fino al 2015.

Gli oppositori della tassa non si accontentano, rivendicandone la definitiva abrogazione, e hanno qualche buon argomento: si tratta, infatti, di una misura di non banale applicazione, in particolare nei  confronti dei soggetti stranieri, dato che richiede l’installazione di un apposito apparecchio; la destinazione del gettito è alquanto fumosa e i benefici ambientali sono tutti da dimostrare; infine, l’incidenza del prelievo pare destinata a imporre un grave pregiudizio soprattutto agli operatori minori. Tuttavia, sarebbe riduttivo caratterizzare l’ostilità all’ecotaxe come un mero interesse di classe.

Al contrario, la popolarità della misura è crollata anche presso il grande pubblico dacché sono emersi maggiori particolari sulle procedure di riscossione. La messa in opera dell’infrastruttura per il pedaggiamento (4.000 terminali e 170 portali su 15.000 chilometri di strade) è stata affidata alla società Ecomouv – controllata al 70% da Autostrade per l’Italia – a fronte di un canone di 18 milioni di euro al mese per gli oltre tredici anni del contratto, così da giungere a un totale di oltre 2,8 miliardi. Il gettito atteso è di 1,14 miliardi l’anno; il costo della riscossione si attesta, pertanto, appena sotto il 20%: una quantificazione senz’altro generosa, ma in linea con le esigenze tecniche del progetto e con l’esperienza di altri paesi europei, come la Germania, in termini di costo per camion e per chilometro. Inoltre, l’Eliseo dovrà cominciare a remunerare la società non appena la rete dei terminali sarà completamente in funzione – il che dovrebbe avvenire nelle prossime settimane – indipendentemente dalla sospensione del tributo; o, in alternativa, recedere dal contratto corrispondendo una penale di circa 800 milioni.

Il governo francese potrebbe riconoscere l’errore di valutazione insito in una tassa che, nella migliore delle ipotesi, comincerà a intascare a sei anni e svariati rinvii dalla sua istituzione, ma preferisce titillare gli elettori con un argomento di sicura presa: quello sciovinista. Secondo il ministro dell’Economia Pierre Moscovici, «è stupefacente che si sia delegata l’esazione di una tassa nazionale a un fornitore di origine estera». Moscovici omette che i partner di Autostrade in questa faccenda sono le francesissime Thales, Sncf, Sfr e Steria; ma, soprattutto, sorvola sul fatto che la commessa sia stata assegnata, a valle di un regolare bando europeo, all’operatore che aveva presentato l’offerta più conveniente.

L’esecutivo cerca un capro espiatorio, ma si è infilato in questo vicolo cieco in perfetta autonomia, pur conoscendo la diffusa ostilità al tributo e le condizioni dell’accordo per la riscossione. Si trova ora nella situazione più grottesca: non solo non incamera il gettito sperato, ma dovrà reperire risorse ulteriori per adempiere ai propri doveri verso Ecomouv: e proprio questo potrebbe, infine, indurlo a recuperare il progetto non appena le acque si saranno calmate. Una volta dissipato il fumo ideologico, la vicenda dell’ecotaxe si rivela per quello che è: la storia di una tassa fine a se stessa.

@masstrovato

12
Dic
2013

Poste: Letta si è deciso a quotarla, ora bisogna separarne le attività per liberalizzare

Negli interventi sulla fiducia in Parlamento ieri del premier, tra le novità – poche a dire il vero: eccezion fatta per la netta polemica anti Cinque Stelle, Letta ha preferito la prudenza – sicuramente c’è quella che riguarda le Poste. Mentre sino a pochi giorni prima Poste Italiane non figurava nella lista all’attenzione del governo per il programma di dismissioni di quote – senza perdita di controllo – di svariate società pubbliche, ieri Letta l’ha esplicitamente citata. E’ allo studio un collocamento azionario che ne apra ai privati il capitale, ha detto Letta. Anche per Poste senza perderne il controllo pubblico. E, infine, il premier ha aggiunto che nel collocamento una quota sarà riservata ai 150mila dipendenti postali. Cosa che è subito stata apprezzata da Bonanni della Cisl, l’organizzazione tradizionalmente forte in Poste, e dalle altre confederazioni.

