9
Apr
2014

La protezione dei dati personali è un diritto. Ma non per il fisco

Ogni giorno, lasciamo traccia dei nostri dati nei luoghi più disparati: dallo scontrino fiscale della farmacia allo sportello del bancomat, dall’accesso a internet da casa all’avvio di una telefonata da cellulare.

Proprio i dati derivanti dalle comunicazioni elettroniche sono stati ritenuti, qualche anno fa, talmente importanti ai fini delle indagini penali che l’Unione europea ha approvato una direttiva che obbligava i fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche a conservarli per un certo periodo – dai 6 mesi ai due anni – al fine di renderli disponibili alle autorità pubbliche per la prevenzione e il perseguimento di infrazioni gravi, come quelle legate alla criminalità organizzata e al terrorismo. In tal modo, l’eventuale lavoro delle autorità inquirenti sarebbe stato agevolato, quanto meno nella tracciabilità della fonte e del tipo di comunicazione, della data, ora, durata e frequenza della comunicazione, del nome e indirizzo dell’abbonato e del nome del destinatario della comunicazione.

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9
Apr
2014

PNR-DEF: ok le critiche, ma 3 svolte ci sono

C’è parecchia acidità, nei primi giudizi sul DEF di Renzi. Non li condivido. Il che non significa che non restino criticità. Né che vada tutto bene. E tanto meno che sia il migliore dei mondi possibili, soprattutto per chi è liberale e vorrebbe da anni una svolta energica a suon di meno spesa e meno tasse. Però una svolta c’è comunque, e prevale sui punti ancora non strutturalmente chiari.

Secondo me va riconosciuto. L’accoppiata DEF-Piano nazionale delle riforme di Renzi e Padoan è comunque una rottura rispetto al passato. Per almeno tre ragioni. La prima riguarda la forma. La seconda la cautela, cioè la serietà, nelle proiezioni. La terza, a differenza di quanto stamane rilevino molti osservatori “acidi”, riguarda anche e proprio il punto che tanti interrogativi aveva suscitato a fronte delle molte promesse, cioè le coperture finanzarie.

La forma,innanzitutto. Padoan ha fatto una scelta essenziale: è il dettagliato e organico piano delle riforme, il vero architrave dell’azione che si ripromette il governo, e che illustrerà in Europa per un cambio anche delle regole cooperative di convergenza, durante il semestre europeo. Fino ad oggi, ad avere la prevalenza erano le tabelle del DEF, su deficit e debito pubblico che si faticava a fronteggiare se non con nuove tasse. Ora il DEF è invece giustamente ancillare e conseguente, rispetto a ciò che rappresenta la priorità: cioè le riforme. Una novità conseguente a tale impostazione è altrettanto importante: questa volta non siamo all’annuncio di una manovra fatta soprattutto di imposte e accise. Siamo a un’antimanovra, anzi, perché il più viene da importanti tagli strutturali e permanenti alla spesa che vengono confermati in quasi 5 miliardi nel 2014, e via aggiungendo di anno in anno fino ai 32 miliardi complessivi nel 2016. Come vengono anche confermati gli importanti incassi da cessioni pubbliche,12 miliardi ogni anno a cominciare da quello in corso (è ovvio che noi vorremmo la cessione del controllo e che non ci sarà invece, ma questo appunto NON è un governo liberale, e siamo gia’ ad aprile, bisogna il governo metta il turbo se vuole quegli incassi…).
Secondo, va dato atto al governo che, questa volta, si è attenuto a un apprezzabile rigore nella stima degli andamenti economico-finanziari. La vecchia tradizione dei DPEF raccontava scenari mirabolanti, tassi di crescita stellari e deficit puntualmente sottovalutati. Una prassi che ci ha abbondantemente compromessi nei fori internazionali e in Europa. Ora basta, invece. Ci si atterrà rigorosamente al 2,6% di deficit sul PIL nel 2014, senza venir meno agli impegni europei, e con una stima di crescita limata verso il basso allo 0,8%. Gli effetti della pur impressionante lista di riforme sono contenuti in un realistico più 0,3% di PIL quest’anno,  e sommando gli effetti fino al 2018 si resta entro un pur sperabile più 2,1%. Si scrive correttamente che il debito pubblico continuerà ad aumentare fino a fine 2015, per andare incontro a un modesto rientro del meno 1,8% solo nei 3 anni succesivi. Idem dicasi sulla disoccupazione: non si bara promettendo discese significatrive, impossibili a breve
Padoan si e’ solo en passant limitato a un’osservazione marginale, sul fatto che l’andamento del Pil nominale non aiuta a ridurre il debito, per causa dell’inflazione troppo bassa: perché questo attiene alla svolta attesa nelle politiche di intervento della BCE sui mercati, e ha fatto bene Padoan a citare l’argomento senza farne una richiesta esplicita. Quel che conta è che i numeri “pubblici” dell’Italia, questa volta, appaiono più realistici del solito.

