28
Dic
2013

Mps oggi: 4 motivi per restare senza parole

Quel che oggi è avvenuto a Siena mostra purtroppo che l’Italia è assai restia a cambiare sul serio, quando vengono al pettine disastri figli di improprie commistioni tra politica e finanza. E’ amaro dirlo: gli effetti della decisione di ieri non si ripercuoteranno solo su Siena, che dall’esplosione del plurisecolare Monte dei Paschi ne ha già subiti tanti. Colpiscono la credibilità dell’intero sistema bancario italiano, e dei suoi regolatori pubblici, il Tesoro che vigila sulle Fondazioni bancarie, e la Banca d’Italia che vigila sugli istituti di credito.

In seconda convocazione dopo che il giorno prima gli investitori istituzionali e i fondi esteri non si erano presentati non fidandosi delle liti italiane, l’assemblea del Monte dei Paschi di Siena ha respinto la proposta del presidente Profumo, dell’amministratore delegato Viola e della maggioranza del cda della banca: un aumento di capitale di 3 miliardi da realizzare subito, essendo già stato richiesto e contrattato nei dettagli con l’Unione Europea grazie all’assistenza di Tesoro e Bankitalia, ed avendolo già annunciato i manager ai mercati mondiali, chiudendo anche un accordo internazionale con primarie banche per il consorzio di garanzia necessario al buon successo del collocamento.

E’ passata la linea sostenuta dalla Fondazione, che chiede un rinvio di almeno 6 mesi della ricapitalizzazione. Perché altrimenti in tempi rapidi non ha modo di trovare compratori per il 31% residuo della banca che le è restato in mano. Antonella Mansi, presidente della Fondazione, si è battuta come un leone per un rinvio che apparentemente sembra ragionevole. E invece non lo è affatto.

La Fondazione è indebitata con le banche per 339 milioni su un patrimonio residuo di poco superiore ai 500. Non solo non ha i denari per partecipare all’aumento di capitale e difendere il suo 31%. Se non trova acquirenti per un bel po’ delle sue attuali quote non è in grado di rimborsare le banche, e a quel punto le perdite sul patrimonio residuo salirebbero oltre la soglia di legge. In altre parole la fondazione senese finirebbe fallita. Proprio quella tra tutte le fondazioni che più ha sfidato nei decenni la legge istitutiva. Nella condiscendenza generale della politica e dei regolatori. Create all’inizio degli anni 90 per “accompagnare” le ex banche pubbliche al mercato, le fondazioni dovevano per la legge Ciampi dismettere nel tempo il controllo degli istituti di credito e concentrarsi sulla restituzione al sociale e ai territori (a cui dovevano il patrimonio, formatosi nei decenni delle banche pubbliche) di flussi crescenti di un capitale sobriamente impegnato in asset non speculativi.

La fondazione senese – espressione del Comune e Provincia di Siena, e della Regione Toscana, cioè del Pd – è rimasta invece ben oltre il 50% del capitale MPS, fino all’esplosione di quest’ultima. E quando fu necessario un primo aumento di capitale nel 2011, a fronte ormai dell’evidenza del prezzo folle pagato da Mps a fine 2007 per acquisire Banca Antonveneta – 10 miliardi al Santander, che se l’era aggiudicato per 3 in meno pochi mesi prima – pur di non scendere sotto il 50% la Fondazione si indebitò ulteriormente, concentrando una quota elevatissima del proprio patrimonio solo sulla scommessa del controllo dell’istituto, autorizzata allora dal Tesoro (che vigila sulle fondazioni) e dal governo di centrodestra. A riprova che se MPS era del Pd, a tutta la politica andava “l’attenzione” della banca. Oltre a “conti d’attenzione” per esponenti dei partiti, MPS comprava forsennatamente BtP.

L’aumento di capitale 2011 per altro non bastò a reggere patrimonialmente la banca, tanto che fu necessario l’intervento dello Stato con 4 miliardi di Tremonti bonds, su cui grava un interesse elevato, il 9% e in crescita di mezzo punto l’anno, e la clausola che in caso di mancata restituzione possano trasformarsi in capitale della banca, cioè in nazionalizzazione.

