8
Mar
2014

Dati causa e pretesto? (seconda parte)

Il tema del divario di genere – qui affrontato sotto il profilo dei primi risultati dell’applicazione della legge Golfo-Mosca, dei benefici derivanti da una maggior presenza delle donne in posizioni apicali e, al contempo,  degli scarsi poteri decisionali comunque a esse attribuiti –  può essere altresì esaminato individuando alcune delle cause che ne sono alla base.

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8
Mar
2014

Dati causa e pretesto? (prima parte)

Nelle due parti del presente scritto – di Lucia Quaglino e Vitalba Azzollini – verranno analizzati i benefici di una maggior presenza delle donne in posizioni apicali, evidenziando come a quest’ultima non corrisponda, di fatto, un aumento dei poteri decisionali ad esse attribuiti. Quindi, saranno individuate alcune delle cause alla base dei disequilibri attuali, al fine di dimostrare che determinati risultati professionali sono conseguenza di scelte, inclinazioni e attitudini femminili, non necessariamente di un’iniqua disparità di trattamento. Verrà altresì rilevato come talune situazioni si stiano spontaneamente modificando nel senso di una progressiva attenuazione dei divari esistenti: l’evoluzione sociale e culturale è oggetto di un processo sul quale il legislatore deve evitare di interferire, poiché  il danno che rischia di provocare potrebbe essere più rilevante di quello che, mediante misure correttive, tenta di attenuare.

I benefici di una maggior presenza femminile

Tra il 2011 e il 2013, come il rapporto Consob On Corporate Governance of Italian listed Companies dimostra, la percentuale delle donne che rivestono il ruolo di consiglieri è salita dal 7,4% al 17% e, nel medesimo periodo, il numero delle imprese dove almeno una donna siede nel CdA è passato da 135 a 198. Ciò viene illustrato dal grafico sottostante, pubblicato da Daniela Del Boca e Paola Profeta nell’articolo “Le quote di genere due anni dopo”, su Lavoce.info.

Figura 1:

donne cda

 

I benefici effetti di una maggiore presenza femminile ai vertici aziendali vengono rilevati in questo rapporto dell’Unione Europea, che riporta una serie di studi dove si dimostra che la partecipazione delle donne nei CdA è auspicabile sotto più di un profilo. In sintesi, una quota maggiore di donne in posizioni apicali:

–          assicura migliori performance organizzative e finanziarie (maggiore crescita del prezzo delle azioni, profitti, vendite, ritorno del capitale investito e del patrimonio netto);

–          garantisce una crescita delle quote di mercato, considerato che le donne controllano circa il 70% della spesa dei consumatori a livello mondiale e sono, dunque, più in grado di intercettare con efficacia le esigenze dei consumatori, rispondendo a queste ultime con un’offerta più adeguata di prodotti e servizi;

–          favorisce creatività e innovazione, incentivate dalla diversificazione di conoscenze e abilità tra i componenti del consiglio, migliorando le prestazioni e i risultati aziendali;

–          migliora la qualità e l’etica della corporate governance;

–          consente un migliore utilizzo dei diversi talenti, dal momento che più della metà degli studenti che si laureano dalle università europee sono donne.

Inoltre, da un punto di vista macroeconomico, considerato che l’invecchiamento della popolazione e le carenze di lavoro qualificato ostacolano la crescita economica,  più alti tassi di occupazione femminile e più elevati rendimenti salariali garantirebbero economie forti e sistemi pensionistici sostenibili in futuro, oltre a colmare  divari occupazionali e retributivi di genere.

A fronte delle evidenze sopra fornite circa l’utilità e i vantaggi di una maggiore presenza femminile sul mercato del lavoro e, in particolate, ai vertici aziendali, appare inutile il ricorso alle “quote”: se un più forte ruolo decisionale delle donne è idoneo a garantire risultati aziendali migliori, sarà inevitabilmente e spontaneamente il mercato stesso a evolvere nella direzione indicata, in quanto tale da recare migliori risultati a tutti i soggetti interessati.