Terzo, le coperture. Ecco il punto su cui non condivido le letture critiche che stamane si sprecano. Dove i conti non tornavano, il governo ci ha riservato sorprese, ma più positive che negative. Quanto mancava alla copertura delle detrazioni Irpef verrà innazitutto dall’aumento del prelievo sulle plusvalenze realizzate dalle banche azioniste di Bankitalia. A mio giudizio una misura giusta, che sana fondate obiezioni – anche europee – al vantaggio che si era determinato per gli istituti di credito attraverso la frettolosa rivalutazione delle quote decisa a fine dicembre dal governo Letta. Una misura ancor più giusta perché purtroppo è confermata l’aliquota al 26% sui piccolo risparmiatori. Inoltre, la stima nelle coperture del miliardo aggiuntivo di incassi IVA, generato dal pagamento dei debiti commerciali alle imprese, è significativamente assai meno incredibile di quanto non lo fossero i 2-3-4 miliardi che in parlamento suono risuonati in questi ultimi mesi, da parte di Brunetta e non solo. Si dirà: ma il miliardo dalle banche e quello sull’IVA sono una tantum. Corretto. Ed è che qui la vera differenza che mi persuade e che va difesa. Renzi è andato avanti come un treno sui tagli alla spesa e alla dirigenza pubblica. L’anno prossimo, le coperture da una tantum 2014 che vengono meno verranno sostituite da tagli di spesa aggiuntivi: questo è l’impegno. Su cui inchiodare Renzi se venisse meno al suo rispetto. Ma è una discontinuità, rispetto ai continui aumenti di tasse generali del passato.Prescrivere un limite da 239mila euro lordi, quelli attribuiti al Capo dello Stato, come retribuzione veramente invalicabile fuori dalle società quotate pubbliche, per direttori generali e capi di gabinetto che oggi incassano anche 70 mila euro in più l’anno, o per magistrati che alla Corte costituzionale arrivano a lambire il mezzo milione, è una svolta. Sulla quale bisognerà sorvegliare, perché com’è noto il diavolo sta nei dettagli, e a scrivere i decreti attuativi saranno coloro i cui stipendi devono scendere.
Scendiamo ora per li rami delle diverse riforme, con considerazioni iper sintetiche. Della conferma degli 80 euro mensili in più al mese per chi sta sotto i 25 mila euro lordi di reddito si è detto, ma la novità è che la settimana prossima il governo dirà entro che misura e come estendere (e finanziare) l’iniezione di reddito anche ai cosiddetti “incapienti”, che non ne beneficerebbero attraverso detrazioni Irpef visto che sono sotto la soglia dalla quale si inizia a pagare l’imposta.
Purtroppo, invece, la discesa dell’IRAP per le imprese non è andata oltre quanto  Renzi aveva detto negli ultimi giorni limitando l’obiettivo iniziale, cioè un meno 5% quest’anno e meno 10% dal 2015, finanziata con le entrate aggiuntive dovute al ritocco al 26% dell’aliquota su risparmio e titoli esclusi quelli pubblici. Questo è – come ho più volte scritto e argomentato – un aggravio sbagliato e regressivo, la vera grande e brutta macchia del PNR. Mentre molto promettente è la parte di semplificazione fiscale, attuativa della delega votata in Parlamento: vedremo se davvero il governo riuscirà a modificare criteri organizzativi e adempimenti richiesti dall’Agenzia delle Entrate.
Quanto alla vera iniezione di liquidità per le imprese, il pagamento di tutta la parte restante del debito commerciale pubblico dovuto alle imprese fornitrici, il lungo paragrafo esplicativo fa capire che ancora un rilevante problema tecnico c’è, tra Tesoro e Cdp: ma l’impegno è ribadito. Come quello alla riduzione del 10% della bolletta energetica, tagliando costi impropri oggi sussidiati in bolletta.
Sul lavoro, è per intero rispiegata la somma del decreto Poletti già emanato sul tempo indeterminato e apprendistato – senza concessioni a richieste di modifiche – e della delega che darà corpo al Jobs Act. E a proposito di PA, è confermata – purtroppo – la discutibile proposta della “staffetta generazionale” lanciata dal ministro Madia: vedremo se Renzi davvero si esporrà ai fischi che i lavoratori privati riserverebbero giustamente ai prepensionamenti in deroga a favore dei dipendenti pubblici, o se si limiterò ad aprire qualche finestra nel blocco del turnover pubblico.
Però è anche vero che nei paragrafi di alcune riforme si colgono elementi mai prima visti. Si parla di separazione verticale totale delle diverse attività della holding Ferrovie dello Stato. Si esprime l’intenzione di dotarsi degli strumenti – vedi il riformato Titolo Quinto della Costituzione – per ridisegnare profondamente l’intero oceano delle 7700 società pubbliche controllate dalle autonomie. Senza escludere nessuna “vacca sacra”, dall’acqua all’energia al trasporto pubblico locale.
Ovviamente, un’ importanza fondamentale nell’elenco di riforme è attribuita a quelle istituzionali, a cominciare da quella del Senato. Padoan ha giustamente insistito. in Europa la nostra richiesta di prenderci un anno in più per azzerare il deficit in cambio di riforme che alzano il prodotto potenziale – la famosa “clausola delle riforme”- avrà più ascolto quanto più energicamente cambiamo le nostre istituzioni e la PA.

