1
Feb
2014

Addio Giorgio Stracquadanio

Ieri sera è scomparso Giorgio Stracquadanio. E’ una grande perdita per tutti noi e, in qualche modo, l’omaggio che tanti gli hanno reso sui social network ne è testimonianza. Lo è anche nel carattere polarizzante dei ricordi. Giorgio non era uno che “lo odi o lo ami”: si divertiva a farsi detestare, ma chi lo conosceva non poteva non amarlo.

Read More

31
Gen
2014

Differenza indefinitamente privilegiata.

A volte sorge il dubbio che l’appartenenza al genere femminile venga reputata da talune donne quasi una differenza “privilegiata”, idonea cioè a conferire prerogative che debbano essere legislativamente garantite e non effettivamente conquistate. L’argomento è quello delle c.d. quote rosa nelle liste elettorali, materia di attualità in questi giorni. Al fine di favorire l’equilibrio in ambito politico, la proposta di legge recentemente elaborata dispone, “a pena di inammissibilità”, che nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore al cinquanta per  cento e che, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, non possano esservi “più di due candidati consecutivi del medesimo genere”. Alcune parlamentari non hanno gradito le prescrizioni sopra riportate in quanto, pur sancendo la parità della presenza femminile e maschile nelle liste e, quindi, eguali possibilità di accesso, prevedono l’alternanza di due a due esponenti per sesso: un effetto finale realmente paritario in sede elettorale non sarebbe, pertanto, garantito. Le parlamentari suddette  chiedono misure idonee a incidere più decisamente sui risultati. Non hanno, forse, considerato che la Consulta si è già più volte espressa sul punto e, come si vedrà in prosieguo, pur cambiando nel tempo orientamento, seguendo la profonda evoluzione della materia delle pari opportunità sotto più di un profilo, ha tuttavia continuato a sostenere l’illegittimità di disposizioni che tendano a determinare esiti elettorali predefiniti in funzione del sesso di appartenenza.

La parità di genere è stata normativamente raggiunta ormai da tempo.  Alle donne è stato consentito il pieno esercizio di ogni diritto fondamentale, nonché lo svolgimento di professioni in precedenza precluse, facendosi cessare ogni discriminazione prima esistente. In aggiunta a tali azioni “positive”, anche la Costituzione è stata modificata al fine di incentivare azioni di “promozione” nei confronti di coloro le quali in passato erano state oggetto di disparità di trattamento a opera dell’ordinamento, oltre che a causa di fattori psicologico-culturali insiti in buona parte della collettività nel suo complesso. L’art. 117, comma 7, Cost., introdotto con la legge costituzionale n. 3/2001, ha previsto che le leggi regionali “rimuovono ogni ostacolo che impedisce a piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso (…) alle cariche elettive”. L’art. 51, comma 1, Cost., poi, che nella formulazione originaria si limitava a sancire l’eguaglianza alle condizioni di accesso alle cariche elettive, a seguito della legge costituzionale n. 1/2003 ha stabilito che a “tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La formulazione delle norme menzionate rende evidente che le stesse sono finalizzate a dare impulso alla presenza femminile in ogni ambito di interesse e non, invece, ad attribuire privilegi e vantaggi differenziati.

Sulla base delle disposizioni sopra richiamate la Consulta, nel pronunciarsi su specifici articoli della legge elettorale della Valle d’Aosta (sent. n. 49/2003) e della Campania (sent. n. 4/2010), ritenne che gli stessi, in quanto formulati in modo “neutro”, si limitassero a consentire la parità effettiva fra uomini e donne nelle cariche elettive mediante misure preordinate esclusivamente a favorire eguali opportunità nella competizione elettorale e non, invece, tendenti ad assicurare garanzie di risultato.  Le pronunce sopra menzionate si ponevano in contrasto con una precedente  (sent. n. 422/1995) nella quale la Corte, chiamata a sindacare la norma secondo cui nelle liste di candidati ai Consigli dei Comuni con popolazione fino a n. 15.000 “nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi” ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale. L’aveva, infatti, reputata discriminatoria in quanto non solamente finalizzata a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento da parte delle donne di determinati risultati, bensì idonea ad attribuire loro direttamente quei risultati e tale, pertanto, da “creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate”. Gli effetti della sentenza erano stati conseguentemente estesi a tutte le diverse norme contenenti “limiti, vincoli o riserve nelle liste di candidati in ragione del loro sesso”: tra le altre, quella della legge n. 277/1993 secondo cui le liste (bloccate) presentate ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale dovevano essere  formate da candidate e candidati in ordine alternato. Nonostante con le due citate sentenze successive la Corte abbia poi sovvertito quanto affermato nel 1995 e, quindi, consentito la previsione di quote nell’ambito delle liste elettorali, tuttavia essa ha mantenuto fermo il principio per cui le disposizioni preordinate al riequilibrio sono legittime solo se tali da non incidere “sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali”. Esse non possono, pertanto, tendere a predeterminare un risultato “di genere” in sede elettorale. Eppure, questo è l’obiettivo perseguito dalle parlamentari cui si faceva riferimento che, con l’appello formulato, hanno inteso riproporre quanto la Consulta, pur nell’evoluzione del proprio orientamento, ha continuato a ritenere non consentito. Esse hanno, quindi, reputato insufficiente la mera misura promozionale già contenuta nel testo presentato, volta a favorire pari opportunità di candidabilità e, quindi, di conseguenza, pari opportunità di eleggibilità, richiedendo invece norme tendenti a garantire alle donne la certezza del risultato. La soluzione così proposta non sembra tenere conto di altri criteri volti a valorizzare merito e preparazione del candidato. Si tratta di un profilo che è stato più volte affrontato (qui e qui qualche esempio): quote finalizzate ad attribuire posizioni rilevanti in relazione al genere di appartenenza e non ad altre competenze finiscono per ottenere l’opposto rispetto a una situazione di parità di condizioni di partenza idonee ad assicurare a esponenti di ambo i sessi le medesime chances di farsi valere. Questo era, peraltro, il senso delle pronunce della Corte Costituzionale: ma, al di là di esse,  altre considerazioni sembrano necessarie.

