Esuberi pubblici: Renzi ha 2 strade ma una sola è svolta, assimilarli ai privati
Mancano pochi giorni alla presentazione del DEF, il Documento Economico-Finanziario che il governo Renzi dovrà presentare in Europa insieme al Piano Annuale delle Riforme. In quei due documenti , bisognerà tentare di essere il più possibili precisi e chiari. Sui diversi capitoli della manovra che il governo intende compiere per rilanciare crescita e produttività, nel rispetto dei vincoli europei , sulle coperture e sugli effetti reali di ogni singolo intervento il governo intenda porre in atto. Eventuali superficialità e approssimazione non avrebbero facili sconti, quanto più – come il premier ha ripetuto a Londra – si chiede all’Europa di “cambiare marcia”, cioè di pensare più agli effetti di crescita per rianimare reddito e prodotto, che al solo rigore per il rigore.
Uno dei capitoli essenziali sui quali occorre chiarezza, dopo queste settimane di convulso dibattito, riguarda il pubblico impiego. Non tanto o solo per la rilevanza che tale posta ha sul totale della spesa pubblica italiana. Ma perché è un pezzo essenziale dell’ambizioso piano di Renzi di imprimere una svolta all’efficienza della Pubblica Amministrazione, nelle graduatorie comparate internazionali non esattamente un vantaggio competitivo per l’Italia negli ultimi decenni. Diciamo subito che il governo ha davanti a sé due strade, diverse per assunto iniziale e strumenti conseguenti: ma una sola è davvero “la” svolta. Prima di entrare nel merito serve una breve premessa, per inquadrare il fenomeno.
Innanzitutto, i numeri di cui si parla. Se consideriamo la spesa in retribuzioni pubbliche, dagli oltre 12 punti di PIL annui a cui era giunta nei primi anni ‘90 del secolo scorso, scese sotto il 10,5% l’anno delle “grandi pulizie” per entrare nell’euro, per poi risalireall’11,2% nel 2008. In questi anni di eurorigore è tornata a scendere, intorno al 10,5% del PIL nel 2013. Dai 172 miliardi di euro a cui ammontava ancora nel 2010 è diminuita ai 164 miliardi del 2013, e in prospettiva pluriennale è sostanzialmente stabilizzata intorno a tale cifra, con un lieve ulteriore decremento progressivo.
E’ l’effetto sostanzialmente di due misure: il blocco del turnovwer, cioè i pensionati annuali pubblici non vengono sostituiti se non con deroghe limitate; e il blocco degli scatti retributivi di anzianità, generale ma anche qui con alcune deroghe ( i magistrati, ad esempio). Numericamente i dipendenti pubblici – attenti, non comprendono i lavoratori delle società partecipate locali – sono in percentuale diminuiti più del monte retribuzioni, passando dai tre milioni e 430 mila del 2005 ai 3,2 milioni del 2013. Ma una parte del risparmio “numerico” è stato finanziariamente “mangiato” dal fatto che manager pubblici, dirigenti apicali e di prima fascia della PA, continuavano a veder salire le loro pingui retribuzioni.
Il problema non è solo e tanto la numerosità eccessiva in quanto tale, visto che in percentuale sulla popolazione non siamo poi fuori dalla media dei grandi Paesi dell’Europa continentale, in Italia 58 impiegati pubblici per mille abitanti e la Germania 54. Le dimensioni dell’intervento necessario dovrebbere conseguire invece da una valutazione seria e approfondita del rapporto tra piante organiche, produttività e obiettivi di ogni branca della PA. Cioè da un criterio microeconomico, non macro. Purtroppo un’esame sistematico di questo tipo, una vera e propria reingegnerizzazione a cominciare da scuola e sanità che da sole rappresentano oltre il 50% dei dipendenti pubblici totali, in tutti questi anni di studi e commissari alla spending review è avvenuto solo per piccoli comparti, come quello della sicurezza e forze di polizia. Per tutto il resto, si procede a spanne.
