8
Gen
2014

Sulla cannabis #iostoconfava

Quello sulla legalizzazione/liberalizzazione delle droghe leggere, si dice spesso, è un dibattito marginale e ideologico: la politica non ha certo tempo di pensare a queste s****zate. In realtà, l’unico modo di attirare l’attenzione della classe politica sembra essere quello di offrirle chances per ideare sigle di nuove e improbabili forme di tassazione. E allora perché non farlo anche con la marijuana? A far riemergere la questione è stato, qualche giorno fa, un tweet di Gianni Fava (l’assessore leghista secondo cui è giunta l’ora di aprire un dibattito sul tema perché “il proibizionismo ha fallito”), ritwittato da Maroni. Quando, poco dopo, sono arrivate la smentita di quest’ultimo e il fermo nein di Salvini, ho creduto che la questione sarebbe stata nuovamente spogliata di ogni serietà e relegata a oggetto di dibattiti liceali. Per ora non è successo. E meno male, perché è davvero ora di parlarne, o, come si suol dire, #iostoconfava.

La molla che ha fatto scattare il commento di Fava è stata un articolo della Stampa, a firma Federico Varese, sulla legalizzazione in Colorado. Un fatto politicamente importante, perché ha “rotto il ghiaccio” sul tema, destabilizzando le certezze della war on drugs e spronando i movimenti pro-legalizzazione degli altri Stati americani a farsi sentire. Non solo: esponenti politici democratici e repubblicani hanno già manifestato il loro consenso, richiamando argomenti noti. Primo fra tutti: togliere risorse al mercato nero e tassare la vendita di cannabis porta soldi allo Stato (si stima che il Colorado, così facendo, guadagnerà 60 milioni di dollari). Varese, pronosticando scenari forse un po’ fantascientifici (contrariamente a quanto afferma l’autore stesso), sostiene che presto la liberalizzazione potrebbe interessare tutto il continente americano (solo poche settimane prima del Colorado la via della legalizzazione era stata intrapresa dall’Uruguay), obbligando l’Europa ad adeguarsi. E constata, questo è il punto, come sia deprimente che, come sempre, l’Italia recepisca passivamente i progressi altrui, senza provare ad anticiparli. Sarà il Vaticano, sarà quello che volete, ma è deprimente. E allora, a maggior ragione, #iostoconfava, perché la Fini-Giovanardi, che disciplina la materia in Italia, è ingiusta e illiberale.

Le questioni aperte, com’è noto, sono tre: quella etica, quella relativa ai rischi per la salute e quella economica. Sulle prime due, dal mio punto di vista, il problema non si pone. O meglio, si pone esattamente alla stregua di quello sull’alcool (che, peraltro, fa molti più morti). Il dibattito sul “fanno bene-fanno male”, cioè, è totalmente vuoto: la libertà individuale finisce dove inizia quella degli altri. Aggiungerei che il fatto che chi vuole drogarsi lo faccia con prodotti aventi standard di qualità garantiti, e non con mercanzia di bassa qualità potenzialmente davvero pericolosa, è una garanzia decisamente maggiore, per la salute, della cieca repressione. E questo per un motivo molto semplice: perché la repressione non funziona. Parliamoci chiaro: chi vuole drogarsi, si droga lo stesso. E qui arriviamo al terzo punto: sembra assurdo dover discutere ancora, quasi cent’anni dopo il National Prohibition Act, degli effetti politici e sociali del proibizionismo; d’altra parte, a quanto pare, è necessario ribadire che durante gli anni ’20, negli USA, non c’è stata alcuna riduzione nel consumo di alcool, mentre si è registrato un netto aumento della criminalità. Il che non stupisce, in quanto è esattamente il contrario di quanto avvenuto per la cannabis nei Paesi Bassi dagli anni ’70 in poi (un po’ di letteratura seria sul tema la trovate qui).