Quando, alla fine del 2012, sono esplose le indagini giudiziarie ed è venuto al pettine anche il nodo dei derivati per centinaia di milioni contratti da Mps per alleggerire le perdite e truccare i conti, non scrivendoli in bilancio per anni, la banca ha cambiato guida, con l’avvento di Profumo e Viola. Il sindaco di Siena ad aprile è cambiato anch’esso, dal dalemiano Ceccuzzi al renziano Valentini. E infine è cambiato il vertice della fondazione: il Pd era fuori causa, e ha affidato la guida all’imprenditrice Mansi, vicepresidente nazionale di Confindustria. Sembrava cambiato tutto, e la lezione “basta con la politica nelle banche” finalmente appresa. Invece, macché.

A Profumo e Viola sono toccati mesi durissimi: due successive versioni di piano industriale lacrime e sangue, alla base del recupero di credibilità necessario a poter lanciare un nuovo aumento di capitale. Quando a ottobre tutto era pronto, a fronte della presenza del sostegno pubblico coi Tremonti bonds l’Unione Europea ha chiesto che l’aumento di capitale passasse da 2,5 a 3 miliardi, e un indurimento ulteriore del piano industriale.

La montagna da scalare del recupero di efficienza di una banca disastrata da decenni di controllo politico è tutta in salita: tagli al personale per 8 mila unità, 3.400 in più dei 4.640 già previsti, chiusura di 550 filiali invece delle 400 del vecchio piano. Ritorno a 500 milioni di utile nel 2015, ma subito restituzione al Tesoro di buona parte dei Tremonti bonds oltre al pagamento degli ingenti interessi intanto dovuti, e di quelli sulla parte non restituita. Vincoli stretti sullo stipendio ai manager, per l’ad scende da 1,3 milioni a 500 mila euro al massimo. Discesa a non più di 17 miliardi dei BtP in pancia alla banca, che obbligano a tener fermo capitale che l’istituto non ha e che deve usare per gli impieghi, non per “tenersi buona” la politica (a metà 2012, MPS era arrivata a detenerne 32 miliardi).

Questo è il quadro. Profumo e Viola l’aumento di capitale l’hanno dovuto contrattare alla luce del sole con Bruxelles, con Tesoro e Bankitalia a fianco. Oltretutto l’Italia è la prima a dire che vuole più Unione Bancaria rispetto ai neghittosi tedeschi, e ora da Siena arriva il no. Il consorzio di garanzia internazionale per il collocamento era vincolato alla data, scade il 31 gennaio. Chi si fiderà a collocare l’inoptato, per un nuovo aumento dopo sei mesi? Profumo e Viola sono decapitati nella credibilità davanti ai mercati mondiali. Il titolo lunedì scenderà vedremo di quanto, rispetto alla già risibile soglia di 17-18 centesimi. E tutto questo per cosa? Perché l’Italia resta consociativa.

Primo. Perché la fondazione sostiene di non poter dissipare il proprio patrimonio. In realtà, anche se la Mansi prima non c’era, come primo azionista per anni ha determinato le scelte della banca, comprese quelle sciagurate, ha sfidato la legge restando oltre la soglia del 50%, e ha irresponsabilmente concentrato troppo patrimonio sulla banca. Chi sbaglia paga, dovrebbe essere la legge. Troppo comodo credere i mercati internazionali facciano da bancomat, mettano i soldi dopo i guai di Siena, ma in assemblea continui a comandare chi i guai li ha fatti.

Secondo. La fondazione non è sola a sostenere questo. C’è dietro l’intero mondo dell’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie italiane guidata da Guzzetti. Che ha spiegato alla politica che far pagare così duramente una fondazione è un errore verso l’intero sistema. Alcune delle primarie fondazioni sono pronte ad assumere parte delle quote della sorella senese, e ad aiutarla a reinvestire il ricavato in un quota che resti quella più elevata nell’azionariato futuro di Mps. Per questo serve tempo, un aumento di capitale a fine 2014. Per continuare a ripetere la storia che le fondazioni bancarie sono un presidio di italianità e stabilità delle banche, quando avrebbero dovuto dismetterne il controllo da anni e anni.

