13
Feb
2014

L’arte del declino nel paese del non governo

Vi sono due standard, due fattori che più di ogni altro hanno stabilmente caratterizzato il nostro paese nell’ultimo quindicennio. Il primo è il declino, il secondo è il non governo. Ho intitolato questo post “L’arte del declino nel paese del non governo” ma anche “L’arte del non governo nel paese del declino” andrebbe benissimo.

Il declino può essere misurato quantitativamente attraverso la caduta del Pil pro capite dell’Italia relativamente ai paesi U.E. Read More

11
Feb
2014

L’autogol di mostrare i denti alla Svizzera, dopo il referendum, e il precedente a cui guardare

La vittoria di misura in Svizzera del referendum sulle quote per stranieri, a cominciare dai cittadini dell’Unione Europea, esprime il segnale di un’Europa dei forti che si chiude sulle sue nuove paure. Ma al contempo è un errore esacerbarne il significato, come è avvenuto ieri. Prendere di petto gi svizzeri sarebbe un grave errore.  Da parte italiana, poi, un clamoroso autogol.

Angela Merkel è stata cauta, ha detto di “prendere atto della volontà degli svizzeri”, ma ha aggiunto che “il risultato apre seri problemi”. Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, è stato secco: “rivedremo le relazioni con la Svizzera”. La Commissione Eeuropea, in una nota molto dura, ha ricordato che con la Svizzera sussistono 7 grandi accordi bilaterali sottoscritti nel 1999, sul libero movimento delle persone e delle merci, sui trasporti, agricoltura, ricerca, procedure di acquisto pubblico e altro ancora. E poiché sono legalmente interconnessi, se cade la piena libertà di movimento delle persone con l’area europea sono destinati a cadere tutti. Il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, ha aggiunto che “potremmo dover tornare alle pattuglie di frontiera ai confini, non posso credere che Berna volgia questo”.

Prima di precipitare le cose, forse è il caso di capire. Certo, a vincere è stata la destra populista. Ma i referendum e la democrazia diretta sono uno degli – invidiabili – pilastri della libertà della Svizzera, una libera confederazione che affonda le sua radici nel giuramento sul pratone di Gruetli, il 1 agosto 1291. La Svizzera è tra i paesi al mondo con la più alta percentuale di stranieri rispetto alla popolazione, il 23% su un totale di 8milioni, una proporzione pari a quasi tre volte quella italiana. Negli anno ’90, la Svizzera ha spalancato le porte a decine di migliaia di asilanti dal Kosovo, come a centinaia di migliaia tra immigrati albanesi, esteruropei, africani. Non è un caso che i sì nel referendum siano stati alti nei cantoni con meno immigrati. Dovunque nel mondo, anche da noi, l’avversione è più alta dove è più bassa l’integrazione.

Ma il problema non riguarda certo solo o particolarmente i 70 mila frontalieri italiani, dei quali più o meno metà artigiani e autonomi, e l’altra metà invece occupati in imprese svizzere o italiane trapiantate in Svizzera ma risiedendo in Italia, e coperti da un accordo di ristorno fiscale tra Canton Ticino e Comuni italiani di residenza che occorreva rinnovare prima del referendum, invece di attendere colpevolmente come l’Italia ha deciso di fare. Sono esattamente questi frontalieri, ora, che pagheranno il conto se l’Italia continuerà a fare la faccia adirata.

C’è un problema nella Svizzera tedesca che riguarda il numero crescente di tedeschi e austriaci che vi si spostano per esercitare professioni liberali, e che affollano le università svizzere, in particolare medicina non riuscendo a superare le barriere al numero chiuso nei loro paesi. E, naturalmente, c’è la pressione esercitata dall’aumento a doppia cifra dell’immigrazione da Grecia, Spagna e Italia, in questi ultimi due anni di eurocrisi. Di qui la paura che welfare e servizi pubblici non bastino ai nuovi arrivati, esattamente come a Londra il premier Cameron ha annunciato di voler tagliare il welfare britannico anche ai cittadini della Ue.

