14
Mar
2014

Tutte le ragioni del NO, no e poi no al 26% sul risparmio

Che pensate dell’aumento al 26% della tassazione sul risparmio? La sinistra considera questa misura il bollo di qualità della manovra-Renzi, come un primo passo per riequilibrare il gap di tassazione a sfavore del lavoro e a favore del capitale. ma il riequilibrio andrebbe fatto verso il basso tagliando l’IRAP, non alzando verso l’alto le tasse sul risparmio. In ogni caso vi dico come la penso io: se ci sono liberali in parlamento, ma vorrei dire basta che siano persone di buon senso comunque la pensino, allora dicano un NO chiaro e forte all’ aliquota 26% ammazza-risparmio.

NO al 26% ammazza-risparmio perché è una nuova patrimoniale che si somma a patrimoniale salita a 0,2% quest’anno su conto-titoli.

NO al 26% ammazza-risparmio perché azzanna solo piccoli risparmiatori mentre salva i “lordisti”, cioè banche e intermediari finanziari, e soci qualificati delle imprese (chi detiene almeno 5% del capitale di una quotata, e 20% di ogni società): entrambi (i secondi per il 49%) portano le rendite da capitale in dichiarazione sui redditi, cioè a tassazione progressiva se persone fisiche o ad aliquota flat IRES su reddito d’impresa.

No al 26% ammazza-risparmio perché come tutte le patrimoniali è regressiva, mentre in Germania chi ha meno reddito – entro l’aliquota 25% di tassazioen su reddito personale – porta le rendite da capitale  in Irpef, con franchigia esentasse di 8100 euro  e pagando sul resto bassa aliquota progressiva.

NO al 26% ammazza-risparmio perché è bastata la TobinTax all’italiana ad abbattere del -20% i volumi di trading in Italia,  mentre grandi paesi Ue NON l’hanno adottata.

NO al 26% ammazza-risparmio perché i 2,5 bn di gettito atteso innanzitutto sono sovrastimati, e comunque molti di + si devono ricavare da tagli alla spesa.

No al 26% ammazza-risparmio infine perché è intollerabile che lo Stato tassi al 12,5% il risparmio diretto ai suoi titoli e a poste pubblica, mentre ammazza tutto il resto: è pura espressione della sete di Stato a suo vantaggio, e questa è pura e brutale REPRESSIONE FISCALE .

Mi riconosco, tanto per chiarire, parola per parola in questa citazione da Free to Choose, di Milton e Rose Friedman:

“When the law interferes with people’s pursuit of their own values, they will try to find a way around. They will evade the law, they will break the law, or they will leave the country. Few of us believe in a moral code that justifies forcing people to give up much of what they produce to finance payments to persons they do not know for purposes they may not approve of. When the law contradicts what most people regard as moral and proper, they will break the law–whether the law is enacted in the name of a noble ideal such as equality or in the naked interest of one group at the expense of another. Only fear of punishment, not a sense of justice and morality, will lead people to obey the law. “

13
Mar
2014

Cari sindacati, ve lo richiediamo: per il 1° maggio pubblicate un bilancio consolidato

E’ molto interessante, la lettera che i tre segretari dei sindacato confederale hanno indirizzato al Messaggero in replica all’inchiesta  “Un miliardo dallo Stato: ecco il conto dei sindacati”, a firma di Osvaldo De Paolini. Perché contesta tignosamente molti dati dell’inchiesta, e questo è più che legittimo. Perché li attribuisce a un intento malevolo verso il sindacato e le sue funzioni, e qui occorre capirsi. E, infine e soprattutto, perché non entra davvero nel merito che tutti noi ci saremmo aspettati, cioè la smentita o la contro argomentazione sul miliardo pubblico annuo ricevuto dal sindacato. Roba da far apparire noccioline il finanziamento ai partiti.

Una “contro cifra” non c’è, nella pseudo-smentita di Cgil, Cisl e Uil. Ed è esattamente questo il punto fondamentale che l’inchiesta intende sollevare. E sul quale vale la pena di tornare. Non c’è perché la natura giuridica del sindacato in Italia è rimasta notoriamente “incompleta”. L’articolo 39 della Costituzione prevedeva una legge attuativa in materia di libertà sindacale riconosciuta, e con la “registrazione” sarebbe stato possibile codificare un quadro preciso di responsabilità-controlli pubblici senza alcuna lesione delle sacrosante libertà sindacali. Ma quella legge non è mai stata approvata. E così i sindacati restano di fatto libere associazioni non riconosciute, soggette ai magri articoli del codice civile che disciplinavano nel 1942 tale forma di libera organizzazione dei corpi intermedi.

La legge ha sorvolato su tale mancanza di piena personalità giuridica in materia di rispetto dei contratti collettivi e di diritto di sciopero e relativa proclamazione. Spesso, per questa stessa ragione, la magistratura ha imboccato strade opposte in relazione alla tutela delle “libertà interne” al sindacato, garantite da ciascuno statuto. Di fatto, mancando la piena personalità giuridica, non c’è mai stato l’obbligo a bilanci consolidati, completi nel conto economico e in quello patrimoniale.

Di questa mancanza parla l’inchiesta del Messaggero. E forse non è un caso che i tre segretari confederali non vi facciano cenno. Quando citano – ed è una risposta di routine – i rendiconti economici annui pubblicati da Cgil, Cisl e Uil, essi per primi sanno benissimo la differenza tra un mero rendiconto di cassa, e un bilancio analiticamente completo di centro  e periferia, di ogni spesa e ogni trasferimento ricevuto, dell’ammontare degli attivi mobiliari e immobiliari nonché delle passività di ogni genere.

