29
Mar
2014

Gamberale e l’eterno ritorno del capitalismo parastatale

Quella che sta per cominciare, per Vito Gamberale, sarà anche una «terza gioventù», come proclama Alessandro Plateroti, intervistandolo sul Sole, ma somiglia pericolosamente alla prima e alla seconda. Alla soglia dei settant’anni, il manager molisano sta per tornare a casa. La lista di minoranza che fa capo alla Findim di Fossati ha fatto il suo nome per una poltrona nel consiglio d’amministrazione di Telecom Italia: con un po’ di fortuna, non sarà una poltrona qualsiasi, bensì quella di presidente. Sapientemente, Gamberale frena: «per il momento punto al ruolo di consigliere: il resto si vedrà».

Quasi vent’anni sono passati dalla precedente avventura di Gamberale in azienda: il monopolio ha lasciato il posto alla concorrenza; l’azionista pubblico si è fatto da parte e un certo numero di investitori privati sono andati e venuti; il mestiere stesso delle telecomunicazioni è cambiato: le reti si sono digitalizzate e la voce è ormai solo una fetta dell’attività degli operatori. Gamberale non è certo il tipo che si lasci impressionare da queste piccolezze.

L’azienda è stata privatizzata? Forse, ma lui – «dopo tanti anni nel settore privato» – ci rientra con lo spirito del «civil servant», per mettersi «a disposizione della compagnia e soprattutto del Paese»; del resto, parliamo di «un’azienda troppo strategica per il Paese, per non interpretarne il ruolo conciliando attese degli azionisti e sviluppo del Paese». (Qualcuno ha detto “Paese”?) Le accuse di conflitto d’interesse, per il suo ruolo in F2i? Disfattisti alla ricerca dei «soliti peli nell’uovo».

E i rapporti con l’azionista di controllo? Gamberale non ha una tradizione di concordia con le maggioranze spagnole in imprese italiane – le sue dimissioni dalla carica di amministratore delegato di Autostrade si consumarono in seguito all’acquisizione dell’azienda da parte di Abertis – ma non si costruisce una carriera dirigenziale di alto livello cavalcando le proprie antipatie. Certo, «Telecom deve lavorare per valorizzare se stessa, per arginare il declino nel Paese, per aiutare il Paese a sentirsi più evoluto». (Giureremmo di aver sentito nominare il Paese…) Però, «se poi, in tutto questo, possono conciliarsi anche interessi di Telefonica, ben venga il tutto». Bontà sua.

A ben vedere, c’è una cosa che Gamberale troverà quasi come l’aveva lasciata: la gestione della rete. Certo, con Open Access è intervenuta una prima forma di garanzia per i concorrenti, ma le discussioni sullo scorporo non hanno prodotto alcunché. Anche su questo, il Nostro ha le idee chiarissime: la separazione è un’ipotesi «surreale», perché «la rete telefonica» – ma mica ogni rete telefonica: solo quella «di un grande incumbent» – «non può essere ridotta ad un frazionamento catastale». Integrazione verticale unica via! Bizzarro punto di vista, venendo dal dirigente apicale di un fondo che di mestiere mette le infrastrutture a disposizione di chi sappia come usarle.

Gamberale sa bene che sulla rete occorre fare qualcosa: ma cosa? Semplice: valorizzarla, senza perderne il controllo. Se proprio fosse necessario. si potrebbe persino valutare l’ingresso di nuovi soci.  (La Cassa Depositi e Prestiti – che avevate capito?) In questo modo, Telecom potrà «investire sull’Italia e sulla modernizzazione della rete nazionale di trasporto in modo da garantire a tutti gli italiani l’accesso a internet ad una vera alta velocità». «Tutti gli italiani», come ai bei tempi andati del monopolio. Per la sua nuova avventura, Gamberale ha già pronto anche il motto: «si tornò al passato e fu progresso». Ci piacerebbe. È, però, raro che i ritorni si rivelino come qualcosa d’altro che insipide minestre riscaldate.

 

27
Mar
2014

Imprenditori più poveri dei dipendenti! Evasione!—di Carlo Amenta e Paolo Di Betta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta e Paolo Di Betta.

Ci risiamo, arriva il solito confronto fra stipendi dei dipendenti e reddito degli imprenditori.