Tuttavia vediamo che cosa ora farà il governo di Berna, nel corso dei te anni a disposizione dopo il referendum per realizzare nuovi accordi con Bruxelles. Se davvero si dovesse pensare a rigidi permessi di lavoro individuali per ogni paese di provenienza, senza autorizzazione a portare al seguito le famiglie, non solo la Svizzera si porrebbe in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fino al punto di dover lasciare il Consiglio d’Europa. Ciò significherebbe un’enorme difficoltà per la Svizzera di continuare ad attirare elevate professionalità in campo banco-finanziario, e nel managament delle moltissime multinazionali che in Svizzera hanno sede. E’ largamente impensabile, che avvenga una cosa simile.

C’è un precedente. In realtà, se gli accordi maggiori tra Svizzera e Ue sono i 7 ricordati ieri dalla Commissione Europea, il totale delle intese vigenti sulle materie più minute supera il migliaio. Sono stati redatti come razionale strategia alternativa, dopo il no prevalso in un altro referendum svizzero, nel 1992, all’ipotesi di entrare nello Spazio economico europeo (dove per esempio si colloca la Norvegia). Fu una scelta di enorme ragionevolezza. Ed è esattamente quella che deve entrare in campo ora, tra Berna e noi dell’Unione Europea. Sono accordi di cui la Svizzera ha enormemente beneficiato. E anche i paesi dell’Unione europea seguirono, dopo quel referendum, una linea intelligente, abolendo asd esempio per i cittadini svizzeri le code negli aeroporti che altrimenti sarebbero state loro destinate insieme ad asiatici e africani. Il complesso economico banco-industriale elvetico queste cose le sa benissimo, tanto è vero che ha tentato di orientare il voto in senso opposto all’esito del referendum. Ma ha perso. E ora dovrà rimediare.

Ha contribuito al sentimento di isolamento antieuropeo anche la brutta botta portata a segno in questi ultimi due anni da Germania e Francia, al seguito degli Usa, contro il segreto bancario per decenni presidio della forza off shore degli intermediari elvetici. Solo dalle transazioni finanziarie relative alle commodities si genera ormai il 10% del Pil svizzero, in concorrenza con Singapore, Dubai e Hong Kong. Ed è per non perdere questa forza crescente che la Svizzera ha dovuto negoziare con americani e OCSE la disponibilità a protocolli bilaterali di coperazione anche in campo fiscale, basati sullo scambio di informazioni.

L’Italia proprio su questo ha commesso un errore. Protesa al successo dell’emersione volontaria fiscale appena varata dal governo Letta, Roma ha preferito rinviare la chiusura degli accordi con Berna sui nostri frontalieri e sulla cooperazione tributaria. Per non pregiudicare maggiori entrate da emersione, cioè per fare più paura a chi ha patrimoni non dichiarati in Svizzera, il governo ha pensato fosse meglio rinviare la chiusura di accordi di cooperazione. Ora occorre rimediare e puntare al dialogo, non digrignare i denti. Quest’ultimo atteggiamento farebbe esattamente il gioco dei populisti. Che non ci sono solo in Svizzera. Ci sono anche da noi in Italia, e li conteremo nelle urne per il parlamento europeo, ci sono in Gran Bretagna con l’UKIP di Nigel Farage, in Germania con l’AfD, in Olanda con il PVV di Wilders, in Francia con la signora Le Pen.

Il referendum svizzero è certamente parte della più ampia crisi dell’Europa, riflette la mancanza di leadership e di visione nella realtà odierna del nostro continente. Ma andiamoci piano prima di trattare gli svizzeri come un popolo di xenofobi. Hanno resistito agli Asburgo come al Terzo Reich, e nel 1936 a Berlino gli atleti elvetici non omaggiavano Hitler col saluto romano, come i nostri e i britannici. Un’Europa migliore si può costruire solo rimediando insieme agli errori e alle paure. Ma siamo noi più poveri e arretrati ad aver più bisogno dell’integrazione con chi è più dinamico e avanzato, non viceversa. Siamo noi ad avere fisco e burocrazia lunari, ad avere molto da imparare dall libertà svizzera.