Board vs chairperson: stare nei Cda non garantisce in automatico poteri decisionali

Nonostante i risultati dell’intervento normativo, l’Italia è uno dei Paesi con una minore presenza femminile (figura 2) nei CdA, che peraltro si incrementa in misura minore che altrove (figura 3): la spiegazione potrebbe ricondursi alla circostanza che la percentuale di donne occupate è tra le più basse tra i Paesi considerati, nonostante un’elevata quota di donne disponga di un livello di educazione terziaria. Potrebbe influire il fatto che in Italia le imprese sono soprattutto medie e piccole.

Figura 2: Uomini e donne nei board delle maggiori società quotate, gennaio 2012

 

 donne cda

Figura 3: Cambiamento nella quota di donne nei board delle imprese, Ottobre 2010 – Gennaio 2012

 

donne cda

È interessante rilevare come, in ambito europeo, nonostante l’aumento della partecipazione femminile dei board aziendali, tra il 2012 e il 2010 il livello dell’apporto decisionale delle donne (chairpersons), si è ridotto dal 3,4% al 3,2%. In Italia, secondo uno studio della Commissione europea sulla leadership maschile e femminile, tale quota esso è addirittura pari a zero nel 2013 (figura 4).

Figura 4: Quota femminile tra i Board chairs e i CEOs nelle grandi compagnie, Aprile 2013

 

donne cda

Inoltre la percentuale di presenza femminile (figura 5), pur bassa rispetto ai Paesi europei, è più alta (sebbene, in media, inferiore agli altri Paesi europei) tra i direttori non esecutivi (15%), mentre è molto bassa tra quelli esecutivi (5,4%): restano dunque aperti molti dubbi sull’efficacia delle quote nel garantire effettivo potere decisionale ed esecutivo alle donne.

Figura 5: Quota di donne tra i direttori non esecutivi e quelli esecutivi delle maggiori società quotate, Aprile 2013

 

donne cda

Il rapporto, infine, confronta le diverse misure messe in atto dai Paesi europei: da una parte, quelle volontarie, più flessibili e garanti di un maggiore senso di appartenenza per le aziende che le adottano; dall’altra, quelle obbligatorie per legge, che invece sembrerebbero tradursi in sostanziali progressi, soprattutto se sono accompagnate da sanzioni. Probabilmente, i migliori risultati ottenuti dalla seconda tipologia delle misure citate sono imputabili proprio alla previsione di sanzioni per l’ipotesi di inadempimento, più che alla percezione dell’importanza dell’obiettivo che la norma tende a realizzare. Tuttavia, l’imposizione prescrittiva della composizione di genere di un Cda in termini percentuali, è una scelta arbitraria il cui impatto è, peraltro negativo: da un lato, depriva di potere decisionale l’imprenditore, dall’altro, come dimostrato, non conferisce alle donne alcun potere esecutivo. Inoltre, com’è evidente, svilisce i meriti di queste ultime, quasi che esse non fossero capaci di prefissarsi autonomamente i propri obiettivi né di ottenere  mediante i propri sforzi determinati risultati.


 

8
Mar
2014

La Rai e una certa idea di donna—di Paolo Di Betta

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Paolo Di Betta.

Quest’anno la Rai festeggia i 90 anni della radio e i 60 della televisione, da cui una profusione di mostre e convegni celebratori. Si aggiunga che il servizio pubblico ha investito la Rai di un ulteriore compito fondamentale per la società, che concerne la sola metà del cielo: garantire una corretta rappresentazione della donna nei mezzi di comunicazione. All’opera quindi! Da questa congiunzione astrale nasce il convegno “Donna è…”, a chiusura del quale (il 6 marzo 2014) la Presidente della Rai ha affermato che “Un paese che non utilizza tutta la risorsa femminile non è un paese democratico”.

