22
Gen
2014

Davvero il debito pubblico è sceso nel 3° trimestre? No.

Oggi Eurostat ha comunicato dei dati a dir poco clamorosi sull’Italia, prontamente ripresi dalle testate on line (immagino domani anche dai giornali tradizionali) e ottimisticamente salutati da autorevoli commentatori. Il debito pubblico italiano è diminuito nel terzo trimestre 2013 sia in rapporto al Pil sia in valore assoluto:

  • Dal 133,3% al 132,9% (-0,4%)
  • Da 2.076,4 mld. di euro a 2.068,7 mld di euro. 

Siamo certi sia il caso di brindare alla notizia? Se il dato fosse vero vorrebbe dire che nel terzo trimestre il settore pubblico, quella che noi chiamiamo PA, ha registrato incassi superiori ai pagamenti per 7,7 mld., facendo ridurre lo stock del debito di un pari ammontare. Una miracolo: fabbisogno azzerato e bilancio in probabile attivo (seppur in termini di cassa), debito in riduzione. Siamo sicuri che sia così? E d’altra parte come potrebbe Eurostat pubblicare dati non veritieri?

Andiamo allora a vedere cosa è successo con precisione, utilizzando i dati su fabbisogno e debito pubblicati mensilmente dalla Banca d’Italia. In effetti i dati riportati sui bollettini mensili confermano i valori sopra indicati a fine giugno 2013 e fine settembre. Non dimentichiamoci tuttavia che Eurostat registra il debito pubblico lordo (perché lo richiede il trattato di Maastricht), non ridotto della liquidità del Tesoro, dei depositi presso la Banca d’Italia e dei prestiti ai meccanismi europei salvastati. Se togliamo queste voci, che rappresentano attività a fronte della passività del debito, otteniamo il debito pubblico netto, grandezza un po’ più importante di quello lordo per valutare le tendenze della finanza pubblica. Calcoliamo allora il debito pubblico netto a fine giugno e a fine settembre.

GIUGNO 2013                                                        SETTEMBRE 2013                 DIFFERENZA

2076,4      A-Debito pubblico lordo                               2068,7                                      -7,7

76,3         B-Disponibilità liquide del Tesoro (*)                40,8                                       -35,5

27,1         C-Depositi presso IFM                                 26,3                                        -0,8

50,8         D-Prestiti a Stati e meccanismi europ.              51,5                                        0,7

1922, 2     E-Debito pubblico netto (E=A-B-C-D)              1950,1                                      28,9

(*) Inclusi depositi presso Banca d’Italia

Ecco dunque svelato il mistero: tra giugno e settembre 2013 il debito pubblico netto dell’Italia non è diminuito ma è anzi aumentato di quasi 29 miliardi (e in solo trimestre bisogna dire che è un bel balzo). Tuttavia il Tesoro non ha pagato l’eccesso di spese sulle entrate del trimestre emettendo nuovi titoli netti, nel qual caso si sarebbe accresciuto in misura equivalente il debito pubblico lordo e l’Eurostat ce lo avrebbe prontamente segnalato, ma ha preferito utilizzare liquidità già disponibile e depositi presso la Banca d’Italia. Poiché tale disponibilità è stata ridotta di quasi 36 miliardi a fronte di un’esigenza di pagamenti non coperta da incassi per 29 miliardi, ecco che apparentemente il debito si è ridotto. Ma è solo apparenza e non vi è ovviamente nulla da festeggiare.

22
Gen
2014

Spesa e tasse: le 2 lezioni per cui Uk con Cameron cresce più di tutti in Ue

Sorpresa, il leone della crescita nell’Unione Europa non è affatto la Germania di Angela Merkel, che ha chiuso il 2013 con un deludente e modestissimo più 0,4% del suo Pil, ma il Regno Unito di David Cameron. Che ha vissuto un 2013 di continua progressione delle stime: a inizio anno tutti predicevano un modesto più 0,6 o 0,7%, ma di trimestre in trimestre le cose sono andate sempre meglio. Se ancora a dicembre i più immaginavano una chiusura d’anno a più 1,4%, la crescita fortissima dello 0,8% nel solo ultimo trimestre potrebbe aver fatto chiudere il 2013 a più 1,9%. Un punto e mezzo più della Germania.

La tendenza è stata confermata dalle prime stime di crescita 2014 del Fondo Monetario. Il Pil 2014 della Gran Bretagna è stimato a +2,4%, un punto più di quanto il Fondo valutasse a metà dell’anno scorso. La Germania non andrebbe oltre il +1,6%. L’Italia, per capirci, vede invece il FMI abbassare ulteriormente le sue previsioni, dallo 0,7% allo 0,6%: la metà di quanto il governo Letta abbia stimato nella sua legge di stabilità, l’1,1%. E siamo l’unico tra i Paesi “avanzati” corretti al ribasso, l'”unico a non tenere il passo”, dice il FMI. Un viatico, per Letta e il suo governo.

