27
Gen
2014

Gobba a levante debito calante, gobba a ponente…

Il debito pubblico italiano che cala, in rapporto al Pil e persino in valore assoluto, seppure in un solo trimestre, è un fatto così raro che merita di ritornarci sopra a distanza di pochi giorni da un precedente post. In esso si metteva in guardia il lettore, invitandolo a non fidarsi delle apparenze, amplificate da quello che gli organi d’informazione andavano trionfalisticamente sostenendo. A ridursi nel terzo trimestre 2013 era stato infatti il debito pubblico lordo dell’Italia, così come definito dal trattato di Maastricht e rilevato trimestralmente dall’Eurostat a supporto della Commissione U.E. Al netto della liquidità disponibile del Tesoro, dei depositi presso la Banca Centrale, dei conferimenti ai meccanismi europei salvastati, quello che si può chiamare debito pubblico netto era invece tutt’altro che sceso. Purtroppo, con la sola rilevante eccezione del Foglio, nessun giornale ha ritenuto di dover ricordare ai suoi lettori che non è tutto oro quello che luccica.

Considerando che Eurostat riportava nella sua nota trimestrale l’andamento del debito pubblico sino a settembre 2013 e che invece, in base alla nota mensile sul debito e fabbisogno della Banca d’Italia, si può aggiornarne la dinamica sino a novembre, ecco rappresentate nel grafico sottostante le differenti dinamiche del debito lordo e di quello netto sino a tale mese.

image001

 

Cosa è successo dunque al debito italiano tra giugno e settembre 2013? Come già ricordato in precedenza:

  • Nella sua versione lorda esso è passato da 2.076,4 a 2068,7 mld., con una riduzione di 7,7 miliardi.
  • Nella sua versione netta è invece passato da 1.922,2 a 1.951,1 mld., con un incremento di 27,9 miliardi.

E tra settembre e novembre? In soli due mesi:

  • Il debito lordo è cresciuto di 35,4 miliardi (da 2.068,7 a 2.104,1 mld.).
  • Il debito netto è invece aumentato di 13,8 miliardi (da 1.950,1 a 1963,9 mld.)

Gli incrementi del debito netto, rapportati al numero di mesi in cui si sono verificati, appaiono decisamente maggiori rispetto alla media del precedente biennio/triennio, sicuramente per effetto dell’accelerazione da parte della P.A. del pagamento delle fatture pregresse. Se si considera l’intero triennio 20011-13, l’incremento medio mensile del debito netto è stato di 5,2 miliardi.

Questo dato ha importanti implicazioni in relazione al progetto di ‘privatizzazione’ del 40% di Poste Italiane. Considerando che i ricavi previsti dalla cessione oscillano tra i 4 e i 4,8 miliardi, nella prima ipotesi essi verrebbero bruciati in 23 giorni di funzionamento della P.A. italiana mentre nella seconda in 28 giorni.

 

27
Gen
2014

Quote rosa nelle liste elettorali? Il fine è giusto, il mezzo no.

Sulla legge elettorale tanto c’è da dire, tanto si è detto e tanto si dirà. Ma di fronte allo schieramento, compatto e trasversale, di senatrici e deputate che si sono sfilate le rispettive casacche politiche per convergere sull’importanza delle quote rosa nelle liste elettorali bisogna fermarsi un momento e riflettere. È un miracolo politico? No di certo. Anzi, dietro quella patina di giustizia e buonsenso che evocano termini come “uguaglianza” e “pari opportunità” si cela il perseguimento di fini giusti coi mezzi sbagliati: un classico del femminismo contemporaneo.

Scrivono le senatrici Fedeli (PD), Mussolini (FI) e Bianconi (NCD) che per rendere il principio della rappresentanza di genere nelle liste elettorali realmente efficace “è necessario introdurre un vincolo all’alternanza di genere uno a uno nelle liste e la medesima alternanza nei capilista”. Aggiunge la deputata Murer (PD) che “non basta garantire le candidature, bisogna garantire un equilibrio effettivo nella rappresentanza. Per questo ci vuole una norma stringente sull’alternanza di genere in lista o, nel caso delle preferenze, di una norma sulla doppia preferenza di genere. Poi ci vuole un pronunciamento chiaro sui capilista; anche in questo caso deve essere garantita alternanza e parità”. Un appello condiviso da numerose altre deputate di quasi tutti gli schieramenti politici.