 

10
Feb
2014

Risposta a Cuneo e Arrigo: l’informazione economica mistificata alligna perché in Italia troppi grandi privati sono collusi

La riflessione di Gianfilippo Cuneo e quella del professor Ugo Arrigo sull’uso improprio delle parole da parte dei media mi induce per una volta a rispondere come giornalista, in base alla mia esperienza ormai di qualche decennio, e in una pluralità di testate.  I due articoli fanno seguito e filotto con quello di Carlo Stagnaro sull'”elogio del dato”,a proposito dell’incredibile bufala rappresentata dalla totale inattendibilità statistica dei 60 miliardi di euro a cui assomerebbe in controvalore la corruzione italiana, un dato che puntualmente da anni rimbalza sui media italiani senza che ci sia verso di evitare di ripeterlo (questa volta facendolo rimbalzare anche in documento Ue).

E’ assolutamente e drammaticamente vero, che la mistificazione di moltissime parole-chiave dell’economia,e la diffusa inaccuratezza per dati e fonti, finiscano per compromettere la possibilità di ogni confronto pubblico serio. E che, di conseguenza, ad avvantaggiarsene siano solo decisioni pubbliche – politiche, ma non solo politiche, anche largamente “private” – opache e inefficienti.  Eppure no, scusate, ma di tutto ciò la colpa non è del giornalista medio. Nella mia esperienza, vi sono moltissimi giornalisti, in tutte le testate che conosca e per le quali abbia lavorato, perfettamente in grado – ci crediate o meno – di distingere tra una privatizzazione vera di un asset, cioè la perdita del suo controllo e gestione, e invece una quotazione in Borsa, che fa appello a capitali privati ma eternando controllo e gestione pubblica.  Lo stesso vale per praticamente tutte le parole elencate da Cuneo, da “salvare” a “banchiere” e via continuando.

Non facciamo gli ingenui. NON è il giornalista a decidere titolo, taglio e tono dei pezzi, cioè tutto ciò che costituisce premessa e contorno necessario per aderire e rilanciare la mistificazione delle parole, rispetto alle cose e ai fatti veri.

I media – quelli tradizionali, non parlo dei social network – sono quanto di più vicino alla monarchia assoluta resti nel consorzio civile moderno. E’ un giornalista particolare cioè  il direttore a decidere e a dire, e più spesso a far capire senza dirlo esplicitamente ai suoi giornalisti, che bisogna darsi da fare per dare evidenza alla “privatizzazione” di Poste anche se non lo è, dando ampio ed entusiastico spazio all’ipotizzato regalo di azioni ai lavoratori sindacalizzati, invece che all’irrisolta fittissima trama di conflitti dì’interesse e sussidi diretti, indiretti e incrociati di cui Poste come conglomerato continuerà domani ad avvalersi anche se quotata. E’ il direttore, a decidere e a dire che l’ingresso di Poste in Alitalia non è un aiuto di Stato e che Etihad “salva” Alitalia, anche se in realtà pone ai soci privati, pessimi suoi gestori, il problema degli eccessi di costo e di debito in modo molto più fermo e duro di quanto abbia fatto lo Stato, mobilitando le sue Poste pubbliche.  E’ il direttore a freddare con lo sguardo – in questo caso neanche deve dir nulla – un eventuale capo servizio finanza che proponesse di occuparsi di quel che sta accadendo in Mittel, finanziaria di partecipazioni custode da anni di molti interna corporis del sistema-Bazoli, e in cui inusitatamente un intero cda di dimette per far saltare un amministratore delegato poco ligio dalla difesa del passato. E’ il direttore a sorridere in faccia al redattore, che avesse eventualmente proposto di approfondire se davvero  il modello di rivalutazione e trading delle quote di Bankitalia non rappresentasse – come invece è – un unicum discutibilissimo e senza precedenti in tutto il mondo, e che tipo di considerazioni avessero indotto via Nazionale e l’ABI a concertarlo proprio in quel modo, in contraltare dell’innalzamento pazzesco dell’IRES e degli anticipi d’imposta a carico degli intermediari finanziari, per rimpinguare le esauste casse statali.