D’accordo,  le previsioni vanno prese con le molle. Per esempio a metà 2012 il FMI stimava per il 2013 al 5,6% la crescita del commercio mondiale – il motore dello sviluppo planetario – e poi nella realtà è stata a malapena del 2,7%, il che getta qualche ombra anche sulla correzione in rialzo al 3,7% per la crescita mondiale 2014, visto che nel frattempo la stima di aumento del commercio scende dal più 4,9 al più 4,5%. Quel che però è evidente è che il Regno Unito ha stupito tutti, la frenata tedesca è stata più forte di quel che ci si aspettasse, mentre noi purtroppo arranchiamo in fondo.

Su che cosa di fonda, il successo britannico? Su un mix che per noi non è né integralmente né largamente replicabile, visto che ci sono almeno tre caratteristiche dell’economia britannica molto diverse dalle nostre. Ma ci sono però anche un paio di lezioni secche e buone anche per noi italiani, e per tutto il Sud Europa piegato dalla crisi.

Vediamo innanzitutto che cosa non possiamo ambire di replicare. E’ ovvio innanzitutto che il Regno Unito si avvantaggi della scelta – saggia, alla prova dei fatti – di aver mantenuto la sovranità monetaria e la sterlina. Non solo ciò consente di poter compensare momenti bassi del ciclo con svalutazioni del cambio, ma ha evitato un impatto disastroso della crisi a un’economia che dagli anni Ottanta ha sempre più accentuato la seconda scelta che non possiamo seguire. Quella di diventare un leader mondiale come piattaforma dei servizi, innanzitutto quelli banco-finanziari. Le crisi a raffica di grandi istituti bancari britannici dopo il crac Lehman avrebbero avuto impatti devastanti, se fossero stati curati con i caotici criteri europei. La terza caratteristica che ci divide dal Regno Unito discende dalla seconda: loro realizzano una quota di valore aggiunto sul Pil da manifatturiero non troppo superiore alla metà del nostro, mentre noi siamo un paese che deve tentare di riportare la quota del manifatturiero oltre il 20%, per difendere l’unico vero motore attuale della crescita italiana, cioè l’export sui mercati mondiali.

Queste tre caratteristiche britanniche hanno determinato i motori della ripresa del Regno Unito. Innanzitutto il mercato domestico, la domanda interna dei consumi. Che è tornata a superare quella del precrisi, mentre da noi siamo ancora a una perdita a doppia cifra. Poi il settore immobiliare, sia delle compravendite e mutui – risaliti a quote analoghe a 9 anni fa – che nelle costruzioni, dove noi siamo a perdite del 50% rispetto al precrisi. Infine il settore finanziario, che è tornato a produrre ottimi utili e pingui bonus, e complessivamente dei servizi, a cominciare dal turismo e dall’attrattività degli investimenti diretti esteri, che per la verità è sempre rimasta altissima.

Tutto questo, per così dire, dipende dalla specificità britannica. Ma ci sono in aggiunta due fattori essenziali, sui quali dovremmo riflettere. Ad aver mantenuto un segno completamente diverso dal nostro sono state due scelte fondamentali di finanza pubblica, condivise dal premier Cameron e dal suo arcigno cancelliere dello scacchiere, George Osborne.

Fino all’inizio dell’anno scorso, le previsioni di crescita britanniche erano basse proprio per effetto di quelle due scelte. La prima: tagliare duramente la spesa pubblica. La seconda: tagliare anche le tasse, dove e nella misura del possibile, visto che nel frattempo bisognava abbassare energicamente il deficit. Una strategia che avrebbe soffocato la ripresa, dicevano non solo i laburisti di Ed Miliband, ma anche molti economisti keynesiani.

Ebbene, sono stati smentiti. E’ accaduto il contrario. Cameron e Osborne hanno ereditato nel 2010 dai laburisti un deficit pubblico superiore all’11% , nel 2010. A fine 2013 il deficit sarà intorno al 6,8%. Nel 2015, quando si rivoterà, per effetto dei nuovi tagli che il governo continua a proporre, dovrà scendere al 4% , e sotto il 3% nel 2016.

Quanto alle imposte, Osborne ha ridotto l’imposta sul reddito delle imprese dal 28% al 22%, ed entro fine mandato l’obiettivo è di scendere al 20%. L’aliquota marginale sul reddito delle persone fisiche è stata abbassata di 5 punti, dal 50% dove l’avevano riportata i laburisti. Sono state abbassate le imposte alle giovani coppie, è scesa l’accisa sulla benzina e sui consumi energetici.

