20
Gen
2014

Se sul clima l’Europa ignora i costi marginali—di Angelo Spena

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Angelo Spena.

Ma lo sanno anche i bambini che più marmellata rubi più diventa probabile che mamma se ne accorga. Nel mondo i fenomeni lineari sono pochi. Nelle nostre Università – finché funzioneranno con libera lucidità – la teoria dei costi marginali applicata ai processi energetici insegna[1] (con tanto di dimostrazioni matematiche, che qui vi risparmio) che migliorando efficienze già elevate si ottengono vantaggi via via più piccoli: che cioè con la stessa spesa intervenire su un sistema più efficiente fa conseguire benefici in quantità minore di quelli ottenibili su un sistema in partenza meno efficiente. Questo vale sia per i consumi che per l’inquinamento, poiché essi crescono o diminuiscono – anche se, appunto, non linearmente – generalmente nello stesso verso.

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20
Gen
2014

Oltre il danno, la beffa: lo Stato e le compravendite immobiliari.

Lo Stato si atteggia variamente nell’esercizio del potere normativo di cui è titolare. Da un lato, paternalisticamente elabora discipline minuziose, muovendo dal presupposto che il singolo non sia sufficientemente tutelato se le disposizioni di legge sono poche e non abbastanza complicate; o non disponga della capacità decisionale adeguata a compiere scelte autonome e fondate; o non sappia assumersi la responsabilità di perseguire quanto è per sé più funzionale; o necessiti comunque di un indirizzo etico o morale che solo lo Stato stesso gli può fornire. Dall’altro, spregiudicatamente impone tasse e oneri vari che, gravando la collettività in maniera soffocante, impediscono sotto più profili che le risorse individuali possano essere proficuamente estrinsecate. Read More

19
Gen
2014

Pianificazione e fantapianificazione (aeroportuale e non)

In tema di aeroporti non c’è tre senza quattro per i nostri ministri di settore: dopo il “Piano” del ministro comunista Alessandro Bianchi sotto il governo Prodi del 2006-08, il piano del ministro ex aennino Altero Matteoli sotto il governo Berlusconi del 2008-11 e il piano del ministro tecnico Corrado Passera sotto il governo Monti del 2011-13 ecco il nuovo (inevitabile?) piano del ministro Lupi sotto il governo Letta. Ma a cosa servono i piani aeroportuali? A programmare nuova capacità/nuovi investimenti in aree territoriali o aeroporti soggetti a scarsità rispetto a un’elevata domanda?

Non è questo il caso. Essi hanno invece la finalità di imporre una gerarchia tra aeroporti che non riconosce quella spontaneamente delineata dalle scelte di passeggeri e vettori, statisticamente individuabile semplicemente ordinando in maniera decrescente il traffico annuale (non serve un piano, basta un foglio Excel coi dati Enac). La visione ideologica sottostante i periodici, e per fortuna inattuati (grazie alla cadute dei governi), piani aeroportuali è quella di un sistema centrato sul “Piano”, attorno al quale gravitano ad un primo livello i gestori aeroportuali, gerarchizzati in categorie, a un secondo livello i vettori aerei e a un terzo e ultimo livello i consumatori.  In questa visione tolemaica del sistema aeronautico i passeggeri sono al servizi dei vettori i quali sono al servizio dei gestori aeroportuali i quali sono al servizio del supremo pianificatore e tutto risulta in questi modo perfettamente armonico e ordinato.

Gli aeroporti sono inoltre classificati in tre distinti livelli gerarchici:

Undici aeroporti strategici (…) e ulteriori 26 scali di interesse nazionale. È quanto prevede il Piano nazionale degli aeroporti, in base all’informativa presentata (..) in consiglio dei ministri dal titolare dei Trasporti Maurizio Lupi. Un piano che rappresenta una “dieta” rispetto ai piani Matteoli e Passera. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due. – Il Sole 24 Ore –

In ogni bacino gli scali di interesse nazionale sono evidentemente al servizio dell’aeroporto strategico e immagino che a tal fine dovranno essere limitati nel traffico che possono ospitare. Non è chiaro cosa accadrà agli aeroporti che non rientrano negli 11 né nei 26. Verranno chiusi? Limitati al traffico amatoriale, vietando quello commerciale? All’aeromodellismo? Potremo solo portarci i bambini per far volare aquiloni o solo aeroplanini di carta? Al momento non è chiaro.