In Italia continuano a ritenersi auspicabili, nonché a essere predisposte, misure di favore nei riguardi della partecipazione femminile a ogni ambito di interesse al fine di colmare il divario esistente, nel presupposto che esso origini da discriminazioni concrete. Tuttavia, non essendo consentita dall’ordinamento alcuna disparità di trattamento, forse a discriminazioni c.d. implicite si fa riferimento: ma su pregiudizi di tipo psicologico o culturale non è la legge che deve operare, perché essa non ha compiti di “ingegneria sociale”. Gli strumenti in forza dei quali incentivare la partecipazione delle donne alla vita politica, nonché al lavoro e ad altri settori in generale, sono diversi. Ancor più importante è rilevare come le misure suddette vengano introdotte senza che sia fissato un limite quantitativo o temporale volto a delimitarne la portata: norme attributive di vantaggi dovrebbero sempre essere funzionali al conseguimento di un fine predeterminato, raggiunto il quale perderebbero ogni ragione di operare. Ciò è essenziale in un ordinamento che trovi effettivo fondamento sul principio di eguaglianza sostanziale, tra gli altri; che faccia della trasparenza degli obiettivi da conseguire il metodo in base a cui operare; che sia in grado fondatamente di motivare le soluzioni prescrittive che sceglie di attuare. Ma con riguardo alle misure volte a colmare il divario tra sessi in ogni ambito sociale i criteri menzionati non sempre sembrano valere. Per cui non è dato sapere fino a quando si riterranno necessarie azioni di promozione in favore delle donne; qual è il limite oltre cui, finalmente, queste ultime non dovranno più essere considerate appartenenti a una specie da tutelare o, comunque, destinatarie di una sorta di rendita di posizione, come oggi accade; qual è l’obiettivo raggiunto il quale potrà reputarsi che la parità effettiva sia stata ottenuta. A tal fine, potrebbe giovare la fissazione di una specifica percentuale nelle assemblee parlamentari o in altri contesti dove si tenda al riequilibrio in argomento, ovvero un determinato limite temporale, come nella legge Golfo-Mosca, ad esempio. Altrimenti, si corre il rischio di applicare misure che, favorendo un genere, finiscono per tradursi nello svantaggio dell’altro e quindi in una discriminazione di risultato, senza che un obiettivo prefissato possa far ritenere conseguito il fine voluto, in mancanza di un termine chiaro e definito alle politiche così adottate. Il principio appena esposto trova espressa conferma nel CEDAW (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination against Women): l’art. 4, nel prevedere “misure temporanee speciali” finalizzate ad accelerare l’uguaglianza di fatto tra uomini e donne, dispone che esse non devono “assolutamente dar luogo al permanere di norme ineguali o distinte”, ma devono essere abrogate non appena raggiunti i loro obiettivi in materia di uguaglianza di opportunità e di trattamento.

Vi è ancora un ulteriore profilo che deve essere considerato. Esigenza attualmente oltremodo sentita è quella che si pervenga a una semplificazione normativa volta ridurre la regolamentazione particolareggiata di profili che possano essere demandati alla autodisciplina dei soggetti interessati. Quest’ultima consente talora di ottenere risultati anche migliori rispetto a quelli di prescrizioni di legge che, oltre a comprimere la libertà privata, appesantiscono l’ordinamento, aumentando la complicazione dello stesso con previsioni di dettaglio. Specificamente, disposizioni frutto di autoregolamentazione, se violate, possono indurre una perdita di stima reputazionale che produce un disvalore maggiore dell’applicazione di altre sanzioni. In materia di divario di genere, trattandosi di argomento “sensibile” nella percezione della collettività sociale, può ritenersi che questo effetto sarebbe amplificato (qui il tema era stato già affrontato). Pertanto, misure volte a garantire la parità tra i sessi, compresa una sistemazione alternata tra uomini e donne nell’ambito di liste bloccate, potrebbero essere predisposte da parte dei diversi partiti senza necessità dell’imposizione in via autoritativa. Il ricorso all’autodisciplina nella materia in esame viene auspicato dalla stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza del 1995: essa afferma che regole volte a colmare i divari in discorso, “costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare”. Nella menzionata sentenza, peraltro, la Consulta cita la risoluzione n. 169 del 1988 con cui il Parlamento europeo ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili, facendone scaturire la preferibilità di soluzioni diverse da quelle legislative al fine di ottenere il risultato voluto.

