22
Feb
2014

Le donne arrivano nei Cda: è una buona notizia?

Dalla prima indagine di Federutility sulla presenza delle donne nelle public utilities dopo l’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca emerge che la presenza femminile nei cda è quasi raddoppiata. Segno probabile che l’obbligo di mantenere una composizione del consiglio equilibrata nel genere, prevista appunto dalla legge per i primi tre rinnovi dalla sua entrata in vigore, ha funzionato.

È una buona notizia?

Dipende.

Read More

21
Feb
2014

Il meretricio è già tassabile

Da qualche anno non c’è più bisogno di “difendere l’indifendibile” prostituzione – per riprendere il titolo di un agile libro di Walter Block edito in Italia da Liberilibri – quantomeno di fronte al fisco.

Attività non illegale ma nemmeno regolamentata, così da restare nell’opacità delle attività nascoste, essa è comunque riconosciuta dal fisco come fonte di reddito, cosicché chi ad essa si dedica può, anzi deve, pagare le tasse sui proventi ricevuti.

Read More

21
Feb
2014

Eduardo, il panettiere suicida contro uno Stato pazzo

Eduardo De Falco, 43 anni, titolare di un panificio-pizzeria a Casalnuovo nella provincia di Napoli, è una nuova vittima delle aberrazioni del fisco italiano. Si è tolto la vita, una volta raggiunto da una sanzione – 2 mila euro da pagare in  24 ore, 10 mila a seguire – elevatagli dall’Ispettorato del Lavoro. L’accusa: sua moglie lavorava in bottega, ma non versava contributi. Eduardo non è un piccolo imprenditore che preferisce la morte alla vergogna, per esser stato sorpreso dallo Stato a offrire lavoro in nero. E’ invece una vittima. Vittima di ciò che la legge e la prassi fiscale italiane sono divenute negli anni, via via che lo Stato si faceva sempre più assetato e avido di entrate, nei confronti di quella particolare e diffusissima realtà italiana che sono le imprese familiari. Non lo affermiamo per polemica contro lo Stato. Ma guardando all’evoluzione nel tempo di ciò che è stato previsto, in ordine agli obblighi fiscali e contributivi di chi partecipa a un’impresa familiare.

Il codice civile all’articolo 230 bis stabilisce che impresa familiare è quella in cui collaborano coniuge, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado. In pratica, l’impresa ha carattere individuale e l’imprenditore assume in proprio diritti e obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi. Ciò significa che il familiare diverso dal titolare collabora all’impresa, non la cogestisce. Altrimenti, bisognerebbe costituire una società, con tutti gli obblighi conseguenti.

La riforma del diritto di famiglia, a metà anni Settanta, ebbe come conseguenza una nuova disciplina dei diritti patrimoniali e della partecipazione agli utili nelle imprese familiari, collegata al nuovo status paritario della donna. Nonché ai suoi diritti in caso di separazione tra coniugi, o di cessazione delle attività, o di atti eventualmente posti in essere dall’imprenditore in contrasto alla volontà dei familiari. La Cassazione, con diverse sentenze, fissò l’orientamento per il quale deve riconoscersi la qualifica di partecipante all’impresa familiare alla moglie anche casalinga, che effettui però per l’impresa prestazioni anche saltuarie che concorrano alla produttività dell’azienda. Tutte cose sacrosante.

Senonché per decenni il familiare partecipante all’impresa poteva a pieno titolo essere un coadiuvante a titolo gratuito, dunque con nessun obbligo di remunerazione né di contribuzione. E’ questo, il punto rilevante da cui partire per comprendere il dramma di cui è stato vittima Eduardo De Falco. Era una disciplina che aveva un senso eccome, per agevolare la microimpresa familiare, una disciplina che rimase a lungo in vigore quando ancora in Italia sussisteva il cumulo dei redditi tra familiari, prima che la Corte Costituzionale a metà anni Settanta lo facesse decadere, rendendo il fisco italiano il più ostile alla famiglia in tutti i Paesi occidentali, nel nome della scelta che dobbiamo essere tutti solo contribuenti individuali di fronte allo Stato. Una scemenza – al mio punto di vista – che ha contribuito ad abbattere la curva demografica italiana, mentre in Francia resta il quoziente familiare e negli Usa – il sistema che preferisco – i coniugi sono liberi di scegliere tra tassazione individuale e cumulo, che naturalmente abbatte l’aliquota marginale da pagare.