Economicamente, la dinamica è chiara: il prezzo della droga, oggi, è molto alto perché chi ci lavora ha molti rischi. In primis, quello di finire in galera o di subire altre sanzioni. Ma non solo: i diritti personali e contrattuali non possono essere esercitati perché, ovviamente, non sono tutelati dalla legge, e ciò comporta ulteriori rischi. Tutto ciò si riflette nel prezzo, e l’argomento economico preferito dai proibizionisti è proprio questo: se si legalizzasse la droga, il prezzo scenderebbe e aumenterebbero di conseguenza i consumi. D’altronde, non ci vuol un genio per capire che per legalizzare la droga senza far alzare i consumi basterebbe tassarla, così da mantenere il prezzo costante. Il che, d’altra parte, è ciò che fanno tutti i governi del mondo con il tabacco e con l’alcool.

Nel 2006 Gary Becker, Kevin Murphy e Micheal Grossman del National Bureau of Economic Research hanno pubblicato una ricerca, denominata “The economic theory of illegal goods: the case of drugs”, le cui conclusioni sono state riprese da uno studio dell’Università La Sapienza che, nel 2009, ha calcolato la spesa pubblica italiana per il contrasto alla droga dal 2000 al 2005. In questo arco di tempo, per punire violazioni della legge sulla droga, sono state effettuate più di 140.000 operazioni investigative, che hanno portato a circa 226.000 denunce (di cui più di 100.000 per cannabis), 250.000 processi e 130.000 condanne. Nello stesso periodo, circa il 38% dei detenuti nelle carceri italiane scontava condanne per violazioni della legge sulla droga. La spesa pubblica destinata alla lotta anti-droga (considerando le spese dei servizi di polizia, di magistratura e carcerari, relativi a reati di droga) dal 2000 al 2005 è stata di 13 miliardi di euro, di cui il 44% concerne la proibizione della vendita della sola cannabis, che dunque è costata allo Stato più di un miliardo ogni anno.

E questo è solo il risparmio che potrebbe generarsi dalla liberalizzazione, senza contare i potenziali introiti derivanti dalla tassazione. I profitti per lo Stato, in questo caso, sarebbero enormi. Un’aliquota fiscale ottimale, cioè un livello di tassazione sufficientemente alto da ridurre il consumo di droghe rispetto a oggi ma non abbastanza da ricondurne gli scambi nel mercato nero, potrebbe essere quella applicata alle sigarette (cioè circa il 75%). Imponendo un’aliquota del 75% sui prezzi all’ingrosso registrati nel mercato nero tra il 2000 e il 2005, il prezzo d’offerta della cannabis sarebbe leggermente superiore a quello attualmente registrato nel mercato nero, mentre cocaina ed eroina costerebbero quasi il doppio. Sulla base delle stime effettuate da Becker, Murphy e Grossman circa l’elasticità della domanda di droghe rispetto al loro prezzo, il raddoppio del prezzo d’offerta di eroina e cocaina ne dimezzerebbe il consumo, mentre il consumo di cannabis rimarrebbe sostanzialmente uguale. Ebbene: con tale aliquota, e un volume del mercato della droga non difforme da quello stimato, tra il 2000 e il 2005 l’erario italiano avrebbe potuto riscuotere 47 miliardi di euro, di cui 32 miliardi solo dall’imposta sulla vendita di cannabis. Cioè cinque miliardi ogni anno. Complessivamente, quindi, il costo fiscale del proibizionismo della cannabis è, in Italia, di circa sei miliardi ogni anno. Sei. Miliardi. Ogni. Anno.

E tutto ciò senza considerare le implicazioni fiscali indirette del proibizionismo, fra cui spicca il crimine indotto. Innanzitutto, la mancata tutela giudiziaria dei diritti sui beni e sulle attività vietate implica spesso il ricorso alla tutela privata, dicasi violenza, con conseguente aumento del crimine. Le risorse utilizzate da polizia e magistratura per applicare la normativa proibizionista, inoltre, vengono sottratte al controllo e alla persecuzione di altre attività criminali, le quali, di conseguenza, sono contrastate meno efficacemente, con evidenti costi sociali, economici e fiscali.