Il punto di partenza del ragionamento, oltre che quel presunto senso di giustizia già citato, è l’art. 51 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” e “a tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Qui, tuttavia, si parla di pari opportunità a monte, cioè della possibilità di essere eletti senza discriminazioni basate sul sesso. E ci mancherebbe. Il risultato perseguito con le quote rosa (a maggior ragione se il meccanismo viene esteso a ogni singola lista elettorale e ai capilista), però, presuppone una certezza che, invece, è ingiustificabile.

Sul tema, peraltro, era già intervenuta la Corte Costituzionale quando, nella sent. 422/1995 sull’introduzione di quote elettorali nelle elezioni comunali, aveva dichiarato che “misure quali quella in esame (…) non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

Come spesso accade, la politica tenta di risolvere un problema culturale con strumenti normativi. Con risultati controproducenti, perché le donne elette dovranno (come già in parte accade) superare il sospetto che siano lì non per la loro competenza, ma per obbligo di legge. Di essere, cioè, solo dei tappabuchi e non, invece, esempi di coraggio, professionalità e buone idee politiche. Il punto è che le quote rosa sviliscono la meritocrazia e non risolvono il problema, anzi, lo alimentano. Per un esempio a livello locale, si veda cos’è successo nelle ultime elezioni provinciali di Trento.

Paradossalmente, le discriminazioni nascono proprio dai tentativi di tutelare determinate categorie sociali. Al giorno d’oggi, per fortuna, nessuno si sognerebbe di escludere determinate categorie dalla vita politica e di impedire loro di partecipare alle elezioni. Ma la conclusione non è che, essendo le donne il 51% della popolazione, vada riconosciuto loro diritto alla stessa rappresentanza all’interno del Parlamento. Perché, altrimenti, esigo che nelle liste elettorali vengano rappresentati anche il 2% di Musulmani, il 2.4% di omosessuali e il 4.8% di disabili italiani. E chi più ne ha più ne metta. Si tratta di categorie perfino più deboli di quella femminile, anche numericamente (e quindi politicamente): come mai nessuno propone quote loro riservate?

Twitter@glmannheimer

 

 

27
Gen
2014

Bitcoin: una previsione pessimista—di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Dopo i bitcoin creati da un anonimo nel 2009 è stato un profluvio di cripto valute: Litecoin, Namecoin, PPcoin, Terracoin, Ixcoin, Devcoin, Freicoin ecc. il cui mercato è arrivato a superare dieci miliardi di dollari. Un risultato che ha aperto l’orizzonte su un nuovo mondo di transazioni basato su una moneta universale, decentralizzata, democratica, non manipolabile, indipendente da banche centrali, indicatori macroeconomici, anonima e soprattutto immune dalle esazioni arbitrarie dei governi. Tuttavia dopo molto battage pubblicitario c’è ancora incertezza circa la loro identità. Si tratta di denaro o qualcos’altro? Quale sarà la loro evoluzione? Vediamo di scoprirlo.

Read More

25
Gen
2014

Poste e l’aiuto di Stato: il risparmiatore beffato

Siamo nel 2016 e Poste è appena stata sanzionata dalla Commissione Europea per aiuti di Stato. Appena due anni dopo la privatizzazione, che di fatto privatizzazione non fu, una sentenza durissima per il colosso italiano che da’ lavoro ancora a quasi 150 mila dipendenti.

Il presidente, come al solito in quota CISL, è esterrefatto di questa decisione che proprio non comprende. L’amministratore delegato si dice indignato, mentre i quarantenni al Governo si dicono profondamente contrari alla decisione della Commissione Europea.

La gestione continua ad essere pubblica e i sindacati continuano ad avere un peso inusitato, come succede ormai da decenni, nonostante la presenza di privati.