E’ proprio così. E’ un governo non liberale ma di sinistra realista e alieno da tentazioni antieuropeiste, quello guidato da Renzi. E se una debolezza essenziale ha il suo piano di riforme è che richiede un passo bersaglieresco, per essere adottato nei tempi e nei modi in cui il governo ieri l’ha definito. Ma a questo punto è del Pd,  il problema. Se una parte del partito di Renzi pensa davvero che sia un disegno autoritario da bloccare, allora inizi pure a frenare come ha cominciato a fare sulla riforma del Senato. Poi non si lamenti, però, se le urne premiano Grillo.

8
Apr
2014

Società pubbliche locali, Regioni e Titolo V°: il filo rosso che frena i tagli

Tra poche ore conosceremo il teso del Documento di Economia e Finanza. Avrà termine la ridda di ipotesi e promesse, e si entrerà nel concreto dettaglio vero dell’operatività del governo. Limitiamoci qui a una riflessione aggiuntiva. Su un punto delicatissimo dell’apparato pubblico italiano. Un punto sul quale Renzi e il ministro Padoan si ripromettono – giustamente – di intervenire, aa contro il quale sono “rimbalzati” sia il governo Monti sia il governo Letta, quando si proposero lo stesso intento.

Parliamo della finanza pubblica delle Autonomie, e dell’oceano di società che esse controllano e partecipano. Quelle di primo livello censite sono circa 7700 (quelle di secondo livello dovrebbero essere oltre 20mila, ma nessuno lo sa di preciso), muovono circa 24 miliardi di euro di oneri e quasi 13 miliardi è il solo costo dei loro oltre 200 mila dipendenti, altri 2,5 miliardi il lauto costo dei loro 24 mila amministratori e 56 mila tra revisori e consulenti. Più della metà delle società sono in perdita, quasi la metà non offrono affatto servizi ai cittadini. Hanno un debito cumulato che si stima in più di 30 miliardi (c’è chi dice fino a 40). E’ ovvio ed è giusto, mettere mano a questa proliferazione inefficiente che è continuata anche negli anni di crisi. Per la Fondazione Mattei e KPMG nel corso del decennio alle nostre spalle il socialismo municipale è cresciuto infatti di almeno il 10%.

Senonché, per invertire la marcia verso il baratro, è da sperare che il governo Renzi abbia studiato bene i fallimenti di chi l’ha preceduto. Il governo Monti aveva previsto che entro aprile 2013 si sarebbe dovuto emanare un Dpr per definire i criteri con cui procedere all’individuazione delle società locali da razionalizzare, creando un’anagrafe nazionale per selezionare quelle prestatrici di servizi da affidare a gara e quelle invece da chiudere, con la conseguente scelta di affidare all’esterno il servizio prestato nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale. Non se ne è fatto nulla. E’ dal 2009 che il Parlamento ha chiesto chiede al al Tesoro un quadro preciso delle società partecipate e controllate (oltre che del patrimonio immobiliare detenuto), e di quelle che offrono servizi pubblici affidati in house, cioè in gestione diretta, senza gara, con vastissimo spazio garantito a criteri di discrezionalità politica e di diseconomicità di prezzi-tariffe rispetto a standard di servizio offerti. Ma solo poco più del 40% degli oltre 9mila soggetti pubblici all’obbligo di comunicazione lo adempie davvero, visto che è privo di sanzione.