La condizione del coadiuvante a titolo gratuito nell’impresa familiare era ancora coerente alla disciplina fiscale dei componenti l’impresa familiare che venne con il D.P.R. 917 del 1986, il quale precisava che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore-capoazienda, sono imputati a ciascun familiare, che abbia però prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Purché, diceva la norma, ciascun familiare attestasse nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la propria attività di lavoro in modo continuativo e prevalente. Come vedete, nessun obbligo.

Ma le cose cambiarono dieci anni dopo. Il legislatore, allora, si piegò alle istanze insistenti dell’INPS e dell’INAIL, per i quali la disciplina era stata troppo generosa. Lo Stato stava perdendo troppi contributi, sui quali era meglio mettere le mani. Era un errore, affidarsi all’autodichiarazione della prestazione “continuativa e prevalente” da parte degli stessi familiari. Ed ecco che con la legge 335/95 il titolare e i familiari lavoratori divvenero tutti , tutti senza eccezione, tenuti ad iscriversi alla speciale gestione lavoratori autonomi INPS e a versare i relativi contributi. I quali, di fatto, vengono corrisposti dal titolare dell’impresa familiare, che ha anche diritto ad esercitare il diritto di rivalsa nei confronti di ciascun partecipante per la quota dallo stesso dovuta.

Eccolo, l’obbligo evaso contestato a Eduardo. Eccola, la norma che l’ispettore del lavoro ha creduto bene di applicargli. Eppure, malgrado la sete statale di entrate, malgrado quella legge generale dell’obbligo contributivo. ancor oggi non è affatto detto che debba essere applicata senza eccezioni. La Corte di Cassazione, con la sentenza del 30 maggio 2013 n. 13580, ha stabilito infatti che l’obbligo di iscrizione alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciale dell’impresa familiare non è generale, ma sussiste solo quando l’attività lavorativa ha carattere continuativo e non occasionale. E il caso impugnato fino alla Cassazione era proprio quello di un titolare di una vendita di articoli sportivi ai cui coadiuvanti familiari era stata applicata la stessa norma e lo stesso mancato pagamento contributivo contestati a Eduardo per sua moglie.

Eduardo, con ogni probabilità, non ha avuto il tempo e il modo di ricorrere a un consulto con un avvocato del lavoro. Di fronte alla multa e alle migliaia di euro dovute, gli è mancata la terra sotto i piedi.  Ha collegato la marmitta all’abitacolo della sua auto. Ha acceso il motore. E se n’è andato così. Lasciando amici e familiari nel dolore. E noi tutti muti, di fronte alle vittime che lo Stato tassatore cieco e ingiusto continua a produrre ogni giorno nel nostro impoverito Paese.

20
Feb
2014

Gli LSU e le scuole occupate: triste parabola delle non-scelte pubbliche

E’ rientrata dopo due giorni in tutta la Campania, l’emergenza dell’interruzione di pubblico servizio scolastico da parte dei lavoratori ex LSU addetti alla pulizia degli istituti. Iniziamo a dire che si tratta di un reato, e come tale andrebbe perseguito. Aggiungiamo che non è stata questa, la riposta delle istituzioni. Né di quelle locali, a cominciare dal sindaco di Napoli De Magistris, che ha pregato solo al secondo giorno chi picchettava le scuole di lasciarle funzionare, visto che “l’emergenza occupazione era stata segnalata”. Né della stessa amministrazione scolastica, visto che il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Bouchè ha ritenuto di sensibilizzare i dirigenti scolastici a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine solo in “nuovi casi” di occupazione.

Ma parliamoci chiaro: l’occupazione delle scuole senza reazioni immediate da parte delle istituzioni non rivela solo il venir meno, anche nella scuola, di quel principio di ininterrompiblità del servizio pubblico essenziale che dovrebbe essere pilastro di una società ordinata, ma in Italia non lo è. E non è questione che si risolva ora in una raffica di denunce penali, visto che di fatto sono i vertici stessi delle amministrazioni territoriali e scolastiche – come a genova furono quelle dei trasporti – a “comprendere” benissimo chi ha impedito le lezioni ad allievi e docenti.