Peccato per il pianificatore che il sistema sia ormai da molto tempo, soprattutto per effetto della liberalizzazione europea, policentrico e pulviscolare, guidato dalla domanda, reale e potenziale, dei consumatori. I vettori inseguono la domanda dei passeggeri e sono al loro servizio. I gestori aeroportuali inseguono la domanda dei vettori e sono al loro servizio. Non c’è alcun bisogno di un pianificatore ma solo di un regolatore del sistema, per gli aspetti tecnici e per quelli economici, in grado di favorire un uso sicuro ed efficiente delle infrastrutture. Del pianificatore bisogna diffidare perché egli intende pianificare l’offerta ma in realtà vorrebbe pianificare anche la domanda perché non facendolo la sua azione avrà pochissime probabilità di essere efficace. E forse la sua massima aspirazione sarebbe quella di pianificare anche i nostri desideri.

Un solo esempio per tutti: il pianificatore voleva a tutti i costi sviluppare Malpensa e per ottenere questo ha artificiosamente e consistentemente ridimensionato Linate ma i passeggeri anziché andare a Malpensa, che non ha mai decollato, hanno decretato il grande successo di Orio al Serio, che invece a nessun pianificatore sarebbe mai venuto in mente di sviluppare. Orio è attualmente il quarto aeroporto italiano per traffico, avendo superato da tempo Venezia, e sta tallonando Linate con la prospettiva, pianificatore permettendo, di superarlo già quest’anno. Ma un eventuale pianificatore di quindici anni fa lo avrebbe classificato con grande probabilità di terzo livello.

La pianificazione aeroportuale attuata dividendo l’Italia in bacini, sia ben chiaro secondo criteri puramente geografici e non di intensità della domanda, assomiglia moltissimo a una pianificazione zonale delle farmacie (una ogni x migliaia di abitanti, ma almeno i consumi farmaceutici sono uniformi): Pisa, Firenze, Bologna e Lamezia sono strategici mentre Linate e Orio no. Ma Lamezia ha avuto 2 mil. di pax nei primi undici mesi del 2013 mentre Linate 8,4 e Orio 8,3 milioni. Linate e Orio, a loro volta, sono di interesse nazionale come Brescia (10 mila passeggeri in 11 mesi, 30 al giorno in media…) e Comiso (non ancora pervenuto nelle statistiche). Chi riesce a intravvedere una qualche ratio se non quella di ostacolare la libera scelta degli attori economici?

Basta a tutta questa concorrenza disordinata, sembra dire il pianificatore. Tra aeroporti ma anche in moltissimi altri settori. Basta a tutta questa concorrenza nei quartieri tra panetterie, tra latterie, tra ristoranti. Così come abbiamo distinto tra farmacie e parafarmacie, facciamolo anche tra aeroporti e paraeroporti, tra ristoranti e pararistoranti. Una sola panetteria strategica per quartiere, un solo ristorante. Più due panetterie complementari, ma con una gamma ristretta di prodotti, e due ristoranti complementari, ma con un menu semplificato, deciso direttamente dall’assessore.

In questo modo recupereremo sicuramente la crescita economica di un tempo ribaltando il declino italiano.

 

 

17
Gen
2014

Le bugie sul fiscal compact del partito unico dei populisti spendaccioni—di Enrico Zanetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Enrico Zanetti.

Anche in occasione del dibattito sulle mozioni presentate alla Camera, i 5 Stelle (ma, seppur con toni mille volte più civili, anche Forza Italia, la Lega Nord, Fratelli d’Italia e SEL) hanno continuato a fare autentico terrorismo, affermando che, con il Fiscal Compact, l’Italia dovrà varare nei prossimi 20 anni manovre recessive da 50 miliardi l’anno in ossequio al piano di rientro del debito sino al 60% del PIL.