L’azienda non ha effettuato nessuna ristrutturazione, per acquisire una maggiore redditività e gli utili continuarono a scendere nel corso degli anni.

Una decisione invece che si poteva prevedere. Non era allora un caso che il Prof. Ugo Arrigo nell’indice delle liberalizzazioni aveva puntualmente bocciato la concorrenza mancante del mercato postale. Read More

25
Gen
2014

Poste, un errore colossale anche se piace a quasi tutti

Ieri il Consiglio dei ministri ha varato l’inizio del piano-privatizzazioni annunciato ai mercati da Letta e Saccomanni nell’ultimo trimestre. Si comincia con la cessione del 40% di Poste, e fino al 49% di Enav. A giudizio dei più, considerando quel che si è letto e detto sui media in queste settimane, è un fatto molto positivo, un primo cambio di passo nell’operatività di un governo trascinato nella polvere da 9 mesi di strazio sulla vicenda Imu. Chi qui scrive la pensa diversamente, e torna ai spiegarne il perché. Senza nascondere gli aspetti positivi, quando ci sono e per quelli che sono.

Innanzitutto, queste “non” sono privatizzazioni. Lo ricorda anche Massimo Riva su Repubblica, anche se dal suo punto di vista non è detto che sia un male. Privatizzare significa cedere il controllo proprietario. Il governo ha deciso di procedere mantenendo il controllo delle società il cui capitale “apre” ai privati, nel caso di Poste quotandola, nel caso di Enav vedremo se aprendo a fondi d’investimento o soggetti specializzati nel settore aereo. Lo Stato non “cede” un bel nulla, ma chiede capitale a privati che non comanderanno né gestiranno.

Come aspetto positivo, c’è senza dubbio il fatto che l’ingresso in elevata quota del capitale di privati aumenta la disciplina finanziaria e l’efficienza. Tuttavia un enorme letteratura consolidata nel tempo attesta che i benefici veri si ottengono nei casi in cui si privatizza, non quando si chiede capitale privato ma si continua a gestire. Quando è lo Stato a nominare i manager, ed èp lo Stato italiano in mano ai partiti, decenni di esperienza italiana dovrebbero averci stradimostrato a sufficienza i mali che si ingenerano e perpetuano. Il governo attuale dovrà nominarne un centinaio tra poche settimane, a Eni, Enel, Finmeccanica e anche alle Poste. Di Sarmi, il capoazienda postale, Repubblica scrive che “vanta un grosso credito verso l’attuale esecutivo, dopo l’investimento nel salvataggio Alitalia può aspirare a qualsiasi carica”. Ecco, è esattamente la ragione per cui in Italia bisognerebbe applicare radicalmente quel che diceva Lady Thatcher: in uno Stato in cui di mercato ce n’è poco e prevalgono altre logiche, per creare il mercato va rimosso lo Stato dal mercato proprietario. Sante parole, ma da noi lo Stato cioè i partiti mutano i panni, non dismettono il comando.

Tra parentesi: le privatizzazioni societarie non servono ad abbattere il debito pubblico. A quel fine sarebbe utile smobilizzare l’enorme patrimonio immobiliare pubblico: quello dismissibile vale oltre 300 miliardi di euro, ma lo Stato non lo fa. Cedere asset mobiliari significa invece aumentare l’efficienza economica delle società e la trasparenza delle loro strutture di governance, accrescere la concorrenza nel mercato e per il mercato, innalzare l’efficienza e la redditività del mercato finanziario in quanto tale.

Tuttavia è anche vero che quando lo Stato controlla il 100%, come avveniva sin qui per Poste e per Enav, bisogna pur cominciare e non è detto che se non si cede il controllo alla prima apertura del capitale a privati, non lo si faccia poi successivamente. Il ministro Saccomanni ieri ha detto che per poste “si comincia” col 40%. Diamogliene atto, e vedremo se il tempo confermerà che poi si procede o darà ragione a chi, come me, ne dubita molto. In realtà, occorrerebbe un mutamento politico degli indirizzi del paese. Oggi, semplicemente, non è alle viste. La destra non ha privatizzato nella, con Berlusconi.