In assenza di bilanci consolidati resi pubblici, purtroppo, l’informazione deve tentare per forza di cose di ricostruire il complesso delle fonti e dell’ammontare dei finanziamenti sindacali  sommando le maggiori  poste desumibili. E’ lo stesso metodo seguito qualche anno fa da Stefano Livadiotti, ottimo collega giornalista, in un suo libro dedicato proprio ai conti veri e verosimili dei sindacati: a prescindere dai finanziamenti diretti, tramite le ritenute salariali, si tratta di sommare i finanziamenti indiretti, tramite l’attività degli enti parasindacali, come patronati, CAF ed enti bilaterali, e infine i finanziamenti percepiti tramite la retribuzione percepita dai lavoratori per lo svolgimento di attività di natura sindacale durante l’orario di lavoro, in forza dei diritti sindacali sanciti dallo statuto dei lavoratori e dalla contrattazione collettiva.

Rispetto al miliardo, che dei circa 12 milioni di iscritti ai sindacati  i pensionati siano comunque poco meno della metà e dunque gli attivi – 6 milioni – solo poco più di un quarto degli occupati complessivi  italiani, è questione che riguarda la rappresentanza rispetto all’intero mondo del lavoro. Rispetto al miliardo, che per la compilazione dei modelli 730 il corrispettivo pubblico incassato dai Caf sia di 14 euro a testa e non di 26 aggiunge precisione, ma non cambia le cose. Il problema del miliardo è che tutto ciò che incassano Caf e Patronati deriva da norme di legge. Non si tratta di negare la funzione che essi svolgono. Bensì, visto che finalmente stiamo piano riuscendo a rendere trasparenti poco a poco almeno parte degli euro spesi in costi della politica, si tratta di compiere un’operazione analoga per gli euro spesi e incassati dai sindacati.

Se i trasferimenti pubblici per CAF e Patronati fossero del tutto equivalenti a ciò che i lavoratori – anch’essi non liberamente per altro, ma per legge – pagano a tal fine, le loro cifre non sarebbero comprese nel rendiconto generale della spesa dello Stato, sotto la voce “contributo pubblico al finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale”. Né Giuliano Amato avrebbe ricevuto dal governo Monti l’incarico di redigere un rapporto sul finanziamento diretto e indiretto dei sindacati, dalle cui cifre l’inchiesta del Messaggero ha tratto le mosse.  Né la spending review montiana avrebbe disposto la riduzione del 20% dei compensi per i Caf derivanti dalle dichiarazioni fatte per conto dell’Inps. Vuol dire che un problema c’è eccome, di congruità dei trasferimenti.

Sappiamo anche noi, che lo Stato assegna ai patronati lo 0,226 dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail. Ma la legge istitutiva dei patronati, il decreto legislativo 804 del 1947,  poi modificato per le aliquote relative, prevede che ogni anno il Ministero del Lavoro valuti le esigenze finanziarie dei Patronati  in relazione alla attività concretamente svolta  ma anche alla loro organizzazione. Su queste basi  il Ministero decide  quale percentuale dei contributi sociali che sono stati incassati dagli enti di previdenza deve essere girata su di un apposito capitolo del bilancio dello Stato. E da qui, poi, il ministero eroga ai Patronato prima l’anticipo e poi il conguaglio. Il problema è che, in assenza di obbligo di bilancio consolidato, noi dell’organizzazione e dei relativi costi nonché efficienza dei patronati sappiamo troppo poco. E per questo ci interroghiamo sulla congruità di trasferimenti per centinaia di milioni.

Un altro esempio. In materia di distacchi sindacali, alcune migliaia in Italia, è certo una garanzia conservare presso il sindacato lo stipendio precedente a carico del pubblico, e comprensivo dei “premi produttività” che non sono su base individuale. Ma  i sindacati devono capire che l’obbligo sin qui osservato all’anonimato delle loro liste, per motivi di privacy confermati dopo attento esame anche dalla stessa Autorità Garante, non è esattamente un pilastro e presidio di trasparenza agli occhi dell’opinione pubblica.

Anche le centinaia di milioni che l’INPS garantisce al sindacato per le quote associative dei pensionati, trattenute direttamente sulle pensioni con il meccanismo della delega di carattere permanente (salvo revoca), nonché a titolo di ritenute sulle prestazioni, costituiscono un ammontare che occorre comprendere a che cosa va parametrato.  Lo Statuto dei lavoratori riconosce infatti ai sindacati ampie prerogative – assemblee retribuite, permessi per partecipare alle riunioni degli organi dirigenti, sedi, diritto di affissione – in base alle quali l’attività sindacale si svolge pressoché integralmente a carico dei datori di lavoro. Ed è troppo, sapere il preciso ammontare dei patrimonio immobiliari sindacali, esente da tassazione immobiliare?

Conclusione: chi qui scrive è per un modello di sindacato finanziato da soli contributi liberi e volontari, senza ritenute alla fonte obbligatorie per legge e con propri fondi previdenziali integrativi, in modo che ciascuno possa essere giudicato sulla gestione più efficiente. Ma non mi perdo dietro a questo che, nell’Italia di oggi, è un sogno. Siamo però sicuri che per primi i dirigenti sindacali guadagnerebbero molti consensi, tra i loro iscritti e soprattutto tra i molti milioni in più di lavoratori che non lo sono, se il prossimo primo maggio ci facessero intanto un regalo. Anche se non obbligati per legge, decidete da soli di redigere e pubblicare un bel bilancio consolidato. Così finiranno le polemiche. E darete una prova di non essere come la politica: tanto chiusa alla trasparenza, che alla fine sotto la pressione popolare tra  tre anni dovrà rinunciare al vecchio finanziamento pubblico diretto. Non dovrebbe essere così anche per voi?