Sul modo migliore di regolare il mercato della cannabis si può discutere. La maggioranza dei modelli visti finora (Olanda e Uruguay su tutti) è di sapore statalista ed è per questo che, anche in Italia, sono tendenzialmente le forze politiche progressiste ad abbracciarne l’applicazione. Ma la loro implementazione è comunque un traguardo di libertà che è importante perseguire, anche se per gradi e con caratteristiche (almeno inizialmente) non del tutto concorrenziali. Anche se turandomi un po’ il naso, insomma, #iostoconfava, #iostoconvendola e #iosto(perfino)conferrero, se le loro istanze vanno nella giusta direzione.

Twitter: @glmannheimer

 

 

7
Gen
2014

Lo Stato e il Marchese del Grillo

Come sotto l’albero di Natale, all’ombra della legislazione di fine anno si trovano sempre regalini di rara simpatia. Il problema è che i regalini del legislatore non si possono riciclare girandoli a qualcun altro.

Non si vuole parlare della degradante prassi dei decreti milleproroghe; non si vuole parlare dell’allucinante prassi delle leggi finanziarie (ora leggi di stabilità: cambia il nome, ma, chissà perché, non cambia la sostanza…), che sono tristi carovane nelle quali ogni parlamentare cerca di far salire qualche norma; non si vuole nemmeno parlare dei devastanti effetti che queste modalità di legislazione hanno provocato, provocano e provocheranno sul sistema delle fonti, ormai trasformato in un inestricabile guazzabuglio di grida e di norme manifesto. No, sono tutti argomenti che meritano approfondimenti specifici, ma che si ripetono con agghiacciante costanza: la mia attenzione, invece, è stata attratta da una normettina in materia di locazioni, dapprima introdotta dalla legge di conversione del decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120, cioè dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, e poi modificata dall’art. 2, comma 1, decreto legge 30 dicembre 2013 n. 151.

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6
Gen
2014

“Continuiamo così, facciamoci del male!”: l’Italia e certe scelte sul digitale (seconda parte).

Nella prima parte è stata rilevata la mancata effettuazione di un’analisi d’impatto da parte del Governo con riferimento alla disciplina, attualmente sospesa, relativa alla c.d. web tax. Si è evidenziato come l’analisi suddetta sia stata invece svolta da parte di molti di coloro che hanno commentato detta misura, mostrando gli effetti che la tassa avrebbe prodotto, sotto i più vari aspetti, oltre a rilevarne motivi di contrasto con la normativa europea vigente. Essi hanno in tal modo dimostrato come la regolamentazione di materie di una tale portata non può avvenire senza che le conseguenze siano state esaminate sotto ogni punto di vista: le interconnessioni tra settori sono tali da rendere necessario che tutti i soggetti, sia pure indirettamente coinvolti, vengano messi in condizione di apportare il proprio contributo in fase di predisposizione delle leggi.

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3
Gen
2014

Spread: Letta, Saccomanni e le cifre che non tornano

Oggi lo spread, il differenziale dell’interesse pagato dai titoli pubblici decennali italiani su quelli tedeschi, è sceso sotto quota 200, a 198,8. E subito la politica ha iniziato ad accapigliarsi. Cerchiamo di spiegare pianamente da che cosa dipenda, perché e per chi è un bene, e perché soprattutto sarebbe opportuno – dopo anni di crisi e di spread – smetterla con le mistificazioni di comodo. Cominciamo proprio da quest’ultimo aspetto.

Gli esponenti del governo e della maggioranza hanno subito detto che è merito della stabilità del governo, premiata dai mercati. Dall’opposizione, Forza Italia ha subito ribattuto che il livello sotto quota 200 è quello dell’estate 2011, quando al governo c’era Berlusconi: un ulteriore conferma, a loro modo di vedere, che è stata una macchinazione dei grandi poteri finanziari, l’escalation dello spread che lo portò in pochi mesi fino oltre quota 570, quando Berlusconi fu costretto a dimettersi in novembre. In realtà, se consideriamo ciò che davvero sui mercati sta determinando in queste settimane l’abbassamento dello spread, non è corretta nessuna delle due posizioni. Naturalmente, a patto di evitare  le forzature violente che sono poi proprie del partito anti-euro, in fortisisma crescita nel dibattito pubblico italiano, “a prescindere” da Berlusconi.

