17
Feb
2014

Ha solo 6 lettere, uno dei nodi più temibili per Renzi: E U R O p a

Tra i tanti problemi che Renzi si trova a ereditare e che dovrà affrontare immediatamente, uno dei più rilevanti riguarda i rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. E’ un problema serio, articolato in almeno tre livelli concentrici.

C’è una prima questione che riguarda le pendenze irrisolte con la Commissione Europea sul bilancio italiano del 2014. C’è una seconda questione, sul rispetto dei tetti europei. E c’è, ancora più ampia, una questione più generale: la richiesta che viene da ampi settori della destra come della sinistra, di operare una rottura di continuità rispetto alla posizione tenuta da Roma verso l”Unione europea in questi anni di crisi, da Berlusconi-Tremonti prima, Monti poi, e Letta infine. La questione politica vera è quest’ultima, ed è assai sdrucciolevole. Le elezioni europee sono tra poche settimane, e Renzi dovrà misurarsi con un dibattito politico che sarà incandescente, sul doppio nodo dell’euro e del rigore. Avendo, sulla carta, assai pochi margini per assecondare colpi di testa. Ma è anche vero che Renzi ha già detto nel recente passato alcune cose, su queste materie, che potrebbero tradursi in novità comunque profonde.

Cominciamo però dalla prima questione. Essa nasce con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione europea, nella scorsa primavera, grazie alle misure di bilancio – tasse, soprattutto tasse – assunte sommando l’ultimo Tremonti e Monti. A quel punto, l’Italia chiese di potersi avvantaggiare nel 2014 di un bonus per spese d’investimento pubblico aggiuntive, rispetto al limite rigoroso comunque da rispettare, di abbassare ancor più nel 2014 il deficit pubblico sotto quota 3% del Pil. Tutti parlarono a vanvera di chissà quale premio, per l’Italia virtuosa. Sciocchezze, stiamo parlando in in realtà di robetta: 2,7 miliardi in tutto. Ma è pur vero che è quasi un 10% in più, rispetto alla bassissima cifra della spesa per investimenti pubblici – in questi anni la spesa corrente è cresciuta perché i voti si fanno con quella, gli investimenti dello Stato si sono abbassati.

Il governo Letta quei 3 miliardi scarsi di investimenti in più li ha già messi nel bilancio 2014, dando per scontato che l’UE fosse d’accordo. La sorpresa è venuta quando la Commissione ha esaminato la legge di stabilità, e ha avuto da obiettare. La crescita attesa nel 2014 dal governo Letta era troppo alta, l’1,1% del Pil, mentre il più degli osservatori internazionali e Bankitalia non si spingono oltre lo 0,6-0,7%. Decimali di punto, ma tali da indurre la Commissione a chiedere a Letta un mezzo punto di Pil di tagli aggiuntivi al deficit pubblico. Saccomanni a Bruxelles disse che ci avrebbe pensato Cottarelli. E resta il fatto, dunque, che Renzi dovrà come prima cosa mettere per iscritto le misure aggiuntive che Letta e Cottarelli avevano solo promesso. In teoria e in pratica, la scadenza per comunicare alla Commissione le nuove misure era OGGI, 17 febbraio 2014…

Ciò vale a patto, naturalmente, di voler rispettare alla lettera e al decimale di punto i tetti europei. E qui veniamo alla seconda questione. In realtà, non solo tutte le opposizioni, da Grillo alla Lega e Fratelli d’Italia, ma un bel pezzo dello stesso Pd, nonché uno svariato crescente numero di intellettuali, economisti e via proseguendo nei talk show serali, dicono e teorizzano che il tetto del 3% al deficit pubblico bisognerebbe avere il coraggio di violarlo, e bellamente fregarsene, se l’autorizzazione non viene. Stefano Fassina, l’ex viceministro all’Economia, si dimise non solo per la sferzante battuta di Renzi, “Fassina chi?”. Ma perché da tempo sostiene che i limiti al deficit sarebbero il diktat di una “visione neoliberista” da cui il Pd deve liberarsi. Fassin a non è affatto solo, a pensarla così.

Renzi pure, qualche tempo fa, disse che a suo parere in questo 2014 il 3% di limite al deficit pubblico non deve rappresentare un tabù. Se l’Italia porta in Europa due-tre misure in grado di scuotere davvero dalle fondamenta il suo ritardo di bassa crescita e forte disoccupazione, bassa produttività e gap di competitività, allora Bruxelles non potrà che apprezzare e capire.