Può, quindi, concludersi che l’appello delle parlamentari da cui si sono prese le mosse non può essere condiviso, anche al di là dei profili di legittimità costituzionale sopra rappresentati. La continua richiesta di sanare il divario esistente mediante scorciatoie e corsie preferenziali rischia ancor più di relegare le donne nell’ambito di una “categoria protetta” a cui certi risultati vanno garantiti a causa di risorse “di genere” evidentemente per natura insufficienti, quindi inidonee a consentire loro di partecipare paritariamente a competizioni con esponenti del sesso opposto. Tale affermazione sembra essere aggravata dalla circostanza che, come visto, non viene di norma fissato alcun obiettivo o limite raggiunto il quale cessino le misure di favore predisposte: quasi che per il legislatore nazionale il disequilibrio non possa essere colmato, sì che i criteri di merito e valore essenziali per giudicare chi partecipi a una qualsivoglia competizione debbano ritenersi necessariamente sostituiti da quelli dell’appartenenza a un genere “ad libitum” svantaggiato. Affinché i pregiudizi culturali possano essere superati, preparazione e capacità personale rappresentano strumenti importanti per assicurare l’eguaglianza. Chiedendo indefinitamente che siano loro garantiti favori, le donne dimostrano di aspirare a una privilegiata differenza causata da carenza di migliori risorse: è bene pensarci.

 

 

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

30
Gen
2014

La lezione Fiat-Electrolux: al sindacato, ai media e a “Destinazione Italia”

C’è qualcosa di profondamente analogo in due vicende che riguardano il lavoro e che in questi giorni s’incrociano in Italia, anche se apparentemente una è storia di successo, l’altra di difficoltà estrema. Si tratta della nuova Fiat Chrysler Automobiles, e della  Electrolux. Entrambe chiedono al sindacato, ai lavoratori italiani e a noi tutti, di “cambiare la testa”. Entrambe sono un’evidente sconfessione delle promesse di “Destinazione Italia”, lanciato dal governo per attirare capitale estero e non farlo uscire dall’Italia.

Il nuovo marchio comune del settimo gruppo dell’auto mondiale, deciso ieri insieme alla sua prossima quotazione a New York, alla sua nuova sede legale in Olanda e a quella fiscale nel Regno Unito, è un trionfo perché sradica la Fiat – in quasi pre-default nel 2004 e nel 2008 – dalla sua debolezza nazionale ed europea, e grazie al risanamento del terzo gigante dell’auto americano conferisce a entrambi una dimensione mondiale. Mentre la multinazionale svedese degli elettrodomestici “bianchi” stenta a vedere un futuro per i suoi stabilimenti italiani, e ieri non ha convinto governo e sindacati al primo incontro congiunto. Eppure, entrambe le vicende portano al pettine lo stesso nodo: ciò che e’ necessario fare, per difendere lavoro e produzioni in Paesi avanzati, cioè ad alti costi di produzione, del lavoro, e dei diritti sociali connessi al nostro modo di vivere e alla nostra idea di civiltà.

Un’opinione che purtroppo gode di largo seguito – quando la crisi mette in ginocchio imprese e lavoro o, come nel caso italiano, un intero Paese – afferma che è la globalizzazione a essere ingiusta e inaccettabile, perché mette in concorrenza diretta i lavoratori a più alto costo delle nazioni avanzate, con quelli a minor costo delle nazioni emergenti. Non è affatto così, ma non si può neanche pretendere che la cosa risulti facilmente chiara a chi si trova personalmente esposto alla minaccia di perdere reddito e lavoro.

Dovrebbero invece essere le classi dirigenti di un Paese, imprese e sindacati, politica e media, a capire che esiste eccome il modo per difendere lavoro e impresa nei Paesi a più alti costi. A patto però di “cambiare la testa”, ognuno per la propria parte.

Chrysler e General Motors erano in ginocchio, nel 2007-2008, innanzitutto per i costi dei propri dipendenti non rispetto agli operai dell’auto in Cina, ma a quelli che lavoravano negli stabilimenti di altre aziende dell’auto negli stessi Stati Uniti. Poi la crisi finanziaria diede una botta mortale alla sostenibilità dei rispettivi debiti, innanzitutto di quelli pensionistici. Ma quando intervenne il governo federale, con pacchi di miliardi dei contribuenti americani – la Chrysler con Marchionne ha restituito tutto con gli interessi entro maggio 2011, in GM Obama ci ha rimesso più di 10 miliardi di dollari pubblici – l’esame dei costi comparati fu spietato. E il sindacato americano dell’auto, UAW, incalzato da Marchionne, pur di scommettere nell’unica opzione possibile per la difesa dell’azienda e del lavoro, accettò riduzioni tra retribuzione, pensioni e benefit, in un arco da 7 a 24mila dollari annui lordi. I neo assunti sarebbero stati pagati 14 dollari l’ora, rispetto ai 27 degli “anziani”, ai quali si tagliava la pensione. Del resto il sindacato metalmeccanico tedesco, IG Metall, aveva accettato nel 2004-2005 anch’esso tagli energici per i più giovani e blocco totale per tutti di premi e avanzamenti per tre anni, pur di impedire la delocalizzazione di stabilimenti del gruppo Volkswagen, dalla Germania in crisi verso l’Est Europa.