La vicenda degli ex LSU, la loro protesta e la reazione che ha suscitato, apre uno squarcio di luce assai più ampio dell’ormai inesistente senso dello Stato. Inquadra una delle maggiori difficoltà italiane. L’incapacità di assumere decisioni chiare, numeri alla mano da una parte e vite delle persone dall’altra. E’ in realtà una delle scelte più difficili ma insieme più necessarie della politica, decidere nelle difficoltà. In Italia, per decenni si è preferito il rinvio, la protrazione di una promessa a tempo. Costosa per il contribuente. E tale da indurre dipendenza nei beneficiari a tempo, invece di indurli a propria volta a scelte per il propruio meglio.

E’ di questo tipo, infatti, la storia dei più di 24 mila ex Lavoratori Socialmente Utili, categoria creata in Italia non all’interno di una organica riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, ma tre decenni fa per tentare di assorbire in grandi città del Mezzogiorno almeno una parte dei disoccupati di lungo periodo, ormai specializzatisi nell’esercitare pressioni sulla politica e nei macrocontesti urbani attraverso autocoordinamenti stabili nel tempo e molto attivi. Napoli ne sa qualcosa, per anni e anni le “liste storiche” dei disoccupati sono state una costante dei blocchi stradali cittadini. Senza preavviso, ovviamente.

Nel 1994-96 due esigenze si incrociarono. Anche in quel caso, non attraverso una scelta meditata e stabile nel tempo. Da una parte il sistema scolastico si piegava al fatto che il personale tecnico ATA – quelli che un tempo si chiamavano bidelli, ora per carità parola da non usare sotto pena d’interdetto– non era adeguato alla necessità che aveva espletato per decenni, pulire le scuole. Di conseguenza, si sarebbero utilizzati con rapporti a tempo gli ex LSU e non solo loro, diverse decine di migliaia di lavoratori esterni che oggi guadagnano circa 850 euro al mese. Gli ex LSU, per parte loro, vedevano eternata una vita precaria, arrangiandosi facendo anche altro. Ma era meglio di niente, in un sistema pubblico che per decenni continua a offrirti rapporti né formativi né di ricollocamento.

La spesa nazionale per questa sola voce giunse ad assommare a oltre 600 milioni, fino al punto in cui nel 2012 la crisi obbligò il Ministero a un’altra scelta. Occorreva una gestione efficiente e trasparente dei servizi di pulizia scolastici, e anche in grado di pretendere standard di efficienza verificabile, come con gli ex LSU è di fatto da sempre impossibile. Per questo il compito venne affidato alla CONSIP, che nel 2013 ha diviso l’intero territorio nazionale in 13 lotti di gara, e ne ha banditi 10.

Quando si è trattato di bandire la gara in Campania, dove si concentra oltre la metà degli ex LSU, guarda caso a un burocrate è scappato di penna un pasticcio, che ha determinato un primo annullamento. A quel punto la legge di stabilità aveva però stabilito che a fine febbraio 2014 le risorse per gli ex LSU della scuola si sarebbero esaurite. Ecco perché sono partiti i blocchi delle scuole, a Napoli e in Campania. E che cosa ha fatto la politica? Ha saputo dare una risposta adeguata al pasticcio accumulato nel tempo, e a quello aggiuntivo che si compie oggi? No, il ministro Carrozza ha reperito nell’urgenza 20 milioni, e così si tira avanti un altro mese. Dopo quasi vent’anni di LSU nella scuola, non sono loro a poter offrire prezzi e standard competitivi con le imprese specializzate che partecipano alle gare. Ma è anche vero che lo Stato non li ha formati per questo, li ha solo eternati come spazzini. E loro dall’altra parte vogliono essere assunti come personale scolastico ATA a tutti gli effetti. Ormai cinquantenni e oltre, è tutta una vita che inseguono il posto fisso.

In quanti altri casi italiani, la politica per decenni non ha saputo scegliere tra una riforma equilibrata ed efficiente del welfare, e il costo umano della delusione di dover dire “ rispecializzati per un tempo limitato e ricollocati”, piuttosto che promettere contratti a tempo privi di formazione da rinnovare dopo ogni elezione? Lo sappiamo, tantissime volte. Chissà se l’Italia di Renzi saprà adottare scelte di questo tipo. E’ necessario, come è avvenuto con i pacchetti Hartz in Germania. Non tanto e solo perché le scuole non interrompano le lezioni. Il punto è che a furia di non scegliere, la politica ha trattato quei disoccupati per troppo tempo come se fossero dei mendicanti di Stato, e il danno inflitto alle loro vite e alla loro dignità in venti e più anni è irrisarcibile.