Nell’estate scorsa, con il cosiddetto “decreto del fare” varato dal governo Letta si adottò una nuova proroga, di altri 6 mesi,rispetto ai termini previsti dal governo precedente per lo scioglimento delle società controllate dalle PA e l’esternalizzazione dei servizi da esse prestate. Gli enti titolari di queste società multiservizi, se fatturano fino al 90% delle loro prestazioni all’ente controllante, erano tenuti ad alienare le relative partecipazioni entro il 30 giugno 2013. E contestualmente avrebbero dovuto riassegnare il servizio prestato per 5 anni a decorrere dal 1° gennaio 2014. Niente da fare.

Anche perché, nel frattempo, la Corte Costituzionale ha richiamato i governi nazionali alla dura realtà. Con una raffica di sentenze ha smontato il più delle prescrizioni che il governo Monti aveva tentato di adottare per mettere un freno alla finanza pubblica delle Regioni. Con la sentenza 219-2013 la Corte ha così abrogato quanto era stato disposto in materia di controlli e sanzioni alle Regioni fuori controllo. Sono caduti lo scioglimento dei Consigli Regionali, l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di Regione finite in default per dolo o colpa grave, e persino l’obbligo di relazione di fine legislatura per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Il 6 marzo scorso, la Corte ha depositato una nuova sentenza, la 39 del 2014, con cui ha abrogato i poteri che erano stati affidati alla Corte dei Conti sul controllo preventivo di legittimità su tutti i singoli atti delle amministrazioni Regionali, nonché sulla verifica del rispetto del pareggio di bilancio. In caso di violazioni, qualora avesse rilevato spese sprovviste della dovuta copertura, la Corte avrebbe potuto bloccarle e obbligare le amministrazioni a modificare gli atti contestati. Alla Corte dei Conti era stato affidato il potere-dovere di verifica semestrale sulla legittimità e regolarità delle gestioni, nonché sul funzionamento dei controlli interni e sul rispetto delle regole contabili e del pareggio di bilancio, fino al punto di poter bloccare i programmi di spesa scoperti.

Niente di tutto questo è sopravvissuto.  La Corte costituzionale è stata categorica: l’attuale testo vigente del Titolo V° della Costituzione impedisce di vincolare e inibire la potestà legislativa dei Consigli regionali. Tanto meno consente di sanzionarli.

Ecco la lezione da studiare e mettere a frutto. Se il governo Renzi – auguriamocelo – intende davvero intervenire a spazzaneve con criteri organici per razionalizzare e cedere migliaia di società locali, accorparle e aprirle alla concorrenza vera secondo standard di servizio commisurati a costi e prezzi, allora il suo intervento deve essere commisurato e coerente al nuovo testo da approvare del Titolo V° della Costituzione, attribuendo con chiarezza allo Stato facoltà di intervenire sul pareggio di bilancio e sul portafoglio patrimoniale delle Autonomie, mattoni compresi oltre le partecipazioni mobiliari. Non è un caso che il testo della riforma sia in questi giorni all’attento esame del Quirinale.

Se il governo non farà così, il paradosso è che a cedere municipalizzate sia solo il Comune che riceve ripiani condizionali del suo debito, come capita a Roma con il sindaco Ignazio Marino che si è deciso ad annunciare la cessione di una ventina di società solo perché vincolato per decreto, in cambio dei denari ricevuti dal governo. Altrimenti la regola continuerà a essere quella di Napoli, dove il sindaco De Magistris, sfidando il governo a salvarlo come Roma dopo che la Corte dei Conti ha bocciato il suo piano di rientro di fronte al pre-default dei conti dell’amministrazione, annuncia cessioni del 40% della municipalizzata dei trasporti per mantenerne il controllo, come se i privati corressero a mettere soldi in aziende così compromesse che quando un autobus si ferma per guasti bisogna fermarne un altro per cannibalizzarne i pezzi.

4
Apr
2014

Esuberi pubblici: Renzi ha 2 strade ma una sola è svolta, assimilarli ai privati

Mancano pochi giorni alla presentazione del DEF, il Documento Economico-Finanziario che il governo Renzi dovrà presentare in Europa insieme al Piano Annuale delle Riforme. In quei due documenti , bisognerà tentare di essere il più possibili precisi e chiari. Sui diversi capitoli della manovra che il governo intende compiere per rilanciare crescita e produttività, nel rispetto dei vincoli europei , sulle coperture e sugli effetti reali di ogni singolo intervento il governo intenda porre in atto. Eventuali superficialità e approssimazione non avrebbero facili sconti, quanto più – come il premier ha ripetuto a Londra – si chiede all’Europa di “cambiare marcia”, cioè di pensare più agli effetti di crescita per rianimare reddito e prodotto, che al solo rigore per il rigore.