Terzo. Anche il Pd la pensa così. Se a luglio il nuovo sindaco Valentini parlava rassegnatamente di soci esteri per Mps, nelle ultime settimane a Saccomanni ha spiegato che occorre evitare “soci sgraditi”, e che Siena deve restare in sella. L’accordo con l’Europa l’hanno firmato Profumo e Viola, mica i senesi. Che vadano a casa loro due, e magari si nomini presidente Barucci, che è in scadenza all’Antitrust. Sarei curioso di sapere se davvero la pensa così Renzi, se è questa lòa svolta che stiamo attendendo.

Quarto. Che gli industriali si prestino a far da controfigura presentabile del Pd in questa partita, è purtroppo singolare solo per chi si stupisce del consociativismo italiano. La Mansi sarà in buona fede, ma il conflitto d’interesse tra la solidità patrimoniale della Fondazione e quello della banca è di un’evidenza oggettiva: doveva saperlo bene, visto che di bilanci non è sprovveduta, allorché poche settimane fa assunse la presidenza della fondazione. E che Tesoro e Bankitalia siano rimasti a guardare mentre l’accordo con l’Europa saltava, la dice lunga su quanto, di fronte al controllo bancario e al peso del Pd, non c’è Europa e rigore che tenga.

E’ ovvio che Fondazione e pd sappiano benissimo che a questo punto il rischio-nazionalizzazione, tramite conversione dei bonds pubblici, è fortissimo. Ma loro lo preferiscono al mercato: sia il “governo-amico” a sovrintendervi, in maniera da tutelare chi va tutelato. Cosa che aggiunge ragione a chi, un anno fa, come il sottoscritto, per diffidenza invocava una nazionalizzazione-pulizia subito, senza tutele per gli azionisti di conrrollo e con promessa contestuale di restituire al mercato una banca in sesto attraverso una privatizzazione a 2 anni, come avviene nel Regno Unito.

27
Dic
2013

Il metro di Roma a Natale e le logiche capovolte dell’Italia

Roma, orario dei trasporti urbani a Natale. Lo riporto come cartina al tornasole in grado di svelare non solo a cosa serve il trasporto pubblico (a Natale e nel resto dell’anno, a Roma e nel resto d’Italia) ma anche le logiche soggiacenti il funzionamento del nostro paese.

Martedì 24 dicembre
Per Metro A e Metro B, ultima corsa alle 21. Sulla B1, ultima partenza alle 20,56 da Laurentina per Conca d’Oro.Anche bus, filobus e tram si fermano alle 21. (…)

Mercoledì 25 dicembre
A Natale, metropolitane attive dalle 8 alle 13. Sulla metro B1, da Laurentina per Conca d’Oro l’ultima corsa sara’ alle 12,56. Bus, filobus e tram in servizio dalle 8,30 alle 13 e dalle 16,30 alle 21. Regolare il servizio dei bus notturni. Per la ferrovia Roma-Lido, da Piramide corse dalle 8 alle 13,30, da Colombo corse dalle 7,23 alle 12,23. (…)

Immaginiamo ora di essere dei marziani che sanno tuttavia come funzionano domanda e offerta sui mercati. Come interpretiamo il fatto che i trasporti pubblici non siano operativi la sera della vigilia di Natale e il pomeriggio della festività? Pensiamo che non sia prevista domanda e inoltre che non vi siano obblighi pubblici a offrire il servizio anche quando la domanda è scarsa. Da non marziani sappiamo invece che è l’esatto contrario: la domanda prevedibile a Roma a Natale è tutt’altro che scarsa e inoltre i trasporti pubblici sono (cospicuamente) sovvenzionati dal contribuente per funzionare anche dove e quando la domanda è debole.

Conseguenza: applicando la logica di ogni paese normale pensavamo ingenuamente che gli autisti e i mezzi pubblici fossero strumento per consentire ai viaggiatori di spostarsi. Niente di più sbagliato: in un paese come l’Italia che funziona con logiche rovesciate sono in realtà i viaggiatori strumento per consentire agli autisti di spostarsi sui mezzi pubblici. E il giorno di Natale e la vigilia gli autisti, impegnati presso le loro case con le loro famiglie, non avevano nessuna intenzione di spostarsi. Dunque i viaggiatori non servivano.

