13
Gen
2014

Quando un timbro blocca tutto

In Italia le riforme sono sempre di due tipi: “epocali” oppure “ponte”. Le prime “coinvolgeranno le future generazioni”, le seconde sono “aggiustamenti temporanei”, destinati a reggere solo qualche anno. Poi accade che le riforme epocali vengano rimodellate ogni due mesi, per essere archiviate dopo qualche anno (si pensi al nuovo codice di procedura penale, definito alcuni anni fa, dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, un “relitto in disarmo”), mentre le riforme “ponte” divengono agilmente definitive (c’è la ricordiamo la cosiddetta “legge ponte” urbanistica?).

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11
Gen
2014

Il Sud, le accise e la casa: come aggravare il gap di chi sta peggio

C’ è un punto di fondo, che ancora non è stato toccato nel convulso dibattito sull’aumento del prelievo fiscale italiano. E’ un punto che riguarda il nodo forse più di fondo della decrescita italiana, e del freno a recuperare il gap accumulato. Eppure, nessuno ci ha fatto caso, o almeno così mi sembra. Il che la dice lunga, su quanto l’attenzione pubblica sia lontana dal dramma del dualismo italiano: il dramma del Sud, che perde in questi anni anni molto più del Nord in termini di produttività, reddito disponibile, occupati.

Non amo le geremiadi di circostanza sul meridionalismo tradito. IL Mezzogiorno ha le sue colpe gravi, non è figlio di una spoliazione arcigna operata da rapaci nordisti. Per decenni, nella lunghissima stagione dell’intervento straordinario, decine di punti di Pil di risorse pubbliche sono state convogliate al Sud. Ma in 152 anni di storia unitaria il gap resta e si aggrava, rispetto alla lezione dataci dalla Germania in 20 anni su recupero e rilancio della sua parte orientale, ex Ddr. Detto questo, resto basito dal fatto che nessuno noti come la politica fiscale seguita in questi ultimi anni bastoni il Mezzogiorno ancor più duramente del resto d’Italia. E’ il Sud, infatti, la parte d’Italia più colpita dalle due tenaglie più affilate della strategia fiscale che emerge dalla legge di stabilità e dai decreti successivi, con cui il governo Letta sta tentando di rimediarne, dopo tanti mesi di preparativi e asgiustamenti, i guai.

Quali sono, le due tenaglie? Quelle alle quali la strategia fiscale di Letta e Saccomanni hanno affidato il più della messa in sicurezza dei conti 2014 e degli anni a venire, in mancanza dei tagli di spesa per i quali tutti continuano a citare la salvifica spending review di Cottarelli. Che però ha il difetto di non essere cifrata in termini precisi nella legge di stabilità, visto che i politici di ogni partito preferiscono sui tagli di spesa affidarsi a un tecnico esterno, pur di non pagare il prezzo dell’impopolarità. Le due tenaglie sono quelle del prelievo patrimoniale in particolare sugli immobili, e dell’aumento di accise ed imposte indirette.

Perché colpiscono più pesantemente il Mezzogiorno? Purtroppo è evidente. Nel primo caso, l’imposizione immobiliare, si tratta di entrate pubbliche definite prevalentemente su basi patrimoniali. Nel secondo caso, le imposte indirette dipendono dai consumi. In entrambi i casi, dunque, la base imponibile prescinde .- tranne che per parti infinitesime, come l’eventuale detrazione sulla componente Tasi della nuova IUC, che dovrà essere deliberata dai Comuni – dal reddito di coloro che ne vengono colpiti. Poiché il reddito procapite del Mezzogiorno è ormai in molti casi inferiore di un terzo o di quasi la metà rispetto a quello di alcune regioni del Nord, la morsa della scelta governativa rappresenterà un nuovo colpo asimmetrico a svantaggio del Mezzogiorno.

