Consigli non richiesti a Renzi: tre svolte al MEF
Domani saranno ore decisive, in cui Renzi illustrerà riservatamente ai capi della maggioranza le linee generali dell’accelerazione economico-finanziaria che ha in mente. Partiamo pure dal presupposto che lui e i suoi consiglieri più stretti abbiano già le idee chiare. Ciò malgrado, vale la pena di esercitarsi in una serie di considerazioni sul tema. Della serie, se volete, “consigli non richiesti”. Ma non per questo vani.
Prima dei numeri, un’osservazione sul prossimo ministro dell’Economia. Certo, con oltre 300 miliardi di euro di titoli pubblici da piazzare l’anno, aiuta una figura il cui profilo in quanto tale sia garanzia, ai mercati e alla BCE guidata da Mario Draghi. Questo spiega i nomi “tecnici”, che puntualmente sono in testa di lista del totomnistri per il MEF.
Ma Renzi farebbe bene a capovolgere lo schema. Meglio un competente politico, con vasta esperienza di amministrazione, buone relazioni con l’opposizione, e di cui il premier possa fidarsi visto che il MEF ha le chiavi di ogni cosa. Altrimenti, deve essere un tecnico con idee politiche trasparenti, e combattivo verso i vertici della macchina ammnistrativa del MEF e delle Agenzie fiscali, da anni e fino ad oggi i veri indiscussi padroni del vapore delle decisioni di spesa e di entrata. Ma sarebbe meglio un politico, smisuratamente ambizioso sulla stessa linea del premier, visto quel che c’è da fare.
Sui numeri, si ereditano non più emergenze a rischio di esplosione: grazie al cielo, cioè all’andamento dei mercati internazionali oggi in fuga dai Paesi emergenti, e grazie ai due ultimi predecessori a palazzo Chigi, anche se hanno seguito come Tremonti una via tutta-tasse che è sbagliata.. Detto questo, è mwglio non sottovalutare che se falisce anche Renzi, la Trojka per l’Italia torna a essere dietro l’angolo. Tre enormi questioni si ereditano, comunque irrisolte. Esse sono alla radice della maggior perdita di prodotto e reddito dell’Italia, dal 2008 a oggi, rispetto alla stessa Spagna. E spiegano perché la ripresa italiana resti asfittica, col rischio di impiegare 15-20 anni a recuperare i livelli perduti. E su queste questioni ha ragione il Quirinale: meglio un acordo di governo esoplicito, scritto e chiaro.
La prima questione riguarda il combinato spesa-tasse. Renzi eredita una spesa pubblica complessiva 2013 a 808 miliardi di euro, che nel 2017 è prevista crescere a quota 854. Entrate totali 2013 per 759 miliardi, previsti in ulteriore temibile – per non dire: terrificante – salita, a quota 842 miliardi nel 2017. Una spesa corrente che sale ancora, dai 757 miliardi del 2013 agli 811 del 2017, e investimenti pubblici invece inchiodati, sui 28-29 miliardi. Di fronte a questo oceano, il modo per intervenire c’è eccome, volendo.
La prima necessità è trovare le risorse per sgravi veri a impresa e lavoro: il maggior torto di Letta eè stato trascurare questa innegabile priorità, e invece impiccarsi sull’IMU per 10 mesi. Rinviando al commissario esterno Cottarelli indicazioni di contenimento di spesa che è invce la politica, a dover esprimere. E finché non sarà così, i tagli che servono non verranno, come non sono venuti.
I tagli attesi da Cottarelli erano quantificati in 3 miliardi nel 2014, 10 miliardi nel 2015, 17 nel 2016. Letta, nelle sue ultime slides di Impegno Italia ha alzato i tagli a 16,6 miliardi nel primo biennio. Renzi e il suo ministro dell’Economia dovrebbero alzare ancora l’obiettivo ad almeno 20 miliardi nei primi 2 anni, e dovrebbero affiancare Cottarelli con piena copertura politica, per giungere all’indicazione in pochissime settimane, diciamo tre, finché cioè il governo è al’inizio e nel pieno della sua capacità propulisva..
Perché almeno 20 miliardi? Per avere risorse – senza deficit aggiuntivo – in grado di esercitare effetti concreti e non di zero virgola, sui redditi disponibili e sui margini delle imprese. La componente redditi, con un intervento di 7-8 miliardi concentrato in più detrazioni nella fascia tra gli 8mila e i 25 mila euro di reddito, può tradursi in 300-350 euro in più nelle tasche del contribuente medio italiano. Mentre, con gli altri 12 miliardi in 2 anni si abbatte del 50% il monte-IRAP pagato dalle aziende private: e il resto del’IRAP lo si dovrebbe trasferire subito in IRES, in modo che a pagare siano solo le imprese in utile, e azzerando la doppia iniquità che a pagare di più sia chi offre più lavoro e chi usa più beni strumentali, rispetto a chi esternalizza e delocalizza.
