6
Feb
2014

Tra tela di Penelope e rattoppo: gli incarichi di vertice negli enti pubblici.

Il legislatore nazionale emula Penelope, mentre fa e disfa norme che perseguono i medesimi intenti alla stregua della ben nota tela, ma senza troppa coerenza. A ogni nuova tessitura egli ribadisce l’interesse per il fine perseguito, ancorché in precedenza variamente vanificato, forse a causa di elementi contingenti che variano al variare dei Governi. Così l’ordito già tessuto viene successivamente sfilato da coloro il cui operato segue un’altra trama. La dinamica suddetta è della massima evidenza in materia di incompatibilità e conflitto di interessi nell’esercizio di cariche in ambito pubblico o ad esso connesso, temi oltremodo delicati nel nostro ordinamento.

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4
Feb
2014

Roma, le alluvioni, lo Stato che fa tutto tranne l’essenziale. Modesta proposta di un’Agenzia per il Ripristino Territoriale

Gli immensi danni prodotti dalle piogge battenti di questi giorni sono sotto i nostri occhi. Roma, Toscana, Sicilia, Liguria, Veneto. Settimane prima l’Emilia, già messa in ginocchio dal sisma di due anni fa. Dovunque danni immensi a persone e cose, imprese e lavoro, strade e ponti, edifici e ferrovie, monumenti e beni archeologici. Roma, da Prima Porta a Fiumicino, per larghi tratti del Tevere, prima e dopo gli alti argini umbertini, ridotta a una risaia del Mekong. Centinaia di famiglie che hanno perso tutto, il prefetto che invita a non recarsi nella Capitale.

Di fronte a tutto ciò, questo editoriale intende lanciare una semplice proposta. Una proposta avanzata da un liberista diffidente dello Stato, convinto però che lo Stato debba svolgere bene le sue poche funzioni essenziali, invece di occuparsi – come fa in Italia – di una miriade di cose improprie. Senza perdersi in giri di parole sull’incuria patologica per decenni degli assetti idrogeologici dell’intero paese, e sul contributo negativo apportato dall’abusivismo. Senza nascondersi dietro pareri diversi sul global warming e il suo impatto. Senza aggiungere altre osservazioni vane sulla moltiplicazione di competenze burocratiche che fa sì che il drenaggio del letto di un fiume, la manutenzione dei suoi argini, e il drenaggio e la tenuta dei terreni circostanti, appartengano nel nostro ordinamento a una miriade di autorità diverse, e distinte per diversi ambiti.

Le calamità in questo inizio secolo si ripetono ormai con frequenza annuale. Ed è evidente a tutti che la politica e le istituzioni non ne manifestano, sinora, la consapevolezza che dovrebbero assumerne: di risorse adeguate agli interventi necessari, di una nuova definizione istituzionale delle competenze, sia per la prevenzione, sia per gli interventi d’emergenza.

Diciamolo chiaro: a Roma in questi giorni è stato evidente, che di fronte alla gravità di quanto avveniva occorreva ricorrere all’Esercito, perché le istituzioni locali non erano in grado di misurarsi con gli eventi. E, sia detto per inciso, non sono certo i 10 milioni stanziati ieri dal sindaco Marino e dalla giunta capitolina per i primi interventi d’emergenza, a poter rappresentare una risposta adeguata, o a manifestare che la consapevolezza del ritardo pluridecennale finalmente convince la politica a cambiare passo.

Si dirà che emergenze e calamità, come in questo caso, sono già previste dalle leggi nazionali vigenti come evenienza per sbloccare i fondi negati alle Autonomie Locali per il Patto di Stabilità Interno. Vero, ma anche azionando questa leva, come puntualmente immaginiamo verrà disposto per Roma e non solo per Roma, comunque non ci siamo. Resteremmo lontani per multipli, dalle cifre che sono necessarie.