Attenzione: Renzi – finora, almeno –  non ha mai sposato la visione ormai anti-euro di Grillo, Salvini, Alemanno e tanti altri. Né ha teorizzato la “svolta a sinistra”, che porta diversi esponenti del Pd ad accarezzare l’ipotesi di una nuova formazione insieme a Sel. Ha proposto invece di sfondare il tetto al deficit per finanziare riforme che possano avere effetti certi di crescita nel breve-medio periodo,e in quanto tali certificati anche da Bruxelles. Ma tutto questo l’ha detto dalla comoda posizione di leader politico senza responsabilità di governo. Ora che diventa premier, si tratta di capire se davvero seguirà questa linea. E come la differenzierà, eventualmente, dall’assordante coro antieuro con il quale ormai tutti – da Berlusconi a Ferrero, passando per i 5 Stelle – pensano di mietere voti alle europee, pescando a mani basse nelle giusta rabbia di milioni di italiani regrediti nella crisi a redditi reali di 15-20 anni fa, e sapendo che analoga politica seguiranno il Front National in Francia, l’Ukip nel Regno Unito, il PVV in Olanda.

Venendo al terzo problema, Renzi sa di avere un doppio handicap. A differenza di chi lo ha preceduto, Letta e Monti, il sindaco di Firenze non è personalmente conosciuto e stimato dai leader europei e da Obama, dal Fondo Monetario e dai mercati. Meglio, direbbero gi anti-euro. Ma è un bel rischio per lui, presentarsi alla Merkel e a Draghi come un premier che pone l’Italia sulla linea del non rispetto degli accordi pregressi. E’ vero che i mercati mondiali spingono verso il basso lo spread dei Paesi eurolatini, grazie alla fuga di flussi finanziari in atto dai Paesi emergenti. Ma ci si mette poco, a farsi la fama dello spendi-facile italiano.

Il secondo handicap è che il premier Renzi non potrà far finta di niente, come hanno fatto i suoi predecessori, di fronte al fatto che nel 2015 entra in pieno vigore il fiscal compact, con l’impegno ogni anno a ridurre di almeno un ventesimo l’eccesso di debito pubblico oltre quota del 60% del Pil. E noi siamo al 133%! Nella legge di stabilità di Letta, che pure abbraccia l’orizzonte triennale in cui il fiscal compact entra in vigore, non si dice nulla di come rispettarlo. Ed è contro il fiscal compact che, nella campagna per il voto europeo, tanti picchieranno col martello, accusandolo di essere uno strumento di asservimento dell’Italia alla perfida signora Merkel…

Nessuno può oggi sapere come Renzi si regolerà.  Né sappiamo come la pensi dei numerosi “programmi straordinari” per abbattere e consolidare il debito, mutuando patrimonio pubblico e risparmio di mercato, che sono stati avanzati in questi anni, e che talora mascherano ipotesi di temibili patrimoniali.  Un conto è se Renzi davvero presenterà riforme energiche, tagli profondi all’IRAP e alle tasse sul lavoro, tagli di spesa veri e sin qui mai visti, privatizzazioni serie e non finte come quelle che si stanno varando, ad esempio Poste. In quel caso, l’Italia potrebbe pensare secondo Renzi di tornare a crescere entro un paio d’anni verso un tasso del 2% del Pil, ed è ciò che serve per recuperare in 6-7 anni il gap accumulato nella crisi, invece che in 15 o 20. A quel punto, col Pil in più forte crescita, il debito si ridurrebbe significativamente per questa sola forza, visto che ciò che conta è il suo rapporto col Pil, e non il suo stock assoluto.

Altro conto è se Renzi riterrà invece davvero di voler esercitare comunque una rottura, anche sulla scena europea. Romano Prodi la chiede da tempo, disegnando un grande patto latino tra Italia, Francia e Spagna. Le premesse però non ci sono. Perché Hollande, in caduta libera, ha dovuto annunciare 50 miliardi di minor spesa e 30 di minori tasse entro fine 2016. Mentre la Spagna, attualmente, già cresce a un tasso tre volte superiore al nostro….anche se parliamo di un + 0,3% a trimestre rispetto a uno 0,1% nostro, che significa essere al di sotto di ogni soglia in realtà statisticamente rilevabile.

In nessuna occasione, in realtà, Renzi ha dovuto raccontare a fondo quale sia la “sua” visione dell’eurocrisi. Speriamo ricordi che la crisi italiana data da 10 anni buoni prima della moneta unica. E che dunque, euro o no, bisogna aggredirne alla radice i problemi. I difetti dell’euro ci sono eccome, ne abbiamo parlato tante volte e personalmente ero tra i pochi a farlo prima che adottassimo l’euro. E’ ovvio che, a mercati sottostanti separati e con permanenti diverse curve di costo, la moneta unica obbliga i paesi che non riequlibranio strutturalmente la bilancia dei pagamenti alla deflazione interna: e da noi, a bassissima elasticità salariale e incapaci di scambi “salario-produttività”, cio significa solo più disoccupati e meno impresa. Ma se tra il 2008 e il 2012 le sole banche francesi, tedesche e olandesi hanno fatto defluire dall’Italia capitali pari al 15,3% del nostro Pil, non è stato per un complotto ordito a tavolino alla Cancelleria tedesca, ma perché i 3 milioni di disoccupati italiani, i 4 milioni di pensionati a 500 euro al mese, e il Sud dimenticato, sono il prodotto di scelte sbagliate innanzitutto italiane, non solo europee.