Dai dati emanati dal Ministero dell’Economia (26 marzo 2014) emerge che i lavoratori autonomi dichiarano in media 36.070 euro, i dipendenti 20.280 e gli imprenditori 17.740.

E si scatena la ola sugli spalti: EVASIONE!

Non è possibile che gli imprenditori guadagnino quanto i dipendenti!

Il ragionamento è viziato da alcune relazioni: Read More

27
Mar
2014

Il bicchiere mezzo vuoto sulle Province, quello che non c’è ancora sui tagli

Il Senato ieri sera ha approvato il disegno di legge Delrio che compie un passo necessario per l’abrogazione delle Province. E’ stato necessario anche porre il voto di fiducia. Ma è un bene che sia stato fatto. Non perché il disegno di legge dia una risposta strutturale al problema che da tanti anni è diventato un tormentone – letteralmente si stenta a tenere il numero, delle volte nelle quali in tanti decenni si era promesso di mettere mano alla proliferazione dei troppi enti di governo locale – bensì per due altre ragioni. Se non si fosse dato un segnale chiaro e tempestivo, si sarebbe dovuto votare in decine e decine di province nel prossimo maggio. E a quel punto ancora una volta, con nuovi amministratori appena eletti, addio riforma strutturale e abrogazione. Secondo: perché era necessaria anche un’altra scelta chiara. Quella di iniziare e fare finalmente sul serio, tagliando di qualche migliaio i troppi eletti della politica italiana.

Il disegno di legge Delrio si limita però a una soluzione transitoria, prorogando a fine 2014 i presidenti delle 52 province appartenenti alle Regioni non a statuto speciale (che hanno una competenza propria sulle province, costituzionalmente tutelata) in cui si sarebbe dovuto votare, mentre altre 21 sono già commissariate. E ciò che conta davvero non è tanto la soluzione escogitata nel ddl, cioè trasformarle in enti di area vasta come associazioni di Comuni. Tanto meno le 10 città metropolitane inserite nel testo, visto che per Bari e Reggio Calabria è davvero una ridicolata. E tanto meno ancora che si sia tiornato ad aumentare di ben 24 mila unità – ma senza compenso, si afferma – il numero dei consiglieri comunali nei Municipi, sia nella fascia sino ai 3 mila abitanti, sia in quella sino a 10mila. Tutte cose per le quali ancor oggi la Ragioneria Generale dello Stato stenta a dire con precisione quanto davvero si risparmierebbe, oltre ai più di 100 milioni di emolumenti dei consiglieri non più eletti visto che il loro posto sarà preso da sindaci e amministratori comunali.

La realtà è che una soluzione organica, equilibrata e ordinata, sarà possibile solo nell’ambito della riforma generale del Titolo Quinto della Costituzione, che è appena agli inizi ed è ancora chiusa in un confronto tra pochi fiduciari dei partiti, collegata com’è anche all’abrogazione del bicameralismo perfetto e dell’attuale composizione del Senato, oltre che dei suoi poteri. Auguriamoci che la revisione dei rapporti e delle competenze, tra Stato centrale e Autonomie, risponda a un disegno non ispirato all’improvvisazione, come avvenne quando la sinistra con pochi voti di maggioranza varò la riforma del Titolo V° che ha reso impossibile grandi scelte economiche su terreni come le infrastrutture e l’energia. Ma intanto una cosa va detta: con tutte le riserve che è gisto nutrire sul fatto che vi sia tempo ed equilibrio bastevoli a partorire una buona riforma del Titolo V°, non ci sarebbe stata prospettiva a breve di riforma della Costituzione su tutti questi punti essenziali, se intanto non si fosse sciolto subito il nodo di impedire la rielezione di 52 province.

Bene così dunque. Anche se la soluzione “vera” non è quella del testo votato ieri, almeno la rende possibile come premessa per un serio cambio della Costituzione. Nel quale ancorare criteri di risparmio di spesa maggiori del solo trattamento economico dei consiglieri che non ci saranno più, e dei denari pubblici ai loro gruppi. Accompagnati a una ripartizione nuova e non più conflittuale delle competenze, tra Stato centrale e Autonomie. E a criteri finanziari che da una parte ancorino a princìpi più rigorosi l’autonomia finanziaria di Comuni e Regioni – a oggi, non esiste – ma in cambio anche di un’estensione locale della disciplina dell’articolo 81, che oggi vale solo per lo Stato centrale. E’ necessario, visto che appena lo scorso 6 marzo è stata depositata una sentenza della Corte Costituzionale che priva la Corte dei Conti dei poteri di blocco di programmi di spesa regionali in deficit che le erano stati attribuiti dal governo Monti: un’attribuzione che purtroppo contrasta con l’attuale disciplina del Titolo V°, che anche per questo va riformato.