L’informazione economico-finanziaria che ho imparato a conoscere nei decenni non è sprovvista di nozioni basilari e di dedizione ai fatti (anche se da noi la tradizione dei media-generalisti è purtroppo più forte che altrove, e questo scaccia per definizione da pagine e palinsesti pezzi e approfondimenti “tecnici”, come di solito si dice accostandoli a qualcosa che respinge lettori e ascoltatori). E’, invece, e mi spiace dirlo, molto più carente che altrove perché sono le proprietà a dipendere – quasi tutte, quasi sempre – dal debito bancario, figlio non solo della crisi ma di una gestione dei media a fini di potere invece che per solido risultati di business, e dall’intreccio finanziar-politico (quello per cui alcune testate conoscono solo il mantra dei torbidi affari di Berlusconi,  e altre di quelli di De Benedetti).

La mistificazione delle parole e l’accondiscendenza alle tesi “velinare” non riguarda solo lo Stato, che spaccia per virtù suoi comportamenti che sono invece vizi in nuova veste. In quel caso, cadremmo sì in un problema culturale che pure esiste, di sentimento comune diffusamente statalista prevalente anche tra i giornalisti, come del resto in tanta parte della società italiana. Anche se, nell’avanzare della crisi, ormai proprietà e direttori devono stare attenti a non contraddire grandi gruppi pubblici sol perché, ormai, sono rimasti gli unici grandi inserzionisti… Ma il punto è che analoga accondiscendenza riguarda banche e grandi gruppi privati. O, per fare un altro esempio, bisogna considerarlo un caso, che se Poltrona Frau  viene ceduta ad americani – e a me va benissimo, viva il mercato e largo alla contendibilità proprietaria in nome della maggior efficienza – i media parlano di “made in Italy che conquista gli Usa”, mentre invece per ogni  altra azienda o marchio storico acquisito da stranieri ecco che scatta il titolone sulla “resa dell’Italia in svendita”? Temo che a far la differenza nei toni di presentazione sia nome e peso del venditore nel sistema proprietario e debitorio dei media, non il merito comparato delle operazioni.

Sono stato direttore di un giornale economico-finanziario, per qualche tempo. Conoscendomi, e scegliendo giornalisti per la redazione disposti a rischiare anche problemi, a patto che fossero discendenti da numeri e fatti alla mano, chiesi anticipatamente alla proprietà vera autonomia. Ripeto: innanzi a fatti, carte e numeri che si traducessero anche in interrogativi e critiche pesanti. Assolutamente sì, fu la risposta. Quando a un certo punto uno dei miei redattori, competente sul serio in bilanci e criteri patrimoniali bancari, ebbe un dubbio rilevante sul venir meno in una trimestrale di un certo accantonamento a riserva, tempestammo come è doveroso e necessario la banca, per avere risposte.  Non ne giunsero. Nel frattempo, feci controllare e asseverare le nostre stime da tecnici bancari di primaria autorevolezza, che ci davano ragione. Per due giorni a quel punto ci apriì il giornale, esponendo le nostre osservazioni. Gli altri media: silenzio. Al terzo mi venne detto che la banca – una grande banca – aveva comunicato intenzione di rivalersi solo su me personalmente e sul giornalista, per l’andamento in Borsa negativo del titolo. Sulla proprietà no, perché ovviamente la proprietà era cliente della banca e questa, benignamente, non mischiava la “mancanza di rispetto” di un paio di velleitari giornalistelli con i rapporti di serena e proficua collaborazione intercorrenti con la proprietà. Pochi mesi dopo, guarda caso, mi beccai un licenziamento disciplinare. Tanto fondato che in Tribunale la proprietà rinunciò alle sue pretese ragioni, per pagare tutto il giusto risarcimento.