13
Mar
2014

Le 4 novità, i voti e le stroncature alle misure di “Cesare” Renzi

Sinceramente non capisco gli stupori al “metodo Renzi” della conferenza stampa di ieri. Evidentemente, ancora moltissimi giornalisti e, soprattutto, politici, non hanno capito che il premier ha scelto da anni un metodo molto diverso da quelli ai quali la politica ci ha abituato. Non ha nulla che spartire con la compunzione dei tecnici, che non comunicano se non provvedimenti già definiti nei dettagli e collimati alla virgola con i direttori generali ministeriali, e lo fanno con la voce bassa e i toni noiosi connessi da sempre a una certa idea di “serietà”, rispetto alla concitazione e alla polemica permanente della politica italiana. E non è neanche figlio o erede del “sorriso in tasca” del Berlusconi dei migliori anni, come molti invece pensano e scrivono.  Ciò che li unisce è la deliberata volontà e capacità di parlare direttamente  alle tasche e alla pancia degli italiani, ai loro difetti prima che ai loro pregi, bypassando ogni filtro. Ma Berlusconi  è sempre stato un populista “antagonista”, pronto a vantare col sorrisone sparato a 32 denti anche  un suo fazzoletto come prova irrefutabile della sua irriducibile superiorità rispetto ai comunisti, deideologizzato appellativo in cui comprendere e liquidare chiunque per qualunque ragione non la pensi come lui: anche se magari è semplicemente un liberale coerente, a differenza sua. Renzi è un populista “inclusivo”, un arcitaliano che non cerca nemici, gli avversari preferisce liquidarli in due battute senza concedere loro alcun “Libro nero”.

La sinistra italiana ha dunque il suo Cesare, con tanto di veni –vidi- vici in 32 slides di cui la prima è una katana sguainata che annuncia “100 giorni di lotta”. Nel Pd è già aperta la gara a trovare i Bruto e i Casca, per farlo fuori.  E’ tutto da vedere, se Cesare Renzi vincerà guerre vere o si ridurrà a guerricciole e veleni come uno dei tanti duchi Valentino cari a Machiavelli. Ma se per caso qualche guerra vincesse, anche la destra dovrà smuoversi dal contemplare la reliquia imbalsamata di Berlusconi. Mica sarebbe male.

Detto questo, è il caso di tentare di fissare e discutere alcune impressioni sulla “svolta” illustrata da Renzi.

Novità 1: le coperture.   Dai tagli di spesa “Cottarelli” vengono solo 3 miliardi per il 2014, veramente pochini. Renzi ha pensato che procedere pubblicamente a un’illustrazione dei tagli complessivi proposti da Cottarelli, anticipandone il più possibile all’anno in corso e al 2015 invece di rinviarne il più al 2016, avrebbe riacceso un dibattito incentrato sul “rigore”. Sarebbe stato depressivo, pensa Renzi. Peccato, la vera svolta verrà quando si capisce che è dalla spesa che si comincia, vista la sua adiposa pesantezza, per dare benzina a tagli alle tasse e alla crescita. Il più delle coperture viene invece dai risparmi sugli interessi del debito pubblico – grazie allo spread incatenato al ribasso dai flussi di capitale in fuga dai paesi emergenti – internazionale – nonché dalla decisione di tornare al 3% di deficit sul Pil, venendo meno all’impegno europeo di continuare  a scendere anno dopo anno verso l’azzeramento del deficit.

Novità 2: l’Europa. La Bce, questa mattina, nel suo bollettino mensile ha subito richiamato il governo Renzi all’attuazione delle misure concordate nel patto di stabilità. E’ ovvio che il testo del bollettino era scritto prima della conferenza stampa di Renzi, e non è una risposta alle sue misure. Ma Renzi propugna un’altra linea. Da quanto ne sappiamo, senza aver ancora convinto  i vertici tecnici del MEF, a giudicare dagli spifferi gelati giunti dalle loro stanze alla stampa negli ultimi tre giorni.  “In Europa ci vado io, a spiegare che quel margine mi serve per crescere di più nel breve, è interesse di tutti e non solo dell’Italia”, ha detto per chiaruire che NON saranno i tecnici – Padoan è avvisato – a avere l’ultima parola per l’Italia in Ecofin. E’ un rischio. ma Renzi lo prende a suo carico, in vista del semestre europeo. E del fiscal compact che ci impone di ridurre il debito pubblico dal 2015 di un ventesimo l’anno della quota eccedente il 60% del PIl. Non regge, a questo proposito per covincere l’Europa, il ritornello dell’argomento-Fortis” – siamo un paese virtuoso, in 21 anni degli ultimi 22 anni (unica eccezione il 2009) siamo in avanzo primario.  L’avanzo primario permanente ventennale – cioè le entrate che superano la spesa al netto degli interessi – realizzato attraverso aumento verticale del drenaggio fiscale e ciò malgrado con effetto di debito pubblico crescente al galoppo, è la fotografia di un paese non virtuoso ma malato, e a crescita zero per eccesso pubblico.