Piuttosto, allarghiamo lo sguardo. Ieri il Capo dello Stato ha pronunciato parole che sono state subito equivocate, da una parte troppo ampia della politica. Visitando l’agenzia Ansa, che ha subito tagli pesanti nelle convenzioni che legavano la sua offerta di servizi giornalistici ai ministeri, e mentre il presidente americano Obama si diceva allarmato per i tagli alle spese della Difesa annunciati dall’Italia come da altri paesi NATO, Napolitano si è detto contrario ai tagli indiscriminati. Cioè quelli lineari, a cui si fece ricorso sotto Tremonti, e più volte da allora in avanti.

Ma il Presidente della Repubblica non intendeva affatto dire quel che in troppi hanno voluto capire. E cioè niente tagli. Era un florilegio, ieri, tra chi proponeva di salvare il Cnel, chi questo o quell’ente, chi questo o quel capitolo di spesa. Incrociando le dichiarazioni politiche, da destra a sinistra passando per i sindacati, una pessima fotografia di quanto sia ancora diffusa l’irresponsabilità, in tema di spesa pubblica. Napolitano ha voluto semplicemente dire che la politica deve uscire dall’aver demandato a “tecnici” – come Cottarelli, dopo Bondi e Giarda – il compito di esaminare tutti i capitoli degli oltre 800 miliardi di spesa pubblica, per individuare i tanti possibili interventi da compiere. Che sono necessari, per abbattere le imposte ammazza-crescita che gravano su impresa e lavoro.

Ora la politica deve scegliere, e spiegare all’Italia con chiarezza perché sceglie questa o quella posta, per almeno due punti di Pil di spesa pubblica in meno entro 2 anni. L’esercizio di questa scelta e di questa spiegazione, nell’Italia piegata sulle ginocchia dall’eccesso di tasse a fronte dei servizi resi dallo Stato, è oggi la forma più alta di responsabilità politica, per una classe dirigente degna di questo nome.

Scelte come quella di prepensionare solo i dipendenti pubblici in deroga alla riforma Fornero di troppo sarebbero uno schiaffo ai disoccupati privati per i quali simili salvataggi sono impossibili. Si tratta di cambiare radicalmente perimetro e modo di lavorare della pubblica amministrazione. Solo pochi giorni fa, un ottimo rapporto di Confcommercio presentato a Cernobbio ha dimostrato che, se in tutte le Regioni Italiane l’output di servizi pubblici fosse offerto ai costi e alle prestazioni di quelli lombardi, il risparmio sarebbe di 82 miliardi di euro.

Sappia scegliere e giustificarlo davanti al paese, la politica. Tentare ancora di dire no ai tagli di spesa oggi, tentare di difendere le 7700 società pubbliche locali che da sole costano 24 miliardi e di cui quelle che non offrono servizi costano più della metà, continuare in tutto questo per la politica sarebbe un suicidio. Cosa della quale potremmo anche infischiarcene, se no ci andassimo di mezzo noi tutti.

 

27
Mar
2014

Fischiatemi, ma la decadenza per un rinvio a giudizio tributario è giustizialismo puro

Sulle oltre 500 nomine in arrivo al vertice delle società pubbliche, non si proietta solo l’effetto della bufera scatenatasi dopo il caso Moretti sui tetti ai compensi per i manager. Tema sul quale, in verità, ancora non si è capitop se per società quotate ed emittenti davvero il governo pensi a tetti rigidi “non di mercato”. Renzi e Delrio hanno già detto che per ogni società il governo intende chiarire preliminarmente la mission da affidare ai nuovi vertici. E che vorrebbero adottare un limuite di conferma non superiore ai tre mandati, che già implicherebbero la sostituzione dei capoazienda di Eni, Enel, Terna e Poste. Quanto alla procedura, le norme emanate dal governo Letta prevedono che l’istruttoria sulle candidature sia svolta dal Dipartimento del Tesoro ma supportato da società specializzate nel recruiting di top manager. Al termine dell’istruttoria dovrebbe essere sottoposta a Padoan e Renzi una lista ristretta di nominativi, con una relazione sui criteri adottati per ogni singola società rispetto ai candidati proposti. E alle designazioni si procede solo dopo l’ok di una Comitato di garanzia, che ha alla testa Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, affiancato da Vincenzo Desario, direttore generale onorario della Banca d’Italia, e dalla professoressa Maria Teresa Salvemini.