Questa storia mi ricorda quelle vecchia che vedeva importanti musei italiani (un tempo) stabilmente chiusi il giorno di ferragosto e in altre importanti festività. Anche in quel caso ci stupivamo perché da poveri ingenui pensavamo che i custodi dei musei fossero strumento essenziale per consentire ai turisti, soprattutto stranieri, di contemplare l’arte italiana. Ma non potevamo commettere errore più grande. In un paese a logiche capovolte come l’Italia erano infatti i turisti lo strumento per consentire ai custodi dei musei di farsi contemplare dalle opere d’arte. E il giorno di ferragosto essi non sentivano questa esigenza.

 

 

27
Dic
2013

#Liberalizzazioni – Il “Loop” del monopolista

Il cliente è al centro dell’attenzione di un’azienda, se questa è in un ambiente competitivo e liberalizzato.

Quando un mercato è in mano ad un monopolista, il consumatore soffre, ma quando due mercati sono in una situazione di bassa concorrenza, il rischio è che il consumatore possa entrare in un “circolo vizioso”: il loop del monopolista.

Il monopolio è una forma di fallimento di mercato ed è per questo che l’Istituto Bruno Leoni mostra l’andamento del mercato liberalizzato in Italia tramite il proprio Indice delle Liberalizzazioni ogni anno.

Dall’indice del 2013 si ricava che uno dei settori meno liberalizzati è quello postale, come giustamente ricorda nel suo capitolo il professore Ugo Arrigo, dato che il valore assegnato è pari al 2 per cento. Read More

27
Dic
2013

Alcuni chiarimenti sull’andamento dell’orologio del debito pubblico

Anche quest’anno il debito pubblico italiano è cresciuto considerevolmente, come testimoniato dagli aggiornamenti periodici della Banca d’Italia e come anticipato dall’“orologio” dell’Istituto Bruno Leoni. All’origine di questo aumento ci sono alcune operazioni straordinarie, ma soprattutto c’è l’incapacità di tenere sotto controllo la spesa pubblica. La “spending review”, fino a oggi, è stata più un annuncio che una realtà.

Nel mese di dicembre, i lettori potrebbero notare che le “lancette” dell’orologio girano all’indietro: il debito, durante questi 30 giorni, si riduce. Tipicamente, il Tesoro effettua delle operazioni di riacquisto dello stock di debito (“buy back”), riducendone l’ammontare di circa 30 miliardi di euro nell’arco del mese (anche se la nostra sensazione è che nel 2013 l’operazione sarà molto contenuta rispetto al passato). La nostra stima si basa – come l’intera architettura dell’orologio – sui comportamenti osservati negli anni scorsi. Non sappiamo se anche quest’anno il Tesoro effettuerà operazioni di buy back e in quale misura: possiamo solo supporre che si comporterà come in precedenza, pur avendo qualche perplessità data la situazione del bilancio pubblico. Quel che è certo e che a gennaio il debito riprenderà a crescere – l’Epifania tutte le feste si porta via, purtroppo.

27
Dic
2013

Caro Anno Nuovo, prometto di fare la brava. Forse. F.to Italia

Caro Anno nuovo

ho deciso che appena arriverai tu, sempre così carico di speranze e buoni propositi, diventerò più brava.

Non sono più una bambina ormai e devo imparare a comportarmi con responsabilità. Quest’anno ho festeggiato 65 anni. Per essere una Repubblica, sono ancora giovane ma non ho ormai scuse per fare i capricci o essere irragionevole.

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26
Dic
2013

Se il 1000-proroghe è come il salva-Roma: più buchi e più tasse

Domani il governo vara il decreto “milleproroghe” per il 2014 e vedremo che cosa conterrà, a cominciare dalle norme salva-Roma saltate alla vigilia di Natale. Speriamo proprio non sia la stessa pappa.

Va riconosciuto al Quirinale il merito per aver fatto cadere – quando era praticamente approvato – un decreto-omnibus in cui a prescindere da Roma era entrata ogni tipo di mancia territorial-clientelare per centinaia di milioni, in violazione dei requisiti non solo di urgenza ma di coerenza tematica che sono – meglio ormai dire: dovrebbero essere – propri della decretazione d’urgenza. Ma prima di svolgere alcune considerazioni su ciò che aspetta i romani nel milleproroghe, un’osservazione va fatta proprio su tale strumento.