 

19
Feb
2014

I 60 mila di piazza del Popolo contano più della marcia dei 40mila

I 60 mila piccoli imprenditori che ieri da tutta Italia hanno riempito piazza del Popolo a Roma dovrebbero pesare come e più della mitica marcia dei 40mila quadri Fiat a Torino, nell’ottobre del 1980. Lo slogan è per molti versi identico, “lasciateci lavorare”. Ma nell’azienda torinese era rivolto al sindacato, che bloccava le fabbriche. Mentre ieri a piazza del Popolo era allo Stato, che lo indirizzavano gli artigiani e commercianti. Per questo è un grido disperato di allarme più grave. Non si raccoglie con una svolta collaborativa nelle relazioni industriali. È lo Stato, che in questi anni non ascolta e peggiora le cose. E cambiare lo Stato è molto più difficile.
Read More

19
Feb
2014

Energia: tre errori di percezione troppo comuni

Martedì ho partecipato, come membro della giuria, alla National Sci-Tech Challenge, una iniziativa promossa da ExxonMobil e Junior Achievement Italia per indirizzare i giovani allo studio delle materie scientifiche. Come sempre, dai ragazzi si imparano molte cose.

Dodici squadre composta ciascuna da cinque studenti di scuole superiori, selezionate negli istituti superiori, si sono confrontati con una traccia ampia e stimolante:

Utilizzando tutte le tecnologie disponibili oggi o in futuro, il vostro team dovrà sviluppare un progetto per realizzare un sistema di trasporti integrato, veloce ed efficiente che si estenda dalla Russia all’Europa.

Read More

17
Feb
2014

Ha solo 6 lettere, uno dei nodi più temibili per Renzi: E U R O p a

Tra i tanti problemi che Renzi si trova a ereditare e che dovrà affrontare immediatamente, uno dei più rilevanti riguarda i rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. E’ un problema serio, articolato in almeno tre livelli concentrici.

C’è una prima questione che riguarda le pendenze irrisolte con la Commissione Europea sul bilancio italiano del 2014. C’è una seconda questione, sul rispetto dei tetti europei. E c’è, ancora più ampia, una questione più generale: la richiesta che viene da ampi settori della destra come della sinistra, di operare una rottura di continuità rispetto alla posizione tenuta da Roma verso l”Unione europea in questi anni di crisi, da Berlusconi-Tremonti prima, Monti poi, e Letta infine. La questione politica vera è quest’ultima, ed è assai sdrucciolevole. Le elezioni europee sono tra poche settimane, e Renzi dovrà misurarsi con un dibattito politico che sarà incandescente, sul doppio nodo dell’euro e del rigore. Avendo, sulla carta, assai pochi margini per assecondare colpi di testa. Ma è anche vero che Renzi ha già detto nel recente passato alcune cose, su queste materie, che potrebbero tradursi in novità comunque profonde.

Cominciamo però dalla prima questione. Essa nasce con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione europea, nella scorsa primavera, grazie alle misure di bilancio – tasse, soprattutto tasse – assunte sommando l’ultimo Tremonti e Monti. A quel punto, l’Italia chiese di potersi avvantaggiare nel 2014 di un bonus per spese d’investimento pubblico aggiuntive, rispetto al limite rigoroso comunque da rispettare, di abbassare ancor più nel 2014 il deficit pubblico sotto quota 3% del Pil. Tutti parlarono a vanvera di chissà quale premio, per l’Italia virtuosa. Sciocchezze, stiamo parlando in in realtà di robetta: 2,7 miliardi in tutto. Ma è pur vero che è quasi un 10% in più, rispetto alla bassissima cifra della spesa per investimenti pubblici – in questi anni la spesa corrente è cresciuta perché i voti si fanno con quella, gli investimenti dello Stato si sono abbassati.