Sin qui, siamo alla forma. Ma in arrivo per i cda in scadenza c’è anche una modifica di sostanza, e bisognerà vedere se il governo la conferma oppure no. I primi segnali, dati dal MEF proprio oggi, dicono che la modifica è sposata anche dal governo Renzi. Anch’essa discende dalla direttiva Saccomanni emanata nel giugno 2013, e modifica in profondità i requisiti di onorabilità per gli amministratori di società pubbliche, rispetto a quelli previsti dall’articolo 2382 del codice civile, e dall’articolo 147 e 148 del TUF. Alcune società hanno già introdotto, nell’estate scorsa, i nuovi criteri: Eur, Fondo Italiano di Investimento, Sogin, Anas, Invitalia, Poste, Anas e Ferrovie. Ora dovrebbe toccare a quelle che avevano i cda in scadenza quest’anno, come Eni, Enel, Poste e Terna, chiamate in assemblea a recepire le modifiche al loro Statuto. Ma come Renzi intende modificare quella stessa direttiva Saccomanni sulle remunerazioni – non erano previsti per quotate ed emittenti tetti rigidi, si univa alla generica richiesta di moderazione un esplicito rinvio alle migliori prassi delle imprese internazionali di settore, ergo “compensi di mercato” – analogamente sarebbe il caso di riconsiderare le clausole di decadenza automatica che dalla stessa direttiva provengono.

I nuovi criteri prevedono, quali cause di ineleggibilità ad amministratore o decadenza per giusta causa e senza diritto al risarcimento, il mero rinvio a giudizio e la pronuncia di una sentenza di condanna, anche non definitiva, e anche in caso di patteggiamento, per una lista di delitti. Essi coincidono – in maniera leggermente più ampia – con quelli previsti dal Tuf e dai codici di autoregolamentazione delle quotate, e cioè gravi violazioni delle norme sull’attività bancaria, finanziaria, mobiliare, assicurativa, in materia di mercati e valori mobiliari, nonché di strumenti di pagamento; poi le violazioni penali in materia di società e consorzi e della legge fallimentare; i delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, il patrimonio, l’ordine pubblico, l’economia pubblica ovvero in materia tributaria; nonché i più gravi delitti associativi e in materia di droga. Ma il punto è la decadenza disposta anche nel mero caso di un rinvio a giudizio o di giudizio immediato. Gli statuti delle quotate, in linea con il codice civile, TUF e codici di autoregolamentazione, rinviano ai cda e ai soci in assemblea la valutazione delle misure da adottare in caso di condanne di primo grado o appello. Non prescrivono affatto la decadenza automatica per condanne non passate in giudicato, figuriamoci poi per un semplice rinvio a giudizio.

In un sistema che in oltre il 90% dei casi chiede per gli indagati il rinvio a giudizio, e in cui agli amministratori delegati si appioppano – con una discutibile interpretazione estensiva della legge 231 – imputazioni per omicidio non solo colposo ma doloso per incidenti mortali sul lavoro (che per paradosso aggiuntivo però non rientrerebbero nella lista dei delitti per i quali si prevede il giro di vite), ha davvero senso adottare come regola di decadenza il solo rinvio a giudizio? Con un’asimmetria così rilevante, rispetto alla valutazione lasciata ai soci in tutte le altre società quotate e a quelle estere, per condanne diverse da quelle passate in giudicato?