Prima di mettere a nudo l’infondatezza e la strumentalità di simili asserzioni, volutamente ripetute all’infinito, secondo i principi della propaganda più disinibita, tali per cui una falsità detta mille volte diventa per lo meno una mezza verità, mettiamo a fuoco le due cose chiedono le regole del fiscal compact.

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16
Gen
2014

Abbattere tutte le statue di Lenin—Di Zilvinas Silenas

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Gli eventi ucraini ci hanno ricordato quello che l’Occidente dà per scontato, e che l’Est invece ha lavorato duramente per ottenere. La libertà della persona, il principio di legalità e una società organizzata secondo la cooperazione su base volontaria non sono banali dati di fatto della vita quotidiana, ma ideali per i quali le persone sono disposte a scendere in strada.

La miriade di interpretazioni delle cause dei recenti eventi spazia da dettagliate ricerche storiche, a dibattiti sulla rivalità post Guerra Fredda fra Est ed Ovest, ad analisi di interessi economici concorrenti. È molto  probabile che ognuno di questi aspetti vi abbia giocato un ruolo. Ma nel concentrarsi su personalità ed eventi chiave, le analisi ignorano la forza fondamentale dell’Ucraina – la sua gente.

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16
Gen
2014

Pronostico sul dollaro — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Al terzo Plenum del Partito comunista cinese svoltosi il novembre scorso, il deputy governor della banca centrale, Yi Gang, ha affermato che la Cina non accumulerà più riserve valutarie (il cui importo di 3.6 trilioni di dollari è superiore al PIL della Germania) di cui la maggior parte è in dollari. Inoltre ha affermato che lo yuan sarà trasformato in valuta internazionale. Un de profundis per il dollar standard in vigore da oltre 40 anni. I cinesi hanno fatto questo ragionamento: a che scopo romperci la schiena producendo per gli USA in cambio di dollari creati senza limiti dal torchio della FED per doverglieli poi riprestare ed essere rimborsati con un altro surplus di titoli irredimibili denominati in dollari svalutati?

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15
Gen
2014

Liberismo e immigrazione: tutti statalisti col c**o degli altri

Quello appena iniziato è un anno storico per Romania e Bulgaria: dal primo di gennaio del 2014, infatti, i loro cittadini possono vivere e lavorare liberamente all’interno dei paesi della UE, senza alcuna restrizione. In Italia non se ne parla, ma in altri Paesi il dibattito sulla questione è accesissimo. Uno di questi è la Gran Bretagna, dove un fronte trasversale di Tories, Labour e Liberal ha lanciato l’allarme già da diverse settimane, temendo una vera e propria invasione.

«Zingari, nomadi e rom stanno venendo a approfittare del nostro welfare, rubare e mendicare», ha dichiarato Philippa Roe, un’importante leader Tory a Westminster. Molti britannici temevano che nei primi dieci giorni del nuovo anno le coste del Regno Unito sarebbero state invase: ebbene, non è successo. Ma l’elemento più sorprendente dell’intenso dibattito che ha interessato l’opinione pubblica d’oltremanica, come ha sottolineato Dalibor Rohac sul Wall Street Journal qualche giorno fa, è la posizione assunta da tanti sedicenti difensori del libero mercato. Scrive Rohac:

Douglas Carswell, un deputato conservatore noto per le sue posizioni fortemente libertarie, ha spiegato che «i migranti che lavorano dovrebbero essere accolti, ma aprire le porte a bulgari e rumeni potrebbe davvero creare problemi». Secondo Nigel Farage, parlamentare europeo e leader dello UK Independence Party, l’unico criterio che dovrebbe essere adottato per permettere o meno agli immigrati di entrare nel Regno Unito e in Europa è la loro capacità di pagare le imposte, contribuendo così all’economia della nazione in cui vivono. Da sedicenti libertari, non c’è niente di male a intraprendere un dibattito sulla generosità del welfare state britannico nei confronti degli immigrati. Ma si commette un grave errore suggerendo di sottoporre l’immigrazione a controlli più severi o a quote.