E’ dal dicembre 2005, che i governi italiani hanno la cattiva abitudine di riservare al milleproroghe di fine d’anno interventi su una congerie delle più disparate materie. Il motivo per il quale possono farlo è che deve trattarsi o di conferme di norme “a tempo” che scadono a fine anno, o di deroghe urgenti alle norme vigenti, e in entrambi i casi non è stato possibile intervenire col procedimento legislativo in corso d’anno.

In un paese ordinato e serio, il milleproroghe non dovrebbe esistere, la Corte Costituzionale dovrebbe impedirlo. Per la sua stessa genesi aggira i requisiti costituzionali della decretazione d’urgenza, e testimonia solo l’arretratezza di un sistema in cui più del 95% delle modifiche alla legislazione vigente avviene solo attraverso la sessione di bilancio. E’ un sistema che deriva dalla mancanza di riforme organiche affrontate in Parlamento, e che insieme ha finito per accentuare tale patologia. Non è un caso che in ogni milleproroghe – anche oggi sarà così – sia confermato per un anno il tetto agli incroci tra stampa e tv. Il sistema dei media è da vent’anni per definizione terreno sul quale destra e sinistra procedono solo per armistizi temporanei. Dunque è sempre proroga, mai riforma che metta avanti prospettive di sviluppo nazionali, rispetto al conflitto Rai-Mediaset. E’ patologia piena, che nel milleproroghe finiscano materie come il blocco degli sfratti, o il diritto di recesso degli affitti d’oro di Camera e Senato.

Ma veniamo a Roma. Da quando è stato approvato tra mille traversie il bilancio preventivo di Roma 2013 lo scorso 6 dicembre – altra patologia, ma su questo il governo Letta ha le sue colpe, è lui che ha protratto il termine ai Comuni nel 2013, per scrivere le fantastiche pagine del  romanzo IMU – l’amministrazione Marino vanta una sorta di “contratto” sottoscritto dal governo. I conti 2013 e degli anni successivi non starebbero in piedi se il governo non abbassasse di 600 milioni gli 867 di debito accertati dal sindaco Marino. Tutto ciò sebbene, nelle previsioni 2014 elaborate dalla Ragioneria Centrale del Comune, Roma dovrà accrescerere molte delle sue entrate: quasi il doppio rispetto all’incasso 2013 da tassa di soggiorno, 15 volte – ! – dal canone degli impianti pubblicitari, 3 volte quanto ricavato da accertamenti d’infrazioni. Ma a malapena tutto ciò, dicono in Campidoglio, fronteggia i minori trasferimenti ordinari al bilancio di Roma dallo Stato, in discesa dagli oltre 700 milioni del 2013 a circa 450 nel 2014 (tagliare le spese mai, eh?).

Di qui la trattativa tra il sindaco Marino e governo Letta, sfociata nel salva-Roma. I 600 milioni di minor debito vengono da un artificio contabile, la legislazione pubblica ne è diventata maestra. Quando nel 2008 divenne sindaco Alemanno e certificò in 12 miliardi il debito pregresso accumulato dalle amministrazioni “rosse”, allora Roma ripartì da zero “girando” tale debito a una gestione commissariale parallela, “inventata” dal governo Berlusconi in cambio di un ritocco verso l’alto dell’aliquota Irpef di spettanza comunale, e del fatto che Roma avrebbe “girato” ogni anno al commissario Varazzani una parte del gettito da Irpef pari allo 0,4%.

Marino ha chiesto e ottenuto da Letta un analogo escamotage. I 600 milioni di abbuono sono costituiti dai 485 milioni che lo Stato girò nel 2009 a Roma che a propria volta li girò al commissario, per conferirgli una dotazione patrimoniale iniziale. E che ora il governo “cancella” dal debito romano, ergo se mai Varazzani riuscirà a recuperarli li dovrà al governo. Altri 115 milioni vengono anch’essi iscritti a passivo del commissario nei prossimi 2 anni, dovuti a oneri anteriori al 2008 ma emersi negli anni successivi: una bella conferma che le amministrazioni pubbliche sono campioni, nel non dire la verità sui debiti che contraggono. Per continuare a onorare l’impegno di girare quasi 500 milioni di risorse l’anno al commissario – altrimenti come li paga, lui, i debiti fatti dai sindaci? in una ventina d’anni, sintende… – Roma avrebbe ottenuto un ulteriore sforamento verso l’alto della sovraliquota Irpef da applicare ai romani, passando dallo 0,9% all’1,2%. Il sindaco Marino ha ripetuto che l’addizionale non sarà applicata, ma in tal caso non si capisce perché tanta insistenza nel chiederla e ottenerla, nel salva-Roma.