Si dirà che lo Stato finalmente fa bene, ad adottare per le “sue” società criteri finalmente più rigorosi del resto del mercato. Ma qui il rigore non c’entra. E’ una violazione assoluta del più elementare garantismo. Significa esporre grandi società allo stormire di ogni Procura, se l’amministratore decade per un rinvio a giudizio. Contemplando anche reati fiscali, con la fantasia creatrice di numerosi pm in materia di abuso di diritto ed elusione in materia di allocazione di asset in società controllate all’estero, anche il più puro e limpido degli amministratori di grandi imprese pubbliche ramificate fuori Italia non potrebbe sottrarsi all’elevato rischio di andare a casa disonorato. Prima ancora di aver potuto difendere se stesso e la società che ha guidato. Con gravi danni non solo a sé, ma allo Stato, e a tutti i privati che compartecipano al capitale delle quotate o ne detengono obbligazioni. A cominciare dai fondi esteri. Ergo fischiatemi pure, se siete giustizialisti. Io non lo sono, e per coerenza credo sia giusto chiedere al governo di ripensarci.

 

26
Mar
2014

Nessuno tocchi i bilanci regionali

In questi giorni decisivi per il riassetto istituzionale del Paese, è passata sotto silenzio una sentenza della Corte Costituzionale che, poche settimane fa, ha spuntato le armi della Corte dei Conti nei confronti delle Regioni spendaccione e fatto emergere palesi carenze e criticità della riforma del titolo V della Costituzione (o, quantomeno, della sua applicazione e delle sue conseguenze). Per arrivare alla sentenza, però, bisogna fare un passo indietro, precisamente all’ottobre del 2012. Read More

25
Mar
2014

Speriamo davvero la concertazione sia morta

I provvedimenti li giudicheremo quando verranno i testi, ma c’è intanto una oggettiva novità nel “metodo” seguito dal governo Renzi. Dopo 30 anni, la fine della cosiddetta “concertazione”. Quella prassi triangolare tra governo, sindacati e imprese, che in Italia ha preso piede fino a imperversare, dal 1983 ad oggi. Una trattativa che col tempo ha sempre più assunto i caratteri del “dovere politico”, come un obbligo di rispetto del ruolo che il governo è chiamato a esprimere  per le associazioni datoriali e sindacali, trattando con loro direttamente in via preventiva e successiva ogni rilevante misura di politica economica, si tratti di finanza pubblica o di mercato del lavoro.

E’ per via di questa morte non-annunciata, ma semplicemente praticata nei fatti e difesa in interviste e dichiarazioni all’unisono da Renzi, Delrio e dal ministro Poletti , che in queste settimane i sindacati – soprattutto la Cgil – e la stessa Confindustria di Squinzi hanno variamente alternato espressioni di critica anche aspra, nei confronti del premier.

E’ un bene o un male, la fine della concertazione? E’ ot-ti-ma. Ma per argomentare la risposta bisogna sforzarsi di prescindere dal tifo, cioè dalla visione che ciascuno legittimamente può avere intorno alle priorità del momento, e cioè se nella fase attuale di un’Italia piegata nel reddito procapite – tornato in termini reali ai livelli del 1986, con una perdita del 13,2% dal 2007 – sia preferibile per sostenere la crescita concentrarsi di più sul sostegno ai dipendenti a basso reddito, o sullo sgravio fiscale alle imprese. Bisogna partire da un altro presupposto, da un esame il più possibile oggettivo degli effetti concreti, esercitati in Italia dalla concertazione negli anni.

In effetti nel suo primo decennio la concertazione sortì risultati prevalentemente positivi. Dal cosiddetto lodo-Scotti del gennaio 1983 fino al Patto sottoscritto nel luglio 1993 da imprese e sindacati, con l’allora premier “tecnico” Carlo Azeglio Ciampi, la nuova prassi triangolare mise nero su bianco una serie di impegni – nelle rivendicazioni salariali, nel mutamento dell’indicizzazione non solo dei salari ma anche di tariffe e prezzi amministrati, nonché nella rappresentanza sindacale ai fini della regolarità dei confronti contrattuali – che si rivelarono molto utili, per piegare l’inflazione che nei primi anni Ottanta era diventata a doppia cifra, alimentando una spirale perversa di deprezzamento della moneta e di perdita continua del potere d’acquisto dei redditi più bassi. Al contrario di quanto sostiene chi predica oggi come taumaturgico il binomio svalutazione-inflazione, si tratta di fenomeni che aiutano gli indebitati diminuendo il valore reale delle loro esposizioni, ma colpiscono chi è più povero.