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7
Mar
2014

Il folle piano europeo di decarbonizzazione – di Philip Booth e Carlo Stagnaro

Articolo pubblicato su Conservativehome.com

Il progetto europeo di decarbonizzare il sistema economico entro il 2030 è probabilmente ben descritto dalla definizione di follia data da Albert Einstein: “compiere ripetutamente la stessa azione aspettandosi esiti differenti”. Le direttive attuali richiedono una riduzione delle emissioni del 20 percento sotto i livelli del 1990 entro il 2020, mentre un altro 20 percento del fabbisogno energetico deve essere soddisfatto attraverso fonti di energia rinnovabili. Ora l’UE punta ancora più in alto. La Commissione Europea ha varato un nuovo piano, con il quale l’obiettivo di decarbonizzazione viene innalzato. La Commissione propone una riduzione delle emissioni del 40 percento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030, e il 27 percento dell’energia proveniente da fonti rinnovabili. Sarà un fallimento. Non solo è probabile che il processo di decarbonizzazione risulti di per sé costoso, ma una regolamentazione a favore delle rinnovabili comporta problemi di natura economica. Le economie europee diverranno meno competitive, vi sarà più burocrazia e più incertezza di regolamentazione. L’Europa, sull’orlo di un conflitto in Ucraina che potrebbe alzare i prezzi del gas naturale per un lungo periodo di tempo, dovrebbe piuttosto trovare altri modi per rendere l’energia più conveniente. Read More

7
Mar
2014

L’eredità-Saccomanni: nei conti pubblici balla un punto di Pil

Ma c’è o non c’è, un pasticcio sui conti pubblici ereditati dal governo Renzi? Molti elementi dicono di sì, e si tratta di fatti. Cerchiamo di comprenderli, evitando però di confondere i fatti con interessi e risentimenti politici, che nella finanza pubblica inevitabilmente sono sempre presenti.

Renzi si sta attenendo a una linea di prudenza assoluta, caldeggiata dal Quirinale che vuole evitare ogni sbavatura rispetto al governo uscente, come non bastasse la procedura già abbastanza singolare seguita nell’avvicendamento a palazzo Chigi. “Il governo non ha nuovi compiti a casa assegnati da Bruxelles, sappiamo che cosa dobbiamo fare”: il premier ha ieri cercato così di gettare acqua sul fuoco, dopo la nuova retrocessione comminata il giorno prima dall’Europa a Roma, scesa nella serie C dei tre Paesi Ue considerati a maggior squilibrio macroeconomico. Ad altrettanta prudenza si è rigorosamente attenuto il Ministero dell’Economia, Piercarlo Padoan, nella sua intervista ieri a Sole24 ore. Ciò che non si poteva immaginare era che provvedesse l’ex ministro tecnico, Saccomanni, a gettare benzina sul fuoco con dichiarazioni molto aspre. I commenti di Bruxelles sono “incomprensibili e immotivati”, e per l’ex ministro “non c’è nessun buco, né alcun bisogno di manovra bis”. Il responsabile economia della segreteria del Pd, Taddei, ha dovuto replicargli che Renzi non aveva attaccato Letta. Oggi Saccomanni sul Corriere rincara la dose, evidentemente la perdita del ministero gli brucia, arriva a dire “hanno avuto paura dei risultati che potevamo conseguire”. Proprio tono e parole di Saccomanni mostrano che il problema c’è, eccome.

Anzi, di problemi ce ne sono due. Uno riguarda il merito dei conti ereditati dal governo Letta, rispetto a osservazioni venute da Bruxelles non l’altro ieri, ma mesi fa. L’altro è l’interpretazione da dare al famigerato limite del 3% di Pil come tetto al deficit pubblico annuale.

E’ un fatto, che la Commissione Europea – di fronte al primo esame preventivo delle leggi finanziare prima che venissero approvate, entrato in vigore come rafforzamento delle procedure di stabilità europee l’anno scorso – sin dallo scorso 14 novembre avesse notificato a Letta e Saccomanni delle richiesta di modifica. Il deficit pubblico strutturale italiano, che per il governo Letta era di un mero 0,3% nel 2014 e azzerato nel 2015, per la Commissione era invece stimato in nuova crescita, allo 0,7% nel 2014 e allo 0,9% nel 2015. Di qui una prima richiesta di misure aggiuntive. Intorno a 4 miliardi di miglioramento del saldo previsto dalla legge di stabilità per il 2014.

A metà novembre, le previsioni della Commissione per la crescita del Pil italiano nel 2014 erano ferme a quota più 0,7%, rispetto all’1,1% previsto invece da Saccomanni. La cosa è ulteriormente peggiorata con l’aggiornamento delle stime di crescita della Commissione lo scorso 25 febbraio, quando il Pil italiano 2014 è sceso di un altro decimale di punto. Mezzo punto di Pil di minor crescita rispetto alle previsioni della legge di stabilità può comportare minori entrate ordinarie tra i 3 e 4 miliardi. Ed ecco che, sommando le diverse componenti delle osservazioni venute da Bruxelles, nella peggiore delle ipotesi siamo già intorno agli 8 miliardi.