Come è evidente, in realtà non è affatto diverso da quel che ha proposto Electrolux. Gli svedesi non hanno proposto un taglio né del 50% né del 40% delle retribuzioni dei loro dipendenti italiani, come affrettatamente in troppi hanno detto e scritto, ma dell’8% delle retribuzioni nette e di poco più del 20% del trattamento complessivo, sommando lo stop ai premi, gli orari più contenuti e la maggior flessibilità nella turnazione. Eppure, c’è stata un’insurrezione generale. Si sono sprecate le invettive e i toni estremi, come di fronte a una provocazione inaccettabile, da vecchi padroni delle ferriere dickensiani.

Esaminiamo con freddezza i fatti. Il nostro Paese perde produttività in termini comparati da oltre vent’anni, e tra i paesi europei mediograndi ha un costo lordo del lavoro inferiore di poco solo a quello della Francia, non a caso divenuta essa, ora, il grande malato continentale. Ovviamente, a spingere così in alto il costo del lavoro non è la retribuzione netta che va in tasca ai dipendenti, inferiore a quella tedesca e francese. E’ il cuneo fiscale, la pesante pretesa fiscale e contributiva dello Stato. Che è pure cresciuta del 5% dal 2005, altro che scendere come tutti i governi hanno promesso di fare.

Nel breve termine, visto che lo Stato non si decide, i gruppi multinazionali non investono nella manifattura in Italia, come pure la sua elevata qualità meriterebbe ancora, e quelli che lo hanno fatto da molto tempo, come Electrolux, per non spostarsi altrove chiedono a dipendenti e sindacati la disponibilità a mettere in discussione l’unica componente dei costi fissi che nel breve si può abbassare. Cioè quella decisa da azienda e lavoratori.

E’ ingiusto, si dirà. Condivido. Sarebbe molto più logico che fosse lo Stato, ad abbassare la sua pretesa veramente fuor da ogni ragionevolezza, ad assumere decisioni capaci di abbassare il sovraccosto energetico, della logistica e dei trasporti, attraverso un mix energetico meno sussidiato e infrastrutture di rete più efficienti. Ma capite bene che finché lo Stato non fa nessuna di queste cose, finché lancia programmi-promessa come Destinazione Italia per attirare investimenti esteri ma che vengono totalmente smentiti dalle politiche pubbliche “reali”, esose e intromissive, l’alternativa per il sindacato è una sola: o sedersi al tavolo Electrolux e trattare anche retribuzione e premi, oppure dire di no a tutto, e accompagnare alla scomparsa altri stabilimenti e altre migliaia di posti di lavoro. Nel frattempo, se Fiat Chrysler sceglie la sede legale in Olanda e quella fiscale in Uk fa benissimo, è perché il diritto societario olandese e l’ordinamento tributario britannico battono i nostri: i governi italiani lo sanno da anni, ma fanno chiacchiere e promesse.

Un sindacato ragionevole e moderno sa per primo che la manifattura in Paesi a più alti costi si difende benissimo se tutti i fattori della produzione – il lavoro e il capitale, i brevetti e la tecnologia, gli input energetici e quelli dei servizi sia pubblici sia privati all’impresa – compongono insieme un mix a più alto valore aggiunto, rispetto a quello dei Paesi emergenti e a più bassi costi. E’ questa, la chiave per continuare a essere più ricchi nella  globalizzazione, che ha accresciuto di centinaia di milioni i possibili acquirenti esattamente di quel che noi qui siamo ancora capaci e bravi a fare. Altrimenti, si declina. Ma non è affatto un destino segnato, come insegna il grande malato tedesco a inizio degli anni Duemila, tornato in pochi anni di riforme in piena salute, e a un attivo commerciale sul Pil superiore a quello della Cina.

Un sindacato moderno non per questo deve dire sì a ogni richiesta dell’impresa. Deve trattare investimenti, difesa ed espansione dei livelli produttivi, vincolando i sacrifici nel breve alla crescita successiva. Esattamente come è avvenuto in Chrysler e in Volkswagen. Ma deve affiancarvi – insieme al mondo dei media e della cultura accademica e diffusa – un energico impegno per richiamare lo Stato a tutto ciò che in Italia non ha fatto in questi anni. Meno cuneo fiscale. Un’istruzione tecnica, secondaria e post secondaria, più vicina alle esigenze del lavoro italiano. Un sistema di incrocio tra domanda e offerta del lavoro meno indecente di quello attuale italiano, che intermedia a malapena il 2% del totale dei nuovi occupati e ri-occupati. Un codice del lavoro più snello e sfoltito di adempimenti burocratico-amministrativi, rispetto alle decine e decine di leggi accumulate nel tempo o ai 12 diversi adempimenti attualmente previsti per un solo contratto di apprendistato.