Novità 3: l’intendance suivrà.  Lo disse sprezzantemente De Gaulle nel 1958, a proposito del fatto che i grandi leader prendono decisioni di fondo, e ai vivandieri cioè all’amministrazione pubblica spetta seguirli senza far troppe storie, giudicando di legalità e legittimità ma NON le direttive politiche da seguire.  E’ la ragione per la quale ieri Renzi ha svolto la sua relazione elencando le misure da assumere da maggio in poi, non ha consegnato i singoli provvedimenti.  Può essere un buon metodo per un paese che attende davvero svolte profonde, ma al solo patto di modificare in profondità il rapporto tra politica e vertici ministeriali, i veri detentori del potere di veto scrittura e interpretazione autentica del procedimento normativo italiano. Vedremo, perché il diavolo è nei dettagli e le riforme italiane non funzionano mai innanzitutto perché chi le scrive ne attenua programmaticamente ogni impatto “eversivo” dei processi organizzativi sino a quel momento invalsi.

Novità 4. Niente concertazione. Una delle cose migliori: basta processioni preventive di sindacati vari e diversi. La Cgil ci è cascata in pieno, tra annunci di sciopero preventivi e il quasi ridicolo 10 dato ex post dalla Camusso ieri.  Speriamo che Renzi non torni mai, ai sinodi della sala Verde con 55 sigle “sociali” schierate. Sindacati e imprese dicano e scrivano in documenti come la pensano e  cosa vogliono, ma la politica decida e si faccia giudicare per i fatti suoi. Rispetto alla sinistra – ma anche alla destra di Berlusconi – una sana rottura di continuità.

Veniamo, telegraficamente , al merito della raffica di annunci.

Lavoro: la parte di gran lunga migliore, merita un 10. Aumentare da 12 a 36 mesi il rapporto di lavoro a tempo determinato e abolire il “causalone”, cancellare le rigidità imposte dalla riforma Fornero all’apprendistato, sono due tra le misure migliori per alzare la propensione all’offerta di impiego.  Accolte le richiese delle imprese, senza distinzioni tra piccole e grandi, ma è di grande benficio soprattutto alla piccola.  Bene non aver dato retta ai no sindacali. Eì’ servito con gli interessi, chi aveva dubbi sul ministro Poletti.

Debiti PA-Imprese: giudizio sospeso. Apprezzabilissimo  l’impegno entro luglio di mettere a disposizione altri 68 miliardi di euro – dopo i 22 del 2013 – per il pagamento completo dei debiti pubblici commerciali. Ai giornalisti finanziari risulta però ancora del tutto aperta la questione del metodo seguito per farli “rilasciare” da Cdp.  La proposta Bassanini, di cui si era parlato, non convince né il MEF né la Commissione Europea.  Vedremo. Certo è che 70 bn di liquidità sarebbero la parte monetaria più essenziale del combustibile alla ripresa lato-aziende.

Casa: 6 e mezzo.  Personalmente distinguo: è da 8 aver innalzato a 900 euro la detrazione fiscale per affitti a chi ha meno di 15.493 euro annui di reddito. Non capisco però perché debba valere solo per chi ha canone concordato. Continuo a non capire l’enfasi sul canone concordato, attraverso la pur apprezzabile discesa dal 20 al 10% della cedolare secca, riservata appunto solo ai canoni concordati. E’ il vecchio riflesso condizionato a sinistra a favore dei “calmieri” dioclezianei ai prezzi.   La solita tiritera della “lotta all’evasione” si è rivelata con armi spuntate: il canone concordato non è decollato per gli aggravi ingenti sull’intera tassazione immobiliare, che ha messo l’intero settore alle corde. Lo Stato deve capire che se continua a far salire le tasse sulla casa, non è con la cedolare secca che ricrea il margine per proprietari  alla disperata ricerca di rendimenti non negativi.

Ammortizzatori : giudizio sospeso. Si parla di una delega, da esercitare poi entro 6 mesi dall’approvazione. Buono l’intento di dare copertura veramente universale a tutti coloro che perdono il lavoro, compresi gli esclusi oggi da Aspi e mini-Aspi. Buona anche l’abrogazione della Cassa in deroga, discrezionalmente gestita dalle Regioni. Al di là di questo però manca ogni dettaglio per capire davvero di che si parla e le coperture, che in questo caso sono da immaginare per miliardi “a pacchi”.

Agenzia Nazionale Occupazione: mah… i Centri Regionali per l’impiego in Italia funzionano solo per i loro dipendenti, ma se l’Agenzia Nazionale nasce per somma di tutti i loro dipendenti più tutti quelli che sotto il ministero del Lavoro si occupano centralmente di politiche attive , e per di più senza levare la programmazione alle Regioni, beh la probabilità che nasca un carrozzone immondo è matematica certezza.  Il contratto di inserimento a tutele crescenti – anche qua, senza testi può voler dire modello –Ichino, modello-Boeri o modello-chiacchera –  è subordinato all’approvazione del nuovo codice del lavoro, incaricato di rivedere le diverse tipologie contrattuali. Manca sinora una scelta coraggiosa: aprire ai privati, che gestiscono il più dell’incrocio domanda-offerta, l’appartenenza a pieno titolo al sistema pubblico convenzionato per l’impiego. Certo, i sindacati insorgerebbero. Ma su questo, altrimenti, il rischio-fallimento per  Renzi resta molto forte.

IRPEF: per me il voto è 5. E’ il “cuore di sinistra” della manovra renziana. Aver scelto di concentrare 10 bn di risorse a regim e 6 bn nel 2014 – il più da aumento di spesa in deficit, come abbiamo visto – sulla maggiorazione delle detrazioni alle fasce basse di reddito del solo lavoro dipendente (da quel che si è capito ieri, nella dizione ”e assimilati” NON rientrano gli autonomi), e agli “incapienti” sotto gli 8mila euro di reddito annuo (ma non si dice come).  Inutile ripetere quanto già detto: abbattere l’IRAP sarebbe stato meglio. Ma per la sinistra  confondere le ragioni della ripresa – ridare margini a imprese estenuate – con quelle della redistribuzione è errore antico. Ricordare il titolo del libro di Yoram Gutgeld: più uguali più ricchi. Peccato che non sia vero. Tuttavia scolpiamoci bene in mente una cosa: se Renzi riesce davvero a dare mille euro in più a chi ne guadagna fino a 1500 al mese, sarà la maggior operazione di sgravio tangibile agli occhi di 10 milioni di italiani da decenni a questa parte.