Tornare sotto quota 200 non è un effetto prevalente della stabilità italiana. Il primo fattore causale, dell’abbassamento del differenziale tra i paesi europeriferici e Germania, è il cambio di segno delle attese future sui tassi d’interessi dei paesi forti. A cominciare dagli Stati Uniti. Da quando nel maggio scorso la FED ha annunciato la diminuzione degli acquisti mensili di titoli sul mercato per poi iniziare a praticarla nell’ultimo mese, i 4 trilioni di dollari che dal 2008 in poi, grazie all’enorme liquidità immessa sui mercati dalla FED e dalla banca centrale del Giappone, si erano rivolti alla ricerca di più alti rendimenti (e rischi) nei paesi emergenti, hanno iniziato a riorientarsi verso i paesi avanzati. Che, in uscita dalla crisi, rialzeranno i tassi. E’ ovvio che tornando anche verso l’Europa, questi capitali cerchino innanzitutto i titoli pubblici a più alti rendimenti: come i nostri.

E’ per questo – seconda ragione di mercato, non politica – che il nostro differenziale sui Bund decennali tedeschi scende sotto quota 200. Da un anno a questa parte, è il rendimento tedesco ad essersi alzato da poco più dell’1% al 2%, mentre il nostro sta al 4%. Infine, terza ragione, viene anche la stabilità politica. E’ ovvio che se andassimo a elezioni che compromettessero i saldi di bilancio, lo spread risalirebbe. Com’era vero che l’ascesa negli ultimi 4 mesi di Berlusconi 2011 non era decisa a tavolino da qualche gnomo ostile: era il giudizio sullo stallo di riforme in cui era finito il suo governo. Il mercato è impeerfetto ma costitiuto da migliaia di scelte e di interessi sui mercati, chi racconta che è una cupola d’illuminati a dirigerlo se è in buona fede non lo conosce, se è in malafede cerca scuse.

Qual è il risparmio?

Anche su questo, meglio che la politica si dia una regolata. Non è il caso di alimentare false aspettative. Spieghiamoci. E’ ovvio che uno spread più basso sia un bene. Cento punti in meno di spread stabilizzati per un anno, rispetto ai circa 400 miliardi di emissioni lorde annuali di debito pubblico italiano e considerata la vita media dei titoli in essere (scesa da oltre 7 anni a poco meno di 6, in 2 anni, perché a spread alti è meglio per lo Stato rinnovare Bot di breve durata che titoli pluriennali), comportano nel triennio successivo un risparmio di circa 14 miliardi di euro di minori interessi sul debito pubblico. Ma bisogna stare attenti a non forzarle, queste cifre. Letta ha per esempio parlato nella connferena stampa di Natale  di 5 miliardi risparmiati sugli interessi nel 2013. Ma a guardare le cifre ufficiali del ministero dell’Economia il risparmio è stato in realtà della metà: di 2,7 miliardi, da 86,7 miliardi nel 2012 a 84 nel 2013.

C’è un tesoretto da spendere?

Oggi inoltre il ministro Saccomanni ha detto che con lo spread sotto quota 200 si libereranno risorse aggiuntive per la crescita nel 2014. Letta si è aggiunto, promettendo meno cuneo fiscale grazie allo spread. Sono dichiarazioni “politiche”. Ma contrastano coi numeri dello stesso governo. Perché in realtà le previsioni dell’esecutivo, sottese alla legge di stabilità appena approvata, già inglobano uno spread per il 2014 a quota 150. Il che significa che bisogna ancora pedalare, prima di promettere risorse da spendere. Non solo la minor spesa per interessi sul debito è già prevista nei conti pubblici, ma inoltre la stima delle entrate 2014 è formulata sulla base di una previsione di crescita del Pil 2014 all’1,1%, quando la maggioranza di tutte le previsioni di osservatori nazionali e internazionali è intorno alla metà, o poco più. Per questo la Commissione europea dice che i conti non tornano di mezzo punto di Pil. Altro che tesoretti.