 

17
Feb
2014

Verso una Primavera bosniaca? — di Edo Omercevic

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Sembrava sul punto di scoppiare anche una Primavera bosniaca. Per giorni, la gente ha manifestato in tutto il paese contro il governo e ha lanciato un appello per le sue dimissioni. Ma le manifestazioni hanno avuto un triste risvolto. Edifici e strade in fiamme. Manifestanti e agenti di polizia feriti. Gli archivi pubblici dati alle fiamme. L’intero apparato amministrativo era sul punto di collassare.

Diversamente da quanto accaduto in altre zone, queste manifestazioni non sono indirizzate contro un tiranno. La gente protesta perché è affamata e senza lavoro. Secondo le stime ufficiali, circa il 40 percento dei bosniaci è disoccupato. Molti sopra i trent’anni non hanno mai lavorato in regola un solo giorno.

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16
Feb
2014

Consigli non richiesti a Renzi: tre svolte al MEF

Domani saranno ore decisive, in cui Renzi illustrerà riservatamente ai capi della maggioranza le linee generali dell’accelerazione economico-finanziaria che ha in mente. Partiamo pure dal presupposto che lui e i suoi consiglieri più stretti abbiano già le idee chiare. Ciò malgrado, vale la pena di esercitarsi in una serie di considerazioni sul tema. Della serie, se volete, “consigli non richiesti”. Ma non per questo vani.
Prima dei numeri, un’osservazione sul prossimo ministro dell’Economia. Certo, con oltre 300 miliardi di euro di titoli pubblici da piazzare l’anno, aiuta una figura il cui profilo in quanto tale sia garanzia, ai mercati e alla BCE guidata da Mario Draghi. Questo spiega i nomi “tecnici”, che puntualmente sono in testa di lista del totomnistri per il MEF.
Ma Renzi farebbe bene a capovolgere lo schema. Meglio un competente politico, con vasta esperienza di amministrazione, buone relazioni con l’opposizione, e di cui il premier possa fidarsi visto che il MEF ha le chiavi di ogni cosa. Altrimenti, deve essere un tecnico con idee politiche trasparenti, e combattivo verso i vertici della macchina ammnistrativa del MEF e delle Agenzie fiscali, da anni e fino ad oggi i veri indiscussi padroni del vapore delle decisioni di spesa e di entrata. Ma sarebbe meglio un politico, smisuratamente ambizioso sulla stessa linea del premier, visto quel che c’è da fare.
Sui numeri, si ereditano non più emergenze a rischio di esplosione: grazie al cielo, cioè all’andamento dei mercati internazionali oggi in fuga dai Paesi emergenti, e grazie ai due ultimi predecessori a palazzo Chigi, anche se hanno seguito come Tremonti una via tutta-tasse che è sbagliata.. Detto questo, è mwglio non sottovalutare che se falisce anche Renzi, la Trojka per l’Italia torna a essere dietro l’angolo. Tre enormi questioni si ereditano, comunque irrisolte. Esse sono alla radice della maggior perdita di prodotto e reddito dell’Italia, dal 2008 a oggi, rispetto alla stessa Spagna. E spiegano perché la ripresa italiana resti asfittica, col rischio di impiegare 15-20 anni a recuperare i livelli perduti. E su queste questioni ha ragione il Quirinale: meglio un acordo di governo esoplicito, scritto e chiaro.
La prima questione riguarda il combinato spesa-tasse. Renzi eredita una spesa pubblica complessiva 2013 a 808 miliardi di euro, che nel 2017 è prevista crescere a quota 854. Entrate totali 2013 per 759 miliardi, previsti in ulteriore temibile – per non dire: terrificante – salita, a quota 842 miliardi nel 2017. Una spesa corrente che sale ancora, dai 757 miliardi del 2013 agli 811 del 2017, e investimenti pubblici invece inchiodati, sui 28-29 miliardi. Di fronte a questo oceano, il modo per intervenire c’è eccome, volendo.
La prima necessità è trovare le risorse per sgravi veri a impresa e lavoro: il maggior torto di Letta eè stato trascurare questa innegabile priorità, e invece impiccarsi sull’IMU per 10 mesi. Rinviando al commissario esterno Cottarelli indicazioni di contenimento di spesa che è invce la politica, a dover esprimere. E finché non sarà così, i tagli che servono non verranno, come non sono venuti.
I tagli attesi da Cottarelli erano quantificati in 3 miliardi nel 2014, 10 miliardi nel 2015, 17 nel 2016. Letta, nelle sue ultime slides di Impegno Italia ha alzato i tagli a 16,6 miliardi nel primo biennio. Renzi e il suo ministro dell’Economia dovrebbero alzare ancora l’obiettivo ad almeno 20 miliardi nei primi 2 anni, e dovrebbero affiancare Cottarelli con piena copertura politica, per giungere all’indicazione in pochissime settimane, diciamo tre, finché cioè il governo è al’inizio e nel pieno della sua capacità propulisva..