Capisco che il lettore a questo punto obietterà. Ma che dici, non ti è bastato l’esempio delle tante privatizzazioni – l’Italia ne ha fatte per 157 miliardi di euro tra metà anni ’80 e il 2012 – che si sono rivelate deludenti, con gestioni come quella di Alitalia o di Telecom? Ottima osservazione. Che infatti spiega i dubbi – non solo miei, accademici come Ugo Arrigo e Nicola Rossi, l’Istituto Bruno Leoni, alcuni parlamentari come Linda Lanzillotta – sulle operazioni decise ieri.

Che cosa dimostra, l’esperienza alle nostre spalle? Che bisogna distinguere la natura di ciò che si cede, prima di aprirne il capitale o di affidarne la gestione a privati. Quando si tratta di società che operano in regime di monopolio dichiarato o mascherato, quando godono di un regime di vantaggio normativo o regolamentare, quando beneficiano di sussidi pubblici in ragione della propria pretesa mission o a sostegno del proprio conto economico o patrimoniale, allora prima di privatizzare bisogna fare un’altra cosa. Si deve “liberalizzare”: sciogliere e risolvere la tutela pubblica di cui quella società ha goduto, eliminarne i sussidi diretti o incrociati. Altrimenti, la privatizzazione si riduce in un trasferimento a privati di una rendita. E’ quello che è avvenuto concedendo all’Alitalia “privata” sostegni e ammortizzatori negati ad altre imprese, ed eccezioni alla concorrenza su tratte come la Milano-Roma. E’ quello che continua a succedere coi concessionari autostradali, finché la formula con cui il ministero calcola gli aumenti di tariffa resterà – chissà perché, ma è così – segreta invece che pubblica, e col risultato che a ogni spirar di vento i politici di turno intervengono discrezionalmente sulle tariffe oppure, come Lupi oggi, promettono “sconti” ai pendolari (apparentemente ragionevole, in realtà insensato).

Ecco, è esattamente questo l’errore commesso decidendo di quotare Poste così com’è oggi: cioè un enorme conglomerato di attività diverse, purtroppo fortissimamente caratterizzato da aree di tutela normativa, sussidi diretti e sussidi incrociati. Prima bisognava liberalizzare: sarebbe stato un percorso più lungo, ma più efficace. Collocare in Borsa“Poste così com’è” è sbagliato, per 4 ragioni.

Primo. Poste oggi è una somma di attività diverse, fino alla telefonia, il trasporto aereo, la telematizzazione della PA, ma il più del suo fatturato e tutti i margini vengono dalle attività finanziarie, la raccolta di BancoPoste e quella di PosteVita. Dal servizio postale, vengono solo 4,6 miliardi di fatturato su 24, nel 2012. Tutti i maggiori collocamenti sul mercato di aziende postali europee, nei decenni alle spalle, sono avvenuti separando le attività, nei casi in cui all’origine – come quello di Deutsche Post – alle consegne postali si si sommavano attività di raccolta del risparmio e assicurative. PostBank venne separata da Deutsche Post e ceduta integralmente alla banca privata Deutsche Bank. Royal Mail, appena collocata sul mercato con enorme successo a Londra, non aveva attività di questo tipo.

Secondo. Il motivo per cui occorreva separare è che sin qui rete postale e attività finanziarie hanno vissuto di sussidi incrociati, ritardando la liberalizzazione postale da una parte – vedi gli innumerevoli richiami negli anni venuti dall’Autorità Antitrust, anche quando a presiederla era Catricalà oggi al governo, e che sembra essersene dimenticato – e impedendo a BancoPosta la piena licenza bancaria: per evitare l’insurrezione del sistema bancario italiano privato da una parte, e una ovvia infrazione europea dall’altra. E’ grazie al redditivo pilastro finanziario, che Poste Italiane non si è incamminata sulla via di diventare un vero grande operatore logistico italiano e internazionale, come hanno fatto le consorelle tedesca e olandese, con Dhl e Tnt. Ma quotando tutto insieme l’errore si eterna e l’elevato rischio dell’infrazione non si evita.