Molti economisti concordano sul fatto che garantire libertà di circolazione alle persone comporta enormi vantaggi economici, decisamente maggiori di quelli derivanti da un’ulteriore aumento della libertà di circolazione di merci e capitali. Secondo le stime più sobrie, la rimozione di tutte le barriere all’immigrazione potrebbe facilmente raddoppiare il PIL mondiale. La proposta non è aprire le frontiere del Regno Unito, ma rendere l’immigrazione (almeno/soprattutto quella qualificata) più libera di quanto lo sia oggi e, di conseguenza, rendere il mondo un posto migliore.

Ci sono ben poche prove per sostenere l’idea che l’afflusso di lavoratori nel Regno Unito, dal primo allargamento dell’Unione Europea nel 2004 ad oggi, abbia esercitato una significativa pressione al ribasso sui salari o un aumento della disoccupazione tra gli inglesi. Perfino l’economista Paul Collier, dell’Università di Oxford, che si era battuto per rendere le restrizioni in materia di immigrazione più severe di quanto fossero, ha riconosciuto nel suo libro Exodus, uscito l’anno scorso, che «gli effetti della migrazione sui salari dei lavoratori inglesi sono nulla rispetto al polverone che è stato fatto su di essi». L’effetto degli immigrati sul mercato del lavoro, infatti, non è solo quello di competere per i posti di lavoro già esistenti, ma è anche e soprattutto quello di crearne di nuovi, che non esisterebbero affatto senza il loro afflusso.

Né è convincente l’idea secondo cui gli immigrati comunitari metterebbero a dura prova le finanze pubbliche inglesi. Al contrario, studi recenti indicano che gli immigrati dell’Est europeo hanno avuto un impatto fiscale notevolmente positivo in Gran Bretagna. Lo scorso novembre, ad esempio, il Centro per la Ricerca e Analisi delle Migrazioni dell’University College di Londra ha pubblicato una ricerca secondo la quale gli immigrati in Gran Bretagna dall’Europa dell’Est hanno «contribuito a ridurre il carico fiscale dei lavoratori nativi».

Indubbiamente i grandi afflussi di migranti possono influenzare il mercato immobiliare. Una stima recente mostra che il mark up dovuto all’immigrazione, nel mercato immobiliare britannico, faccia aumentare i prezzi delle case del 10%, producendo effetti soprattutto nel sud-est del Paese e a Londra. Tuttavia, il vero colpevole non è l’immigrazione, ma i rigorosi controlli urbanistici che fanno dello stock abitativo della Gran Bretagna il più piccolo, costoso e densamente popolato d’Europa.

Sostenendo controlli sull’immigrazione più severi, i free marketers britannici rischiano di finire per difendere un insieme di politiche profondamente illiberali. Il mese scorso Sam Bowman, dell’Adam Smith Institute, ha paragonato le restrizioni migratorie alle Corn Laws (i dazi sull’importazione di derrate agricole del XIX secolo), sottolineando come il loro effetto sia «vietare alle imprese di assumere e ai proprietari di immobili di affittarli o venderli a persone che hanno avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato». Il mese scorso il primo ministro David Cameron ha dichiarato che il Regno Unito manterrà le restrizioni migratorie «fino a quando la loro ricchezza non sarà al livello della nostra»: chiunque sostiene di comprendere che il libero scambio genera ricchezza dovrebbe sapere qualcosa di più sul suo funzionamento.

Come diceva Milton Friedman, ogni lavoratore immigrato ha due braccia e una bocca sola. Ma si sa, le sirene del nazionalismo e del protezionismo sono sempre dietro l’angolo, e sono tutti statalisti col c**o degli altri.

Twitter: @glmannheimer