Riconsideriamo per un momento le dotazioni finanziarie appena stanziate con la recente legge di stabilità. Al fondo della Protezione Civile, 50 milioni di euro. Complessivamente 180 milioni per la tutela del suolo, di cui 30 per il 2014, 50 per il 2015 e 100 per il 2016, affinché si giunga a opere cantierabili entro fine 2014 e autorizzate dal CIPE. Per la tutela e gestione delle risorse idriche, una dotazione di 10 milioni per il 2014, 30 per il 2015 e 50 per il 2016. Un Fondo di 30 milioni per il 2014 e altri 30 nel 2015 per un piano straordinario di bonifica delle discariche abusive. A fronte di 400 milioni entro il 2017 al MOSE di Venezia, 1,3 miliardi a L’Aquila entro il 2015. E’ evidente dal confronto tra queste cifre, che la politica si limita a inseguire i disastri già avvenuti anni fa, e sfociati in mille polemiche. Ma, di risorse ordinarie adeguate allo sforzo gigantesco necessario per la messa in sicurezza dei fiumi e dei suoli, la politica non riesce a reperirne nella gestione ordinaria di bilancio. Né possiamo immaginare che davvero la risposta possa venire dalla gestione ordinaria dei pur oltre 110 miliardi di fondi europei a diverso titolo riservati all’Italia nei prossimi 7 anni, di cui 54,8 cofinanziati nazionalmente: anche se su una parte non secondaria di questa ricca posta potrebbe essere indirizzata, al fine di opere infrastrutturali utili non solo di completamento degli assi di trasporto, ma alla tutela del territorio.

In realtà al governo Letta si offre un’occasione, nel disastro di questi giorni. Perché non mettere rapidamente mano a una quantificazione d’emergenza delle molte decine di miliardi necessarie a un piano nazionale pluriennale di interventi idrogeologici di assoluta emergenza, e troppo a lungo rinviati? Perché non pensare a un’Agenzia incaricata di recuperare in pochi anni i più gravi ritardi, coordinando con procedure spedite le troppo frazionate competenze amministrative e le risorse private e delle imrpese, ma con una dotazione finanziaria propria e aggiuntiva, rispetto a quella dei risicati bilanci delle Autonomie e Agenzie Regionali all’Ambiente, Autorità di bacino e consorzi di bonifica?

Certo, lo sappiamo benissimo: serve un ok europeo. Ma non sarebbe questa, l’idea cioè di un’Agenzia Nazionale per il Ripristino Territoriale, qualcosa di equivalente a quella Tennessee Valley Authority di Roosevelt, di cui da sempre si riempiono la bocca i nostalgici keynesiani, che in realtà vogliono non solo quella ma lo Stato dovunque? Ecco, in Italia abbiamo lo Stato dovunque, ma NON dovrebbe dovrebbe essere.

Chi qui scrive è notoriamente diffidente delle pesanti intromissioni pubbliche nel mercato. Ma non si tratta di ottenere l’ok europeo a fondi pubblici aggiuntivi perché lo Stato decida lui in quale settore industriale investire o a chi discrezionalmente dare sussidi e a chi negarli. Qui si tratta di un compito essenziale di ogni Stato, anche di quello minimo come a me piacerebbe: argini e corsi dei fiumi, sicurezza dei declivi e delle aree urbanizzate, bonifiche e drenaggi, sicurezza di abitati e strade, ponti e ferrovie. Facciamo allora tornare lo Stato ai suoi compiti veri che trascura, mentre su tutti gli altri non cambierò mai idea e resterò in minoranza a criticare l’iperstatalismo italiano.

Mi si potrà dire: figuriamoci, è un compito troppo vasto, l’Europa non ci permetterà mai di poter contare su 1 o 2 punti di Pil di risorse pubbliche aggiuntive a questo fine. Ma non è così, se il progetto è serio e se le procedure fossero attentamente invigilate anche direttamente dall’Europa, tenendo alla larga i mille scandali italiani su gare e forniture, corruzione e bustarelle. Il rischio dell’ennesimo carrozzone pubblico è molto alto: ma se siamo rassegnati a questo, allora smontiamolo questo mostro di Stato sant’Iddio, invece di tenercelo com’è, pesantissimo dove ci rapina e tragicamente inefficiente dove serve. Bisogna crederci, nella necessità di non ritrovarci in ginocchio, ogni inverno, a piangere morti e crolli, alluvioni e disastri. Dipende solo da noi, fare ciò che per tanti anni non è stato fatto. E non fermarci alle mille polemiche del giorno dopo, dimenticate dopo un mese, per ritrovarci ogni anno punto e daccapo.

 

4
Feb
2014

Quando l’anticorruzione moltiplica la burocrazia—di Lorenzo Castellani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Castellani.