Ma perché la Spagna ci batte?

Che contino anche le politiche nazionali – “anche”, non solo – lo dimostra il fatto che lo spread spagnolo vada meglio del nostro. Ieri era a quota 195. Nell’economia reale, la Spagna sotto molti aspetti sta peggio di noi. Ha dovuto chiedere in via condizionale 50 miliardi di aiuti (erano fino a 100) per il collasso del suo sistema bancario, ha una disoccupazione più che doppia della nostra. Ma allo stesso tempo in questi ultimi tre anni ha fatto riforme del mercato del lavoro più incisive delle nostre. Ha guadagnato produttività, a differenza di noi che continuiamo a perderla, per il peso della Pubblica Amministrazione e di molti servizi domestici non esposti alla concorrenza. Non ha seguito la via solo-tasse per tagliare il deficit, ma ha tagliato in proporzione più spesa pubblica di noi e graduato gli aggravi fiscali, tutelando piccola e media impresa. Aprendosi a produttori stranieri anni fa,oggi produce ed esporta quattro volte le auto realizzate in Italia. Ecco alcune delle riforme che l’Italia non ha fatto, se vogliamo che il nostro spread scenda sotto quello spagnolo.

Lo spread scende, ma le banche?

In teoria, coi tassi bassi attuali e con lo spread in discesa, i prestiti bancari a famiglie e imprese dovrebbero avere un tasso fortemente positivo. Non è così. Nell’euroarea, i prestiti alle famiglie scendono a novembre del 2,9% e alle imprese del 3,9%. Da noi quelli alle imprese scendono addirittura del 5,9%, il più forte calo dacché si rileva il dato. Dovunque in Europa pesa il deterioramento dei crediti in essere, che obbliga le banche a mettere da parte più capitale a fronte di incagli e sofferenze. E più capitale serve anche per gli stress test in arrivo dalla vigilanza europea unificata. In Italia, le sofferenze lorde bancarie hanno superato i 140 miliardi di euro. Ma da noi il freno bancario è aggravato dall’elevatissimo ammontare di titoli del debito pubblico in pancia elle banche nazionali, 400 miliardi. Siamo il Paese che più ha chiesto alle banche domestiche di sostenere lo Stato, in percentuale più di Spagna e Grecia. Molti credono sia un vantaggio, ricentrare il più possibile del debito in mani nazionali, perché ci fa dipendere meno dai mercati. E’ sbagliato: in gergo tecnico si chiama “repressione fiscale”, perché spiazza risorse riservate a investimenti e consumi. Ed è anche per questo che cresciamo meno.

 

2
Gen
2014

Spumante per Fiat salvata da Chrysler a spese di quest’ultima, ma sistema-Italia rifletta sui suoi errori

Sono passate le prime 24 ore dal colpo di fine anno di Sergio Marchionne, dopo lo spumante si può iniziare a ragionare su alcune questioni di fondo che riguardano la “nuova” Chysler-Fiat. Tra i tanti, scegliamo per brevità almeno quattro nodi.

Il primo è il giusto tributo a Marchionne. Dall’aldilà, Umberto Agnelli può esserne felice. E’ stato suo il merito primario, dell’arrivo a Torino di Marchionne, 10 anni fa. Altri tempi, altroché gli oltre 16,7 euro per titolo segnati ieri con un rialzo del 16%, aggiuntosi al più 53% del 2013. All’arrivo di Marchionne l’azienda era smarrita e catatonica, il titolo stava a 5,7. Cinque anni dopo, all’esplodere della crisi mondiale, Fiat era di nuovo sul ciglio del burrone, col titolo a 3 euro e mezzo. L’Avvocato Agnelli non era riuscito ad assorbire altri produttori europei quando l’azienda era leader in Europa, ricordate l’avventura con Citroen iniziata nel ’68 e finita nel nulla? Nessuno avrebbe immaginato 10 anni fa che Marchionne si sarebbe rivelato quello che è davvero. Non è un car guy, non è un ingegnere, non è un malato di scocche e motori, non ama neanche particolarmente la sua gente, freddo com’è.