Terzo. A maggior ragione la separazione degli asset andava fatta perché sin qui Poste ha ottenuto quasi un miliardo di euro l’anno dallo Stato a sostegno della sua gestione previdenziale, assai pingue nei trattamenti garantiti in passato. Royal Mail era in condizioni analoghe ma ha dovuto risolvere il problema prima di quotarsi, su intimazione europea, e a maggior ragione l’infrazione europea scatterà se Poste viene quotata senza risolvere il problema che ha in pancia.

Quarto. Societarizzare i diversi business di Poste come premessa per la quotazione – sin qui Banco Posta è solo contabilmente distinto dai servizi postali – non avrebbe affatto diminuito il valore complessivo dell’azienda. Al contrario avrebbe fatto emergere valore, e ne avrebbe dato uno autonomo alla rete territoriale postale – la più diffusa in Italia, con 13.600 agenzie – come piattaforma multiservizi.

Al contrario, quotare il 40% com’è oggi per incassare 4 miliardi in pochi mesi, crea le premesse per enormi conflitti d’interesse, su cui giocoforza i concorrenti domestici e continentali attiveranno le istituzioni europee. Per alzare più soldi nel breve, il governo fa passare il contratto di Poste con Cdp – a cui va la raccolta postale per gli impieghi istituzionali della cassa – da annuale a triennale o quinquennale, per alzare il valore della conglomerata. Ma quel contratto non è nient’altro che la piena garanzia pubblica sulla raccolta di Poste, piena garanzia pubblica che è negata agli intermediari privati concorrenti, finanziari e assicurativi.

Non stupisce, che il governo abbia deciso di riservare al mercato un 30% del capitale, e di “regalarne” – vedremo se sarà così, il comunicato di ieri è vago – un 10% ai 145 mila dipendenti. E’ un’idea buona la partecipazione dei dipendenti al capitale, ma nel più dei casi in cui è avvenuta l’attribuzione delle azioni è avvenuta a sconto del prezzo riservato al mercato, non gratis. Se fosse un regalo servirebbe invece a tacitare i dubbi sindacali, a “comprare” consenso.

Su tutti questi temi, il parlamento – nelle procedure previste dallenorme sulle privatizzazioni – dovrebbe alzare una voce. Sono critiche devastanti? No, sono quelle dettate dagli errori commessi in passato.

Bisogna tuttavia riconoscere che nel caso dell’ENAV il governo è più coraggioso. Le privatizzazioni vere nel mondo delle società che gestiscono l’assistenza al volo sono poche, naturalmente eccezion fatta per quella sotto Reagan in America e quella in Gran Bretagna sotto la Thatcher.. Nel caso dell’ENAV, rimesso in ordine dal commissario e e poi amministratore unico Massimo Garbini, un 49% privato ne rafforzerà la proiezione internazionale già iniziata con la gara vinta a Dubai e a Kuala Lumpur e acquisendo una quota di Aireon negli Usa.

Ma su Poste lo Stato tiene troppo ai 360 miliardi di raccolta delle Poste per la sua Cassa Depositi e Prestiti. Magari perché questa poi ripubblicizzi aziende privatre per intero o a pezzi, come già ha fatto e sta facendo.

 

24
Gen
2014

Casse previdenziali e INPS. Un caso: la cassa forense—di Francesco G. Capitani

Le pericolose convergenze tra Casse previdenziali dei professionisti e INPS

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco G. Capitani.

Entro il prossimo 4 febbraio verrà emanato il regolamento attuativo dell’art. 21 della l. professionale n. 247 del 2012, che prevede la contestuale iscrizione alla Cassa Forense di ogni avvocato iscritto all’albo, a prescindere dai valori reddituali individuali, bensì imponendo un contributo minimo soggettivo in misura fissa. La norma interessa ben sessantamila legali non ancora iscritti alla Cassa, ed insiste su quanti fra i già iscritti – di cui ben quarantamila i morosi – continueranno a pagare la già elevata contribuzione minima, nonostante la fotografia reddituale forense descriva redditi in picchiata ed una forbice reddituale in deciso incremento. La modifica del 2012 pare tracciare un solco fra vecchie e nuove generazioni forensi, sulle quali gravano pesi previdenziali iniqui e, forse, insostenibili. Ma, soprattutto, la modifica interviene sottilmente ad arginare il grado di apertura concorrenziale nel settore forense.