Per rinfrescare la memoria, se osserviamo le dichiarazioni 2012 dei redditi 2011 dei contribuenti italiani, rispetto a un reddito procapite di 23.210 euro della Lombardia, la Campania stava a 16.360 euro – quasi di un terzo inferiore – e la Calabria a 14.230 – inferiore del 40%. Su questa base di reddito disponibile tanto inferiore, sia i prelievi al consumo – accise e maggiorazione dell’IVA – sia quelli patrimoniali incidono in maniera regressiva, determinando cioè riduzioni del reddito disponibile tanto più gravi laddove, al Sud appunto, il reddito disponibile di base dopo questi anni di crisi tremenda già era tanto più basso.

Avrebbe dovuto pensarci, il governo, prima di decidere l’aumento delle accise sugli alcolici e sulle sigarette elettroniche, prima di alzare l’aliquota ordinaria IVA al 22% e dal 4 al 10% sui distributori automatici di alimentari e bevande, prima di elevare l’ammontare dell’imposta di registro e di quella suo conto-titoli di risparmio, o di diminuire la detrazione sulle polizze vita e infortuni. Ed è un bilancio negativo per il Sud aggravato dalla IUC, che somma la vecchia IMU residua, Tasi e Tari, con le sovraliquote per compensare i Comuni. Perché se andiamo a vedere il Rapporto Immobili 2012 elaborato dall’Agenzia del Territorio e dal Dipartimento delle Finanze, sui 24,6 milioni di italiani proprietari di almeno un’unità immobiliare, al Sud sia tra proprietari di prima che seconda casa i pensionati superano i lavoratori dipendenti, e nel loro caso il reddito disponibile nel Mezzogiorno è in media di poco superiore ai 12 mila euro l’anno, e in alcune regioni inferiore ai 10mila.

E’ ovvio che queste ragioni NON implichino affatto che non si debba mettere mano, in una situazione di conti pubblici tanto pregiudicata come quella italiana, anche a un riequilibrio nel quale la componente patrimoniale e quella indiretta delle entrate abbia un suo ruolo. Ma, appunto, deve trattarsi di un riequilibrio: cioè di un quadro generale di riduzione della pressione fiscale generale pluriennale in coerenza ai tagli di spesa, nel quale per generare crescita aggiuntiva le componenti patrimoniali e indirette vengano compensate da riduzioni delle aliquote marginali, medie e mediane del prelievo sui redditi delle persone fisiche e giuridiche. Se invece si procede per semplice sommatoria di aggravi su tutte le fonti di prelievo, quando il piede slitta sulla frizione delle imposte patrimoniale e indirette, allora si colpiscono di più i più poveri.

E’ un Paese smarrito e sulla via di perdersi, quello in cui si decide tutto questo a svantaggio di chi sta peggio. Quel che è peggio, poi: senza neanche rendersene conto.

9
Gen
2014

Sulla casa ci aspettavamo una riforma—di Enrico Zanetti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Enrico Zanetti, Responsabile politiche fiscali di Scelta Civica e Vicepresidente della Commissione Finanze della Camera.

La partita della tassazione sulla casa era in salita sin dal principio, ma difficilmente il Governo avrebbe potuto fare peggio di quel che ha fatto su questo specifico dossier.

Quello di riformare la materia, introducendo già dal 2014 una service tax, era stato uno degli impegni che il Governo aveva preso da subito e con toni perentori.

Da maggio a novembre 2013, c’era tutto il tempo per fare un lavoro più che valido, per chi era stato delegato ad occuparsene in seno al MEF.

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8
Gen
2014

Scuola, passa l’irretroattività della pretesa statale. E per noi contribuenti?

La restituzione degli scatti d’anzianità già pagati agli insegnanti si è risolta in un disastro, per il governo Letta e per il ministro dell’Economia, Saccomanni. In un disastro d’immagine, visto il rapido dietro front al quale il governo è stato costretto ieri mattina, dal segretario del pd Renzi e dall’intero fronte dei sindacati della scuola. E in un disastro sostanziale, perché la vicenda ha reso ancor più evidenti due aspetti largamente intollerabili: l’avanzatissimo sfasamento tra politica e pubblica amministrazione, e il ricorso a princìpi alterni e discrezionali, nel determinare chi davvero paga che cosa allo Stato.