Si tratta di capire ora che cosa ci aspetta, quale sarà il modello seguito, in vista di quali obiettivi. Di modelli sin qui seguiti da grandi Paesi ce ne possono essere almeno due. E a seconda di quale Letta e Saccomanni indicheranno, si capirà davvero a che cosa si mira. Diciamola tutta: se quotando Poste il governo Letta avesse in mente di piazzare sul mercato una quota dell’ attuale maxi conglomerato postal-finanziario aggiungendo in sovrappiù al suo perimetro il trasporto aereo e financo la rete di Telecom Italia, come vorrebbero alcuni spifferi giornalistici, allora saremmo al delirio: un’ipotesi da combattere sulle barricate.

Prima ricordiamo a tutti che cosa è Poste Italiane oggi. L’enorme carrozzone pubblico che perdeva 4.500 miliardi di lire nel 1993 divenne a quel punto da Amministrazione Autonoma Pubblica un Ente Economico Pubblico, primo passaggio di maggior disciplina contabile, e poi nel 1998 una SpA, il che ne rafforzò gli obblighi economico-finanziari. Tra il ’98 e il 2002 la guidò Corrado Passera, con una forte ristrutturazione – 22mila dipendenti in meno – e una focalizzazione del business che portò le perdite da 800 miliardi l’anno vicine al punto di equilibrio. Dal 2002 il capoazienda é Massimo Sarmi, confermato nel 2005, 2008 e 2011. E da un decennio il bilancio registra utili crescenti, fino a oltre 1 miliardo nel 2012. Su ristrutturazione e crescita degli utili, non poco ha contribuito il regime regolatorio di vantaggio concesso a Poste, mentre procedeva gradualmente la piena liberalizzazione europea di settore avvenuta solo nel 2011

Poste Italiane, rimasta al 100% del Tesoro, è oggi un enorme conglomerato, con oltre 24 miliardi di fatturato. Solo 4,6 vengono (a bilancio 2012) dai servizi postali e commerciali, in discesa anno dopo anno (erano 5 miliardi nel 2009). Ben 13,8 miliardi provengono dai servizi assicurativi – con il gigante PosteVita, che ha collocato quasi 5 milioni di prodotti in oltre 10 anni di esistenza con una raccolta di circa 55 miliardi di euro, e con la molto più modesta Poste Assicura, compagnia attiva nel ramo danni e con raccolta di alcune decine di milioni. Altri 5,3 miliardi vengono dai servizi finanziari, soprattutto attraverso BancoPosta Fondi, la società di gestione del risparmio che amministra un patrimonio di oltre 40 miliardi di euro, e una raccolta nell’ordine dei 400 miliardi tra conti postali, libretti e buoni fruttiferi. Poste è un colosso di raccolta del risparmio e assicurativo grazie alla più capillare rete territoriale presente sul territorio italiano, con oltre 14 mila sportelli. Ma non ha la piena licenza bancaria. Per due ragioni. L’ABI ha sempre puntato i fucili, contro un concorrente tanto temibile. E con ragione, finché sulla raccolta postale – avviata ad alimentare Cassa Depositi e Presiti – vale la piena garanzia pubblica, della quale non gode la raccolta bancaria.

Oltre alla concomitanza tra ramo finanziario e consegne postali, Poste controlla anche una corposa lista di società attive nei più diversi rami. Per fermarci alle maggiori, PosteMobile opera nella telefonia cellulare con 3 milioni di clienti, Postel lavora alla telematizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione, PosteShop vende gadget e oggettistica… e Mistral è la mini compagnia aerea – in perdita – dalla quale germina l’ingresso di Poste in Alitalia, attualmente in corso e senza alcuna analogia al mondo (c’è anche una PosteTributi, una PosteEnergia e così via, ma fermiamoci qui).