Il governo Letta quei 3 miliardi scarsi di investimenti in più li ha già messi nel bilancio 2014, dando per scontato che l’UE fosse d’accordo. La sorpresa è venuta quando la Commissione ha esaminato la legge di stabilità, e ha avuto da obiettare. La crescita attesa nel 2014 dal governo Letta era troppo alta, l’1,1% del Pil, mentre il più degli osservatori internazionali e Bankitalia non si spingono oltre lo 0,6-0,7%. Decimali di punto, ma tali da indurre la Commissione a chiedere a Letta un mezzo punto di Pil di tagli aggiuntivi al deficit pubblico. Saccomanni a Bruxelles disse che ci avrebbe pensato Cottarelli. E resta il fatto, dunque, che Renzi dovrà come prima cosa mettere per iscritto le misure aggiuntive che Letta e Cottarelli avevano solo promesso. In teoria e in pratica, la scadenza per comunicare alla Commissione le nuove misure era OGGI, 17 febbraio 2014…

Ciò vale a patto, naturalmente, di voler rispettare alla lettera e al decimale di punto i tetti europei. E qui veniamo alla seconda questione. In realtà, non solo tutte le opposizioni, da Grillo alla Lega e Fratelli d’Italia, ma un bel pezzo dello stesso Pd, nonché uno svariato crescente numero di intellettuali, economisti e via proseguendo nei talk show serali, dicono e teorizzano che il tetto del 3% al deficit pubblico bisognerebbe avere il coraggio di violarlo, e bellamente fregarsene, se l’autorizzazione non viene. Stefano Fassina, l’ex viceministro all’Economia, si dimise non solo per la sferzante battuta di Renzi, “Fassina chi?”. Ma perché da tempo sostiene che i limiti al deficit sarebbero il diktat di una “visione neoliberista” da cui il Pd deve liberarsi. Fassin a non è affatto solo, a pensarla così.

Renzi pure, qualche tempo fa, disse che a suo parere in questo 2014 il 3% di limite al deficit pubblico non deve rappresentare un tabù. Se l’Italia porta in Europa due-tre misure in grado di scuotere davvero dalle fondamenta il suo ritardo di bassa crescita e forte disoccupazione, bassa produttività e gap di competitività, allora Bruxelles non potrà che apprezzare e capire.

Attenzione: Renzi – finora, almeno –  non ha mai sposato la visione ormai anti-euro di Grillo, Salvini, Alemanno e tanti altri. Né ha teorizzato la “svolta a sinistra”, che porta diversi esponenti del Pd ad accarezzare l’ipotesi di una nuova formazione insieme a Sel. Ha proposto invece di sfondare il tetto al deficit per finanziare riforme che possano avere effetti certi di crescita nel breve-medio periodo,e in quanto tali certificati anche da Bruxelles. Ma tutto questo l’ha detto dalla comoda posizione di leader politico senza responsabilità di governo. Ora che diventa premier, si tratta di capire se davvero seguirà questa linea. E come la differenzierà, eventualmente, dall’assordante coro antieuro con il quale ormai tutti – da Berlusconi a Ferrero, passando per i 5 Stelle – pensano di mietere voti alle europee, pescando a mani basse nelle giusta rabbia di milioni di italiani regrediti nella crisi a redditi reali di 15-20 anni fa, e sapendo che analoga politica seguiranno il Front National in Francia, l’Ukip nel Regno Unito, il PVV in Olanda.

Venendo al terzo problema, Renzi sa di avere un doppio handicap. A differenza di chi lo ha preceduto, Letta e Monti, il sindaco di Firenze non è personalmente conosciuto e stimato dai leader europei e da Obama, dal Fondo Monetario e dai mercati. Meglio, direbbero gi anti-euro. Ma è un bel rischio per lui, presentarsi alla Merkel e a Draghi come un premier che pone l’Italia sulla linea del non rispetto degli accordi pregressi. E’ vero che i mercati mondiali spingono verso il basso lo spread dei Paesi eurolatini, grazie alla fuga di flussi finanziari in atto dai Paesi emergenti. Ma ci si mette poco, a farsi la fama dello spendi-facile italiano.

