La lezione Fiat-Electrolux: al sindacato, ai media e a “Destinazione Italia”
C’è qualcosa di profondamente analogo in due vicende che riguardano il lavoro e che in questi giorni s’incrociano in Italia, anche se apparentemente una è storia di successo, l’altra di difficoltà estrema. Si tratta della nuova Fiat Chrysler Automobiles, e della Electrolux. Entrambe chiedono al sindacato, ai lavoratori italiani e a noi tutti, di “cambiare la testa”. Entrambe sono un’evidente sconfessione delle promesse di “Destinazione Italia”, lanciato dal governo per attirare capitale estero e non farlo uscire dall’Italia.
Il nuovo marchio comune del settimo gruppo dell’auto mondiale, deciso ieri insieme alla sua prossima quotazione a New York, alla sua nuova sede legale in Olanda e a quella fiscale nel Regno Unito, è un trionfo perché sradica la Fiat – in quasi pre-default nel 2004 e nel 2008 – dalla sua debolezza nazionale ed europea, e grazie al risanamento del terzo gigante dell’auto americano conferisce a entrambi una dimensione mondiale. Mentre la multinazionale svedese degli elettrodomestici “bianchi” stenta a vedere un futuro per i suoi stabilimenti italiani, e ieri non ha convinto governo e sindacati al primo incontro congiunto. Eppure, entrambe le vicende portano al pettine lo stesso nodo: ciò che e’ necessario fare, per difendere lavoro e produzioni in Paesi avanzati, cioè ad alti costi di produzione, del lavoro, e dei diritti sociali connessi al nostro modo di vivere e alla nostra idea di civiltà.
Un’opinione che purtroppo gode di largo seguito – quando la crisi mette in ginocchio imprese e lavoro o, come nel caso italiano, un intero Paese – afferma che è la globalizzazione a essere ingiusta e inaccettabile, perché mette in concorrenza diretta i lavoratori a più alto costo delle nazioni avanzate, con quelli a minor costo delle nazioni emergenti. Non è affatto così, ma non si può neanche pretendere che la cosa risulti facilmente chiara a chi si trova personalmente esposto alla minaccia di perdere reddito e lavoro.
Dovrebbero invece essere le classi dirigenti di un Paese, imprese e sindacati, politica e media, a capire che esiste eccome il modo per difendere lavoro e impresa nei Paesi a più alti costi. A patto però di “cambiare la testa”, ognuno per la propria parte.
Chrysler e General Motors erano in ginocchio, nel 2007-2008, innanzitutto per i costi dei propri dipendenti non rispetto agli operai dell’auto in Cina, ma a quelli che lavoravano negli stabilimenti di altre aziende dell’auto negli stessi Stati Uniti. Poi la crisi finanziaria diede una botta mortale alla sostenibilità dei rispettivi debiti, innanzitutto di quelli pensionistici. Ma quando intervenne il governo federale, con pacchi di miliardi dei contribuenti americani – la Chrysler con Marchionne ha restituito tutto con gli interessi entro maggio 2011, in GM Obama ci ha rimesso più di 10 miliardi di dollari pubblici – l’esame dei costi comparati fu spietato. E il sindacato americano dell’auto, UAW, incalzato da Marchionne, pur di scommettere nell’unica opzione possibile per la difesa dell’azienda e del lavoro, accettò riduzioni tra retribuzione, pensioni e benefit, in un arco da 7 a 24mila dollari annui lordi. I neo assunti sarebbero stati pagati 14 dollari l’ora, rispetto ai 27 degli “anziani”, ai quali si tagliava la pensione. Del resto il sindacato metalmeccanico tedesco, IG Metall, aveva accettato nel 2004-2005 anch’esso tagli energici per i più giovani e blocco totale per tutti di premi e avanzamenti per tre anni, pur di impedire la delocalizzazione di stabilimenti del gruppo Volkswagen, dalla Germania in crisi verso l’Est Europa.
Come è evidente, in realtà non è affatto diverso da quel che ha proposto Electrolux. Gli svedesi non hanno proposto un taglio né del 50% né del 40% delle retribuzioni dei loro dipendenti italiani, come affrettatamente in troppi hanno detto e scritto, ma dell’8% delle retribuzioni nette e di poco più del 20% del trattamento complessivo, sommando lo stop ai premi, gli orari più contenuti e la maggior flessibilità nella turnazione. Eppure, c’è stata un’insurrezione generale. Si sono sprecate le invettive e i toni estremi, come di fronte a una provocazione inaccettabile, da vecchi padroni delle ferriere dickensiani.