Perché almeno 20 miliardi? Per avere risorse – senza deficit aggiuntivo – in grado di esercitare effetti concreti e non di zero virgola, sui redditi disponibili e sui margini delle imprese. La componente redditi, con un intervento di 7-8 miliardi concentrato in più detrazioni nella fascia tra gli 8mila e i 25 mila euro di reddito, può tradursi in 300-350 euro in più nelle tasche del contribuente medio italiano. Mentre, con gli altri 12 miliardi in 2 anni si abbatte del 50% il monte-IRAP pagato dalle aziende private: e il resto del’IRAP lo si dovrebbe trasferire subito in IRES, in modo che a pagare siano solo le imprese in utile, e azzerando la doppia iniquità che a pagare di più sia chi offre più lavoro e chi usa più beni strumentali, rispetto a chi esternalizza e delocalizza.
Naturalmente per tutto questo occorre cambiare però subito la norma approvata in legge di stabilità, che vincolava a copertura di spese già 10 mliardi delle risorse ancora non individuate da Cottarelli. E qui veniamo alla seconda priorità, il cambio di marcia sulla spesa pubblica.
Dei 757 miliardi di spesa corrente 2013, le retribuzioni pubbliche sono ormai inchiodate a quota 164 miliardi, anche per i prosismi anni. Ma le abbiamo fermate con lo stop al turn over e bloccando gli aumenti : restano rilevanti interventi di tipo equitativo. Se si interviene sui compensi dell’alta dirigenza, come il professor Roberto Perotti documenta da alcuni mesi tabelle alla mano, un buon miliardo e mezzo si risparmia senza colpo ferire e senza affamare nessuno, ma semplicemente ponendo uno stop alla vergogna d retribuzioni multiple dei burocrati italiani rispetto ai parigrado nei maggiori Paesi al mondo. Con tutto il rispetto, non si capisce perché il presidente della Corte costituzionale debba guadagnare tre volte quel che è riconosciuto al Capo dello Stato, e quattro volte quel che intasca un giudice della Corte Suprema USA.
Ma passando alle forniture della PA, i 130 miliardi 2013 in crescita fino a 140 nel 2014 attendono ancora una messa in riga attraverso il passaggio obbligato a piattaforme elettroniche trasparenti di procurement: la CONSIP intermedia a malapena un quarto degli acquisti, e altri 5-6 miliardi di risparmi in 2 anni possono saltar fuori senza che a piangere siano altri che corrotti pubblici, e collusi e concussori privati.
Dei 320 miliardi somma di previdenza e assistenza, in crescita a quota 356 nel 2017, in questa sede non parliamo, dando per scontato che Renzi e il suo partito non vogliano toccarli. E’ comunque sbagliato: sia perché i trattamenti più elevati, figli del solo sistema retributivo, rappresentano uno schiaffo alle generazioni successive, sia perché è tempo di smetterla con la CIG in deroga per andare a un unico strumento di sostegno al reddito, quando lo si perde. Ma qui entriamo nelle competenze del ministro del Lavoro e del Jobs Act, è un altro tema.
La terza partita da giocare al MEF è quella che spesso i più dimenticano. Oltre alle tasse e alla spesa, il MEF è altre due cose. E’ il ponte di comando delle imprese pubbliche centrali, e dovrebbe essere quello di controllo delle decine di migliaia di società pubbliche locali. Sulle finte privatizzazioni in atto a livello centrale, a cominciare da Poste, come la pensiamo noi è ovvio, ma temo proprio Renzi non se la sentirà di mettersi contro tuto il suo partito e tutta la sinistra, smontando quel che Letta ha già avviato. Purtroppo. Ma chissà se Renzi avrà almeno il coraggio di affermare un chiaro indirizzo di apertura al mercato invece di gestioni in house, e di proporre penalizzazioni a chi mantiene sul territorio selve di società gestite in perdita. E infine il MEF dovrebbe recuperare un ruolo attivo nella soluzione del problema più grave, oltre all’eccesso fiscale, che ha generato la moria d’impresa: la restrizione del credito.
Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, la settimana scorsa ha finalmente rotto il plumbeo silenzio istituzionale che da due anni gravava sulla necessità di una bad bank, per alleviare l’eccesso di sofferenze bancarie che grava sul sistema del credito. E’ stata la politica, sinora, a non voler affrontare un intervento di sistema, nel timore di attirarsi nuovi sospetti europei. Anche col consenso delle due maggiori banche italiane, che hanno mezzi propri per affrontare il problema. Ma il nodo ora va affrontato, perché tutto il resto del sistema bancario italiano altrimenti continuerà a negare credito a famiglie e imprese. E sarebbe molto meglio usare gli attivi di Cassa Depositi come garanzie per una bad bank delle Popolari e BCC, invece di usarli per fare di Cdp una IRI Bis.
Chissà a quale punto del nostro troppo lungo elenco di buoni propositi, Renzi ci avrebbe già tirato un martello in testa, come nella fiaba al grillo parlante….