La legge 190/2012 ha introdotto l’obbligo per gli enti locali di adottare entro il 31 Gennaio 2014 un piano triennale anti-corruzione con l’obiettivo di prevenire il verificarsi dei fenomeni corruttivi. All’interno dei piani triennali anticorruzione dovranno essere individuate le aree a rischio e per ciascuna di essa gli interventi per ridurre i rischi, programmare le iniziative di formazione, individuati i referenti e i soggetti tenuti a relazionare al responsabile della prevenzione. Per ciascuna delle misure previste nel Piano, dovrà essere individuato il responsabile ed il termine dell’attuazione, prevedendo le modalità e i tempi d’attuazione delle altre misure a carattere generale contenute nella l. 190/2012 e introdotto un sistema disciplinare che includa le sanzioni per i casi d’illecito. Dovranno, inoltre, essere definite misure per l’aggiornamento e monitoraggio del Piano adeguando i sistemi informativi per gestire i corrispondenti flussi d’informazione.

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1
Feb
2014

L’incredibile qualità di Poste Italiane

Gli italiani sono purtroppo inconsapevoli dell’eccezionale livello qualitativo del recapito di Poste Italiane. Una performance in grado di far impallidire la neo quotata Royal Mail assieme alla gigantesca Deutsche Post oltre che di lasciare al palo La Poste francese, il servizio postale del paese a più antica tradizione di capacità organizzativa del settore pubblico.

La qualità del recapito italiano risulta infatti ai vertici tra tutti i paesi europei di grande superficie geografica, questo dicono le fonti ufficiali, ed è superata solo in paesi di medie o piccole dimensioni. Ad esempio in Lussemburgo e in Svizzera il 98% delle lettere viene consegnato il giorno dopo la spedizione, ma portare le lettere da Aosta al Salento o da Bolzano a Trapani è un po’ più complesso che farlo nel Granducato o tra Zurigo a Ginevra.

Non solo la qualità del recapito italiano è migliore rispetto a tutti i paesi di dimensione comparabile ma essa batte con facilità anche paesi di più modeste dimensioni come il Belgio, la Danimarca e persino l’Olanda della privatizzata TNT che l’Indice delle Liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni classifica da molti anni ai vertici dei paesi europei liberalizzati. E questo nonostante sia molto più facile portare la posta da Amsterdam all’Aia e da Bruxelles ad Anversa che da Trieste in giù…

Vediamo allora questi dati così favorevoli al nostro paese che purtroppo i consumatori si ostinano a ignorare, tratti dallo studio “Main Developments in the Postal Sector (2010-2013)”, redatto da Wik-Consult per la Commissione dell’Unione Europea e pubblicato ad agosto 2013.

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Come si può vedere, dopo il già citato Lussemburgo che non è tuttavia comparabile con gli altri paesi, la qualità postale più elevata risulta garantita nell’Unione Europea dalle poste austriache le quale recapitano il 96% delle corrispondenze il giorno successivo alla spedizione.  Subito dopo le poste austriache si collocano con performance praticamente identica tre imprese tra cui Poste Italiane.

Le nostre poste consegnano il 95% delle missive che inviamo o che ci vengono spedite entro il giorno successivo alla spedizione! E’ la stessa performance delle poste svedesi. Lo avreste mai sospettato? Inoltre, poiché l’azienda postale che serve la Svezia copre anche la Danimarca e in Danimarca il livello qualitativo è lievemente inferiore, se valutiamo la performance a livello di azienda anziché a livello di paese Poste Italiane risulta battere persino PostNord AB. Per non parlare dell’azienda olandese, che è un punto al di sotto pur servendo un paese piatto, densamente popolato e grande solo una frazione dell’Italia; o di Deutsche Post e Royal Mail che sono due punti al di sotto e La Poste, ben sette punti percentuali sotto di noi. Correos spagnola, infine, non l’abbiamo neppure riportata nel grafico dato che registra un misero 70,5% contro il nostro 95%!

Purtroppo i consumatori italiani non credono in questa altissima performance di Poste Italiane, giornali diffidenti ritengono che non sia vera  mentre altri continuano a riempire le pagine con notizie di disguidi e disservizi, taluni anche molto gravi. E Poste Italiane non fa cenno alcuno a questi risultati straordinari sul suo sito web, neppure nella pagina relativa al prodotto al quale la rilevazione della qualità si riferisce.