E’ tre altre cose. Un grande ottimizzatore finanziario. Un deal-man, nelle trattative tosto come un mastino. E ha entrature internazionali decisive. Queste tre qualità lo hanno portato a farsi scegliere nel 2009 da Obama come il salvatore di Chrysler al suo terzo default nella storia. E ad assumere il controllo totale di una Chrysler dimagrita e risanata, tornata all’utile dal 2010 e dal 2011 in grado di restituire al Tesoro americano integralmente i 7,6 miliardi di aiuti pubblici.

Tutto ciò con un esborso minimo per Fiat. Dei 4,35 miliardi di dollari a cui è stata valutata la quota residua del 41,5% di Chrysler in mano al sindacato americano UAW, solo 1,75 verranno da Fiat. Senza dunque rendere necessaria alcuna manovra né sul capitale né sul debito, vista l’ingente liquidità che Marchionne ha sempre mantenuto per prudenza. Il resto, lo metterà la cassa di Chrysler stessa, tra dividendo straordinario e tre rate annuali. Tanto per dire, i tedeschi di Daimler pagarono 36 miliardi di dollari la Chrysler nel 1998, per poi scornarsi e svenderla. Marchionne ha dunque compiuto la sua missione. Storica, davvero. Fiat ha salvato Chrysler. E Chrysler ha salvato Fiat proiettandola nel mondo globale, come del resto nel 2009 lo stesso Marchionne disse in un’audizione al Parlamento italiano.

Il secondo nodo sono i passi a venire del gruppo. Non sappiamo quanto fondata sia l’illazione del Financial Times, per la quale il prossimo piano triennale atteso in primavera sarà l’ultimo di Marchionne. Certo è che, vinta la battaglia finanziaria del controllo al minimo prezzo di Chrysler, a questo punto bisogna lavorare come matti sulle sinergie industriali. Molto più avanzate di quelle sinora realizzate, innestando motori Fiat su piattaforme Chrysler con restyling. Qui sorge un problemino finanziario, e uno di strategia. Finora in realtà gli impegni sul rispettivo debito assunti da Fiat, candidandosi a una Chrysler sorretta dal contribuente americano, hanno tenuto separate finanziariamente le due società. Molti limiti resterebbero anche ora che Fiat controlla il 100% della società USA.

La cassa di Chrysler ammontava a circa 11,5 miliardi di dollari nell’ultima semestrale. Un po’ meno di 3 miliardi andranno al sindacato. A questo punto, tenere le due società separate con la più piccola – Fiat – che controlla la maggiore e oggi molto più dinamica, finanziariamente non ha molto senso. Un’operazione di fusione finanziaria vera ottimizzerebbe flussi di cassa, oneri del debito, investimenti. E consentirebbe, meglio se passando per il mercato – sorpresa! – l’ingresso di un nuovo partner internazionale. Necessario alla crescita mondiale.

Non esce alcuna indiscrezione, da Torino o Detroit. Ma nel mondo finanziario – vedi la dura nota di Fitch oggi, che conferma il giudizio junk sui bonds Fiat – come degli osservatori dell’auto a cominciare da Automotive News, l’idea è che Marchionne potrebbe riservarci quest’ultima sorpresa.