Impresa, sindacato e Italia civile, insieme, possono fare di più e in minor tempo per uno Stato meno nemico del lavoro, di quanto la politica da sola mostri di riuscire a fare. Ma, nel frattempo, sedersi e trattare contratti di solidarietà anche con meno retribuzione è sicuramente meglio che chiudere gli stabilimenti e diventare cassintegrati.

27
Gen
2014

Gobba a levante debito calante, gobba a ponente…

Il debito pubblico italiano che cala, in rapporto al Pil e persino in valore assoluto, seppure in un solo trimestre, è un fatto così raro che merita di ritornarci sopra a distanza di pochi giorni da un precedente post. In esso si metteva in guardia il lettore, invitandolo a non fidarsi delle apparenze, amplificate da quello che gli organi d’informazione andavano trionfalisticamente sostenendo. A ridursi nel terzo trimestre 2013 era stato infatti il debito pubblico lordo dell’Italia, così come definito dal trattato di Maastricht e rilevato trimestralmente dall’Eurostat a supporto della Commissione U.E. Al netto della liquidità disponibile del Tesoro, dei depositi presso la Banca Centrale, dei conferimenti ai meccanismi europei salvastati, quello che si può chiamare debito pubblico netto era invece tutt’altro che sceso. Purtroppo, con la sola rilevante eccezione del Foglio, nessun giornale ha ritenuto di dover ricordare ai suoi lettori che non è tutto oro quello che luccica.

Considerando che Eurostat riportava nella sua nota trimestrale l’andamento del debito pubblico sino a settembre 2013 e che invece, in base alla nota mensile sul debito e fabbisogno della Banca d’Italia, si può aggiornarne la dinamica sino a novembre, ecco rappresentate nel grafico sottostante le differenti dinamiche del debito lordo e di quello netto sino a tale mese.

image001

 

Cosa è successo dunque al debito italiano tra giugno e settembre 2013? Come già ricordato in precedenza:

  • Nella sua versione lorda esso è passato da 2.076,4 a 2068,7 mld., con una riduzione di 7,7 miliardi.
  • Nella sua versione netta è invece passato da 1.922,2 a 1.951,1 mld., con un incremento di 27,9 miliardi.

E tra settembre e novembre? In soli due mesi:

  • Il debito lordo è cresciuto di 35,4 miliardi (da 2.068,7 a 2.104,1 mld.).
  • Il debito netto è invece aumentato di 13,8 miliardi (da 1.950,1 a 1963,9 mld.)

Gli incrementi del debito netto, rapportati al numero di mesi in cui si sono verificati, appaiono decisamente maggiori rispetto alla media del precedente biennio/triennio, sicuramente per effetto dell’accelerazione da parte della P.A. del pagamento delle fatture pregresse. Se si considera l’intero triennio 20011-13, l’incremento medio mensile del debito netto è stato di 5,2 miliardi.

Questo dato ha importanti implicazioni in relazione al progetto di ‘privatizzazione’ del 40% di Poste Italiane. Considerando che i ricavi previsti dalla cessione oscillano tra i 4 e i 4,8 miliardi, nella prima ipotesi essi verrebbero bruciati in 23 giorni di funzionamento della P.A. italiana mentre nella seconda in 28 giorni.

 

27
Gen
2014

Quote rosa nelle liste elettorali? Il fine è giusto, il mezzo no.

Sulla legge elettorale tanto c’è da dire, tanto si è detto e tanto si dirà. Ma di fronte allo schieramento, compatto e trasversale, di senatrici e deputate che si sono sfilate le rispettive casacche politiche per convergere sull’importanza delle quote rosa nelle liste elettorali bisogna fermarsi un momento e riflettere. È un miracolo politico? No di certo. Anzi, dietro quella patina di giustizia e buonsenso che evocano termini come “uguaglianza” e “pari opportunità” si cela il perseguimento di fini giusti coi mezzi sbagliati: un classico del femminismo contemporaneo.

Scrivono le senatrici Fedeli (PD), Mussolini (FI) e Bianconi (NCD) che per rendere il principio della rappresentanza di genere nelle liste elettorali realmente efficace “è necessario introdurre un vincolo all’alternanza di genere uno a uno nelle liste e la medesima alternanza nei capilista”. Aggiunge la deputata Murer (PD) che “non basta garantire le candidature, bisogna garantire un equilibrio effettivo nella rappresentanza. Per questo ci vuole una norma stringente sull’alternanza di genere in lista o, nel caso delle preferenze, di una norma sulla doppia preferenza di genere. Poi ci vuole un pronunciamento chiaro sui capilista; anche in questo caso deve essere garantita alternanza e parità”. Un appello condiviso da numerose altre deputate di quasi tutti gli schieramenti politici.