Uno dei capitoli essenziali sui quali occorre chiarezza, dopo queste settimane di convulso dibattito, riguarda il pubblico impiego. Non tanto o solo per la rilevanza che tale posta ha sul totale della spesa pubblica italiana. Ma perché è un pezzo essenziale dell’ambizioso piano di Renzi di imprimere una svolta all’efficienza della Pubblica Amministrazione, nelle graduatorie comparate internazionali non esattamente un vantaggio competitivo per l’Italia negli ultimi decenni. Diciamo subito che il governo ha davanti a sé due strade, diverse per assunto iniziale e strumenti conseguenti: ma una sola è davvero “la” svolta.  Prima di entrare nel merito serve una breve premessa, per inquadrare il fenomeno.

Innanzitutto, i numeri di cui si parla. Se consideriamo la spesa in retribuzioni pubbliche, dagli oltre 12 punti di PIL annui a cui era giunta nei primi anni ‘90 del secolo scorso, scese sotto il 10,5% l’anno delle “grandi pulizie” per entrare nell’euro, per poi risalireall’11,2% nel 2008. In questi anni di eurorigore è tornata a scendere, intorno al 10,5% del PIL nel 2013. Dai 172 miliardi di euro a cui ammontava ancora nel 2010 è diminuita ai 164 miliardi del 2013, e in prospettiva pluriennale è sostanzialmente stabilizzata intorno a tale cifra, con un lieve ulteriore decremento progressivo.

E’ l’effetto sostanzialmente di due misure: il blocco del turnovwer, cioè i pensionati annuali pubblici non vengono sostituiti se non con deroghe limitate; e il blocco degli scatti retributivi di anzianità, generale ma anche qui con alcune deroghe ( i magistrati, ad esempio). Numericamente i dipendenti pubblici – attenti, non comprendono i lavoratori delle società partecipate locali – sono in percentuale diminuiti più del monte retribuzioni, passando dai tre milioni e 430 mila del 2005 ai 3,2 milioni del 2013. Ma una parte del risparmio “numerico” è stato finanziariamente “mangiato” dal fatto che manager pubblici, dirigenti apicali e di prima fascia della PA, continuavano a veder salire le loro pingui retribuzioni.

Il problema non è solo e tanto la numerosità eccessiva in quanto tale, visto che in percentuale sulla popolazione non siamo poi fuori dalla media dei grandi Paesi dell’Europa continentale, in Italia 58 impiegati pubblici per mille abitanti e la Germania 54. Le dimensioni dell’intervento necessario dovrebbere conseguire invece da una valutazione seria e approfondita del rapporto tra piante organiche, produttività e obiettivi di ogni branca della PA. Cioè da un criterio microeconomico, non macro. Purtroppo un’esame sistematico di questo tipo, una vera e propria reingegnerizzazione a cominciare da scuola e sanità che da sole rappresentano oltre il 50% dei dipendenti pubblici totali, in tutti questi anni di studi e commissari alla spending review è avvenuto solo per piccoli comparti, come quello della sicurezza e forze di polizia. Per tutto il resto, si procede a spanne.

Per esempio l’invecchiamento dei pubblici dipendenti dovuto al blocco del turn over non è affatto omogeneo: si va dai 49,8 anni di età media nella scuola nel 2012 ai 45 nella carriera diplomatica, quando avrebbe più senso e sarebbe meno grave l’inverso. Come scrive Cottarelli, “il numero di esuberi nella PA dipende da piani specifici di riforma, per ora siamo a una stima preliminare”. Da questo criterio approssimativo nasce la stima degli 85mila esuberi nella PA al 2016, con un di risparmio cifrato in 3 miliardi di euro, di cui ha parlato Cottarelli suscitando un vespaio tra i sindacati.

Ma poniamo pure che la stima di 85 mila unità – ripetiamo senza comprendere le centinaia di migliaia aggiuntivi dell’universo delle partecipate locali – vada presa per buona. E’ a questo punto, che il governo deve fare una scelta. A maggior ragione dopo le polemiche scatenate dalle intenzioni espresse dal ministro Madia, che ha parlato di “staffetta generazionale” nella PA, adombrando prepensionamenti per i dipendenti pubblici in deroga ai tetti di età e contribuzione minimi introdotti dalla legge Fornero – aggiuntivi rispetto a quelli di alcune migliaia di unità previsti dal governo Monti in contemporanea al varo della riforma – accompagnati da assunzioni di giovani, altrimenti esclusi dal turnover bloccato nel settore pubblico.