Esaminiamo con freddezza i fatti. Il nostro Paese perde produttività in termini comparati da oltre vent’anni, e tra i paesi europei mediograndi ha un costo lordo del lavoro inferiore di poco solo a quello della Francia, non a caso divenuta essa, ora, il grande malato continentale. Ovviamente, a spingere così in alto il costo del lavoro non è la retribuzione netta che va in tasca ai dipendenti, inferiore a quella tedesca e francese. E’ il cuneo fiscale, la pesante pretesa fiscale e contributiva dello Stato. Che è pure cresciuta del 5% dal 2005, altro che scendere come tutti i governi hanno promesso di fare.
Nel breve termine, visto che lo Stato non si decide, i gruppi multinazionali non investono nella manifattura in Italia, come pure la sua elevata qualità meriterebbe ancora, e quelli che lo hanno fatto da molto tempo, come Electrolux, per non spostarsi altrove chiedono a dipendenti e sindacati la disponibilità a mettere in discussione l’unica componente dei costi fissi che nel breve si può abbassare. Cioè quella decisa da azienda e lavoratori.
E’ ingiusto, si dirà. Condivido. Sarebbe molto più logico che fosse lo Stato, ad abbassare la sua pretesa veramente fuor da ogni ragionevolezza, ad assumere decisioni capaci di abbassare il sovraccosto energetico, della logistica e dei trasporti, attraverso un mix energetico meno sussidiato e infrastrutture di rete più efficienti. Ma capite bene che finché lo Stato non fa nessuna di queste cose, finché lancia programmi-promessa come Destinazione Italia per attirare investimenti esteri ma che vengono totalmente smentiti dalle politiche pubbliche “reali”, esose e intromissive, l’alternativa per il sindacato è una sola: o sedersi al tavolo Electrolux e trattare anche retribuzione e premi, oppure dire di no a tutto, e accompagnare alla scomparsa altri stabilimenti e altre migliaia di posti di lavoro. Nel frattempo, se Fiat Chrysler sceglie la sede legale in Olanda e quella fiscale in Uk fa benissimo, è perché il diritto societario olandese e l’ordinamento tributario britannico battono i nostri: i governi italiani lo sanno da anni, ma fanno chiacchiere e promesse.
Un sindacato ragionevole e moderno sa per primo che la manifattura in Paesi a più alti costi si difende benissimo se tutti i fattori della produzione – il lavoro e il capitale, i brevetti e la tecnologia, gli input energetici e quelli dei servizi sia pubblici sia privati all’impresa – compongono insieme un mix a più alto valore aggiunto, rispetto a quello dei Paesi emergenti e a più bassi costi. E’ questa, la chiave per continuare a essere più ricchi nella globalizzazione, che ha accresciuto di centinaia di milioni i possibili acquirenti esattamente di quel che noi qui siamo ancora capaci e bravi a fare. Altrimenti, si declina. Ma non è affatto un destino segnato, come insegna il grande malato tedesco a inizio degli anni Duemila, tornato in pochi anni di riforme in piena salute, e a un attivo commerciale sul Pil superiore a quello della Cina.
Un sindacato moderno non per questo deve dire sì a ogni richiesta dell’impresa. Deve trattare investimenti, difesa ed espansione dei livelli produttivi, vincolando i sacrifici nel breve alla crescita successiva. Esattamente come è avvenuto in Chrysler e in Volkswagen. Ma deve affiancarvi – insieme al mondo dei media e della cultura accademica e diffusa – un energico impegno per richiamare lo Stato a tutto ciò che in Italia non ha fatto in questi anni. Meno cuneo fiscale. Un’istruzione tecnica, secondaria e post secondaria, più vicina alle esigenze del lavoro italiano. Un sistema di incrocio tra domanda e offerta del lavoro meno indecente di quello attuale italiano, che intermedia a malapena il 2% del totale dei nuovi occupati e ri-occupati. Un codice del lavoro più snello e sfoltito di adempimenti burocratico-amministrativi, rispetto alle decine e decine di leggi accumulate nel tempo o ai 12 diversi adempimenti attualmente previsti per un solo contratto di apprendistato.
Impresa, sindacato e Italia civile, insieme, possono fare di più e in minor tempo per uno Stato meno nemico del lavoro, di quanto la politica da sola mostri di riuscire a fare. Ma, nel frattempo, sedersi e trattare contratti di solidarietà anche con meno retribuzione è sicuramente meglio che chiudere gli stabilimenti e diventare cassintegrati.