E’ per tutto questo, che la domanda privata di consumi è tornata ruggente. Conclusione: per l’Italia che ha perso nove mesi sull’IMU senza ancora metterci un punto, che su ogni ipotesi di taglio alla spesa continua a delegare il commissario Cottarelli perché nessuno ha fegato e idee chiare su dove tagliare, e che ha visto aggravi d’imposta di ogni tipo, avercene sul ponte di comando, tipi come Cameron e Osborne.

22
Gen
2014

Hollande a due o quattro ruote?

La grandeur francese colpisce ancora (cit. Ugo Arrigo). Può sembrare incredibile ma in questi giorni è passata sottovoce un’operazione che farebbe impallidire anche l’Italia.

Nel nostro paese siamo abituati alle operazioni di Stato, ma anche l’ultima avventura con l’entrata di Poste Italiane in Alitalia in realtà è poca cosa rispetto a quanto successo in Francia.

L’operatore automotive PSA, che controlla Peugeot e Citroen, ha registrato nel 2012 una perdita storica pari a 5 miliardi (dovuto in parte ad operazioni straordinarie) e chiuderà il 2013 con circa 800 milioni di euro di rosso.

E cosa decide di fare lo Stato Francese? Entrare nel capitale con 750 milioni di euro (10 volte l’intervento di Poste in Alitalia) per prendere il 14 per cento dell’azienda. Read More

21
Gen
2014

Comitato privatizzazioni chi? Interrogazione Lanzillotta-Della Vedova su Poste

Il modo in cui sta muovendo i primi passi il processo di privatizzazione di Poste solleva seri dubbi sulla sua compatibilità con l’apertura del mercato. I senatori Linda Lanzillotta e Benedetto Della Vedova, in un’interrogazione al premier, al ministro dell’economia e al ministro dello sviluppo economico, pongono domande che speriamo abbiano una risposta rapida. A partire da questa: a quale titolo il comitato privatizzazioni si sta muovendo? Su LeoniBlog.it il testo integrale dell’interrogazione.

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20
Gen
2014

Se sul clima l’Europa ignora i costi marginali—di Angelo Spena

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Angelo Spena.

Ma lo sanno anche i bambini che più marmellata rubi più diventa probabile che mamma se ne accorga. Nel mondo i fenomeni lineari sono pochi. Nelle nostre Università – finché funzioneranno con libera lucidità – la teoria dei costi marginali applicata ai processi energetici insegna[1] (con tanto di dimostrazioni matematiche, che qui vi risparmio) che migliorando efficienze già elevate si ottengono vantaggi via via più piccoli: che cioè con la stessa spesa intervenire su un sistema più efficiente fa conseguire benefici in quantità minore di quelli ottenibili su un sistema in partenza meno efficiente. Questo vale sia per i consumi che per l’inquinamento, poiché essi crescono o diminuiscono – anche se, appunto, non linearmente – generalmente nello stesso verso.

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20
Gen
2014

Oltre il danno, la beffa: lo Stato e le compravendite immobiliari.

Lo Stato si atteggia variamente nell’esercizio del potere normativo di cui è titolare. Da un lato, paternalisticamente elabora discipline minuziose, muovendo dal presupposto che il singolo non sia sufficientemente tutelato se le disposizioni di legge sono poche e non abbastanza complicate; o non disponga della capacità decisionale adeguata a compiere scelte autonome e fondate; o non sappia assumersi la responsabilità di perseguire quanto è per sé più funzionale; o necessiti comunque di un indirizzo etico o morale che solo lo Stato stesso gli può fornire. Dall’altro, spregiudicatamente impone tasse e oneri vari che, gravando la collettività in maniera soffocante, impediscono sotto più profili che le risorse individuali possano essere proficuamente estrinsecate. Read More

19
Gen
2014

Pianificazione e fantapianificazione (aeroportuale e non)

In tema di aeroporti non c’è tre senza quattro per i nostri ministri di settore: dopo il “Piano” del ministro comunista Alessandro Bianchi sotto il governo Prodi del 2006-08, il piano del ministro ex aennino Altero Matteoli sotto il governo Berlusconi del 2008-11 e il piano del ministro tecnico Corrado Passera sotto il governo Monti del 2011-13 ecco il nuovo (inevitabile?) piano del ministro Lupi sotto il governo Letta. Ma a cosa servono i piani aeroportuali? A programmare nuova capacità/nuovi investimenti in aree territoriali o aeroporti soggetti a scarsità rispetto a un’elevata domanda?