Carissimi Cuneo, Arrigo e Stagnaro: le vostre osservazioni sono da rivolgere a direttori e proprietari dei media. Le carriere, nell’informazione economica, si fanno quasi sempre – tranne rarissime eccezioni – compiacendo le storture del nostro capitalismo asfittico, quello dei “piani alti” che dallo Stato ottengono un Total Tax Rate di 20-30 punti più basso, e dalle banche un costo e una disponibilità del denaro che sono integralmente negati, alle centinaiaia di migliaia di piccole imprese, aliene ed estranee agli untuosi intrecci banco-industriali.

Un’Italia di mercato come noi la sognamo non avrebbe privati e banche collusi allo Stato e ai suoi vizi, replicati. Per questo dobbiamo batterci. In quell’Italia, ci sarebbero più FAZ e meno gazzette ufficiali contraffatte. E il dibattito pubblico sarebbe meno adulterato.

 

 

10
Feb
2014

Si fa presto a dire “unbundling”—di Elisabetta Bourla e Michele Governatori

I tanti cortocircuiti tra mercato elettrico e gestione regolata delle reti

 Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Elisabetta Bourla e Michele Governatori.

Se parli con un ingegnere, ti dice che un sistema elettrico è un insieme integrato: centrali di produzione, cavi di trasmissione, punti di consumo.

Il “dispacciamento” (parola magica e importante nel gergo dell’energia elettrica) è l’esercizio integrato di questo sistema, perlomeno di quello ad alta tensione, ed è affidato al gestore della rete (Terna in Italia). Un esercizio che include ordini alle centrali elettriche, inviati anche attraverso apparati di telecontrollo ed eseguiti automaticamente dalle macchine. Se sei nella plancia di una centrale quando arriva un comando di Terna, puoi sentire una serie di avvisi elettronici che mettono in guardia lo staff dall’imminente cambio di assetto dei generatori.

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7
Feb
2014

Multe ai giornalisti per l’uso improprio delle parole?—di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gianfilippo Cuneo.

Che l’Italia sia in una situazione disastrosa è evidente; i colpevoli sono molti, ma c’è una categoria che è particolarmente colpevole ed è quella dei giornalisti. La colpevolezza è aggravata dal fatto che per obbligo professionale i giornalisti dovrebbero informare, ed invece disinformano, magari inconsciamente, con un diffuso uso sbagliato delle parole da loro scelte per descrivere le situazioni. I cittadini disinformati poi hanno attese irragionevoli, fanno scelte politiche errate ecc.: quindi il danno è grave e bisogna intervenire, magari con multe salate a chi usa le parole sbagliate. Read More

7
Feb
2014

Il modello svedese? Un falso storico, ecco perché.

Lo scrittore e giornalista Johan Norberg dice di essersi interessato alle teorie sullo sviluppo economico dopo aver studiato la storia di un Paese che, meno di 150 anni fa, era più povero del Congo, con un’aspettativa di vita media della metà e un tasso di mortalità infantile tre volte più alto della media dei paesi in via di sviluppo. Quel Paese era il suo Paese: la Svezia.

Ah, la Svezia! Fiore all’occhiello del socialismo europeo, modello di equità e redistribuzione, miracolo di interventismo economico e tassazione elevata (ma giusta, “perché lì in cambio c’hanno i servizi, mica come da noi!”). Ma siamo sicuri che la storia economica della Svezia sia una sorta di trionfale marcia politica della socialdemocrazia scandinava? A giudicare da un paper dello stesso Norberg, non sembrerebbe proprio.  Read More