Naturalmente per tutto questo occorre cambiare però subito la norma approvata in legge di stabilità, che vincolava a copertura di spese già 10 mliardi delle risorse ancora non individuate da Cottarelli. E qui veniamo alla seconda priorità, il cambio di marcia sulla spesa pubblica.
Dei 757 miliardi di spesa corrente 2013, le retribuzioni pubbliche sono ormai inchiodate a quota 164 miliardi, anche per i prosismi anni. Ma le abbiamo fermate con lo stop al turn over e bloccando gli aumenti : restano rilevanti interventi di tipo equitativo. Se si interviene sui compensi dell’alta dirigenza, come il professor Roberto Perotti documenta da alcuni mesi tabelle alla mano, un buon miliardo e mezzo si risparmia senza colpo ferire e senza affamare nessuno, ma semplicemente ponendo uno stop alla vergogna d retribuzioni multiple dei burocrati italiani rispetto ai parigrado nei maggiori Paesi al mondo. Con tutto il rispetto, non si capisce perché il presidente della Corte costituzionale debba guadagnare tre volte quel che è riconosciuto al Capo dello Stato, e quattro volte quel che intasca un giudice della Corte Suprema USA.
Ma passando alle forniture della PA, i 130 miliardi 2013 in crescita fino a 140 nel 2014 attendono ancora una messa in riga attraverso il passaggio obbligato a piattaforme elettroniche trasparenti di procurement: la CONSIP intermedia a malapena un quarto degli acquisti, e altri 5-6 miliardi di risparmi in 2 anni possono saltar fuori senza che a piangere siano altri che corrotti pubblici, e collusi e concussori privati.
Dei 320 miliardi somma di previdenza e assistenza, in crescita a quota 356 nel 2017, in questa sede non parliamo, dando per scontato che Renzi e il suo partito non vogliano toccarli. E’ comunque sbagliato: sia perché i trattamenti più elevati, figli del solo sistema retributivo, rappresentano uno schiaffo alle generazioni successive, sia perché è tempo di smetterla con la CIG in deroga per andare a un unico strumento di sostegno al reddito, quando lo si perde. Ma qui entriamo nelle competenze del ministro del Lavoro e del Jobs Act, è un altro tema.
La terza partita da giocare al MEF è quella che spesso i più dimenticano. Oltre alle tasse e alla spesa, il MEF è altre due cose. E’ il ponte di comando delle imprese pubbliche centrali, e dovrebbe essere quello di controllo delle decine di migliaia di società pubbliche locali. Sulle finte privatizzazioni in atto a livello centrale, a cominciare da Poste, come la pensiamo noi è ovvio, ma temo proprio Renzi non se la sentirà di mettersi contro tuto il suo partito e tutta la sinistra, smontando quel che Letta ha già avviato. Purtroppo. Ma chissà se Renzi avrà almeno il coraggio di affermare un chiaro indirizzo di apertura al mercato invece di gestioni in house, e di proporre penalizzazioni a chi mantiene sul territorio selve di società gestite in perdita. E infine il MEF dovrebbe recuperare un ruolo attivo nella soluzione del problema più grave, oltre all’eccesso fiscale, che ha generato la moria d’impresa: la restrizione del credito.
Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, la settimana scorsa ha finalmente rotto il plumbeo silenzio istituzionale che da due anni gravava sulla necessità di una bad bank, per alleviare l’eccesso di sofferenze bancarie che grava sul sistema del credito. E’ stata la politica, sinora, a non voler affrontare un intervento di sistema, nel timore di attirarsi nuovi sospetti europei. Anche col consenso delle due maggiori banche italiane, che hanno mezzi propri per affrontare il problema. Ma il nodo ora va affrontato, perché tutto il resto del sistema bancario italiano altrimenti continuerà a negare credito a famiglie e imprese. E sarebbe molto meglio usare gli attivi di Cassa Depositi come garanzie per una bad bank delle Popolari e BCC, invece di usarli per fare di Cdp una IRI Bis.
Chissà a quale punto del nostro troppo lungo elenco di buoni propositi, Renzi ci avrebbe già tirato un martello in testa, come nella fiaba al grillo parlante….