Possibile che abbiamo a disposizione in Italia una Ferrari del recapito e che l’azienda, in procinto di essere collocata in Borsa, lasci che i suoi consumatori continuino a credere che sia una Trabant della defunta DDR? Eppure si tratta di dati certificati dal regolatore del mercato postale, da un paio d’anni l’AGCOM-Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che è competente per la definizione degli standard di qualità e il relativo controllo. Sono dati per la cui raccolta sembra che le casse pubbliche spendano 1,2 milioni di euro…

1
Feb
2014

Addio Giorgio Stracquadanio

Ieri sera è scomparso Giorgio Stracquadanio. E’ una grande perdita per tutti noi e, in qualche modo, l’omaggio che tanti gli hanno reso sui social network ne è testimonianza. Lo è anche nel carattere polarizzante dei ricordi. Giorgio non era uno che “lo odi o lo ami”: si divertiva a farsi detestare, ma chi lo conosceva non poteva non amarlo.

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31
Gen
2014

Differenza indefinitamente privilegiata.

A volte sorge il dubbio che l’appartenenza al genere femminile venga reputata da talune donne quasi una differenza “privilegiata”, idonea cioè a conferire prerogative che debbano essere legislativamente garantite e non effettivamente conquistate. L’argomento è quello delle c.d. quote rosa nelle liste elettorali, materia di attualità in questi giorni. Al fine di favorire l’equilibrio in ambito politico, la proposta di legge recentemente elaborata dispone, “a pena di inammissibilità”, che nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore al cinquanta per  cento e che, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, non possano esservi “più di due candidati consecutivi del medesimo genere”. Alcune parlamentari non hanno gradito le prescrizioni sopra riportate in quanto, pur sancendo la parità della presenza femminile e maschile nelle liste e, quindi, eguali possibilità di accesso, prevedono l’alternanza di due a due esponenti per sesso: un effetto finale realmente paritario in sede elettorale non sarebbe, pertanto, garantito. Le parlamentari suddette  chiedono misure idonee a incidere più decisamente sui risultati. Non hanno, forse, considerato che la Consulta si è già più volte espressa sul punto e, come si vedrà in prosieguo, pur cambiando nel tempo orientamento, seguendo la profonda evoluzione della materia delle pari opportunità sotto più di un profilo, ha tuttavia continuato a sostenere l’illegittimità di disposizioni che tendano a determinare esiti elettorali predefiniti in funzione del sesso di appartenenza.

La parità di genere è stata normativamente raggiunta ormai da tempo.  Alle donne è stato consentito il pieno esercizio di ogni diritto fondamentale, nonché lo svolgimento di professioni in precedenza precluse, facendosi cessare ogni discriminazione prima esistente. In aggiunta a tali azioni “positive”, anche la Costituzione è stata modificata al fine di incentivare azioni di “promozione” nei confronti di coloro le quali in passato erano state oggetto di disparità di trattamento a opera dell’ordinamento, oltre che a causa di fattori psicologico-culturali insiti in buona parte della collettività nel suo complesso. L’art. 117, comma 7, Cost., introdotto con la legge costituzionale n. 3/2001, ha previsto che le leggi regionali “rimuovono ogni ostacolo che impedisce a piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso (…) alle cariche elettive”. L’art. 51, comma 1, Cost., poi, che nella formulazione originaria si limitava a sancire l’eguaglianza alle condizioni di accesso alle cariche elettive, a seguito della legge costituzionale n. 1/2003 ha stabilito che a “tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La formulazione delle norme menzionate rende evidente che le stesse sono finalizzate a dare impulso alla presenza femminile in ogni ambito di interesse e non, invece, ad attribuire privilegi e vantaggi differenziati.