13
Feb
2014

L’arte del declino nel paese del non governo

Vi sono due standard, due fattori che più di ogni altro hanno stabilmente caratterizzato il nostro paese nell’ultimo quindicennio. Il primo è il declino, il secondo è il non governo. Ho intitolato questo post “L’arte del declino nel paese del non governo” ma anche “L’arte del non governo nel paese del declino” andrebbe benissimo.

Il declino può essere misurato quantitativamente attraverso la caduta del Pil pro capite dell’Italia relativamente ai paesi U.E. Read More

11
Feb
2014

L’autogol di mostrare i denti alla Svizzera, dopo il referendum, e il precedente a cui guardare

La vittoria di misura in Svizzera del referendum sulle quote per stranieri, a cominciare dai cittadini dell’Unione Europea, esprime il segnale di un’Europa dei forti che si chiude sulle sue nuove paure. Ma al contempo è un errore esacerbarne il significato, come è avvenuto ieri. Prendere di petto gi svizzeri sarebbe un grave errore.  Da parte italiana, poi, un clamoroso autogol.

Angela Merkel è stata cauta, ha detto di “prendere atto della volontà degli svizzeri”, ma ha aggiunto che “il risultato apre seri problemi”. Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, è stato secco: “rivedremo le relazioni con la Svizzera”. La Commissione Eeuropea, in una nota molto dura, ha ricordato che con la Svizzera sussistono 7 grandi accordi bilaterali sottoscritti nel 1999, sul libero movimento delle persone e delle merci, sui trasporti, agricoltura, ricerca, procedure di acquisto pubblico e altro ancora. E poiché sono legalmente interconnessi, se cade la piena libertà di movimento delle persone con l’area europea sono destinati a cadere tutti. Il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, ha aggiunto che “potremmo dover tornare alle pattuglie di frontiera ai confini, non posso credere che Berna volgia questo”.

Prima di precipitare le cose, forse è il caso di capire. Certo, a vincere è stata la destra populista. Ma i referendum e la democrazia diretta sono uno degli – invidiabili – pilastri della libertà della Svizzera, una libera confederazione che affonda le sua radici nel giuramento sul pratone di Gruetli, il 1 agosto 1291. La Svizzera è tra i paesi al mondo con la più alta percentuale di stranieri rispetto alla popolazione, il 23% su un totale di 8milioni, una proporzione pari a quasi tre volte quella italiana. Negli anno ’90, la Svizzera ha spalancato le porte a decine di migliaia di asilanti dal Kosovo, come a centinaia di migliaia tra immigrati albanesi, esteruropei, africani. Non è un caso che i sì nel referendum siano stati alti nei cantoni con meno immigrati. Dovunque nel mondo, anche da noi, l’avversione è più alta dove è più bassa l’integrazione.

Ma il problema non riguarda certo solo o particolarmente i 70 mila frontalieri italiani, dei quali più o meno metà artigiani e autonomi, e l’altra metà invece occupati in imprese svizzere o italiane trapiantate in Svizzera ma risiedendo in Italia, e coperti da un accordo di ristorno fiscale tra Canton Ticino e Comuni italiani di residenza che occorreva rinnovare prima del referendum, invece di attendere colpevolmente come l’Italia ha deciso di fare. Sono esattamente questi frontalieri, ora, che pagheranno il conto se l’Italia continuerà a fare la faccia adirata.