Tassa sul risparmio: il mio voto è zero. Abbattere un 10% dell’IRAP privata – pesa 24 bn, a cui se ne aggiungono 10 bn di “partita di giro” pubblica – con l’innalzamento dal 20 al 26% della ritenuta su risparmi bancari e redditi azionari-obbligazionari, escludendo come al solito Poste e titoli pubblici, è una boiata pazzesca. Sommandosi alla patrimoniale conto-titoli – che quest’anno sale al 2 per mille – e alla Tobin Tax “all’italiana” vigente da noi e non adottatat dai grandi paesi europei, l’effetto è di un’aliquota ben superiore al 32%. Per di più regressiva, mentre invece i redditi da capitale a qualunque titolo dovrebbero confluire nel reddito complessivo IRPEF ed essere soggetti dunque ad aliquota progressiva. In Germania ad esempio l’aliquota ordinaria del 25% da redditi da capitale, con sovraliquota del  5,5% come contributo solidarietà all’Est tedesco (e un ulteriore 8% che si può liberamente scegliere di destinare a una confessione religiosa) convive con la libera scelta del contribuente a minor reddito di portare tutto in Irpef, se sotto la soglia dell’aliquota del 25%, con franchigia esentassa fino a 8mila euro e per il resto tassazione al 14%.  Qui da noi la tassa è regressiva perché per chi ha minor reddito la libera scelta di portare i redditi da capitale in IRPEF non c’è,  ma c’è pure una patrimoniale secca aggiuntiva, c’è una Tobin Tax, e a pagare sono solo le persone fisiche mentre imprese e intermediari finanziari portano i proventi a reddito IRES. Quando vi dicono che sul risparmio stiamo adottando una “tassa europea”, vi celano queste essenziali caratteristiche, che mancano al prelievo italiano di cui Renzi dispone l’aggravamento.  La sua spiegazione è semplice, è una sola e l’Europa non c’entra. Lo Stato ha sete, dunque penalizza qualunque altro impiego del risparmio diverso da quello destinato a lui. Si chiama “repressione finanziaria”, di modello giapponese: a me fa schifo.

Energia: giudizio sospeso. Carlo Stagnaro ci insegna che tagliare il 10% della bolletta elettrica alle imprese  è cosa possibile e buona, ma il problema è rimodulando quali dei tanti stranded cost oggi presenti in bolletta e a carico di chi. La cosa migliore sarebbe colpire per quota parte tutti i maggiori interessi oggi ipertutrelati in bolletta: fare una scelta di campo, significa esporsi pro o contro tra rinnovabilisti ed energivori. Quindi, allo stato attuale impossibile giudicare. Dalle parole del ministro Guidi, si è capito che passeranno alcuni mesi, anche perché giustamente ci si confronterà prima con l’Autorità di settore. Ma la Guidi può fare un opttimo lavoro, rispetto alla somma in bolletta di sussidi-per-tutti sin qui seguita.

Scuola: voto 7. Buona l’idea della cabina di regia a palazzo Chigi per sbloccare qualche miliardo sull’edilizia scolastica, anche in deroga al patto di stabilità per amministrazioni locali che abbiano residui attivi “congelati”

11
Mar
2014

Il derby Avastin-Lucentis e i prezzi AIFA dei farmaci—di Fabrizio Gianfrate

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Fabrizio Gianfrate.

La vicenda Lucentis-Avastin, oltre a sollevare ancora il tema dell’uso off-label dei farmaci, in Italia amplificato e distorto dai casi limite delle cure “miracolose” (dal siero Bonifacio, alla cura Di Bella fino al recente metodo Stamina, ecc.), ruota intorno a un elemento invece poco commentato: l’elevato differenziale di prezzo assegnato ai due farmaci dal principio attivo simile, quasi sovrapponibile, ma dall’utilizzo differente.

Evidentemente a diverse indicazioni terapeutiche vanno prezzi diversi. Quindi, nel criterio di definizione del prezzo da parte dell’autorità, l’AIFA, prevale l’utilizzo, la finalità del bene sulla sua consistenza, sulle caratteristiche intrinseche del bene stesso.

Read More

8
Mar
2014

Dati causa e pretesto? (seconda parte)

Il tema del divario di genere – qui affrontato sotto il profilo dei primi risultati dell’applicazione della legge Golfo-Mosca, dei benefici derivanti da una maggior presenza delle donne in posizioni apicali e, al contempo,  degli scarsi poteri decisionali comunque a esse attribuiti –  può essere altresì esaminato individuando alcune delle cause che ne sono alla base.

Read More

8
Mar
2014

Dati causa e pretesto? (prima parte)

Nelle due parti del presente scritto – di Lucia Quaglino e Vitalba Azzollini – verranno analizzati i benefici di una maggior presenza delle donne in posizioni apicali, evidenziando come a quest’ultima non corrisponda, di fatto, un aumento dei poteri decisionali ad esse attribuiti. Quindi, saranno individuate alcune delle cause alla base dei disequilibri attuali, al fine di dimostrare che determinati risultati professionali sono conseguenza di scelte, inclinazioni e attitudini femminili, non necessariamente di un’iniqua disparità di trattamento. Verrà altresì rilevato come talune situazioni si stiano spontaneamente modificando nel senso di una progressiva attenuazione dei divari esistenti: l’evoluzione sociale e culturale è oggetto di un processo sul quale il legislatore deve evitare di interferire, poiché  il danno che rischia di provocare potrebbe essere più rilevante di quello che, mediante misure correttive, tenta di attenuare.