Sulla base delle disposizioni sopra richiamate la Consulta, nel pronunciarsi su specifici articoli della legge elettorale della Valle d’Aosta (sent. n. 49/2003) e della Campania (sent. n. 4/2010), ritenne che gli stessi, in quanto formulati in modo “neutro”, si limitassero a consentire la parità effettiva fra uomini e donne nelle cariche elettive mediante misure preordinate esclusivamente a favorire eguali opportunità nella competizione elettorale e non, invece, tendenti ad assicurare garanzie di risultato.  Le pronunce sopra menzionate si ponevano in contrasto con una precedente  (sent. n. 422/1995) nella quale la Corte, chiamata a sindacare la norma secondo cui nelle liste di candidati ai Consigli dei Comuni con popolazione fino a n. 15.000 “nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi” ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale. L’aveva, infatti, reputata discriminatoria in quanto non solamente finalizzata a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento da parte delle donne di determinati risultati, bensì idonea ad attribuire loro direttamente quei risultati e tale, pertanto, da “creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate”. Gli effetti della sentenza erano stati conseguentemente estesi a tutte le diverse norme contenenti “limiti, vincoli o riserve nelle liste di candidati in ragione del loro sesso”: tra le altre, quella della legge n. 277/1993 secondo cui le liste (bloccate) presentate ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale dovevano essere  formate da candidate e candidati in ordine alternato. Nonostante con le due citate sentenze successive la Corte abbia poi sovvertito quanto affermato nel 1995 e, quindi, consentito la previsione di quote nell’ambito delle liste elettorali, tuttavia essa ha mantenuto fermo il principio per cui le disposizioni preordinate al riequilibrio sono legittime solo se tali da non incidere “sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali”. Esse non possono, pertanto, tendere a predeterminare un risultato “di genere” in sede elettorale. Eppure, questo è l’obiettivo perseguito dalle parlamentari cui si faceva riferimento che, con l’appello formulato, hanno inteso riproporre quanto la Consulta, pur nell’evoluzione del proprio orientamento, ha continuato a ritenere non consentito. Esse hanno, quindi, reputato insufficiente la mera misura promozionale già contenuta nel testo presentato, volta a favorire pari opportunità di candidabilità e, quindi, di conseguenza, pari opportunità di eleggibilità, richiedendo invece norme tendenti a garantire alle donne la certezza del risultato. La soluzione così proposta non sembra tenere conto di altri criteri volti a valorizzare merito e preparazione del candidato. Si tratta di un profilo che è stato più volte affrontato (qui e qui qualche esempio): quote finalizzate ad attribuire posizioni rilevanti in relazione al genere di appartenenza e non ad altre competenze finiscono per ottenere l’opposto rispetto a una situazione di parità di condizioni di partenza idonee ad assicurare a esponenti di ambo i sessi le medesime chances di farsi valere. Questo era, peraltro, il senso delle pronunce della Corte Costituzionale: ma, al di là di esse,  altre considerazioni sembrano necessarie.

In Italia continuano a ritenersi auspicabili, nonché a essere predisposte, misure di favore nei riguardi della partecipazione femminile a ogni ambito di interesse al fine di colmare il divario esistente, nel presupposto che esso origini da discriminazioni concrete. Tuttavia, non essendo consentita dall’ordinamento alcuna disparità di trattamento, forse a discriminazioni c.d. implicite si fa riferimento: ma su pregiudizi di tipo psicologico o culturale non è la legge che deve operare, perché essa non ha compiti di “ingegneria sociale”. Gli strumenti in forza dei quali incentivare la partecipazione delle donne alla vita politica, nonché al lavoro e ad altri settori in generale, sono diversi. Ancor più importante è rilevare come le misure suddette vengano introdotte senza che sia fissato un limite quantitativo o temporale volto a delimitarne la portata: norme attributive di vantaggi dovrebbero sempre essere funzionali al conseguimento di un fine predeterminato, raggiunto il quale perderebbero ogni ragione di operare. Ciò è essenziale in un ordinamento che trovi effettivo fondamento sul principio di eguaglianza sostanziale, tra gli altri; che faccia della trasparenza degli obiettivi da conseguire il metodo in base a cui operare; che sia in grado fondatamente di motivare le soluzioni prescrittive che sceglie di attuare. Ma con riguardo alle misure volte a colmare il divario tra sessi in ogni ambito sociale i criteri menzionati non sempre sembrano valere. Per cui non è dato sapere fino a quando si riterranno necessarie azioni di promozione in favore delle donne; qual è il limite oltre cui, finalmente, queste ultime non dovranno più essere considerate appartenenti a una specie da tutelare o, comunque, destinatarie di una sorta di rendita di posizione, come oggi accade; qual è l’obiettivo raggiunto il quale potrà reputarsi che la parità effettiva sia stata ottenuta. A tal fine, potrebbe giovare la fissazione di una specifica percentuale nelle assemblee parlamentari o in altri contesti dove si tenda al riequilibrio in argomento, ovvero un determinato limite temporale, come nella legge Golfo-Mosca, ad esempio. Altrimenti, si corre il rischio di applicare misure che, favorendo un genere, finiscono per tradursi nello svantaggio dell’altro e quindi in una discriminazione di risultato, senza che un obiettivo prefissato possa far ritenere conseguito il fine voluto, in mancanza di un termine chiaro e definito alle politiche così adottate. Il principio appena esposto trova espressa conferma nel CEDAW (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination against Women): l’art. 4, nel prevedere “misure temporanee speciali” finalizzate ad accelerare l’uguaglianza di fatto tra uomini e donne, dispone che esse non devono “assolutamente dar luogo al permanere di norme ineguali o distinte”, ma devono essere abrogate non appena raggiunti i loro obiettivi in materia di uguaglianza di opportunità e di trattamento.