Per esempio l’invecchiamento dei pubblici dipendenti dovuto al blocco del turn over non è affatto omogeneo: si va dai 49,8 anni di età media nella scuola nel 2012 ai 45 nella carriera diplomatica, quando avrebbe più senso e sarebbe meno grave l’inverso. Come scrive Cottarelli, “il numero di esuberi nella PA dipende da piani specifici di riforma, per ora siamo a una stima preliminare”. Da questo criterio approssimativo nasce la stima degli 85mila esuberi nella PA al 2016, con un di risparmio cifrato in 3 miliardi di euro, di cui ha parlato Cottarelli suscitando un vespaio tra i sindacati.
Ma poniamo pure che la stima di 85 mila unità – ripetiamo senza comprendere le centinaia di migliaia aggiuntivi dell’universo delle partecipate locali – vada presa per buona. E’ a questo punto, che il governo deve fare una scelta. A maggior ragione dopo le polemiche scatenate dalle intenzioni espresse dal ministro Madia, che ha parlato di “staffetta generazionale” nella PA, adombrando prepensionamenti per i dipendenti pubblici in deroga ai tetti di età e contribuzione minimi introdotti dalla legge Fornero – aggiuntivi rispetto a quelli di alcune migliaia di unità previsti dal governo Monti in contemporanea al varo della riforma – accompagnati da assunzioni di giovani, altrimenti esclusi dal turnover bloccato nel settore pubblico.
Le strade sono appunto due. La prima è quella di un governo che affermi che quegli esuberi non sono esuberi per davvero. Come dovrebbe avvenire a Roma per i dipendenti della ventina di società controllate dal Campidoglio di cui i sindaco Marino ha annunciato la cessione, destinati – ha detto – al riassorbimento nelle piante organiche pubbliche comunali. Scegliere tale strada a livello nazionale significa dire che i dipendenti pubblici non vadano sottoposti alle procedure dei lavoratori in esubero del settore privato: procedure che pure in teoria nell’ordinamento italiano esistono, mobilità compresa, anche per i dipendenti pubblici, anche se non vengono praticamente mai attivate per tener buoni i sindacati. Se il governo pensa questo, se davvero scegliesse il prepensionamento in deroga per decine di migliaia di unità – la Madia per la precisione a volte ha parlato solo dei dirigenti pubblici, a volte no – che pure suona come uno schiaffo ai lavoratori e disoccupati del settore privato che lo scivolo agevolato alla pensione se lo sognano, allora il governo dovrà fare bene i conti, perché i 3 miliardi di risparmio in 3 anni si riducono di molto. E in quel caso la proporzione dei neoassunti in sostituzione agli “scivolati” difficilmente potrebbe essere superiore a un rapporto di uno a cinque, per evitare che la somma di retribuzioni nuove e pensioni aggiuntive facciano addirittura salire la spesa complessiva. Assunti per concorso e merito e non per sanare precari, bisognerebbe anche sperare. Anche se già si legge di membri del governo – e di moltissimi nel Pd – che pensano il contrario.
Oppure, c’è la seconda strada. Quella di un governo capace di rompere il tabù per davvero. Cioè di riconoscere che il settore pubblico non è diverso dal privato, e quando deve ridefinire la propria mission, obiettivi e produttività, allora può essere benissimo che esuberi “veri” ci siano eccome. E in quel caso, anche per gli esuberi pubblici scatteranno non i vecchi strumenti di sostegno al sussidio per chi perdeva il lavoro, ma dopo la mobilità il nuovo sostegno universale al reddito promesso dal governo Renzi come corrispettivo di un percorso di riformazione e ricollocazione al lavoro da parte di un sistema di intermediazione tra domanda e offerta molto più efficiente dei vecchi centri provinciali per l’impiego.
Inutile dire che questa seconda scelta sarebbe una riforma grande e vera, capace di consegnare al passato l’idea che tutti i lavoratori privati nutrono, e cioè che il dipendente pubblico alla fin fine non rischia mai niente. C’è la voglia e la forza per dirlo al sindacato?