Andiamo per ordine. Il blocco generale triennale fino al 2015 degli scatti d’anzianità nel pubblico impiego fu una classica misura dettata dalla disperazione, per far cassa. Non si rivedeva il perimetro dei dirigenti e dipendenti, né si bloccavano le promozioni. Semplicemente, lo Stato non pagava il progresso dell’anzianità che si accumulava, promettendo di farlo successivamente, molti anni dopo. Una prima breccia fu aperta a favore dei magistrati da parte della Corte costituzionale, che sancì che alle toghe di Stato andava restuito il dovuto, altrimenti sarebbe stata lesa la serenità che è alla base dell’indipendenza del magistrato. Tesi risibile, visto che non si capisce perché dovrebbe valere solo per pm e giudici, ma tant’è. I magistrati, per così dire, si sono tutelati da soli. Per gli altri comparti, l’idea era che ogni amministrazione avrebbe dovuto produrre tagli aggiuntivi, se voleva tornare a corrispondere l’anzianità ai suoi dipendenti.

Ed è quanto avvenuto nella scuola, con un’intesa coi sindacati che finalizzava a tal fine tagli aggiuntivi al fondo di funzionamento e a quello di formazione. Intesa ratificata dal contratto di settore, con inizio dei pagamenti a marzo 2013. Senonché a settembre in vista della legge di stabilità al Tesoro non tornano i conti, i tagli non sarebbero aggiuntivi a quelli già previsti. Ed ecco che si mette in moto la macchina del MEF, che porta a disporre e a comunicare agli insegnanti la restituzione del già versato a cominciare dai cedolini di gennaio, ed entro una rata mensile di 150 euro.

Risultato: rivolta. Giuste e comprensibili grida sul già troppo basso ammontare delle retribuzioni degli insegnanti (in termini comparati non è proprio così, ma qui sorvoliamo), e sull’inaccettabilità che accordi presi alla luce del sole su remunerazione e contratti possano essere ex post disconosciuti. Ma come, non era il Tesoro ad aver pagato da marzo scorso? Sì, ma come mero esecutore, ha detto improvvidamente Saccomanni. Aggiungendo: il ministro Carrozza era avvisata da due mesi.

Sono diventate così in solo colpo sinistramente palesi delle vere patologie. E’ possibile che il Tesoro effettui pagamenti a migliaia di persone fuori da un preventivo controllo di legittimità? Stando ai fatti, sembra essere accaduto, se per di più il Tesoro dichiara di essere mero ufficiale pagatore. E’ possibile, che i competenti vertici della burocrazia del MIUR e del Tesoro, non abbiano reciprocamente chiarito quali erano i termini e le conseguenze degli accordi raggiunti? Oppure bisogna pensare che non ne abbiano informato i rispettivi ministri, ciascuno dei due continuando così a pensare uno che la cosa fosse risolta, e l’altro che i pagamenti non avvenivano o, se avvenuti, bisognava per legge recuperarli?

In un paese serio, nessuna di queste tre cose può normalmente avvenire. Oppure, se avviene, un governo deve a quel punto identificare i responsabili e assumere nei loro confronti tutte le misure consentite dall’ordinamento (verrebbe da dire: metterli alla porta, ma sappiamo quanto in Italia sia difficile). La cosa si è risolta con l’improvviso dietro front, e un nuovo colpo all’immagine del governo.

Ma non è finita, se ci pensate bene. La soddisfazione più che legittima per gli insegnanti si accompagna a un’ultima considerazione. La marcia indietro del governo discende da un principio che dovrebbe essere sacro: quello dell’irretroattività delle pretese dello Stato. Se ciò che è stato dato dallo Stato era legittimo, non può essere richiesto indietro dallo Stato stesso, se parliamo di retribuzioni pubbliche. Ma è lo stesso principio che dovrebbe valere per ogni pretesa fiscale dello Stato: non si può introdurre o aggravare un’imposta ex post, incidendo sul reddito e sul patrimonio dei contribuenti in un periodo anteriore a quello dell’approvazione e dell’entrata in vigore della norma stessa.