Sempre restando ai fatti, la risposta che Saccomanni e Letta diedero alla Commissione fu articolata in tre parti. Rivolgendosi alla scena politica interna, il commento fu: “di solo rigore si muore”. Alla Commissione e all’Ecofin, Saccomanni espresse la linea che, tra la spending review affidata a Cottarelli i cui esiti erano attesi per il 25 febbraio, il piano di privatizzazioni allora ancora in via di definizione, i 900 milioni attesi dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia disposta con decreto legge a parte, i conti che a Bruxelles non tornavano nella legge di stabilità sarebbero comunque tornati entro febbraio. E la Commissione accettò la replica italiana, disponendo però che appunto entro fine febbraio il governo italiano avrebbe dovuto mettere per iscritto quanto aveva disposto, in aggiunta al bilancio preventivo approvato entro fine anno. Terzo punto: Saccomanni e Letta restavano dell’idea di aver diritto a un bonus sulla spesa per investimenti, maturato con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione, nel maggio scorso.

Ecco, qualunque cosa voi possiate pensare del rigore chiesto da Bruxelles , i fatti dicono purtroppo che su quei tre punti il passaggio dal governo Letta a Renzi fa ereditare problemi al secondo. Innanzitutto, poiché la scadenza della comunicazione a Bruxelles delle misure aggiuntive è caduta esattamente nei giorni del cambio di testimone tra i due governi senza che Saccomanni desse una risposta ufficiale, alla Commissione Europea i conti continuano a non tornare. La rivalutazione delle quote Bankitalia è stata approvata, e gli effetti sul conto economico delle banche sono a partire dai bilanci 2013 (quelli sul rafforzamento patrimoniale invece dall’anno successivo, per evitare accuse di “cosmesi” nella valutazione degli attivi patrimoniali per la prima volta nel 2014 affidata sui maggiori istituti alla nuova vigilanza europea della BCE). Ma della spending review di Cottarelli, nero su bianco, ancora di preciso non si sa nulla. Dai soli 3 miliardi attesi per il 2014, Padoan ha prudentemente detto che si può salire a 5. Ma si resta a parole pronunciate in interviste, mentre sarebbe stato meglio rendere pubbliche le conclusioni e proposte di Cottarelli, consegnate anch’esse a Saccomanni. E in ogni caso quei tagli dis pesa saranno a copertura di sgravi, non per migliorare i saldi. Quanto alla forbice di mezzo punto sulla crescita attesa nel 2014 dal governo Letta rispetto a tutti gli osservatori internazionali e dalla Banca d’Italia, essa resta.

In più , a dirla tutta, l’eredità da chiarire del governo precedente presenta altre due possibili sorprese. Se la Commissione Europea abbracciasse l’idea – non peregrina, a giudizio di chi qui scrive – che con il provvedimento Bankitalia si configurano aiuti di Stato alle banche, i proventi fiscali relativi diventano aleatori. Idem dicasi per i 4-6 miliardi che il governo Letta si attendeva dalla quotazione di una quota minoritaria ma elevata di Poste Italiane, se dovesse fare passi avanti il dossier europeo sugli aiuti di Stato a Poste attraverso l’assegno miliardario annuale a copertura delle gestioni previdenziali . Sarebbe inevitabile rinviare a tempi migliori la quotazione. E ricordiamoci che Royal Mail a Londra ha dovuto attendere la soluzione di un problema del tutto analogo, prima di poter andare in Borsa.

Ecco, sommando al mezzo punto di Pil contestato su deficit strutturale e crescita ottimistica, un altro mezzo di minori introiti da banche e quotazione di Poste, siamo praticamente a un punto di Pil che può ballare nei conti 2014. Non è poca cosa. Anche perché nel frattempo la Commissione ha tirato già la saracinesca di ogni ipotetico bonus per l’uscita dalla procedura d’infrazione.