Il punto di partenza del ragionamento, oltre che quel presunto senso di giustizia già citato, è l’art. 51 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” e “a tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Qui, tuttavia, si parla di pari opportunità a monte, cioè della possibilità di essere eletti senza discriminazioni basate sul sesso. E ci mancherebbe. Il risultato perseguito con le quote rosa (a maggior ragione se il meccanismo viene esteso a ogni singola lista elettorale e ai capilista), però, presuppone una certezza che, invece, è ingiustificabile.

Sul tema, peraltro, era già intervenuta la Corte Costituzionale quando, nella sent. 422/1995 sull’introduzione di quote elettorali nelle elezioni comunali, aveva dichiarato che “misure quali quella in esame (…) non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

Come spesso accade, la politica tenta di risolvere un problema culturale con strumenti normativi. Con risultati controproducenti, perché le donne elette dovranno (come già in parte accade) superare il sospetto che siano lì non per la loro competenza, ma per obbligo di legge. Di essere, cioè, solo dei tappabuchi e non, invece, esempi di coraggio, professionalità e buone idee politiche. Il punto è che le quote rosa sviliscono la meritocrazia e non risolvono il problema, anzi, lo alimentano. Per un esempio a livello locale, si veda cos’è successo nelle ultime elezioni provinciali di Trento.

Paradossalmente, le discriminazioni nascono proprio dai tentativi di tutelare determinate categorie sociali. Al giorno d’oggi, per fortuna, nessuno si sognerebbe di escludere determinate categorie dalla vita politica e di impedire loro di partecipare alle elezioni. Ma la conclusione non è che, essendo le donne il 51% della popolazione, vada riconosciuto loro diritto alla stessa rappresentanza all’interno del Parlamento. Perché, altrimenti, esigo che nelle liste elettorali vengano rappresentati anche il 2% di Musulmani, il 2.4% di omosessuali e il 4.8% di disabili italiani. E chi più ne ha più ne metta. Si tratta di categorie perfino più deboli di quella femminile, anche numericamente (e quindi politicamente): come mai nessuno propone quote loro riservate?

Twitter@glmannheimer

 

 

27
Gen
2014

Bitcoin: una previsione pessimista—di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Dopo i bitcoin creati da un anonimo nel 2009 è stato un profluvio di cripto valute: Litecoin, Namecoin, PPcoin, Terracoin, Ixcoin, Devcoin, Freicoin ecc. il cui mercato è arrivato a superare dieci miliardi di dollari. Un risultato che ha aperto l’orizzonte su un nuovo mondo di transazioni basato su una moneta universale, decentralizzata, democratica, non manipolabile, indipendente da banche centrali, indicatori macroeconomici, anonima e soprattutto immune dalle esazioni arbitrarie dei governi. Tuttavia dopo molto battage pubblicitario c’è ancora incertezza circa la loro identità. Si tratta di denaro o qualcos’altro? Quale sarà la loro evoluzione? Vediamo di scoprirlo.

Read More

25
Gen
2014

Poste e l’aiuto di Stato: il risparmiatore beffato

Siamo nel 2016 e Poste è appena stata sanzionata dalla Commissione Europea per aiuti di Stato. Appena due anni dopo la privatizzazione, che di fatto privatizzazione non fu, una sentenza durissima per il colosso italiano che da’ lavoro ancora a quasi 150 mila dipendenti.

Il presidente, come al solito in quota CISL, è esterrefatto di questa decisione che proprio non comprende. L’amministratore delegato si dice indignato, mentre i quarantenni al Governo si dicono profondamente contrari alla decisione della Commissione Europea.

La gestione continua ad essere pubblica e i sindacati continuano ad avere un peso inusitato, come succede ormai da decenni, nonostante la presenza di privati.

L’azienda non ha effettuato nessuna ristrutturazione, per acquisire una maggiore redditività e gli utili continuarono a scendere nel corso degli anni.

Una decisione invece che si poteva prevedere. Non era allora un caso che il Prof. Ugo Arrigo nell’indice delle liberalizzazioni aveva puntualmente bocciato la concorrenza mancante del mercato postale. Read More

25
Gen
2014

Poste, un errore colossale anche se piace a quasi tutti

Ieri il Consiglio dei ministri ha varato l’inizio del piano-privatizzazioni annunciato ai mercati da Letta e Saccomanni nell’ultimo trimestre. Si comincia con la cessione del 40% di Poste, e fino al 49% di Enav. A giudizio dei più, considerando quel che si è letto e detto sui media in queste settimane, è un fatto molto positivo, un primo cambio di passo nell’operatività di un governo trascinato nella polvere da 9 mesi di strazio sulla vicenda Imu. Chi qui scrive la pensa diversamente, e torna ai spiegarne il perché. Senza nascondere gli aspetti positivi, quando ci sono e per quelli che sono.