I benefici di una maggior presenza femminile

Tra il 2011 e il 2013, come il rapporto Consob On Corporate Governance of Italian listed Companies dimostra, la percentuale delle donne che rivestono il ruolo di consiglieri è salita dal 7,4% al 17% e, nel medesimo periodo, il numero delle imprese dove almeno una donna siede nel CdA è passato da 135 a 198. Ciò viene illustrato dal grafico sottostante, pubblicato da Daniela Del Boca e Paola Profeta nell’articolo “Le quote di genere due anni dopo”, su Lavoce.info.

Figura 1:

donne cda

 

I benefici effetti di una maggiore presenza femminile ai vertici aziendali vengono rilevati in questo rapporto dell’Unione Europea, che riporta una serie di studi dove si dimostra che la partecipazione delle donne nei CdA è auspicabile sotto più di un profilo. In sintesi, una quota maggiore di donne in posizioni apicali:

–          assicura migliori performance organizzative e finanziarie (maggiore crescita del prezzo delle azioni, profitti, vendite, ritorno del capitale investito e del patrimonio netto);

–          garantisce una crescita delle quote di mercato, considerato che le donne controllano circa il 70% della spesa dei consumatori a livello mondiale e sono, dunque, più in grado di intercettare con efficacia le esigenze dei consumatori, rispondendo a queste ultime con un’offerta più adeguata di prodotti e servizi;

–          favorisce creatività e innovazione, incentivate dalla diversificazione di conoscenze e abilità tra i componenti del consiglio, migliorando le prestazioni e i risultati aziendali;

–          migliora la qualità e l’etica della corporate governance;

–          consente un migliore utilizzo dei diversi talenti, dal momento che più della metà degli studenti che si laureano dalle università europee sono donne.

Inoltre, da un punto di vista macroeconomico, considerato che l’invecchiamento della popolazione e le carenze di lavoro qualificato ostacolano la crescita economica,  più alti tassi di occupazione femminile e più elevati rendimenti salariali garantirebbero economie forti e sistemi pensionistici sostenibili in futuro, oltre a colmare  divari occupazionali e retributivi di genere.

A fronte delle evidenze sopra fornite circa l’utilità e i vantaggi di una maggiore presenza femminile sul mercato del lavoro e, in particolate, ai vertici aziendali, appare inutile il ricorso alle “quote”: se un più forte ruolo decisionale delle donne è idoneo a garantire risultati aziendali migliori, sarà inevitabilmente e spontaneamente il mercato stesso a evolvere nella direzione indicata, in quanto tale da recare migliori risultati a tutti i soggetti interessati.

Board vs chairperson: stare nei Cda non garantisce in automatico poteri decisionali

Nonostante i risultati dell’intervento normativo, l’Italia è uno dei Paesi con una minore presenza femminile (figura 2) nei CdA, che peraltro si incrementa in misura minore che altrove (figura 3): la spiegazione potrebbe ricondursi alla circostanza che la percentuale di donne occupate è tra le più basse tra i Paesi considerati, nonostante un’elevata quota di donne disponga di un livello di educazione terziaria. Potrebbe influire il fatto che in Italia le imprese sono soprattutto medie e piccole.

Figura 2: Uomini e donne nei board delle maggiori società quotate, gennaio 2012

 

 donne cda

Figura 3: Cambiamento nella quota di donne nei board delle imprese, Ottobre 2010 – Gennaio 2012

 

donne cda

È interessante rilevare come, in ambito europeo, nonostante l’aumento della partecipazione femminile dei board aziendali, tra il 2012 e il 2010 il livello dell’apporto decisionale delle donne (chairpersons), si è ridotto dal 3,4% al 3,2%. In Italia, secondo uno studio della Commissione europea sulla leadership maschile e femminile, tale quota esso è addirittura pari a zero nel 2013 (figura 4).

Figura 4: Quota femminile tra i Board chairs e i CEOs nelle grandi compagnie, Aprile 2013

 

donne cda

Inoltre la percentuale di presenza femminile (figura 5), pur bassa rispetto ai Paesi europei, è più alta (sebbene, in media, inferiore agli altri Paesi europei) tra i direttori non esecutivi (15%), mentre è molto bassa tra quelli esecutivi (5,4%): restano dunque aperti molti dubbi sull’efficacia delle quote nel garantire effettivo potere decisionale ed esecutivo alle donne.

Figura 5: Quota di donne tra i direttori non esecutivi e quelli esecutivi delle maggiori società quotate, Aprile 2013

 

donne cda

Il rapporto, infine, confronta le diverse misure messe in atto dai Paesi europei: da una parte, quelle volontarie, più flessibili e garanti di un maggiore senso di appartenenza per le aziende che le adottano; dall’altra, quelle obbligatorie per legge, che invece sembrerebbero tradursi in sostanziali progressi, soprattutto se sono accompagnate da sanzioni. Probabilmente, i migliori risultati ottenuti dalla seconda tipologia delle misure citate sono imputabili proprio alla previsione di sanzioni per l’ipotesi di inadempimento, più che alla percezione dell’importanza dell’obiettivo che la norma tende a realizzare. Tuttavia, l’imposizione prescrittiva della composizione di genere di un Cda in termini percentuali, è una scelta arbitraria il cui impatto è, peraltro negativo: da un lato, depriva di potere decisionale l’imprenditore, dall’altro, come dimostrato, non conferisce alle donne alcun potere esecutivo. Inoltre, com’è evidente, svilisce i meriti di queste ultime, quasi che esse non fossero capaci di prefissarsi autonomamente i propri obiettivi né di ottenere  mediante i propri sforzi determinati risultati.