E’ il principio base dello Statuto dei contribuenti, la legge 212 del 2000. E’ una delle leggi più calpestate dallo Stato stesso. La norma è diventata esattamente opposta. Lo Stato ancora non ci sa dire quanto dovremo pagare entro il 24 gennaio in aggiunta all’IMU prima casa per il 2013, se risiediamo in uno dei 2700 Comuni che – visto che lo Stato non li aveva bloccati – legittimamente hanno approvato sovraliquote. Lo Stato cambia ex post la detrazione per le polizze assicurative che abbiamo sottoscritto 10 mesi fa. La cosiddetta Robin Hood Tax energetica, nel 2008, fu retroattiva. L’addizionale regionale IRPEF dello 0,33% fu retroattiva, nel 2011. Tra il salva-Italia del dicembre 2012 e la legge di stabilità per il 2013, 5,5 miliardi di gettito aggiuntivo è stato retroattivo. Potremmo continuare a lungo.

Lasciateci allora dire una cosa. L’irretroattività affermata oggi per gli insegnanti deve essere un precedente virtuoso per tutti noi, per tutti i contribuenti. Lo Stato torni a imparare il rispetto della parola data egli per primo, se vuole davvero essere non solo apparato coercitivo, ma un valore morale (ho molte difficoltà, a usare questa espressione per lo Stato italiano). Altrimenti, vorrà dire che l’irretroattività delle sue pretese vale solo per le lobby più forti. E a quel punto Dio scampi e liberi, con una pubblica amministrazione già tanto discrezionale. Noi contribuenti lo sappiamo bene, perché non abbiamo scampo né abbiamo combattivi sindacati e vasti patrocini politici trasversali, come i dipendenti della scuola.

 

8
Gen
2014

Province? Abolirle è certo possibile, ma con raziocinio—di Luigi Oliveri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo commento di Luigi Oliveri all’ultimo paper di Andrea Giuricin (PDF) sui potenziali risparmi derivanti dall’abolizione delle province. Domani pubblicheremo una ulteriore riflessione di Giuricin.

Non è scritto da nessuna parte che le province debbano necessariamente essere parte dell’assetto istituzionale dello Stato. Al netto, dunque, di indicatori di priorità, che suggerirebbero di agire prima sulla spesa incontrollata sia finanziariamente, sia democraticamente (in quanto enti non elettivi) da parte di consorzi, magistrato delle acque, Bim, comprensori, Aato vari, può certamente essere presa la decisione di eliminare un livello di governo.

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8
Gen
2014

Sulla cannabis #iostoconfava

Quello sulla legalizzazione/liberalizzazione delle droghe leggere, si dice spesso, è un dibattito marginale e ideologico: la politica non ha certo tempo di pensare a queste s****zate. In realtà, l’unico modo di attirare l’attenzione della classe politica sembra essere quello di offrirle chances per ideare sigle di nuove e improbabili forme di tassazione. E allora perché non farlo anche con la marijuana? A far riemergere la questione è stato, qualche giorno fa, un tweet di Gianni Fava (l’assessore leghista secondo cui è giunta l’ora di aprire un dibattito sul tema perché “il proibizionismo ha fallito”), ritwittato da Maroni. Quando, poco dopo, sono arrivate la smentita di quest’ultimo e il fermo nein di Salvini, ho creduto che la questione sarebbe stata nuovamente spogliata di ogni serietà e relegata a oggetto di dibattiti liceali. Per ora non è successo. E meno male, perché è davvero ora di parlarne, o, come si suol dire, #iostoconfava.