Le strade sono appunto due. La prima è quella di un governo che affermi che quegli esuberi non sono esuberi per davvero. Come dovrebbe avvenire a Roma per i dipendenti della ventina di società controllate dal Campidoglio di cui i sindaco Marino ha annunciato la cessione, destinati – ha detto – al riassorbimento nelle piante organiche pubbliche comunali. Scegliere tale strada a livello nazionale significa dire che i dipendenti pubblici non vadano sottoposti alle procedure dei lavoratori in esubero del settore privato: procedure che pure in teoria nell’ordinamento italiano esistono, mobilità compresa, anche per i dipendenti pubblici, anche se non vengono praticamente mai attivate per tener buoni i sindacati. Se il governo pensa questo, se davvero scegliesse il prepensionamento in deroga per decine di migliaia di unità – la Madia per la precisione a volte ha parlato solo dei dirigenti pubblici, a volte no – che pure suona come uno schiaffo ai lavoratori e disoccupati del settore privato che lo scivolo agevolato alla pensione se lo sognano, allora il governo dovrà fare bene i conti, perché i 3 miliardi di risparmio in 3 anni si riducono di molto. E in quel caso la proporzione dei neoassunti in sostituzione agli “scivolati” difficilmente potrebbe essere superiore a un rapporto di uno a cinque, per evitare che la somma di retribuzioni nuove e pensioni aggiuntive facciano addirittura salire la spesa complessiva. Assunti per concorso e merito e non per sanare precari, bisognerebbe anche sperare. Anche se già si legge di membri del governo – e di moltissimi nel Pd – che pensano il contrario.

Oppure, c’è la seconda strada. Quella di un governo capace di rompere il tabù per davvero. Cioè di riconoscere che il settore pubblico non è diverso dal privato, e quando deve ridefinire la propria mission, obiettivi e produttività, allora può essere benissimo che esuberi “veri” ci siano eccome. E in quel caso, anche per gli esuberi pubblici scatteranno non i vecchi strumenti di sostegno al sussidio per chi perdeva il lavoro, ma dopo la mobilità il nuovo sostegno universale al reddito promesso dal governo Renzi come corrispettivo di un percorso di riformazione e ricollocazione al lavoro da parte di un sistema di intermediazione tra domanda e offerta molto più efficiente dei vecchi centri provinciali per l’impiego.

Inutile dire che questa seconda scelta sarebbe una riforma grande e vera, capace di consegnare al passato l’idea che tutti i lavoratori privati nutrono, e cioè che il dipendente pubblico alla fin fine non rischia mai niente. C’è la voglia e la forza per dirlo al sindacato?

 

3
Apr
2014

Befera ridifende i blitz fiscali, ecco perché sono sbagliati

Ieri il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, ascoltato in commissione Finanze al Senato, è tornato sui controlli fiscali “blitz” che animarono le cronache tempo fa, da Cortina a Porto Rotondo a Courmayer. Ed è tornato a difenderli come successi. Il blitz di Cortina ha fruttato allo Stato 2 milioni di euro di maggiori incassi, tra imposte dirette, IVA e sanzioni. E su 173 accertamenti fatti quel giorno, 142 sono già stati definiti e incassati, solo in 32 casi è pendente un ricorso. Con grande rispetto per Befera, cerchiamo qui di spiegare perché considerarlo un successo sia altamente opinabile. Mi è capitato più volte di confrontarmi direttamente con Befera su questo punto in radio e televisione, e so che non può risentirsene.

Non può risentirsene perché la tesi che sostengo non ha nulla a che spartire con la negazione dei grandi meriti di Befera, nei suoi lunghi anni di impegno per rendere efficiente e incisiva l’Agenzia che gli è affidata insieme ad Equitalia. Né disconosce a Befera il pregio di esser stato tra i primi a ridursi il compenso nei limiti del primo presidente di Corte di Cassazione, mentre tanti dirigenti pubblici ancora nel 2013 guadagnavano multipli. Infine, è giusto ogni volta richiamare che Befera non è responsabile, delle tante contraddizioni e sinanco follie dell’accumularsi di una sempre più fitta foresta normativa in campo tributario. Tocca anzi all’Agenzia emanare a propria volta tonnellate di circolari che fanno impazzire i professionisti del fisco, proprio perché le leggi mille volte mutate sono spesso incomprensibili agli stessi commercialisti, e inducono anche la Cassazione a sentenze contraddittorie.

Detto questo, e ribadito che il contrasto all’evasione fiscale nel nostro Paese resta emergenza seria – come serissima è quella di tagliare la spesa pubblica e abbattere le imposte, aggiungiamo noi-  andiamo al punto. Dopo l’ondata di polemiche che suscitarono i blitz del 2012, ci eravamo convinti che quella stagione dovesse essere considerata chiusa, per valutazione convergente di opinioni. Perché un conto consolidato degli effetti delle verifiche fiscali, per essere completamente attendibile e fare testo, deve obbligatoriamente considerare non solo i maggiori incassi per la finanza pubblica, ma altresì la stima delle conseguenze generate nell’economia.