Innanzitutto, queste “non” sono privatizzazioni. Lo ricorda anche Massimo Riva su Repubblica, anche se dal suo punto di vista non è detto che sia un male. Privatizzare significa cedere il controllo proprietario. Il governo ha deciso di procedere mantenendo il controllo delle società il cui capitale “apre” ai privati, nel caso di Poste quotandola, nel caso di Enav vedremo se aprendo a fondi d’investimento o soggetti specializzati nel settore aereo. Lo Stato non “cede” un bel nulla, ma chiede capitale a privati che non comanderanno né gestiranno.

Come aspetto positivo, c’è senza dubbio il fatto che l’ingresso in elevata quota del capitale di privati aumenta la disciplina finanziaria e l’efficienza. Tuttavia un enorme letteratura consolidata nel tempo attesta che i benefici veri si ottengono nei casi in cui si privatizza, non quando si chiede capitale privato ma si continua a gestire. Quando è lo Stato a nominare i manager, ed èp lo Stato italiano in mano ai partiti, decenni di esperienza italiana dovrebbero averci stradimostrato a sufficienza i mali che si ingenerano e perpetuano. Il governo attuale dovrà nominarne un centinaio tra poche settimane, a Eni, Enel, Finmeccanica e anche alle Poste. Di Sarmi, il capoazienda postale, Repubblica scrive che “vanta un grosso credito verso l’attuale esecutivo, dopo l’investimento nel salvataggio Alitalia può aspirare a qualsiasi carica”. Ecco, è esattamente la ragione per cui in Italia bisognerebbe applicare radicalmente quel che diceva Lady Thatcher: in uno Stato in cui di mercato ce n’è poco e prevalgono altre logiche, per creare il mercato va rimosso lo Stato dal mercato proprietario. Sante parole, ma da noi lo Stato cioè i partiti mutano i panni, non dismettono il comando.

Tra parentesi: le privatizzazioni societarie non servono ad abbattere il debito pubblico. A quel fine sarebbe utile smobilizzare l’enorme patrimonio immobiliare pubblico: quello dismissibile vale oltre 300 miliardi di euro, ma lo Stato non lo fa. Cedere asset mobiliari significa invece aumentare l’efficienza economica delle società e la trasparenza delle loro strutture di governance, accrescere la concorrenza nel mercato e per il mercato, innalzare l’efficienza e la redditività del mercato finanziario in quanto tale.

Tuttavia è anche vero che quando lo Stato controlla il 100%, come avveniva sin qui per Poste e per Enav, bisogna pur cominciare e non è detto che se non si cede il controllo alla prima apertura del capitale a privati, non lo si faccia poi successivamente. Il ministro Saccomanni ieri ha detto che per poste “si comincia” col 40%. Diamogliene atto, e vedremo se il tempo confermerà che poi si procede o darà ragione a chi, come me, ne dubita molto. In realtà, occorrerebbe un mutamento politico degli indirizzi del paese. Oggi, semplicemente, non è alle viste. La destra non ha privatizzato nella, con Berlusconi.

Capisco che il lettore a questo punto obietterà. Ma che dici, non ti è bastato l’esempio delle tante privatizzazioni – l’Italia ne ha fatte per 157 miliardi di euro tra metà anni ’80 e il 2012 – che si sono rivelate deludenti, con gestioni come quella di Alitalia o di Telecom? Ottima osservazione. Che infatti spiega i dubbi – non solo miei, accademici come Ugo Arrigo e Nicola Rossi, l’Istituto Bruno Leoni, alcuni parlamentari come Linda Lanzillotta – sulle operazioni decise ieri.

Che cosa dimostra, l’esperienza alle nostre spalle? Che bisogna distinguere la natura di ciò che si cede, prima di aprirne il capitale o di affidarne la gestione a privati. Quando si tratta di società che operano in regime di monopolio dichiarato o mascherato, quando godono di un regime di vantaggio normativo o regolamentare, quando beneficiano di sussidi pubblici in ragione della propria pretesa mission o a sostegno del proprio conto economico o patrimoniale, allora prima di privatizzare bisogna fare un’altra cosa. Si deve “liberalizzare”: sciogliere e risolvere la tutela pubblica di cui quella società ha goduto, eliminarne i sussidi diretti o incrociati. Altrimenti, la privatizzazione si riduce in un trasferimento a privati di una rendita. E’ quello che è avvenuto concedendo all’Alitalia “privata” sostegni e ammortizzatori negati ad altre imprese, ed eccezioni alla concorrenza su tratte come la Milano-Roma. E’ quello che continua a succedere coi concessionari autostradali, finché la formula con cui il ministero calcola gli aumenti di tariffa resterà – chissà perché, ma è così – segreta invece che pubblica, e col risultato che a ogni spirar di vento i politici di turno intervengono discrezionalmente sulle tariffe oppure, come Lupi oggi, promettono “sconti” ai pendolari (apparentemente ragionevole, in realtà insensato).

Ecco, è esattamente questo l’errore commesso decidendo di quotare Poste così com’è oggi: cioè un enorme conglomerato di attività diverse, purtroppo fortissimamente caratterizzato da aree di tutela normativa, sussidi diretti e sussidi incrociati. Prima bisognava liberalizzare: sarebbe stato un percorso più lungo, ma più efficace. Collocare in Borsa“Poste così com’è” è sbagliato, per 4 ragioni.