Tutto ciò spiega perché ieri, nella sua intervista al Sole, Padoan non ha usato verso la Commissione i toni di Saccomanni, e non ha parlato se non di rispetto rigoroso del tetto del 3%. Il ministro ha esperienza più che decennale tra Fmi e Ocse, e sa che è sconsigliabile usare toni di sfida quando ci si muove sul ghiaccio usando pattini a rotelle invece di lame. Solo Renzi, a questo punto, deve e può provare a portare in Europa entro due mesi un pacchetto di misure di rilancio su imprese-lavoro capaci davvero di rialzare la crescita potenziale, tali da smentire gli interrogativi fattuali ai quali i predecessori non hanno dato risposta. Ma non può sbagliare il colpo. E se poi il “contratto per le riforme” riuscirà a diventare, nel semestre italiano di presidenza Ue da giugno, un esempio da seguire anche per tutti i paesi eurodeboli, in modo da riconquistare le opinioni pubbliche all’idea che la disciplina europea non è fatta solo di perdita di aziende, reddito e occupazione, allora partendo da queste basi sarà davvero una svolta. Basta ricordarsi, però, che “frubate” alla Saccomanni non aiutano.

 

6
Mar
2014

Non è una buona idea lo stipendio di Stato alle casalinghe

Da Panorama in edicola

Uno stipendio antiviolenza contro le donne. A carico del coniuge, del compagno, o dello Stato. L’hanno messa giù dura, l’avvocato Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker. Prima di liquidarla come una provocazione, ragioniamone.

Esiste una correlazione, tra maggior reddito e minor violenza sulle donne? Se s’intende causa-effetto, si direbbe di no. Uno studio dell’osservatorio sul gender gap di Harvard attesta che negli anni ’90 negli Usa ogni 15 secondi avveniva un’aggressione contro una donna, e in Svezia ogni 10 giorni ne moriva una per violenze. Se per correlazione s’intende un’inferenza, questa c’è: lo dimostrano le spaventevoli percentuali di violenza sulle donne nei Paesi meno sviluppati. Ma è un’inferenza pesantemente condizionata da fattori antropologico-culturali, non solo dal reddito.

Il reddito femminile abbatte il gender gap? Sì. La Banca Mondiale aggiorna nel tempo un rapporto dedicato al tema, esaminando le diverse politiche per diminuire la “dipendenza” femminile. Sono tre i maggiori fattori che concorrono al fine. La partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le misure di conciliazione lavoro-famiglia. Gli effetti del sistema fiscale. Inevitabilmente, gli economisti si concentrano su misure che ottengano l’effetto della maggior autonomia femminile accrescendo insieme lo sviluppo complessivo. Cioè alzando l’output “ufficiale”, rispetto a quello “sommerso” del lavoro casalingo. Quest’ultimo è stato stimato dall’Istat in circa 405 miliardi di euro per i 4,8 milioni di casalinghe italiane, a tutti gli effetti non occupate ma attive per una media di 54-59 ore a settimana, e in altri 50 miliardi circa se si tiene conto della componente “sommersa” prestata a casa dalle donne lavoratrici. E’ più di un quarto del Pil italiano. Il che spiega perché tra i Paesi avanzati siamo in testa alla graduatoria giornaliera di “lavoro sommerso” familiare e parentale a solo carico femminile.

In Italia la vera priorità è innalzare il tasso di occupazione femminile, al 50% rispetto a una media Ue del 62% e di oltre il 70% nel NordEuropa. Per far questo c’è chi pensa – il team di economisti della Voce.info – a sgravi contributivi per sole donne. Non mi convince, sono per sgravi universali e non a tempo, su impresa-lavoro. E’ più importante riorientare il welfare alla conciliazione dei tempi lavoro-famiglia – visto che abbiamo una curva demografica tra le peggiori al mondo – con più asili nido non solo pubblici ma incentivati fiscalmente nelle aziende, congedi parentali più lunghi come in Francia e Danimarca, flessibilità oraria e telelavoro nei contratti. E attenuare l’eccessivo onere che l’IRPEF esercita sulle famiglie: i modelli sono diversi, tra le detrazioni superiori tra il 20 e il 40% per numerosità familiare a parità di reddito in Francia, e la scelta libera del contribuente a favore del cumulo dei redditi negli Usa. Bisogna iniziare a farlo innanzitutto al Sud, dove dal 2011 le casalighe sono tornate a superare le donne ufficialmente occupate.