C’è un problema nella Svizzera tedesca che riguarda il numero crescente di tedeschi e austriaci che vi si spostano per esercitare professioni liberali, e che affollano le università svizzere, in particolare medicina non riuscendo a superare le barriere al numero chiuso nei loro paesi. E, naturalmente, c’è la pressione esercitata dall’aumento a doppia cifra dell’immigrazione da Grecia, Spagna e Italia, in questi ultimi due anni di eurocrisi. Di qui la paura che welfare e servizi pubblici non bastino ai nuovi arrivati, esattamente come a Londra il premier Cameron ha annunciato di voler tagliare il welfare britannico anche ai cittadini della Ue.

Tuttavia vediamo che cosa ora farà il governo di Berna, nel corso dei te anni a disposizione dopo il referendum per realizzare nuovi accordi con Bruxelles. Se davvero si dovesse pensare a rigidi permessi di lavoro individuali per ogni paese di provenienza, senza autorizzazione a portare al seguito le famiglie, non solo la Svizzera si porrebbe in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fino al punto di dover lasciare il Consiglio d’Europa. Ciò significherebbe un’enorme difficoltà per la Svizzera di continuare ad attirare elevate professionalità in campo banco-finanziario, e nel managament delle moltissime multinazionali che in Svizzera hanno sede. E’ largamente impensabile, che avvenga una cosa simile.

C’è un precedente. In realtà, se gli accordi maggiori tra Svizzera e Ue sono i 7 ricordati ieri dalla Commissione Europea, il totale delle intese vigenti sulle materie più minute supera il migliaio. Sono stati redatti come razionale strategia alternativa, dopo il no prevalso in un altro referendum svizzero, nel 1992, all’ipotesi di entrare nello Spazio economico europeo (dove per esempio si colloca la Norvegia). Fu una scelta di enorme ragionevolezza. Ed è esattamente quella che deve entrare in campo ora, tra Berna e noi dell’Unione Europea. Sono accordi di cui la Svizzera ha enormemente beneficiato. E anche i paesi dell’Unione europea seguirono, dopo quel referendum, una linea intelligente, abolendo asd esempio per i cittadini svizzeri le code negli aeroporti che altrimenti sarebbero state loro destinate insieme ad asiatici e africani. Il complesso economico banco-industriale elvetico queste cose le sa benissimo, tanto è vero che ha tentato di orientare il voto in senso opposto all’esito del referendum. Ma ha perso. E ora dovrà rimediare.

Ha contribuito al sentimento di isolamento antieuropeo anche la brutta botta portata a segno in questi ultimi due anni da Germania e Francia, al seguito degli Usa, contro il segreto bancario per decenni presidio della forza off shore degli intermediari elvetici. Solo dalle transazioni finanziarie relative alle commodities si genera ormai il 10% del Pil svizzero, in concorrenza con Singapore, Dubai e Hong Kong. Ed è per non perdere questa forza crescente che la Svizzera ha dovuto negoziare con americani e OCSE la disponibilità a protocolli bilaterali di coperazione anche in campo fiscale, basati sullo scambio di informazioni.

L’Italia proprio su questo ha commesso un errore. Protesa al successo dell’emersione volontaria fiscale appena varata dal governo Letta, Roma ha preferito rinviare la chiusura degli accordi con Berna sui nostri frontalieri e sulla cooperazione tributaria. Per non pregiudicare maggiori entrate da emersione, cioè per fare più paura a chi ha patrimoni non dichiarati in Svizzera, il governo ha pensato fosse meglio rinviare la chiusura di accordi di cooperazione. Ora occorre rimediare e puntare al dialogo, non digrignare i denti. Quest’ultimo atteggiamento farebbe esattamente il gioco dei populisti. Che non ci sono solo in Svizzera. Ci sono anche da noi in Italia, e li conteremo nelle urne per il parlamento europeo, ci sono in Gran Bretagna con l’UKIP di Nigel Farage, in Germania con l’AfD, in Olanda con il PVV di Wilders, in Francia con la signora Le Pen.

Il referendum svizzero è certamente parte della più ampia crisi dell’Europa, riflette la mancanza di leadership e di visione nella realtà odierna del nostro continente. Ma andiamoci piano prima di trattare gli svizzeri come un popolo di xenofobi. Hanno resistito agli Asburgo come al Terzo Reich, e nel 1936 a Berlino gli atleti elvetici non omaggiavano Hitler col saluto romano, come i nostri e i britannici. Un’Europa migliore si può costruire solo rimediando insieme agli errori e alle paure. Ma siamo noi più poveri e arretrati ad aver più bisogno dell’integrazione con chi è più dinamico e avanzato, non viceversa. Siamo noi ad avere fisco e burocrazia lunari, ad avere molto da imparare dall libertà svizzera.