Il secondo handicap è che il premier Renzi non potrà far finta di niente, come hanno fatto i suoi predecessori, di fronte al fatto che nel 2015 entra in pieno vigore il fiscal compact, con l’impegno ogni anno a ridurre di almeno un ventesimo l’eccesso di debito pubblico oltre quota del 60% del Pil. E noi siamo al 133%! Nella legge di stabilità di Letta, che pure abbraccia l’orizzonte triennale in cui il fiscal compact entra in vigore, non si dice nulla di come rispettarlo. Ed è contro il fiscal compact che, nella campagna per il voto europeo, tanti picchieranno col martello, accusandolo di essere uno strumento di asservimento dell’Italia alla perfida signora Merkel…

Nessuno può oggi sapere come Renzi si regolerà.  Né sappiamo come la pensi dei numerosi “programmi straordinari” per abbattere e consolidare il debito, mutuando patrimonio pubblico e risparmio di mercato, che sono stati avanzati in questi anni, e che talora mascherano ipotesi di temibili patrimoniali.  Un conto è se Renzi davvero presenterà riforme energiche, tagli profondi all’IRAP e alle tasse sul lavoro, tagli di spesa veri e sin qui mai visti, privatizzazioni serie e non finte come quelle che si stanno varando, ad esempio Poste. In quel caso, l’Italia potrebbe pensare secondo Renzi di tornare a crescere entro un paio d’anni verso un tasso del 2% del Pil, ed è ciò che serve per recuperare in 6-7 anni il gap accumulato nella crisi, invece che in 15 o 20. A quel punto, col Pil in più forte crescita, il debito si ridurrebbe significativamente per questa sola forza, visto che ciò che conta è il suo rapporto col Pil, e non il suo stock assoluto.

Altro conto è se Renzi riterrà invece davvero di voler esercitare comunque una rottura, anche sulla scena europea. Romano Prodi la chiede da tempo, disegnando un grande patto latino tra Italia, Francia e Spagna. Le premesse però non ci sono. Perché Hollande, in caduta libera, ha dovuto annunciare 50 miliardi di minor spesa e 30 di minori tasse entro fine 2016. Mentre la Spagna, attualmente, già cresce a un tasso tre volte superiore al nostro….anche se parliamo di un + 0,3% a trimestre rispetto a uno 0,1% nostro, che significa essere al di sotto di ogni soglia in realtà statisticamente rilevabile.

In nessuna occasione, in realtà, Renzi ha dovuto raccontare a fondo quale sia la “sua” visione dell’eurocrisi. Speriamo ricordi che la crisi italiana data da 10 anni buoni prima della moneta unica. E che dunque, euro o no, bisogna aggredirne alla radice i problemi. I difetti dell’euro ci sono eccome, ne abbiamo parlato tante volte e personalmente ero tra i pochi a farlo prima che adottassimo l’euro. E’ ovvio che, a mercati sottostanti separati e con permanenti diverse curve di costo, la moneta unica obbliga i paesi che non riequlibranio strutturalmente la bilancia dei pagamenti alla deflazione interna: e da noi, a bassissima elasticità salariale e incapaci di scambi “salario-produttività”, cio significa solo più disoccupati e meno impresa. Ma se tra il 2008 e il 2012 le sole banche francesi, tedesche e olandesi hanno fatto defluire dall’Italia capitali pari al 15,3% del nostro Pil, non è stato per un complotto ordito a tavolino alla Cancelleria tedesca, ma perché i 3 milioni di disoccupati italiani, i 4 milioni di pensionati a 500 euro al mese, e il Sud dimenticato, sono il prodotto di scelte sbagliate innanzitutto italiane, non solo europee.

 

17
Feb
2014

Verso una Primavera bosniaca? — di Edo Omercevic

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Sembrava sul punto di scoppiare anche una Primavera bosniaca. Per giorni, la gente ha manifestato in tutto il paese contro il governo e ha lanciato un appello per le sue dimissioni. Ma le manifestazioni hanno avuto un triste risvolto. Edifici e strade in fiamme. Manifestanti e agenti di polizia feriti. Gli archivi pubblici dati alle fiamme. L’intero apparato amministrativo era sul punto di collassare.

Diversamente da quanto accaduto in altre zone, queste manifestazioni non sono indirizzate contro un tiranno. La gente protesta perché è affamata e senza lavoro. Secondo le stime ufficiali, circa il 40 percento dei bosniaci è disoccupato. Molti sopra i trent’anni non hanno mai lavorato in regola un solo giorno.