Tre considerazioni, a questo punto. La prima, sul metodo. La seconda, sull’alternativa. La terza, sulle conseguenze.

Primo: i conti di Roma Capitale dimostrano un’evidenza. A ogni cambio di colore politico delle giunte, emergono buchi enormi. La via prescelta dai governi di destra e di sinistra è di tenere buoni i sindaci a sé vicini, inventandosi conti economici e bilanci patrimoniali paralleli, che a nessun privato italiano, famiglia o impresa, sarebbero mai consentiti. Anzi, porterebbero dritti alla galera. Di fatto, tale metodo è un incentivo a proseguire nelle voragini di bilancio. Come sono stati “abbuonati” i predecessori, così anch’io, ragiona ogni sindaco: e che, si vuole fare eccezione proprio per me e non abbuonarmi i debiti? Per i contribuenti, è un disastro.

Secondo: l’alternativa. C’è. E’ quella di farla finita con la finanza creativa, e di procedere a una revisione approfondita della spesa, e dell’oceano di partecipate e controllate pubbliche. Il salva-Roma era in realtà un salva-Atac, come ha scritto ottimamente Andrea Giuricin qui. Negli ultimi 4 anni l’Atac ha perso in termini operativi quasi 700 milioni, nonostante abbia ricevuto circa 3 miliardi di contributi pubblici. Eppure, quando nell’esame parlamentare del decreto salva-Roma è comparso un emendamento che vincolava Roma a rivedere le sue partecipate pubbliche, costi e personale – visto oltretutto che al Comune tornano i crediti verso le partecipate che nel 2009 erano stati girati al commissario: altra disinvoltura contabile – il sindaco e la giunta capitolina sono insorti. Pessima cosa proseguire coi ripiani a piè di lista, contando sul fatto che le società pubbliche romane sono gonfie di dipendenti e dirigenti perché destra e sinistra vi hanno fatto clientela a piene mani. E’ questa, l’unica vera ragione del proliferare di società e dirigenti: i partiti-clientela generano inefficienza, sovraccosti e debiti. E questi non sfociano mai in drastiche marce indietro, ma solo in più tasse e “buffi”, come si dice a Roma dei debiti non onorati.

Infine: le conseguenze. Tutti i sindaci lamentano che criticare è facile, amministrare tutt’altra cosa. Lo sappiamo. Ma a noi spetta avvisare cittadini e contribuenti di ciò che li aspetta, al di là di che cosa abbiano votato. Roma Capitale, procedendo di colpo di spugna in colpo di spugna e di tassa in sovrattassa, perde attrattività d’impresa e turistica, scende nelle graduatorie internazionali di efficienza e vivibilità. Ecco perché noi vorremmo che sindaco e governo, nel salva-Roma ieri ma soprattutto nel milleproroghe oggi, avessero convenuto discontinuità vere e profonde, e non degli immondi scarica-barile.

 

25
Dic
2013

Il “Salva Roma”, il “mille proroghe” e gli sprechi non contestati di ATAC

Il “Salva Roma” è arrivato al capolinea. Il Governo non ha deciso per la conversione in legge e di fatto si rimanda tutto al “Mille proroghe”, il quale farà i conti con il solito “assalto alla diligenza”.

Si potrebbe pensare che la mancata conversione sia un bene, perché come ricorda la nota del Ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini “sarà contenuta la correzione, annunciata in Parlamento, alla norma relativa agli affitti di immobili da parte della pubblica amministrazione”.

Ben venga questa correzione, ma nessuno parla di un punto che costa molto di più alle tasche degli italiani, vale a dire la norma “Salva ATAC” che serve di fatto a conservare gli sprechi dell’azienda municipale romana.

Non è un caso forse che il Movimento 5 Stelle sia rimasto in silenzio su questo, forse perché avevano degli interessi da difendere, quali la salvaguardia dei posti degli autisti. Read More