Vi è ancora un ulteriore profilo che deve essere considerato. Esigenza attualmente oltremodo sentita è quella che si pervenga a una semplificazione normativa volta ridurre la regolamentazione particolareggiata di profili che possano essere demandati alla autodisciplina dei soggetti interessati. Quest’ultima consente talora di ottenere risultati anche migliori rispetto a quelli di prescrizioni di legge che, oltre a comprimere la libertà privata, appesantiscono l’ordinamento, aumentando la complicazione dello stesso con previsioni di dettaglio. Specificamente, disposizioni frutto di autoregolamentazione, se violate, possono indurre una perdita di stima reputazionale che produce un disvalore maggiore dell’applicazione di altre sanzioni. In materia di divario di genere, trattandosi di argomento “sensibile” nella percezione della collettività sociale, può ritenersi che questo effetto sarebbe amplificato (qui il tema era stato già affrontato). Pertanto, misure volte a garantire la parità tra i sessi, compresa una sistemazione alternata tra uomini e donne nell’ambito di liste bloccate, potrebbero essere predisposte da parte dei diversi partiti senza necessità dell’imposizione in via autoritativa. Il ricorso all’autodisciplina nella materia in esame viene auspicato dalla stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza del 1995: essa afferma che regole volte a colmare i divari in discorso, “costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare”. Nella menzionata sentenza, peraltro, la Consulta cita la risoluzione n. 169 del 1988 con cui il Parlamento europeo ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili, facendone scaturire la preferibilità di soluzioni diverse da quelle legislative al fine di ottenere il risultato voluto.

Può, quindi, concludersi che l’appello delle parlamentari da cui si sono prese le mosse non può essere condiviso, anche al di là dei profili di legittimità costituzionale sopra rappresentati. La continua richiesta di sanare il divario esistente mediante scorciatoie e corsie preferenziali rischia ancor più di relegare le donne nell’ambito di una “categoria protetta” a cui certi risultati vanno garantiti a causa di risorse “di genere” evidentemente per natura insufficienti, quindi inidonee a consentire loro di partecipare paritariamente a competizioni con esponenti del sesso opposto. Tale affermazione sembra essere aggravata dalla circostanza che, come visto, non viene di norma fissato alcun obiettivo o limite raggiunto il quale cessino le misure di favore predisposte: quasi che per il legislatore nazionale il disequilibrio non possa essere colmato, sì che i criteri di merito e valore essenziali per giudicare chi partecipi a una qualsivoglia competizione debbano ritenersi necessariamente sostituiti da quelli dell’appartenenza a un genere “ad libitum” svantaggiato. Affinché i pregiudizi culturali possano essere superati, preparazione e capacità personale rappresentano strumenti importanti per assicurare l’eguaglianza. Chiedendo indefinitamente che siano loro garantiti favori, le donne dimostrano di aspirare a una privilegiata differenza causata da carenza di migliori risorse: è bene pensarci.

 

 

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

30
Gen
2014

La lezione Fiat-Electrolux: al sindacato, ai media e a “Destinazione Italia”

C’è qualcosa di profondamente analogo in due vicende che riguardano il lavoro e che in questi giorni s’incrociano in Italia, anche se apparentemente una è storia di successo, l’altra di difficoltà estrema. Si tratta della nuova Fiat Chrysler Automobiles, e della  Electrolux. Entrambe chiedono al sindacato, ai lavoratori italiani e a noi tutti, di “cambiare la testa”. Entrambe sono un’evidente sconfessione delle promesse di “Destinazione Italia”, lanciato dal governo per attirare capitale estero e non farlo uscire dall’Italia.