Read More

16
Feb
2014

Consigli non richiesti a Renzi: tre svolte al MEF

Domani saranno ore decisive, in cui Renzi illustrerà riservatamente ai capi della maggioranza le linee generali dell’accelerazione economico-finanziaria che ha in mente. Partiamo pure dal presupposto che lui e i suoi consiglieri più stretti abbiano già le idee chiare. Ciò malgrado, vale la pena di esercitarsi in una serie di considerazioni sul tema. Della serie, se volete, “consigli non richiesti”. Ma non per questo vani.
Prima dei numeri, un’osservazione sul prossimo ministro dell’Economia. Certo, con oltre 300 miliardi di euro di titoli pubblici da piazzare l’anno, aiuta una figura il cui profilo in quanto tale sia garanzia, ai mercati e alla BCE guidata da Mario Draghi. Questo spiega i nomi “tecnici”, che puntualmente sono in testa di lista del totomnistri per il MEF.
Ma Renzi farebbe bene a capovolgere lo schema. Meglio un competente politico, con vasta esperienza di amministrazione, buone relazioni con l’opposizione, e di cui il premier possa fidarsi visto che il MEF ha le chiavi di ogni cosa. Altrimenti, deve essere un tecnico con idee politiche trasparenti, e combattivo verso i vertici della macchina ammnistrativa del MEF e delle Agenzie fiscali, da anni e fino ad oggi i veri indiscussi padroni del vapore delle decisioni di spesa e di entrata. Ma sarebbe meglio un politico, smisuratamente ambizioso sulla stessa linea del premier, visto quel che c’è da fare.
Sui numeri, si ereditano non più emergenze a rischio di esplosione: grazie al cielo, cioè all’andamento dei mercati internazionali oggi in fuga dai Paesi emergenti, e grazie ai due ultimi predecessori a palazzo Chigi, anche se hanno seguito come Tremonti una via tutta-tasse che è sbagliata.. Detto questo, è mwglio non sottovalutare che se falisce anche Renzi, la Trojka per l’Italia torna a essere dietro l’angolo. Tre enormi questioni si ereditano, comunque irrisolte. Esse sono alla radice della maggior perdita di prodotto e reddito dell’Italia, dal 2008 a oggi, rispetto alla stessa Spagna. E spiegano perché la ripresa italiana resti asfittica, col rischio di impiegare 15-20 anni a recuperare i livelli perduti. E su queste questioni ha ragione il Quirinale: meglio un acordo di governo esoplicito, scritto e chiaro.
La prima questione riguarda il combinato spesa-tasse. Renzi eredita una spesa pubblica complessiva 2013 a 808 miliardi di euro, che nel 2017 è prevista crescere a quota 854. Entrate totali 2013 per 759 miliardi, previsti in ulteriore temibile – per non dire: terrificante – salita, a quota 842 miliardi nel 2017. Una spesa corrente che sale ancora, dai 757 miliardi del 2013 agli 811 del 2017, e investimenti pubblici invece inchiodati, sui 28-29 miliardi. Di fronte a questo oceano, il modo per intervenire c’è eccome, volendo.
La prima necessità è trovare le risorse per sgravi veri a impresa e lavoro: il maggior torto di Letta eè stato trascurare questa innegabile priorità, e invece impiccarsi sull’IMU per 10 mesi. Rinviando al commissario esterno Cottarelli indicazioni di contenimento di spesa che è invce la politica, a dover esprimere. E finché non sarà così, i tagli che servono non verranno, come non sono venuti.
I tagli attesi da Cottarelli erano quantificati in 3 miliardi nel 2014, 10 miliardi nel 2015, 17 nel 2016. Letta, nelle sue ultime slides di Impegno Italia ha alzato i tagli a 16,6 miliardi nel primo biennio. Renzi e il suo ministro dell’Economia dovrebbero alzare ancora l’obiettivo ad almeno 20 miliardi nei primi 2 anni, e dovrebbero affiancare Cottarelli con piena copertura politica, per giungere all’indicazione in pochissime settimane, diciamo tre, finché cioè il governo è al’inizio e nel pieno della sua capacità propulisva..
Perché almeno 20 miliardi? Per avere risorse – senza deficit aggiuntivo – in grado di esercitare effetti concreti e non di zero virgola, sui redditi disponibili e sui margini delle imprese. La componente redditi, con un intervento di 7-8 miliardi concentrato in più detrazioni nella fascia tra gli 8mila e i 25 mila euro di reddito, può tradursi in 300-350 euro in più nelle tasche del contribuente medio italiano. Mentre, con gli altri 12 miliardi in 2 anni si abbatte del 50% il monte-IRAP pagato dalle aziende private: e il resto del’IRAP lo si dovrebbe trasferire subito in IRES, in modo che a pagare siano solo le imprese in utile, e azzerando la doppia iniquità che a pagare di più sia chi offre più lavoro e chi usa più beni strumentali, rispetto a chi esternalizza e delocalizza.