La molla che ha fatto scattare il commento di Fava è stata un articolo della Stampa, a firma Federico Varese, sulla legalizzazione in Colorado. Un fatto politicamente importante, perché ha “rotto il ghiaccio” sul tema, destabilizzando le certezze della war on drugs e spronando i movimenti pro-legalizzazione degli altri Stati americani a farsi sentire. Non solo: esponenti politici democratici e repubblicani hanno già manifestato il loro consenso, richiamando argomenti noti. Primo fra tutti: togliere risorse al mercato nero e tassare la vendita di cannabis porta soldi allo Stato (si stima che il Colorado, così facendo, guadagnerà 60 milioni di dollari). Varese, pronosticando scenari forse un po’ fantascientifici (contrariamente a quanto afferma l’autore stesso), sostiene che presto la liberalizzazione potrebbe interessare tutto il continente americano (solo poche settimane prima del Colorado la via della legalizzazione era stata intrapresa dall’Uruguay), obbligando l’Europa ad adeguarsi. E constata, questo è il punto, come sia deprimente che, come sempre, l’Italia recepisca passivamente i progressi altrui, senza provare ad anticiparli. Sarà il Vaticano, sarà quello che volete, ma è deprimente. E allora, a maggior ragione, #iostoconfava, perché la Fini-Giovanardi, che disciplina la materia in Italia, è ingiusta e illiberale.

Le questioni aperte, com’è noto, sono tre: quella etica, quella relativa ai rischi per la salute e quella economica. Sulle prime due, dal mio punto di vista, il problema non si pone. O meglio, si pone esattamente alla stregua di quello sull’alcool (che, peraltro, fa molti più morti). Il dibattito sul “fanno bene-fanno male”, cioè, è totalmente vuoto: la libertà individuale finisce dove inizia quella degli altri. Aggiungerei che il fatto che chi vuole drogarsi lo faccia con prodotti aventi standard di qualità garantiti, e non con mercanzia di bassa qualità potenzialmente davvero pericolosa, è una garanzia decisamente maggiore, per la salute, della cieca repressione. E questo per un motivo molto semplice: perché la repressione non funziona. Parliamoci chiaro: chi vuole drogarsi, si droga lo stesso. E qui arriviamo al terzo punto: sembra assurdo dover discutere ancora, quasi cent’anni dopo il National Prohibition Act, degli effetti politici e sociali del proibizionismo; d’altra parte, a quanto pare, è necessario ribadire che durante gli anni ’20, negli USA, non c’è stata alcuna riduzione nel consumo di alcool, mentre si è registrato un netto aumento della criminalità. Il che non stupisce, in quanto è esattamente il contrario di quanto avvenuto per la cannabis nei Paesi Bassi dagli anni ’70 in poi (un po’ di letteratura seria sul tema la trovate qui).

Economicamente, la dinamica è chiara: il prezzo della droga, oggi, è molto alto perché chi ci lavora ha molti rischi. In primis, quello di finire in galera o di subire altre sanzioni. Ma non solo: i diritti personali e contrattuali non possono essere esercitati perché, ovviamente, non sono tutelati dalla legge, e ciò comporta ulteriori rischi. Tutto ciò si riflette nel prezzo, e l’argomento economico preferito dai proibizionisti è proprio questo: se si legalizzasse la droga, il prezzo scenderebbe e aumenterebbero di conseguenza i consumi. D’altronde, non ci vuol un genio per capire che per legalizzare la droga senza far alzare i consumi basterebbe tassarla, così da mantenere il prezzo costante. Il che, d’altra parte, è ciò che fanno tutti i governi del mondo con il tabacco e con l’alcool.

Nel 2006 Gary Becker, Kevin Murphy e Micheal Grossman del National Bureau of Economic Research hanno pubblicato una ricerca, denominata “The economic theory of illegal goods: the case of drugs”, le cui conclusioni sono state riprese da uno studio dell’Università La Sapienza che, nel 2009, ha calcolato la spesa pubblica italiana per il contrasto alla droga dal 2000 al 2005. In questo arco di tempo, per punire violazioni della legge sulla droga, sono state effettuate più di 140.000 operazioni investigative, che hanno portato a circa 226.000 denunce (di cui più di 100.000 per cannabis), 250.000 processi e 130.000 condanne. Nello stesso periodo, circa il 38% dei detenuti nelle carceri italiane scontava condanne per violazioni della legge sulla droga. La spesa pubblica destinata alla lotta anti-droga (considerando le spese dei servizi di polizia, di magistratura e carcerari, relativi a reati di droga) dal 2000 al 2005 è stata di 13 miliardi di euro, di cui il 44% concerne la proibizione della vendita della sola cannabis, che dunque è costata allo Stato più di un miliardo ogni anno.