Quando abbiamo detto che ci sono almeno due modelli diversi di collocamento sul mercato, ci riferiamo alla Royal Mail britannica, di cui l’11 ottobre scorso è stata collocata una prima metà sul mercato come primo passo in vista di successive cessioni, e alla Deutsche Post tedesca. Per analogie e finalità da perseguire, c’è da sperare che il modello adottato da Letta e Saccomanni sia il secondo.

Il motivo è presto detto. Royal Mail non era e non è un conglomerato di attività maggiormente finanziarie, come Poste Italiane. I dubbi per la sua privatizzazione, alla quale i sindacati erano tenacemente ostili, discendevano sin dai tempi della Thatcher proprio da questo, visto che l’inefficienza postale era forte anche in UK e i biolanci in perdita, duqnue la privatizzazione era assai poco appetibile. Il miglioramento di efficienza conseguito grazie a una fortissima apertura regolatoria al mercato, per la quale solo il 5% delle attività di Royal Mail è nell’ambito dell’ex servizio universale, solo negli ultimi 2 anni ha spinto a realizzare utili, e comunque l’EBIT 2012-2013 di Royal Mail è solo al 3,8% del fatturato, rispetto al 9,8% di Poste. C’è da sperare dunque che Letta si riferisca al modello britannico solo per la quota di 2200 sterline in azioni riservata a ciascun dipendente, praticamente un 10% della prima offerta al mercato, ma che non voglia seguire la via della quotazione dell’attuale conglomerato Poste così com’è.

Per questo la via tedesca è preferibile. Anche la Deutsche Poste integralmente pubblica di fine anni anni Ottanta, oltre al servizio postale, aveva dentro di sé un’enorme raccolta finanziaria, ed era al contempo monopolista delle Tlc. Ne conseguì la separazione di Deutsche Telekom, poi quotata ma non integralmente perdendone il controllo come la nostra Telecom Italia, e di PostBank, la divisione di servizi finanziari anch’essa poi integralmente ceduta al mercato, tanto da venire inglobata tra fine anni ’90 e 2011 nella “privata” Deutsche Bank. Nel 2000 avvenne invece la quotazione di una prima tranche di Deutsche Post, che nel frattempo, rilevando DHL, diveniva un gigante della logistica globalizzata, con 500 mila dipendenti in 200 Paesi. Nel 2005 il governo realizzava una seconda tranche di cessione, spogliandosi di ogni azione e concentrandone il 30% di controllo nelle mani di KfW, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti.

Quel che serve da noi è analogo. Non solo e non tanto per il controllo pubblico da far restare in Cdp, controllo del quale noi faremmo ovviamente a meno, ma non l’attuale governo né l’intera politica italiana, da destra a sinistra oggi unanime nel difendere lo Stato proprietario e gestore.  Quanto perché separare le attività finanziarie da quelle postali-commerciali è il giusto metodo per accelerare l’apertura al mercato innanzitutto del servizio postale. Settore nel quale siamo molto indietro, come testimoniato dal fatto che è il penultimo per apertura alla concorrenza anche nell‘Indice Liberalizzazioni 2013 appena edito dall’Istituto Bruno Leoni.

Infine, quotare Poste serve anche a risolvere una questione … previdenziale. Certo, coinvolgere i sindacati nel capitale è cosa buona. Ma la quotazione è il miglior metodo per risolvere un problemino “storico” che Poste sin qui si trascinano: l’assegno di quasi un miliardo di euro l’anno – 990 milioni, per la precisione, nel 2013 e nel 2014 – che sin qui il Tesoro gira a Poste per coprire il buco dell’ex gestione previdenziale dei postelegrafonici (sono stati 5,5 miliardi di sbilancio previdenziale a carico pubblico solo negli ultimi 6 anni). Anche a Royal Mail accadeva, e l’Europa l’ha costretta a risolvere il problema, prima della quotazione. Da noi avverrà la stessa cosa, ed è giusto così. E, a proposito, speriamo che oltre alla sorpresa Poste, il governo voglia dirci qualcosa di chiaro anche sul rebus Alitalia, e sulle tante voci che girano intorno alla rete di Telecom Italia…