Naturalmente per tutto questo occorre cambiare però subito la norma approvata in legge di stabilità, che vincolava a copertura di spese già 10 mliardi delle risorse ancora non individuate da Cottarelli. E qui veniamo alla seconda priorità, il cambio di marcia sulla spesa pubblica.
Dei 757 miliardi di spesa corrente 2013, le retribuzioni pubbliche sono ormai inchiodate a quota 164 miliardi, anche per i prosismi anni. Ma le abbiamo fermate con lo stop al turn over e bloccando gli aumenti : restano rilevanti interventi di tipo equitativo. Se si interviene sui compensi dell’alta dirigenza, come il professor Roberto Perotti documenta da alcuni mesi tabelle alla mano, un buon miliardo e mezzo si risparmia senza colpo ferire e senza affamare nessuno, ma semplicemente ponendo uno stop alla vergogna d retribuzioni multiple dei burocrati italiani rispetto ai parigrado nei maggiori Paesi al mondo. Con tutto il rispetto, non si capisce perché il presidente della Corte costituzionale debba guadagnare tre volte quel che è riconosciuto al Capo dello Stato, e quattro volte quel che intasca un giudice della Corte Suprema USA.
Ma passando alle forniture della PA, i 130 miliardi 2013 in crescita fino a 140 nel 2014 attendono ancora una messa in riga attraverso il passaggio obbligato a piattaforme elettroniche trasparenti di procurement: la CONSIP intermedia a malapena un quarto degli acquisti, e altri 5-6 miliardi di risparmi in 2 anni possono saltar fuori senza che a piangere siano altri che corrotti pubblici, e collusi e concussori privati.
Dei 320 miliardi somma di previdenza e assistenza, in crescita a quota 356 nel 2017, in questa sede non parliamo, dando per scontato che Renzi e il suo partito non vogliano toccarli. E’ comunque sbagliato: sia perché i trattamenti più elevati, figli del solo sistema retributivo, rappresentano uno schiaffo alle generazioni successive, sia perché è tempo di smetterla con la CIG in deroga per andare a un unico strumento di sostegno al reddito, quando lo si perde. Ma qui entriamo nelle competenze del ministro del Lavoro e del Jobs Act, è un altro tema.
La terza partita da giocare al MEF è quella che spesso i più dimenticano. Oltre alle tasse e alla spesa, il MEF è altre due cose. E’ il ponte di comando delle imprese pubbliche centrali, e dovrebbe essere quello di controllo delle decine di migliaia di società pubbliche locali. Sulle finte privatizzazioni in atto a livello centrale, a cominciare da Poste, come la pensiamo noi è ovvio, ma temo proprio Renzi non se la sentirà di mettersi contro tuto il suo partito e tutta la sinistra, smontando quel che Letta ha già avviato. Purtroppo. Ma chissà se Renzi avrà almeno il coraggio di affermare un chiaro indirizzo di apertura al mercato invece di gestioni in house, e di proporre penalizzazioni a chi mantiene sul territorio selve di società gestite in perdita. E infine il MEF dovrebbe recuperare un ruolo attivo nella soluzione del problema più grave, oltre all’eccesso fiscale, che ha generato la moria d’impresa: la restrizione del credito.
Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, la settimana scorsa ha finalmente rotto il plumbeo silenzio istituzionale che da due anni gravava sulla necessità di una bad bank, per alleviare l’eccesso di sofferenze bancarie che grava sul sistema del credito. E’ stata la politica, sinora, a non voler affrontare un intervento di sistema, nel timore di attirarsi nuovi sospetti europei. Anche col consenso delle due maggiori banche italiane, che hanno mezzi propri per affrontare il problema. Ma il nodo ora va affrontato, perché tutto il resto del sistema bancario italiano altrimenti continuerà a negare credito a famiglie e imprese. E sarebbe molto meglio usare gli attivi di Cassa Depositi come garanzie per una bad bank delle Popolari e BCC, invece di usarli per fare di Cdp una IRI Bis.
Chissà a quale punto del nostro troppo lungo elenco di buoni propositi, Renzi ci avrebbe già tirato un martello in testa, come nella fiaba al grillo parlante….