Dal 1993 in avanti, come si vide benissimo dal cosiddetto Patto di Natale del governo D’Alema nel 1998, la concertazione perse per strada il suo benefico effetto. La volontà di intervenire per una seria riforma delle pensioni, da parte dell’allora leader Pd diventato premier, s’infranse contro un no secco da parte del sindacato e innanzitutto della Cgil. Nei lunghi anni della progressiva perdita di competitività dell’Italia, cioè nel decennio che ha preceduto l’euro e fino ad oggi, la politica avrebbe dovuto concentrarsi su riforme per contenere la crescita del costo unitario per unità di prodotto, frenare il deficit e il debito pubblico, modificare il welfare e il mercato del lavoro, in senso più flessibile ma con tutele più europee.

Tutte cose che si è rivelato sempre più complicato trattare  triangolarmente con sindacati e  imprese. Perché inevitabilmente un mercato del lavoro è più capace di alimentare produttività quanto più sposta la contrattazione all’interno delle diverse imprese stesse, e non a livello nazionale. Perché freni e razionalizzazioni energiche alla spesa pubblica piacciono alle imprese ma molto meno ai sindacati. Perché modifiche alle forme contrattuali o riforme come quelle previdenziali vedono i sindacati legittimamente volti a tutelare gli interessi di una parte del mondo del lavoro, la minoranza dei più tutelati che essi rappresentano, meno della metà del totale delle fozrze di lavoro italiane.

La concertazione è diventata così un vischio che ha diluito e attutito oltremisura una capacità di scelta e governo della politica che già di suo era purtroppo sempre più imbrigliata, dal tener soverchio conto delle mille lobby corporative di cui vive l’eterogenea rappresentanza italiana: dalle libere professioni il più delle volte avverse a rimuovere filtri all’ingresso, a questa e quella subcategoria d’impresa, dagli energivori a chi invece ha sbagliato modello investendo in surplus di generazione elettrica, dalle grandi banche alle ex grandi imprese pubbliche, si tratti di tlc, energia o trasporto. E via proseguendo.

Da questo punto di vista, se nel primo decennio la concertazione anti inflazione è stata in qualche modo assimilabile agli effetti positivi che nella Germania dei primi anni Duemila ha ottenuto la convergenza politica e sindacale nelle riforme pro-competitività del governo Schroeder,  negli anni alle nostre spalle si è trasformata invece in un rituale barocco, quello delle 55 sigle sindacali e d’impresa che occupavano disposte su un lunghissimo tavolo la cosiddetta “sala verde” di palazzo Chigi. Una perfetta fotografia dell’impossibilità di decidere alcunché di significativo, se non compromessi al ribasso. Sia per la finanza pubblica, sia per la competitività dell’economia.

E’ comprensibile e ovvio, che lo strappo alla concertazione di Renzi non piaccia innanzitutto al sindacato. Mentre bisogna credere e sperare che dispiaccia meno all’impresa. Ma è un errore credere che consegnare la concertazione al passato sia una mossa volta a creare “macelleria sociale”, come si usa dire. Al contrario, se sarà ben perseguita, è una decisione che rimette ordine. Dovendo intervenire obbligatoriamente su una pluralità di problemi in tempi rapidissimi, se davvero intende dare una scossa a una crescita 2014 che il Fondo Monetario ancora ieri ha cifrato non superiore allo 0,6% del PIL, il governo Renzi rivendica alla politica il diritto di scegliere, assumendosi la responsabilità delle sue priorità e valutazioni. Vedremo, s e e come lo farà. Dopodiché sindacato e imprese giudicheranno, ciascuno libero di manifestare in tutti i modi legittimi, anche i più duri ammessi dal nostro ordinamento, la propria eventuale contrarietà.

La fine di quel minuetto rococò, di quel gioco al veto incrociato a cui si era ridotta la concertazione è una mossa che apparirebbe assolutamente ovvia e imprescindibile, a qualunque osservatore francese, britannico e anche tedesco. Serve a ridare impulso e velocità al processo decisionale politico, e a riattribuire a ogni forza sociale il compito che le compete: quello di occuparsi della rappresentanza dei propri iscritti nei luoghi di lavoro e nelle trattative contrattuali, non come sostituti dei partiti. Ma intendiamoci. Imboccata questa strada, per coerenza il governo Renzi dovrà fare lo stesso con tutti, evitando di prestare ascolto riservato a ogni altro tipo di lobby, delle mille italiane. Un compito difficile. Ma altrimenti tornerà ad avere buoni argomenti, chi vanta milioni di iscritti (per metà pensionati) rispetto alle cerchie di “amici degli amici”.