 

10
Feb
2014

Risposta a Cuneo e Arrigo: l’informazione economica mistificata alligna perché in Italia troppi grandi privati sono collusi

La riflessione di Gianfilippo Cuneo e quella del professor Ugo Arrigo sull’uso improprio delle parole da parte dei media mi induce per una volta a rispondere come giornalista, in base alla mia esperienza ormai di qualche decennio, e in una pluralità di testate.  I due articoli fanno seguito e filotto con quello di Carlo Stagnaro sull'”elogio del dato”,a proposito dell’incredibile bufala rappresentata dalla totale inattendibilità statistica dei 60 miliardi di euro a cui assomerebbe in controvalore la corruzione italiana, un dato che puntualmente da anni rimbalza sui media italiani senza che ci sia verso di evitare di ripeterlo (questa volta facendolo rimbalzare anche in documento Ue).

E’ assolutamente e drammaticamente vero, che la mistificazione di moltissime parole-chiave dell’economia,e la diffusa inaccuratezza per dati e fonti, finiscano per compromettere la possibilità di ogni confronto pubblico serio. E che, di conseguenza, ad avvantaggiarsene siano solo decisioni pubbliche – politiche, ma non solo politiche, anche largamente “private” – opache e inefficienti.  Eppure no, scusate, ma di tutto ciò la colpa non è del giornalista medio. Nella mia esperienza, vi sono moltissimi giornalisti, in tutte le testate che conosca e per le quali abbia lavorato, perfettamente in grado – ci crediate o meno – di distingere tra una privatizzazione vera di un asset, cioè la perdita del suo controllo e gestione, e invece una quotazione in Borsa, che fa appello a capitali privati ma eternando controllo e gestione pubblica.  Lo stesso vale per praticamente tutte le parole elencate da Cuneo, da “salvare” a “banchiere” e via continuando.

Non facciamo gli ingenui. NON è il giornalista a decidere titolo, taglio e tono dei pezzi, cioè tutto ciò che costituisce premessa e contorno necessario per aderire e rilanciare la mistificazione delle parole, rispetto alle cose e ai fatti veri.

I media – quelli tradizionali, non parlo dei social network – sono quanto di più vicino alla monarchia assoluta resti nel consorzio civile moderno. E’ un giornalista particolare cioè  il direttore a decidere e a dire, e più spesso a far capire senza dirlo esplicitamente ai suoi giornalisti, che bisogna darsi da fare per dare evidenza alla “privatizzazione” di Poste anche se non lo è, dando ampio ed entusiastico spazio all’ipotizzato regalo di azioni ai lavoratori sindacalizzati, invece che all’irrisolta fittissima trama di conflitti dì’interesse e sussidi diretti, indiretti e incrociati di cui Poste come conglomerato continuerà domani ad avvalersi anche se quotata. E’ il direttore, a decidere e a dire che l’ingresso di Poste in Alitalia non è un aiuto di Stato e che Etihad “salva” Alitalia, anche se in realtà pone ai soci privati, pessimi suoi gestori, il problema degli eccessi di costo e di debito in modo molto più fermo e duro di quanto abbia fatto lo Stato, mobilitando le sue Poste pubbliche.  E’ il direttore a freddare con lo sguardo – in questo caso neanche deve dir nulla – un eventuale capo servizio finanza che proponesse di occuparsi di quel che sta accadendo in Mittel, finanziaria di partecipazioni custode da anni di molti interna corporis del sistema-Bazoli, e in cui inusitatamente un intero cda di dimette per far saltare un amministratore delegato poco ligio dalla difesa del passato. E’ il direttore a sorridere in faccia al redattore, che avesse eventualmente proposto di approfondire se davvero  il modello di rivalutazione e trading delle quote di Bankitalia non rappresentasse – come invece è – un unicum discutibilissimo e senza precedenti in tutto il mondo, e che tipo di considerazioni avessero indotto via Nazionale e l’ABI a concertarlo proprio in quel modo, in contraltare dell’innalzamento pazzesco dell’IRES e degli anticipi d’imposta a carico degli intermediari finanziari, per rimpinguare le esauste casse statali.

L’informazione economico-finanziaria che ho imparato a conoscere nei decenni non è sprovvista di nozioni basilari e di dedizione ai fatti (anche se da noi la tradizione dei media-generalisti è purtroppo più forte che altrove, e questo scaccia per definizione da pagine e palinsesti pezzi e approfondimenti “tecnici”, come di solito si dice accostandoli a qualcosa che respinge lettori e ascoltatori). E’, invece, e mi spiace dirlo, molto più carente che altrove perché sono le proprietà a dipendere – quasi tutte, quasi sempre – dal debito bancario, figlio non solo della crisi ma di una gestione dei media a fini di potere invece che per solido risultati di business, e dall’intreccio finanziar-politico (quello per cui alcune testate conoscono solo il mantra dei torbidi affari di Berlusconi,  e altre di quelli di De Benedetti).