9
Dic
2013

Renzi-Letta: tre modesti suggerimenti dal ciglio del baratro

Dopo la decadenza di Berlusconi, la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, la vittoria netta di Renzi alle primarie Pd, l’11 dicembre, con il nuovo passaggio parlamentare della fiducia al governo Letta, inizia obbligatoriamente una fase diversa. Visto che il governo intende andare avanti, deve ridare credibilità a nuovi impegni. Sono mutati insieme perimetro della maggioranza, leadership del Pd, e urgenza di nuove regole elettorali ed istituzionali.

Vedremo in particolare Renzi come articolerà la svolta energica che h annunciato. Personalmente, ritengo molto positiva la botta a una leadership Pd che aveva sbagliato tutto. E che ha voluto-dovuto accettare di farsi misurare  dal libero voto, in primarie non chiuse ai soli iscritti. Niente di simile – quanto a come si legittima una nuova leadership – esiste a destra. Il che affida un compito gravoso ai quattro gatti liberal-liberisti italiani. Condivido l’attesa e le richieste già avanzate a Renzi da esponenti come Pietro Ichino.

Ma fin da ora lancio a Letta un modesto richiamo. Per favore, non sottovaluti per orgoglio della sua continuità di governo la situazione economico-finanziaria. E’ la vera grande emergenza nazionale: la perdita di prodotto, reddito e patrimonio delle famiglie e delle imprese. Non commetta l’errore di anteporle fumose formule politiche o complesse architetture istituzional-elettorali. Perché nel frattempo è la mancanza di lavoro e crescita, il primo problema degli italiani. E l’esplosione della protesta non è monopolio della sinistra e del M5S, come mostra oggi nelle strade d’Italia il fenomeno 9dicembre-Forconi.

Il governo chiederà una nuova fiducia mentre l’approvazione della legge di stabilità alla Camera è appena all’inizio. Ma essa ha intanto perso ogni pretesa di “svolta” che le era stata associata. Vicende pazzotiche come quella dell’IMU, il contenzioso aperto per ancora un miliardo e mezzo con i Comuni, la stima degli uffici tecnici di Montecitorio, per i quali il 63% delle risorse della manovra finanziaria viene da nuove entrate, l’irrisorietà dell’intervento sul cuneo fiscale, tutto ciò e molto altro ne hanno fatto un atto di galleggiamento, non di spinta. Il giudizio della Commissione europea, dopo lo scambio ruvido di battute tra Letta e il commissario Rehn, è stato ribadito dal portavoce del commissario, per il quale mancherebbero ancora 6 miliardi di euro agli obiettivi contrattati per il 2014. L’opera sulla spesa pubblica di Cottarelli è appena all’inizio, e sarà il caso di affidargli un obiettivo credibile e ufficiale di interventi a cominciare dal 2014. Con la BCE resta aperto il capitolo della riforma del capitale della Banca d’Italia, dei soci e dei diritti che vengono loro attribuiti, tra cui l’incredibile incasso di miliardi per Unicredit-Intesa attraverso la cessione delle quote eccedentarie il 5%.

Letta ha un bell’attaccare l’antieuropeismo populista. Essi si nutre del continuo rinvio delle riforme e della strage fiscale perpetrata dai governi, e il suo non fa eccezione. Servono altre priorità. Sentiremo quelle di Renzi, ma intanto almeno tre.