Il nuovo marchio comune del settimo gruppo dell’auto mondiale, deciso ieri insieme alla sua prossima quotazione a New York, alla sua nuova sede legale in Olanda e a quella fiscale nel Regno Unito, è un trionfo perché sradica la Fiat – in quasi pre-default nel 2004 e nel 2008 – dalla sua debolezza nazionale ed europea, e grazie al risanamento del terzo gigante dell’auto americano conferisce a entrambi una dimensione mondiale. Mentre la multinazionale svedese degli elettrodomestici “bianchi” stenta a vedere un futuro per i suoi stabilimenti italiani, e ieri non ha convinto governo e sindacati al primo incontro congiunto. Eppure, entrambe le vicende portano al pettine lo stesso nodo: ciò che e’ necessario fare, per difendere lavoro e produzioni in Paesi avanzati, cioè ad alti costi di produzione, del lavoro, e dei diritti sociali connessi al nostro modo di vivere e alla nostra idea di civiltà.

Un’opinione che purtroppo gode di largo seguito – quando la crisi mette in ginocchio imprese e lavoro o, come nel caso italiano, un intero Paese – afferma che è la globalizzazione a essere ingiusta e inaccettabile, perché mette in concorrenza diretta i lavoratori a più alto costo delle nazioni avanzate, con quelli a minor costo delle nazioni emergenti. Non è affatto così, ma non si può neanche pretendere che la cosa risulti facilmente chiara a chi si trova personalmente esposto alla minaccia di perdere reddito e lavoro.

Dovrebbero invece essere le classi dirigenti di un Paese, imprese e sindacati, politica e media, a capire che esiste eccome il modo per difendere lavoro e impresa nei Paesi a più alti costi. A patto però di “cambiare la testa”, ognuno per la propria parte.

Chrysler e General Motors erano in ginocchio, nel 2007-2008, innanzitutto per i costi dei propri dipendenti non rispetto agli operai dell’auto in Cina, ma a quelli che lavoravano negli stabilimenti di altre aziende dell’auto negli stessi Stati Uniti. Poi la crisi finanziaria diede una botta mortale alla sostenibilità dei rispettivi debiti, innanzitutto di quelli pensionistici. Ma quando intervenne il governo federale, con pacchi di miliardi dei contribuenti americani – la Chrysler con Marchionne ha restituito tutto con gli interessi entro maggio 2011, in GM Obama ci ha rimesso più di 10 miliardi di dollari pubblici – l’esame dei costi comparati fu spietato. E il sindacato americano dell’auto, UAW, incalzato da Marchionne, pur di scommettere nell’unica opzione possibile per la difesa dell’azienda e del lavoro, accettò riduzioni tra retribuzione, pensioni e benefit, in un arco da 7 a 24mila dollari annui lordi. I neo assunti sarebbero stati pagati 14 dollari l’ora, rispetto ai 27 degli “anziani”, ai quali si tagliava la pensione. Del resto il sindacato metalmeccanico tedesco, IG Metall, aveva accettato nel 2004-2005 anch’esso tagli energici per i più giovani e blocco totale per tutti di premi e avanzamenti per tre anni, pur di impedire la delocalizzazione di stabilimenti del gruppo Volkswagen, dalla Germania in crisi verso l’Est Europa.

Come è evidente, in realtà non è affatto diverso da quel che ha proposto Electrolux. Gli svedesi non hanno proposto un taglio né del 50% né del 40% delle retribuzioni dei loro dipendenti italiani, come affrettatamente in troppi hanno detto e scritto, ma dell’8% delle retribuzioni nette e di poco più del 20% del trattamento complessivo, sommando lo stop ai premi, gli orari più contenuti e la maggior flessibilità nella turnazione. Eppure, c’è stata un’insurrezione generale. Si sono sprecate le invettive e i toni estremi, come di fronte a una provocazione inaccettabile, da vecchi padroni delle ferriere dickensiani.