 

8
Mar
2014

La Rai e una certa idea di donna—di Paolo Di Betta

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Paolo Di Betta.

Quest’anno la Rai festeggia i 90 anni della radio e i 60 della televisione, da cui una profusione di mostre e convegni celebratori. Si aggiunga che il servizio pubblico ha investito la Rai di un ulteriore compito fondamentale per la società, che concerne la sola metà del cielo: garantire una corretta rappresentazione della donna nei mezzi di comunicazione. All’opera quindi! Da questa congiunzione astrale nasce il convegno “Donna è…”, a chiusura del quale (il 6 marzo 2014) la Presidente della Rai ha affermato che “Un paese che non utilizza tutta la risorsa femminile non è un paese democratico”.

Read More

7
Mar
2014

Il folle piano europeo di decarbonizzazione – di Philip Booth e Carlo Stagnaro

Articolo pubblicato su Conservativehome.com

Il progetto europeo di decarbonizzare il sistema economico entro il 2030 è probabilmente ben descritto dalla definizione di follia data da Albert Einstein: “compiere ripetutamente la stessa azione aspettandosi esiti differenti”. Le direttive attuali richiedono una riduzione delle emissioni del 20 percento sotto i livelli del 1990 entro il 2020, mentre un altro 20 percento del fabbisogno energetico deve essere soddisfatto attraverso fonti di energia rinnovabili. Ora l’UE punta ancora più in alto. La Commissione Europea ha varato un nuovo piano, con il quale l’obiettivo di decarbonizzazione viene innalzato. La Commissione propone una riduzione delle emissioni del 40 percento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030, e il 27 percento dell’energia proveniente da fonti rinnovabili. Sarà un fallimento. Non solo è probabile che il processo di decarbonizzazione risulti di per sé costoso, ma una regolamentazione a favore delle rinnovabili comporta problemi di natura economica. Le economie europee diverranno meno competitive, vi sarà più burocrazia e più incertezza di regolamentazione. L’Europa, sull’orlo di un conflitto in Ucraina che potrebbe alzare i prezzi del gas naturale per un lungo periodo di tempo, dovrebbe piuttosto trovare altri modi per rendere l’energia più conveniente. Read More

7
Mar
2014

L’eredità-Saccomanni: nei conti pubblici balla un punto di Pil

Ma c’è o non c’è, un pasticcio sui conti pubblici ereditati dal governo Renzi? Molti elementi dicono di sì, e si tratta di fatti. Cerchiamo di comprenderli, evitando però di confondere i fatti con interessi e risentimenti politici, che nella finanza pubblica inevitabilmente sono sempre presenti.

Renzi si sta attenendo a una linea di prudenza assoluta, caldeggiata dal Quirinale che vuole evitare ogni sbavatura rispetto al governo uscente, come non bastasse la procedura già abbastanza singolare seguita nell’avvicendamento a palazzo Chigi. “Il governo non ha nuovi compiti a casa assegnati da Bruxelles, sappiamo che cosa dobbiamo fare”: il premier ha ieri cercato così di gettare acqua sul fuoco, dopo la nuova retrocessione comminata il giorno prima dall’Europa a Roma, scesa nella serie C dei tre Paesi Ue considerati a maggior squilibrio macroeconomico. Ad altrettanta prudenza si è rigorosamente attenuto il Ministero dell’Economia, Piercarlo Padoan, nella sua intervista ieri a Sole24 ore. Ciò che non si poteva immaginare era che provvedesse l’ex ministro tecnico, Saccomanni, a gettare benzina sul fuoco con dichiarazioni molto aspre. I commenti di Bruxelles sono “incomprensibili e immotivati”, e per l’ex ministro “non c’è nessun buco, né alcun bisogno di manovra bis”. Il responsabile economia della segreteria del Pd, Taddei, ha dovuto replicargli che Renzi non aveva attaccato Letta. Oggi Saccomanni sul Corriere rincara la dose, evidentemente la perdita del ministero gli brucia, arriva a dire “hanno avuto paura dei risultati che potevamo conseguire”. Proprio tono e parole di Saccomanni mostrano che il problema c’è, eccome.

Anzi, di problemi ce ne sono due. Uno riguarda il merito dei conti ereditati dal governo Letta, rispetto a osservazioni venute da Bruxelles non l’altro ieri, ma mesi fa. L’altro è l’interpretazione da dare al famigerato limite del 3% di Pil come tetto al deficit pubblico annuale.

E’ un fatto, che la Commissione Europea – di fronte al primo esame preventivo delle leggi finanziare prima che venissero approvate, entrato in vigore come rafforzamento delle procedure di stabilità europee l’anno scorso – sin dallo scorso 14 novembre avesse notificato a Letta e Saccomanni delle richiesta di modifica. Il deficit pubblico strutturale italiano, che per il governo Letta era di un mero 0,3% nel 2014 e azzerato nel 2015, per la Commissione era invece stimato in nuova crescita, allo 0,7% nel 2014 e allo 0,9% nel 2015. Di qui una prima richiesta di misure aggiuntive. Intorno a 4 miliardi di miglioramento del saldo previsto dalla legge di stabilità per il 2014.