Primo: il lavoro. E’ uno dei tre punti già dichiarati del nuovo patto chiesto da Renzi. Limitiamoci qui a esempi muniti di copertura finanziaria. I tagli di spesa 2014 affidati a Cottarelli vanno da subito cifrati perché si traducano in minor cuneo fiscale alle imprese. In corso d’anno, non oltre marzo quando il governo dovrebbe presentare in parlamento le misure attuative. Idem dicasi per i proventi da lotta all’evasione: vanno dal 2014 non più assunti in bilancio a copertura del deficit o di nuova spesa, ma retrocessi abbattendo oneri contributivi. Sommando le due poste si supera 1 punto di Pil, che è la scala minima per proporsi effetti a breve davvero sostanziali.

Secondo: il Consiglio Europeo del 19 dicembre. L’Unione e Berlino hanno abbracciato l’ipotesi di aggiungere agli strumenti di controllo esistenti – fiscal compact, six pack e two pack, considerati ormai gli acronimi dell’austerità, come se la via tutta-tasse non fosse stata scelta dalla politica italiana– dei nuovi strumenti premiali. I contractual arrangements, in parole povere intese bilaterali tra Commissione e Paesi membri, che aprano a margini di concessione di risorse in cambio dell’attuazione di riforme. L’Italia ne ha bisogno, visto che dopo la Grecia siamo il Paese con la più elevata perdita di Pil procapite dal 2001 a oggi.

Due esempi allora, il trasporto pubblico locale e l’immigrazione. Siamo il Paese europeo col più alto margine di contribuzione pubblica al trasporto locale, quasi l’80%, e insieme quello col più alto numero di aziende in perdita. Con città paralizzate come Genova e Firenze, e scandali come quello dell’Atac romano. Non ci sono né ci saranno, risorse pubbliche aggiuntive per pagare a più di lista deficit e debiti. Occorre cambiare le regole e introdurre la concorrenza.

Pensiamo al dopo Prato, sull’immigrazione, ora e ancora visto che a una settimana non sappiamo ancora l’identità delel vittime. E guardiamo al mondo. L’Arabia Saudita ha iniziato l’espatrio forzato di 2 milioni di lavoratori stranieri, 90 mila sono stati messi sugli aerei verso l’Etiopia in poche settimane. Gli Stati Uniti invece danno la green card a chi dalla Cina si presenta investendo 500mila dollari e dando lavoro ad almeno 10 persone, impegnandosi al ferreo rispetto delle leggi. Tra le due alternative seguiamo quella americana , attiriamo insieme capitali esteri e imprese, ma con un patto di legalità adamantina. Oltretutto al Consiglio europeo si tireranno anche le file dell’impegno europeo per aiutarci a pattugliare il Mediterraneo e a smistare immigrati e asilanti: si parla di soli 19 milioni di euro aggiuntivi per Frontex, un’inezia.

Terzo: il fisco. Non è solo il cuneo fiscale, a strangolare l’Italia. Lo Stato mantiene il gettito invariato mentre Pil e reddito scendono, e così deprime la domanda interna cioè i consumi. Se il 10% dei contribuenti assicura oltre il 50% dei 152 miliardi incassati dallo Stato con l’Irpef, la progressività è non solo eccessiva, ma concentrata sulla fascia media. Quel diabolico scalino di 11 punti percentuali, dal 27% al 38%, che scatta oggi per chi supera i 28 mila euro lordi annui, è diventato davvero la corda che uccide il ceto medio. E’ tempo di ripensarci, prima che sia troppo tardi. Ora. Il delirio degli acconti d’imposta oltre il 100% è incostituzionale, bisogna che Renzi-Letta chiedano scusa ai contribuenti giurando “mai più”.

Sono solo esempi, naturalmente. Ma quando il mare è in tempesta chi non ha buon motore e saldo timone va a fondo. Milioni di italiani hanno perso quanto, a prezzi correnti, non avevano mai perduto le generazioni succedutesi dall’Unità ad oggi. E non sono più disposti, a concedere attenuanti alla politica. Se vincerà chi la spara più grossa, una gara in cui la destra ormai va a braccetto con Grillo, la colpa è di chi al governo ha fatto l’imbelle.