Read More

23
Gen
2014

La primavera incatenata—di Emmanuel Martin e Dalibor Rohac

Ai leader della Tunisia non interessa la libertà economica per il proprio popolo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Agli occhi delle persone comuni del Medio Oriente e del Nord Africa, gli eventi della Primavera Araba sono stati l’effetto tanto della frustrazione conseguente la mancanza di opportunità economiche quanto del malcontento derivato dai regimi autoritari e repressivi della regione. Dopo tutto, le rivolte popolari sono state innescate dall’autoimmolazione di Mohammed Bouazizi, un fruttivendolo tunisino che aveva subito ripetute vessazioni da parte delle autorità locali. Quando i funzionari gli hanno proibito di vendere frutta e verdura, confiscandogli la merce, la sua vita — e quella di coloro che da lui dipendevano — è stata rovinata all’istante.

Read More

23
Gen
2014

Destinazione Italia: niente di nuovo sul fronte r.c. auto

Quella dei rincari delle polizze r.c. auto è una delle molte emergenze cicliche di questo paese, sovente alimentate da interventi normativi che privilegiano l’impatto estetico ma mancano il cuore dei problemi. Le disposizioni contenute nell’art. 8 del decreto “Destinazione Italia” non fanno eccezione. Si tratta di una serie di previsioni variegate: alcuni aggiustamenti di generico buon senso e rilevanza limitata; alcune previsioni volte a incidere direttamente e indirettamente su un’affidabile quantificazione dei risarcimenti; infine, una manciata d’innovazioni più caratterizzanti e definite da una ratio unitaria: il tentativo di stabilire una relazione automatica tra i minori costi previsti per le compagnie e i risparmi a beneficio dei consumatori.

Al primo gruppo appartengono l’elevazione dei massimali minimi obbligatori per l’assicurazione degli autobus contro i danni alle persone a 10 milioni di euro (comma 1, lett. a) e l’introduzione, accanto al termine prescrittivo di due anni, di un termine di decadenza di 90 giorni per la presentazione della richiesta di risarcimento, fatti salvi i casi di forza maggiore (comma 6).

Al secondo gruppo si possono ascrivere le previsioni in materia di testimoni (comma 1, lett. c): la loro identificazione deve risultare – salvo nei casi di oggettiva impossibilità – dalla denuncia di sinistro e dalla richiesta di risarcimento, pena l’inammissibilità della prova prodotta; inoltre, il giudice è tenuto a verificare la ricorrenza dei testimoni in altre cause per sinistri stradali, servendosi della banca dati istituita presso l’Ivass dal decreto “Crescita 2.0”: ove si riscontri la presenza di tali testimoni in almeno tre cause nel corso degli ultimi cinque anni, il giudice trasmette un’informativa alla Procura della Repubblica competente, affinché possano essere disposti ulteriori accertamenti.

All’analogo intento di assicurare una corrispondenza tra l’effettiva consistenza del danno e l’ammontare del relativo risarcimento risponde anche la richiesta che le lesioni di lieve entità vengano accertate strumentalmente, e non più con un mero riscontro “visivo” (comma 3); così come le previsioni che incidono sull’art. 148 del Codice delle assicurazioni private (Cap), intervenendo sui parametri di rischio frode che giustificano una sospensione della procedura di risarcimento, così da permettere gli accertamenti del caso, ed allungando da 5 a 10 giorni il termine minimo da concedersi alla compagnia per la perizia sulle cose danneggiate. Meno comprensibile è la soppressione del periodo che esplicitamente riconosceva la facoltà del danneggiato di non procedere alla riparazione senza che ciò pregiudicasse il suo diritto al risarcimento: tale disposizione presentava certo alcune difficoltà di convivenza con l’istituto del risarcimento in forma specifica (v. infra), ma la sua abrogazione solleva dubbi di costituzionalità.