A metà novembre, le previsioni della Commissione per la crescita del Pil italiano nel 2014 erano ferme a quota più 0,7%, rispetto all’1,1% previsto invece da Saccomanni. La cosa è ulteriormente peggiorata con l’aggiornamento delle stime di crescita della Commissione lo scorso 25 febbraio, quando il Pil italiano 2014 è sceso di un altro decimale di punto. Mezzo punto di Pil di minor crescita rispetto alle previsioni della legge di stabilità può comportare minori entrate ordinarie tra i 3 e 4 miliardi. Ed ecco che, sommando le diverse componenti delle osservazioni venute da Bruxelles, nella peggiore delle ipotesi siamo già intorno agli 8 miliardi.

Sempre restando ai fatti, la risposta che Saccomanni e Letta diedero alla Commissione fu articolata in tre parti. Rivolgendosi alla scena politica interna, il commento fu: “di solo rigore si muore”. Alla Commissione e all’Ecofin, Saccomanni espresse la linea che, tra la spending review affidata a Cottarelli i cui esiti erano attesi per il 25 febbraio, il piano di privatizzazioni allora ancora in via di definizione, i 900 milioni attesi dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia disposta con decreto legge a parte, i conti che a Bruxelles non tornavano nella legge di stabilità sarebbero comunque tornati entro febbraio. E la Commissione accettò la replica italiana, disponendo però che appunto entro fine febbraio il governo italiano avrebbe dovuto mettere per iscritto quanto aveva disposto, in aggiunta al bilancio preventivo approvato entro fine anno. Terzo punto: Saccomanni e Letta restavano dell’idea di aver diritto a un bonus sulla spesa per investimenti, maturato con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione, nel maggio scorso.

Ecco, qualunque cosa voi possiate pensare del rigore chiesto da Bruxelles , i fatti dicono purtroppo che su quei tre punti il passaggio dal governo Letta a Renzi fa ereditare problemi al secondo. Innanzitutto, poiché la scadenza della comunicazione a Bruxelles delle misure aggiuntive è caduta esattamente nei giorni del cambio di testimone tra i due governi senza che Saccomanni desse una risposta ufficiale, alla Commissione Europea i conti continuano a non tornare. La rivalutazione delle quote Bankitalia è stata approvata, e gli effetti sul conto economico delle banche sono a partire dai bilanci 2013 (quelli sul rafforzamento patrimoniale invece dall’anno successivo, per evitare accuse di “cosmesi” nella valutazione degli attivi patrimoniali per la prima volta nel 2014 affidata sui maggiori istituti alla nuova vigilanza europea della BCE). Ma della spending review di Cottarelli, nero su bianco, ancora di preciso non si sa nulla. Dai soli 3 miliardi attesi per il 2014, Padoan ha prudentemente detto che si può salire a 5. Ma si resta a parole pronunciate in interviste, mentre sarebbe stato meglio rendere pubbliche le conclusioni e proposte di Cottarelli, consegnate anch’esse a Saccomanni. E in ogni caso quei tagli dis pesa saranno a copertura di sgravi, non per migliorare i saldi. Quanto alla forbice di mezzo punto sulla crescita attesa nel 2014 dal governo Letta rispetto a tutti gli osservatori internazionali e dalla Banca d’Italia, essa resta.

In più , a dirla tutta, l’eredità da chiarire del governo precedente presenta altre due possibili sorprese. Se la Commissione Europea abbracciasse l’idea – non peregrina, a giudizio di chi qui scrive – che con il provvedimento Bankitalia si configurano aiuti di Stato alle banche, i proventi fiscali relativi diventano aleatori. Idem dicasi per i 4-6 miliardi che il governo Letta si attendeva dalla quotazione di una quota minoritaria ma elevata di Poste Italiane, se dovesse fare passi avanti il dossier europeo sugli aiuti di Stato a Poste attraverso l’assegno miliardario annuale a copertura delle gestioni previdenziali . Sarebbe inevitabile rinviare a tempi migliori la quotazione. E ricordiamoci che Royal Mail a Londra ha dovuto attendere la soluzione di un problema del tutto analogo, prima di poter andare in Borsa.

Ecco, sommando al mezzo punto di Pil contestato su deficit strutturale e crescita ottimistica, un altro mezzo di minori introiti da banche e quotazione di Poste, siamo praticamente a un punto di Pil che può ballare nei conti 2014. Non è poca cosa. Anche perché nel frattempo la Commissione ha tirato già la saracinesca di ogni ipotetico bonus per l’uscita dalla procedura d’infrazione.

Tutto ciò spiega perché ieri, nella sua intervista al Sole, Padoan non ha usato verso la Commissione i toni di Saccomanni, e non ha parlato se non di rispetto rigoroso del tetto del 3%. Il ministro ha esperienza più che decennale tra Fmi e Ocse, e sa che è sconsigliabile usare toni di sfida quando ci si muove sul ghiaccio usando pattini a rotelle invece di lame. Solo Renzi, a questo punto, deve e può provare a portare in Europa entro due mesi un pacchetto di misure di rilancio su imprese-lavoro capaci davvero di rialzare la crescita potenziale, tali da smentire gli interrogativi fattuali ai quali i predecessori non hanno dato risposta. Ma non può sbagliare il colpo. E se poi il “contratto per le riforme” riuscirà a diventare, nel semestre italiano di presidenza Ue da giugno, un esempio da seguire anche per tutti i paesi eurodeboli, in modo da riconquistare le opinioni pubbliche all’idea che la disciplina europea non è fatta solo di perdita di aziende, reddito e occupazione, allora partendo da queste basi sarà davvero una svolta. Basta ricordarsi, però, che “frubate” alla Saccomanni non aiutano.