Non intendiamo qui parlare degli effetti più macroscopici, quelli sui quali l’Agenzia delle Entratre è incolpevole. Esempio numero uno: ieri Befera ha giustamente vantato come un successo l’aumento anche nel 2013 di incassi da accertamenti, giunti a 13,1 miliardi di euro rispetto ai poco più di 3 miliardi di un decennio prima. Ma i contribuenti italiani continuano a sentirsi ripetere dallo Stato che meno evasione significa meno tasse per chi le paga, eppure anche nel 2013 i contribuenti onesti non hanno visto un euro di tasse in meno, dagli incassi aggiuntivi ottenuti dallo Stato attraverso i controlli. Esempio numero due: ancora ieri Befera ha aggiornato a 90 miliardi di euro la differenza annuale tra ciò che lo Stato dovrebbe ricavare dalle aliquote oggi in vigore per tutte le imposte, e ciò che lo Stato incassa davvero. Ma è difficile immaginare che questa stima davvero venga apprezzata da chi di imposte onestamente ne paga troppe, finché lo Stato non restituisce  sia pur  almeno qualcosa. In entrambi in casi è la politica, non Befera e l’Agenzia delle Entrate, ad avere la responsabilità di non aver mai attivato davvero il fondo di restituzione ai contribuenti di almeno una parte dei proventi della lotta all’evasione. Tuttavia è ovvio che, per imprese e famiglie stremate dalla crisi, dalle tasse e dalle banche, il mancato rispetto di tale pluriennale promessa conti eccome. Lo Stato è il primo, a non mantenere la parola.

Torniamo invece ai blitz. Da metà degli anni Duemila in avanti – prima assai meno, va riconosciuto che la politica per decenni ha vissuto una sorta di patto implicito con ampie fasce di evasione – sotto i morsi del necessario riequilibrio della finanza pubblica, il legislatore ha nel tempo disposto un ingente e progressivo rafforzamento degli strumenti a disposizione per la lotta all’evasione. Dalla sinergia tra tutte le banche dati pubbliche a disposizione dell’Agenzia delle Entrate, fino alle ultime norme oggi in vigore sul nuovo redditometro, e alla totale acquisizione da parte degli uomini di Befera di ogni movimentazione bancaria. Su molti di questi siamo stati critici, perché l’inversione dell’onere della prova e la mancata tutela dei diritti nel contenzioso è più regola che eccezione, ma fatto sta che l’arsenale di armi per la lotta all’evasione è diventato munitissimo.

Tutto ciò consente oggi controlli e accertamenti proprio sulla base dell’incrocio dell’immensa mole di dati attingibili con un clic dall’Agenzia, e adottando di conseguenza il metodo delle verifiche  individuali, ad personam e per così dire ad aziendam. E’ questo il metodo da seguire, per contenere ed eliminare ogni “esternalità negativa” dell’accertamento, cioè ogni effetto indotto improprio di freno e contrazione dei settori o delle aree locali in cui si interviene. Al contrario i blitz pubblici con grande dispiegamento di forza, i controlli “a strascico” porta a porta, massimizzano proprio l’effetto negativo indiretto. Se si parla con i rappresentanti delle categorie economiche attive nell’offerta di servizi turistici a Cortina, ai 2 milioni di incasso aggiuntivo per lo Stato generati dal blitz pubblico va affiancato nei mesi successivi un effetto negativo stimato tra 2 e 4 volte per alberghi, ristoranti, taxi, guide, impianti di risalita, prodotto dallo spostamento verso Austria e Svizzera di  turisti non solo italiani, ma soprattutto stranieri appartenenti al più alto segmento di reddito e consumi. Un effetto negativo verificatosi anche in Sardegna e in Valle d’Aosta, a seguito dei blitz. Su tutte queste attività sfumate, lo Stato ha perso gettito, non ne ha guadagnato.