Non è questo il caso. Essi hanno invece la finalità di imporre una gerarchia tra aeroporti che non riconosce quella spontaneamente delineata dalle scelte di passeggeri e vettori, statisticamente individuabile semplicemente ordinando in maniera decrescente il traffico annuale (non serve un piano, basta un foglio Excel coi dati Enac). La visione ideologica sottostante i periodici, e per fortuna inattuati (grazie alla cadute dei governi), piani aeroportuali è quella di un sistema centrato sul “Piano”, attorno al quale gravitano ad un primo livello i gestori aeroportuali, gerarchizzati in categorie, a un secondo livello i vettori aerei e a un terzo e ultimo livello i consumatori.  In questa visione tolemaica del sistema aeronautico i passeggeri sono al servizi dei vettori i quali sono al servizio dei gestori aeroportuali i quali sono al servizio del supremo pianificatore e tutto risulta in questi modo perfettamente armonico e ordinato.

Gli aeroporti sono inoltre classificati in tre distinti livelli gerarchici:

Undici aeroporti strategici (…) e ulteriori 26 scali di interesse nazionale. È quanto prevede il Piano nazionale degli aeroporti, in base all’informativa presentata (..) in consiglio dei ministri dal titolare dei Trasporti Maurizio Lupi. Un piano che rappresenta una “dieta” rispetto ai piani Matteoli e Passera. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due. – Il Sole 24 Ore –

In ogni bacino gli scali di interesse nazionale sono evidentemente al servizio dell’aeroporto strategico e immagino che a tal fine dovranno essere limitati nel traffico che possono ospitare. Non è chiaro cosa accadrà agli aeroporti che non rientrano negli 11 né nei 26. Verranno chiusi? Limitati al traffico amatoriale, vietando quello commerciale? All’aeromodellismo? Potremo solo portarci i bambini per far volare aquiloni o solo aeroplanini di carta? Al momento non è chiaro.

Peccato per il pianificatore che il sistema sia ormai da molto tempo, soprattutto per effetto della liberalizzazione europea, policentrico e pulviscolare, guidato dalla domanda, reale e potenziale, dei consumatori. I vettori inseguono la domanda dei passeggeri e sono al loro servizio. I gestori aeroportuali inseguono la domanda dei vettori e sono al loro servizio. Non c’è alcun bisogno di un pianificatore ma solo di un regolatore del sistema, per gli aspetti tecnici e per quelli economici, in grado di favorire un uso sicuro ed efficiente delle infrastrutture. Del pianificatore bisogna diffidare perché egli intende pianificare l’offerta ma in realtà vorrebbe pianificare anche la domanda perché non facendolo la sua azione avrà pochissime probabilità di essere efficace. E forse la sua massima aspirazione sarebbe quella di pianificare anche i nostri desideri.

Un solo esempio per tutti: il pianificatore voleva a tutti i costi sviluppare Malpensa e per ottenere questo ha artificiosamente e consistentemente ridimensionato Linate ma i passeggeri anziché andare a Malpensa, che non ha mai decollato, hanno decretato il grande successo di Orio al Serio, che invece a nessun pianificatore sarebbe mai venuto in mente di sviluppare. Orio è attualmente il quarto aeroporto italiano per traffico, avendo superato da tempo Venezia, e sta tallonando Linate con la prospettiva, pianificatore permettendo, di superarlo già quest’anno. Ma un eventuale pianificatore di quindici anni fa lo avrebbe classificato con grande probabilità di terzo livello.

La pianificazione aeroportuale attuata dividendo l’Italia in bacini, sia ben chiaro secondo criteri puramente geografici e non di intensità della domanda, assomiglia moltissimo a una pianificazione zonale delle farmacie (una ogni x migliaia di abitanti, ma almeno i consumi farmaceutici sono uniformi): Pisa, Firenze, Bologna e Lamezia sono strategici mentre Linate e Orio no. Ma Lamezia ha avuto 2 mil. di pax nei primi undici mesi del 2013 mentre Linate 8,4 e Orio 8,3 milioni. Linate e Orio, a loro volta, sono di interesse nazionale come Brescia (10 mila passeggeri in 11 mesi, 30 al giorno in media…) e Comiso (non ancora pervenuto nelle statistiche). Chi riesce a intravvedere una qualche ratio se non quella di ostacolare la libera scelta degli attori economici?

Basta a tutta questa concorrenza disordinata, sembra dire il pianificatore. Tra aeroporti ma anche in moltissimi altri settori. Basta a tutta questa concorrenza nei quartieri tra panetterie, tra latterie, tra ristoranti. Così come abbiamo distinto tra farmacie e parafarmacie, facciamolo anche tra aeroporti e paraeroporti, tra ristoranti e pararistoranti. Una sola panetteria strategica per quartiere, un solo ristorante. Più due panetterie complementari, ma con una gamma ristretta di prodotti, e due ristoranti complementari, ma con un menu semplificato, deciso direttamente dall’assessore.

In questo modo recupereremo sicuramente la crescita economica di un tempo ribaltando il declino italiano.