E questo è solo il risparmio che potrebbe generarsi dalla liberalizzazione, senza contare i potenziali introiti derivanti dalla tassazione. I profitti per lo Stato, in questo caso, sarebbero enormi. Un’aliquota fiscale ottimale, cioè un livello di tassazione sufficientemente alto da ridurre il consumo di droghe rispetto a oggi ma non abbastanza da ricondurne gli scambi nel mercato nero, potrebbe essere quella applicata alle sigarette (cioè circa il 75%). Imponendo un’aliquota del 75% sui prezzi all’ingrosso registrati nel mercato nero tra il 2000 e il 2005, il prezzo d’offerta della cannabis sarebbe leggermente superiore a quello attualmente registrato nel mercato nero, mentre cocaina ed eroina costerebbero quasi il doppio. Sulla base delle stime effettuate da Becker, Murphy e Grossman circa l’elasticità della domanda di droghe rispetto al loro prezzo, il raddoppio del prezzo d’offerta di eroina e cocaina ne dimezzerebbe il consumo, mentre il consumo di cannabis rimarrebbe sostanzialmente uguale. Ebbene: con tale aliquota, e un volume del mercato della droga non difforme da quello stimato, tra il 2000 e il 2005 l’erario italiano avrebbe potuto riscuotere 47 miliardi di euro, di cui 32 miliardi solo dall’imposta sulla vendita di cannabis. Cioè cinque miliardi ogni anno. Complessivamente, quindi, il costo fiscale del proibizionismo della cannabis è, in Italia, di circa sei miliardi ogni anno. Sei. Miliardi. Ogni. Anno.

E tutto ciò senza considerare le implicazioni fiscali indirette del proibizionismo, fra cui spicca il crimine indotto. Innanzitutto, la mancata tutela giudiziaria dei diritti sui beni e sulle attività vietate implica spesso il ricorso alla tutela privata, dicasi violenza, con conseguente aumento del crimine. Le risorse utilizzate da polizia e magistratura per applicare la normativa proibizionista, inoltre, vengono sottratte al controllo e alla persecuzione di altre attività criminali, le quali, di conseguenza, sono contrastate meno efficacemente, con evidenti costi sociali, economici e fiscali.

Sul modo migliore di regolare il mercato della cannabis si può discutere. La maggioranza dei modelli visti finora (Olanda e Uruguay su tutti) è di sapore statalista ed è per questo che, anche in Italia, sono tendenzialmente le forze politiche progressiste ad abbracciarne l’applicazione. Ma la loro implementazione è comunque un traguardo di libertà che è importante perseguire, anche se per gradi e con caratteristiche (almeno inizialmente) non del tutto concorrenziali. Anche se turandomi un po’ il naso, insomma, #iostoconfava, #iostoconvendola e #iosto(perfino)conferrero, se le loro istanze vanno nella giusta direzione.

Twitter: @glmannheimer

 

 

7
Gen
2014

Lo Stato e il Marchese del Grillo

Come sotto l’albero di Natale, all’ombra della legislazione di fine anno si trovano sempre regalini di rara simpatia. Il problema è che i regalini del legislatore non si possono riciclare girandoli a qualcun altro.

Non si vuole parlare della degradante prassi dei decreti milleproroghe; non si vuole parlare dell’allucinante prassi delle leggi finanziarie (ora leggi di stabilità: cambia il nome, ma, chissà perché, non cambia la sostanza…), che sono tristi carovane nelle quali ogni parlamentare cerca di far salire qualche norma; non si vuole nemmeno parlare dei devastanti effetti che queste modalità di legislazione hanno provocato, provocano e provocheranno sul sistema delle fonti, ormai trasformato in un inestricabile guazzabuglio di grida e di norme manifesto. No, sono tutti argomenti che meritano approfondimenti specifici, ma che si ripetono con agghiacciante costanza: la mia attenzione, invece, è stata attratta da una normettina in materia di locazioni, dapprima introdotta dalla legge di conversione del decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120, cioè dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, e poi modificata dall’art. 2, comma 1, decreto legge 30 dicembre 2013 n. 151.

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