Ma un reddito minimo per le donne? Nessun Paese al mondo in quanto tale lo prevede, ma è vero che la stragrande maggioranza dei Paesi europei offrono – con metodologie diverse – redditi minimi sociali universali, nel Nordeuropa anche con un riguardo a donne giovani e anziane. Qui la domanda diventa: ha più senso, rispetto alla finanza pubblica italiana e agli effetti da ottenere per aumentare la crescita a breve, un maxi trasferimento annuo aggiuntivo da un punto di Pil in reddito minimo, o riorientare dalla spea pubblica esistente risorse di ammontare analogo su conciliazione e fisco? Per la crescita, meglio la seconda cosa. Il trasferimento monetario alle donne Hunziker-Bongiorno avrebbe un effetto di crescita assai limitato, contribuendo solo marginalmente a consumi aggiuntivi rispetto alla domanda pubblica – se fosse lo Stato a pagare – o privata- se fosse il compagno. Sarebbe un costo, non una leva. Inevitabilmente pubblico, visto che con un reddito medio ormai inferiore ai 20mila euro annui e con un Sud di poco superiore alla metà, i “maschi” davvero avrebbero generalmente poca capienza. Ma una cosa è sicura: o il riorientamento del welfare a favore di donne e famiglia avviene, e in quel caso la violenza speriamo diminuisca sia per maggior indipendenza sia per una diversa cultura, oppure ne parleremo come di un’occasione persa per evitare di diventare tutti in media molto anziani sì, ma non si sa da chi mantenuti.

 

 

5
Mar
2014

La vera tracciabilità nasce come “ground information”—di Marco Malavasi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Malavasi.

Il 12 gennaio del 2000 la Commissione Europea emanò il cosiddetto “Libro bianco” sulla sicurezza alimentare, documento biblico nel quale tutta una serie di proposte finalizzate all’orientamento della politica alimentare dell’Unione europea si dirigevano verso l’obiettivo della sicurezza alimentare e del conseguente accrescimento della fiducia dei consumatori. Trascorso ben più di un decennio dall’introduzione di queste linee guida basate sulla mappatura di tutte le fasi “from field to plate”, il tema della tracciabilità agroalimentare è rimasto argomento di ampio dibattito, senza tuttavia conoscere una concreta applicazione nella prassi produttiva e commerciale lungo l’intera filiera, fino al consumatore finale. Read More

4
Mar
2014

Nessuna pietà per le imprese indebitate!—di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

Come si stabilisce il livello di indebitamento ottimale per un’impresa? Per chi si occupa di imprese e di finanza la domanda non ha una risposta univoca. Il debito è uno strumento fondamentale per l’imprenditore. Il denaro, come le merci dei fornitori ed il lavoro dei dipendenti, serve per far funzionare l’impresa colmando il divario temporale tra l’ottenimento dei ricavi e l’assolvimento delle proprie obbligazioni. Il ricorso eccessivo al debito ottenuto da terzi può ingolfare il meccanismo d’impresa, mettere in pericolo l’equilibrio finanziario e minacciarne la sopravvivenza. Di contro, secondo alcuni, anche un indebitamento elevato può essere strumento utile di corporate governance imponendo un severo scrutinio sulla gestione da parte dei finanziatori esterni, riducendo così i problemi legati al rapporto di agenzia tra azionisti e manager. Il dibattito non ha mai fine e l’equilibrio finanziario perfetto pare come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

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4
Mar
2014

Supply-side in salsa francese—di Emmanuel Martin

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Nel corso del suo recente viaggio negli Stati Uniti, il Presidente francese François Hollande ha visitato la Silicon Valley per incontrare gli imprenditori – americani e francesi. Qualche giorno dopo stava già organizzando un primo “consiglio per l’attrattività”, ideato per contrastare la caduta degli investimenti diretti esteri in Francia. Nei fatti, dall’inizio dell’anno, il socialista Hollande si è spostato su posizioni favorevoli all’economia di mercato – e addirittura ai tagli della spesa. La politica economica di supply side del Presidente francese è una rivoluzione per i canoni socialisti. Ma si tratta di una rivoluzione autentica?

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