Esaminiamo con freddezza i fatti. Il nostro Paese perde produttività in termini comparati da oltre vent’anni, e tra i paesi europei mediograndi ha un costo lordo del lavoro inferiore di poco solo a quello della Francia, non a caso divenuta essa, ora, il grande malato continentale. Ovviamente, a spingere così in alto il costo del lavoro non è la retribuzione netta che va in tasca ai dipendenti, inferiore a quella tedesca e francese. E’ il cuneo fiscale, la pesante pretesa fiscale e contributiva dello Stato. Che è pure cresciuta del 5% dal 2005, altro che scendere come tutti i governi hanno promesso di fare.

Nel breve termine, visto che lo Stato non si decide, i gruppi multinazionali non investono nella manifattura in Italia, come pure la sua elevata qualità meriterebbe ancora, e quelli che lo hanno fatto da molto tempo, come Electrolux, per non spostarsi altrove chiedono a dipendenti e sindacati la disponibilità a mettere in discussione l’unica componente dei costi fissi che nel breve si può abbassare. Cioè quella decisa da azienda e lavoratori.

E’ ingiusto, si dirà. Condivido. Sarebbe molto più logico che fosse lo Stato, ad abbassare la sua pretesa veramente fuor da ogni ragionevolezza, ad assumere decisioni capaci di abbassare il sovraccosto energetico, della logistica e dei trasporti, attraverso un mix energetico meno sussidiato e infrastrutture di rete più efficienti. Ma capite bene che finché lo Stato non fa nessuna di queste cose, finché lancia programmi-promessa come Destinazione Italia per attirare investimenti esteri ma che vengono totalmente smentiti dalle politiche pubbliche “reali”, esose e intromissive, l’alternativa per il sindacato è una sola: o sedersi al tavolo Electrolux e trattare anche retribuzione e premi, oppure dire di no a tutto, e accompagnare alla scomparsa altri stabilimenti e altre migliaia di posti di lavoro. Nel frattempo, se Fiat Chrysler sceglie la sede legale in Olanda e quella fiscale in Uk fa benissimo, è perché il diritto societario olandese e l’ordinamento tributario britannico battono i nostri: i governi italiani lo sanno da anni, ma fanno chiacchiere e promesse.

Un sindacato ragionevole e moderno sa per primo che la manifattura in Paesi a più alti costi si difende benissimo se tutti i fattori della produzione – il lavoro e il capitale, i brevetti e la tecnologia, gli input energetici e quelli dei servizi sia pubblici sia privati all’impresa – compongono insieme un mix a più alto valore aggiunto, rispetto a quello dei Paesi emergenti e a più bassi costi. E’ questa, la chiave per continuare a essere più ricchi nella  globalizzazione, che ha accresciuto di centinaia di milioni i possibili acquirenti esattamente di quel che noi qui siamo ancora capaci e bravi a fare. Altrimenti, si declina. Ma non è affatto un destino segnato, come insegna il grande malato tedesco a inizio degli anni Duemila, tornato in pochi anni di riforme in piena salute, e a un attivo commerciale sul Pil superiore a quello della Cina.

Un sindacato moderno non per questo deve dire sì a ogni richiesta dell’impresa. Deve trattare investimenti, difesa ed espansione dei livelli produttivi, vincolando i sacrifici nel breve alla crescita successiva. Esattamente come è avvenuto in Chrysler e in Volkswagen. Ma deve affiancarvi – insieme al mondo dei media e della cultura accademica e diffusa – un energico impegno per richiamare lo Stato a tutto ciò che in Italia non ha fatto in questi anni. Meno cuneo fiscale. Un’istruzione tecnica, secondaria e post secondaria, più vicina alle esigenze del lavoro italiano. Un sistema di incrocio tra domanda e offerta del lavoro meno indecente di quello attuale italiano, che intermedia a malapena il 2% del totale dei nuovi occupati e ri-occupati. Un codice del lavoro più snello e sfoltito di adempimenti burocratico-amministrativi, rispetto alle decine e decine di leggi accumulate nel tempo o ai 12 diversi adempimenti attualmente previsti per un solo contratto di apprendistato.

Impresa, sindacato e Italia civile, insieme, possono fare di più e in minor tempo per uno Stato meno nemico del lavoro, di quanto la politica da sola mostri di riuscire a fare. Ma, nel frattempo, sedersi e trattare contratti di solidarietà anche con meno retribuzione è sicuramente meglio che chiudere gli stabilimenti e diventare cassintegrati.