La mistificazione delle parole e l’accondiscendenza alle tesi “velinare” non riguarda solo lo Stato, che spaccia per virtù suoi comportamenti che sono invece vizi in nuova veste. In quel caso, cadremmo sì in un problema culturale che pure esiste, di sentimento comune diffusamente statalista prevalente anche tra i giornalisti, come del resto in tanta parte della società italiana. Anche se, nell’avanzare della crisi, ormai proprietà e direttori devono stare attenti a non contraddire grandi gruppi pubblici sol perché, ormai, sono rimasti gli unici grandi inserzionisti… Ma il punto è che analoga accondiscendenza riguarda banche e grandi gruppi privati. O, per fare un altro esempio, bisogna considerarlo un caso, che se Poltrona Frau  viene ceduta ad americani – e a me va benissimo, viva il mercato e largo alla contendibilità proprietaria in nome della maggior efficienza – i media parlano di “made in Italy che conquista gli Usa”, mentre invece per ogni  altra azienda o marchio storico acquisito da stranieri ecco che scatta il titolone sulla “resa dell’Italia in svendita”? Temo che a far la differenza nei toni di presentazione sia nome e peso del venditore nel sistema proprietario e debitorio dei media, non il merito comparato delle operazioni.

Sono stato direttore di un giornale economico-finanziario, per qualche tempo. Conoscendomi, e scegliendo giornalisti per la redazione disposti a rischiare anche problemi, a patto che fossero discendenti da numeri e fatti alla mano, chiesi anticipatamente alla proprietà vera autonomia. Ripeto: innanzi a fatti, carte e numeri che si traducessero anche in interrogativi e critiche pesanti. Assolutamente sì, fu la risposta. Quando a un certo punto uno dei miei redattori, competente sul serio in bilanci e criteri patrimoniali bancari, ebbe un dubbio rilevante sul venir meno in una trimestrale di un certo accantonamento a riserva, tempestammo come è doveroso e necessario la banca, per avere risposte.  Non ne giunsero. Nel frattempo, feci controllare e asseverare le nostre stime da tecnici bancari di primaria autorevolezza, che ci davano ragione. Per due giorni a quel punto ci apriì il giornale, esponendo le nostre osservazioni. Gli altri media: silenzio. Al terzo mi venne detto che la banca – una grande banca – aveva comunicato intenzione di rivalersi solo su me personalmente e sul giornalista, per l’andamento in Borsa negativo del titolo. Sulla proprietà no, perché ovviamente la proprietà era cliente della banca e questa, benignamente, non mischiava la “mancanza di rispetto” di un paio di velleitari giornalistelli con i rapporti di serena e proficua collaborazione intercorrenti con la proprietà. Pochi mesi dopo, guarda caso, mi beccai un licenziamento disciplinare. Tanto fondato che in Tribunale la proprietà rinunciò alle sue pretese ragioni, per pagare tutto il giusto risarcimento.

Carissimi Cuneo, Arrigo e Stagnaro: le vostre osservazioni sono da rivolgere a direttori e proprietari dei media. Le carriere, nell’informazione economica, si fanno quasi sempre – tranne rarissime eccezioni – compiacendo le storture del nostro capitalismo asfittico, quello dei “piani alti” che dallo Stato ottengono un Total Tax Rate di 20-30 punti più basso, e dalle banche un costo e una disponibilità del denaro che sono integralmente negati, alle centinaiaia di migliaia di piccole imprese, aliene ed estranee agli untuosi intrecci banco-industriali.

Un’Italia di mercato come noi la sognamo non avrebbe privati e banche collusi allo Stato e ai suoi vizi, replicati. Per questo dobbiamo batterci. In quell’Italia, ci sarebbero più FAZ e meno gazzette ufficiali contraffatte. E il dibattito pubblico sarebbe meno adulterato.

 

 

10
Feb
2014

Si fa presto a dire “unbundling”—di Elisabetta Bourla e Michele Governatori

I tanti cortocircuiti tra mercato elettrico e gestione regolata delle reti

 Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Elisabetta Bourla e Michele Governatori.

Se parli con un ingegnere, ti dice che un sistema elettrico è un insieme integrato: centrali di produzione, cavi di trasmissione, punti di consumo.

Il “dispacciamento” (parola magica e importante nel gergo dell’energia elettrica) è l’esercizio integrato di questo sistema, perlomeno di quello ad alta tensione, ed è affidato al gestore della rete (Terna in Italia). Un esercizio che include ordini alle centrali elettriche, inviati anche attraverso apparati di telecontrollo ed eseguiti automaticamente dalle macchine. Se sei nella plancia di una centrale quando arriva un comando di Terna, puoi sentire una serie di avvisi elettronici che mettono in guardia lo staff dall’imminente cambio di assetto dei generatori.

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