Come detto, più rilevanti appaiono le rimanenti disposizioni, caratterizzate da uno schema comune, che assegna alle imprese assicurative la facoltà (o l’obbligo) di modulare in una determinata maniera la relazione contrattuale o la prestazione risarcitoria, prevedendo al contempo che sia riconosciuta all’assicurato una riduzione dei premi. Così, per esempio, s’introduce l’obbligo per la compagnia di proporre all’assicurando la sottoposizione del veicolo a ispezione preventiva, a fronte di una riduzione di premio che la norma non quantifica (comma 1, lett. b).

Similmente, si prevede la facoltà per l’impresa di ricorrere a procedure di risarcimento per equivalente, tanto verso i danneggiati assicurati quanto verso i terzi danneggiati, garantendo la riparazione del veicolo presso strutture controllate dalla compagnia o con essa convenzionate, a fronte di una riduzione del premio pari almeno al 5% del premio regionale medio incassato – o al 10%, nelle aree specificamente individuate dall’Ivass (comma 1, lett. d). L’opzione dell’impresa ha efficacia per tutto l’anno solare e per tutti i sinistri risarcibili, fuorché – per evidenti ragioni – quelli segnati da concorso di responsabilità: col rischio tangibile d’incappare nel paradosso per cui la tariffa “scontata” è invero l’unica esistente, e manca di un parametro rispetto al quale computare lo sconto. Quest’approccio manicheo risulta orientato alla costituzione di un sistema di liquidazione in tutto alternativo all’ordinario risarcimento per equivalente piuttosto che alla valorizzazione caso per caso delle libertà contrattuali di imprese e assicurati. Inoltre, il meccanismo presenta alcune evidenti criticità operative: prima fra queste, l’incongura vicinanza del termine per l’esercizio dell’opzione per l’anno 2014.

Ancora, si prevede l’obbligo per le imprese di proporre clausole contrattuali (facoltative per l’assicurato) che prevedono l’accesso a servizi sanitari forniti da professionisti scelti e remunerati dalle imprese stesse, a fronte di una decurtazione del premio pari al 7% del premio regionale medio incassato: tale previsione risulterebbe oltremodo penalizzante per le compagnie, ove si consideri che il suo ambito di applicazione è giocoforza limitato al contraente e non si estende ai terzi danneggiati. Parimenti limitato è l’ambito di un’altra previsione, quella che assicura alle imprese la facoltà di proporre all’assicurato, in sede di stipulazione del contratto, una clausola che escluda la cedibilità del diritto al risarcimento, a fronte di una riduzione del premio pari al 4% del premio regionale medio incassato.

Infine, viene parzialmente riformata la disciplina in materia di scatola nera, disponendo che i costi di installazione, disinstallazione, sostituzione e portabilità rimangano a capo della compagnia, ma che i costi di funzionamento siano appannaggio dell’assicurato. La proposta di contratti di questo tipo è presentata come una facoltà per l’impresa: a essa corrisponde una riduzione del premio pari almeno al 7% del premio regionale medio incassato e, in ogni caso al 7% del premio pagato dal contraente già assicurato con la medesima impresa durante l’anno precedente. Particolarmente discutibile appare il previsto meccanismo di funzionamento delle scatole nere, che presuppone la creazione di un unico centro di raccolta dati gestito dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che a propria volta li dispaccerebbe alle compagnie interessate. Sarebbe  molto più opportuno se il governo si limitasse a delineare, con regolamento, i necessari standard di interoperabilità senza arrogarsi l’esercizio di una funzione che non ha alcuna necessità di essere centralizzata.

Tutte le misure da ultimo segnalate paiono entrare in conflitto con il principio della libertà tariffaria, garantito dalla normativa comunitaria in materia; tale pregiudizio è, evidentemente, più intenso nei casi in cui la proposta contrattuale e la collegata riduzione del premio sono imposte come obbligatorie. In conclusione, si tratta di misure che destano più di un dubbio di legittimità e che – ove pure superassero tali perplessità – paiono dotate di efficacia marginale, vuoi per le difficoltà applicative, vuoi per la scarsa incisività rispetto alle sottostanti strutture di mercato.