Perché – eccoci al terzo nodo – ne va della nuova missione del gruppo. Coi suoi 4,4 milioni di autoveicoli venduti nel 2012, Chrysler-Fiat sarebbe settima al mondo, lontanissima dai quasi 10 milioni di Toyota, gli oltre 9 di Volkswagen, e da General Motors, il trio di testa. Seguite da Nissan-Renault, Hyundai e Ford. Il gruppo guidato da Marchionne si colloca qui, sopravanzando di poco la Honda. Ma per recuperare il grandissimo gap sul mercato asiatico a cominciare da quello cinese , che da solo vale 18 milioni di auto solo per il 25% coperto da case domestiche, occorre un partner industriale-finanziario Non è un caso che l’indebolitissima francese PSA-Citroen, coperta di miliardi dallo Stato, abbia appena imbarcato al 25% del suo capitale i cinesi di Dongfeng, mentre GM l’abbandona, inguaiata com’è con la sua Opel europea. Mettiamocelo in testa: se davvero Chrysler-Fiat vuole arrivare in 3 anni ai 6 milioni di unità vendute, la sua missione a breve-medio è innanzitutto asiatica, non europea, vista la debolezza strutturale del mercato nel nostro continente, e che negli Usa le cose già marciano per il verso giusto ( nel terzo trimestre 2013 Chrysler negli States ha realizzato utili per 862 milioni di dollari, Fiat in Europa nel 2012 ha perso 700 milioni di euro, e se va bene saranno poco meno di 500 anche nel 2013).

Ed eccoci al punto finale: l’Italia. Per il nostro malandato paese, che ha perso grandi imprese nei posti di spicco delle graduatorie mondiali, è motivo di brindare che Fiat sia oggi pienamente internazionalizzata. Ma per il sistema-Italia, al contempo, è un esito amaro. Fiat è infatti un’eccezione. Siamo in fondo alle graduatorie europee come investimenti diretti esteri nel nostro Paese. Ma in lusso, moda, alimentare ed altre eccellenze italiane, sono molto più numerosi i marchi storici di successo che vengono acquisiti da giganti stranieri, che possono offrire loro più forza finanziaria, più investimenti, migliori proiezioni commerciali nel mondo di quanto si possa fare dall’Italia

Se guardiamo ai consumi, ieri abbiamo avuto i dati dell’auto di dicembre, con un modestissimo segno positivo, per la prima volta da inizio crisi. Ma con poco più di 1 milione e 300 mila auto vendute nel 2013, dal 2007 abbiamo perso quasi il 50% del mercato italiano, e più del 25% rispetto al 2011. Le follie pubbliche vigenti sull’auto – 30 diversi adempimenti amministrativi e 18 prelievi diversi per autoveicolo – impediscono di pensare a un recupero sul passato se non nell’orizzonte di 6-7 anni.

E se guardiamo alla cosiddetta politica industriale – termine di cui diffidare sempre –  non aver voluto e saputo per decenni aprire a costruttori in Italia diversi da Fiat ci vede oggi produrre in Italia 400mila auto, un quarto di quelle realizzate da stranieri in Spagna, mentre nel Regno Unito la sola Toyota ne assembla 3 milioni. Politica e sindacato italiani dovranno ora farsene una ragione. Chrysler-Fiat ha una sfida mondiale davanti a sé. E noi siamo un mercato debole e residuale. Non sappiamo se davvero il rilancio di Alfa Romeo 4 volte promesso da Marchionne ora arriverà davvero. Nel 2012 le 100 mila unità vendute erano pari a quanto Audi vendeva in 3 settimane. Se il marchio fosse stato ceduto ai tedeschi, oggi non avremmo il problema dei 5 stabilimenti italiani Fiat, costretti da questo mercato a regimi asfittici di cassa integrazione.

Sarà duro per politica e sindacato immaginarlo: ma per il bene di Chrysler-Fiat è meglio produrre laddove nel mercato deve crescere, perché il mercato tira. Mentre l’Italia deve pensare a sé, se sarà capace di offrire tasse e relazioni industriali capaci di attirare altri grandi costruttori. Credere che Fiat restituisca in perdita oggi parte dei vantaggi che la politica le ha riservato per cent’anni, è una fesseria perché fesseria è stato darglieli.