25
Mar
2014

Quote rosa in Parlamento europeo: libertà di voto si va cercando

Il Senato ha pochi giorni fa approvato una modifica alla legge elettorale per il Parlamento europeo, che introduce alcuni vincoli di genere alle candidature.

La legge, ora passata alla Camera, ripropone anche per la rappresentanza europea il tema delle quote rosa, con effetti e problematiche tuttavia molto diversi rispetto a quelli che si sarebbero avuti nel caso di introduzione delle quote di genere per l’elezione al parlamento nazionale.

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24
Mar
2014

Pagare i politici per quel che valgono

La discussione sulle retribuzioni dei manager  pubblici, seguita all’ipotesi di tagli prospettata dal governo, com’era immaginabile, si è polarizzata ideologicamente tra le voci del sentimento anticasta, che plaudono all’idea di dare finalmente un taglio ai burocrati nominati dagli amici degli amici e i bastian contrari, che pur di non  apparire demagogici, si arrampicano sugli specchi a difendere l’indifendibile.

La questione è in realtà un poco più complicata di così e ha ben poco a che fare con la concorrenza e il mercato, come ho provato a spigare in questo post.
Dai manager ai politici il passo è breve ed ecco, ad esempio, Luca Telese su linkiesta,  paventare l’ascesa dei mediocri qualora ci permettessimo di pagare troppo poco gli eletti dal popolo.
Quanto è giusto pagare un sindaco o un deputato?
Si tratta di una domanda alla quale è quasi impossibile rispondere, poiché è estremamente complicato quantificare  il contributo che queste persone danno alla collettività e, di conseguenza, il compenso adeguato per questo contributo non è certo determinabile da un sistema di mercato.
O forse si?
Facciamo un passo indietro. La difficoltà nel determinare il compenso adeguato per l’attività politica deriva dall’assimilazione dello stesso a un lavoro vero e proprio. In quest’ottica, non esiste un motivo valido per sostenere che un deputato debba essere pagato quanto un medico o  un ingegnere piuttosto che quanto un operaio o un netturbino.
Se proviamo invece a partire da un presupposto differente tutto diventa più semplice e lineare. Se intendiamo la politica come un servizio temporaneo per la collettività e fin troppo banale determinare qual è il compenso equo che consenta di evitare la selezione avversa dei migliori: è sufficiente retribuire chi fa politica in misura proporzionale a quando ha dichiarato negli ultimi anni prima di candidarsi.
Se per un certo periodo un agricoltore, un avvocato o un idraulico decidono di servire la comunità, verranno compensati con un importo pari alla media dei redditi dichiarati negli anni precedenti alla loro elezione. Una persona che, con le proprie capacità, riusciva  a guadagnare 30 o 50 o 100mila euro l’anno prima di fare politica, guadagnerà altrettanto nel limitato periodo di tempo in cui decide di servire la collettività.
I vantaggi più evidenti di questa soluzione sono che:
  • nessuno potrebbe guadagnare dall’attività politica più di quanto ottiene dal suo lavoro ordinario
  • chi percepisce redditi non dichiarati dovrebbe rinunciarvi per fare politica
  • il limite al tempo consentito all’attività politica favorirebbe un utile ricambio
  • si abolisce o ridimensiona la figura del politico di mestiere che spesso non riesce a comprendere le esigenze dei cittadini che devono lavorare per vivere
  • il peso dell’ultima retribuzione verrebbe  mediato con gli anni precedenti limitando la convenienza di “aumentarlo ad arte”
Onde evitare gli inconvenienti,che potrebbero verificarsi agli estremi, si può immaginare di prevedere un minimo e un massimo alle retribuzioni parametrandole, ad esempio, al pil pro capite oppure ad altre soglie derivanti dalla distribuzione per reddito della popolazione.
Insomma, se la politica venisse considerata un servizio piuttosto che un mestiere esiste un compenso equo per chi vi si dedica a e coinciderebbe con il costo opportunità del tempo dedicato a questa attività che, per definizione, dovrebbe essere limitato (es due mandati).