Primo. Poste oggi è una somma di attività diverse, fino alla telefonia, il trasporto aereo, la telematizzazione della PA, ma il più del suo fatturato e tutti i margini vengono dalle attività finanziarie, la raccolta di BancoPoste e quella di PosteVita. Dal servizio postale, vengono solo 4,6 miliardi di fatturato su 24, nel 2012. Tutti i maggiori collocamenti sul mercato di aziende postali europee, nei decenni alle spalle, sono avvenuti separando le attività, nei casi in cui all’origine – come quello di Deutsche Post – alle consegne postali si si sommavano attività di raccolta del risparmio e assicurative. PostBank venne separata da Deutsche Post e ceduta integralmente alla banca privata Deutsche Bank. Royal Mail, appena collocata sul mercato con enorme successo a Londra, non aveva attività di questo tipo.

Secondo. Il motivo per cui occorreva separare è che sin qui rete postale e attività finanziarie hanno vissuto di sussidi incrociati, ritardando la liberalizzazione postale da una parte – vedi gli innumerevoli richiami negli anni venuti dall’Autorità Antitrust, anche quando a presiederla era Catricalà oggi al governo, e che sembra essersene dimenticato – e impedendo a BancoPosta la piena licenza bancaria: per evitare l’insurrezione del sistema bancario italiano privato da una parte, e una ovvia infrazione europea dall’altra. E’ grazie al redditivo pilastro finanziario, che Poste Italiane non si è incamminata sulla via di diventare un vero grande operatore logistico italiano e internazionale, come hanno fatto le consorelle tedesca e olandese, con Dhl e Tnt. Ma quotando tutto insieme l’errore si eterna e l’elevato rischio dell’infrazione non si evita.

Terzo. A maggior ragione la separazione degli asset andava fatta perché sin qui Poste ha ottenuto quasi un miliardo di euro l’anno dallo Stato a sostegno della sua gestione previdenziale, assai pingue nei trattamenti garantiti in passato. Royal Mail era in condizioni analoghe ma ha dovuto risolvere il problema prima di quotarsi, su intimazione europea, e a maggior ragione l’infrazione europea scatterà se Poste viene quotata senza risolvere il problema che ha in pancia.

Quarto. Societarizzare i diversi business di Poste come premessa per la quotazione – sin qui Banco Posta è solo contabilmente distinto dai servizi postali – non avrebbe affatto diminuito il valore complessivo dell’azienda. Al contrario avrebbe fatto emergere valore, e ne avrebbe dato uno autonomo alla rete territoriale postale – la più diffusa in Italia, con 13.600 agenzie – come piattaforma multiservizi.

Al contrario, quotare il 40% com’è oggi per incassare 4 miliardi in pochi mesi, crea le premesse per enormi conflitti d’interesse, su cui giocoforza i concorrenti domestici e continentali attiveranno le istituzioni europee. Per alzare più soldi nel breve, il governo fa passare il contratto di Poste con Cdp – a cui va la raccolta postale per gli impieghi istituzionali della cassa – da annuale a triennale o quinquennale, per alzare il valore della conglomerata. Ma quel contratto non è nient’altro che la piena garanzia pubblica sulla raccolta di Poste, piena garanzia pubblica che è negata agli intermediari privati concorrenti, finanziari e assicurativi.

Non stupisce, che il governo abbia deciso di riservare al mercato un 30% del capitale, e di “regalarne” – vedremo se sarà così, il comunicato di ieri è vago – un 10% ai 145 mila dipendenti. E’ un’idea buona la partecipazione dei dipendenti al capitale, ma nel più dei casi in cui è avvenuta l’attribuzione delle azioni è avvenuta a sconto del prezzo riservato al mercato, non gratis. Se fosse un regalo servirebbe invece a tacitare i dubbi sindacali, a “comprare” consenso.

Su tutti questi temi, il parlamento – nelle procedure previste dallenorme sulle privatizzazioni – dovrebbe alzare una voce. Sono critiche devastanti? No, sono quelle dettate dagli errori commessi in passato.

Bisogna tuttavia riconoscere che nel caso dell’ENAV il governo è più coraggioso. Le privatizzazioni vere nel mondo delle società che gestiscono l’assistenza al volo sono poche, naturalmente eccezion fatta per quella sotto Reagan in America e quella in Gran Bretagna sotto la Thatcher.. Nel caso dell’ENAV, rimesso in ordine dal commissario e e poi amministratore unico Massimo Garbini, un 49% privato ne rafforzerà la proiezione internazionale già iniziata con la gara vinta a Dubai e a Kuala Lumpur e acquisendo una quota di Aireon negli Usa.

Ma su Poste lo Stato tiene troppo ai 360 miliardi di raccolta delle Poste per la sua Cassa Depositi e Prestiti. Magari perché questa poi ripubblicizzi aziende privatre per intero o a pezzi, come già ha fatto e sta facendo.