Se alziamo lo sguardo, è esattamente ciò che si è verificato in intere filiere economiche per effetto degli aggravi sul “lusso”, decisi in quel caso dal legislatore. L’aggravio dell’imposizione patrimoniale sui natanti ha allontanato migliaia di barche dai porti turistici italiani verso quelli di Spagna, Grecia e Croazia. L’aumento di tassazione sulle auto di elevata cilindrata ha finito per spostare verso Svizzera e Austria una bella fetta della filiera dei ricambi come dell’assistenza, oltre che della vendita. In parole povere, mettendo nel mirino proprio servizi e prodotti del “lusso” giustamente abbinati al brand Italia per un segmento elevato di consumatori, italiani e soprattutto internazionale, e facendolo in maniera indiscriminata invece che caso per caso, ci diamo la zappa sui piedi. Perdiamo flussi rilevanti per l’intera economia italiana, e facciamo pagare il conto non ai ricchi che si spostano altrove, ma ai dipendenti e autonomi a basso reddito che lavorano in alberghi e ristoranti, officine e porti.

Non è di questo che ha bisogno l’economia italiana. Ma di tre altre cose. Controlli sì ma come sono oggi davvero possibili, cioè mirati e non indiscriminati. Incentivi ai dirigenti delle Entrate che premino incassi aggiuntivi ma da dove davvero si concentra l’evasione – società di capitale se si parla di redditi, aree geografiche dove si concentra l’evasione IVA  – senza premiare allo stesso modo chi genera invece contenzioso, aggravando la richiesta a chi le tasse già le paga. E infine una politica che sappia disboscare ed evitare i troppi eccessi fiscali, dalla corresponsabilità fiscale e contributiva degli appaltatori verso i subappaltanti, fino ai troppo ridotti tempi di esecutività degli accertamenti rispetto ai tempi della giustizia tributaria. La lotta all’evasione deve essere fatta senza rinunciare alla civiltà, e ai diritti del contribuente.

3
Apr
2014

Quel proiettile d’argento che non c’è

In un articolo recente su la stampa, Luca Ricolfi, spiega in modo chiaro perché tagliare la spesa pubblica lasciando invariato il livello dei servizi, seppure teoricamente possibile, risulta impraticabile nel breve periodo e presenta inoltre criticità rilevanti anche nel medio.

L’impossibilità di un’azione immediata, deriva dalla mancanza di informazioni e studi sufficientemente approfonditi sulle pratiche migliori (quei casi in cui si riesce ad ottenere risultati superiori o analoghi alla media a costi inferiori) e piani di intervento sufficientemente dettagliati per intervenire sulle pratiche peggiori al fine di adeguarle. In sintesi sappiamo che, in aggregato, è possibile risparmiare (e anche molto, nell’articolo si parla di 100 miliardi) senza incidere sulla quantità e qualità del servizio, ma occorrono anni per individuare le misure specifiche per l’implementazione concreta.

Nel medio termine, quand’anche si riuscisse finalmente a superare questi ostacoli, occorre poi che

ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono

La scomoda verità illustrata da Ricolfi, dunque, consiste nel fatto che, posto che dei tagli urgenti alla spesa saranno pressoché obbligati dai vincoli di bilancio esistente (pressione fiscale già a livelli record e crescita economica anemica nella più rosea delle ipotesi) essi si tradurranno in un peggioramento della qualità e in una riduzione nella qualità dei servizi ricevuti dai cittadini.

Questo vuol dire che non solo dovremo pagare il conto del malgoverno del passato, più preoccupato del consenso immediato, che non della sostenibilità nel tempo delle proprie politiche, ma che questo conto sarà anche più salato del dovuto, perché chi si appresta a governare (o si candida per farlo in alternativa) non si è preoccupato di elaborare piani di azione sufficientemente dettagliati.

A ben guardare, tuttavia, il discorso fatto per la troppa spesa cattiva e sulle difficoltà nel ridurla senza intaccare quella buona, è solo un caso particolare di carattere più generale del declino del nostro paese: non solo non esiste un proiettile d’argento che possa risolvere in breve tempo i nostri problemi, ma anche i sacrifici che saremo costretti a fare nei prossimi anni, se non indirizzati nella direzione giusta, non riusciranno a migliorare le sorti del nostro paese.

Prendiamo ad esempio la disoccupazione elevata, soprattutto tra i giovani (anche se è opportuno fare attenzione alle cifre e alle esternazioni), il dibattito politico, ovviamente polarizzato ideologicamente si è incentrato su questioni di natura contrattuale (art. 18, contratto unico etc) come se bastasse rendere più facili i licenziamenti per risolvere i problemi e come se questo non fosse largamente inaccettabile senza radicali interventi sulla rete di protezione per chi rimane senza lavoro. Insomma, a seguire il dibattito su questi temi, sembra che un contratto nuovo o una sforbiciata allo statuto dei lavoratori possa garantirci le “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. Eppure bastano poche semplici considerazioni per rendersi conto che la soluzione non solo non è così semplice, ma non può essere neanche rapida.

L’assunzione di un nuovo dipendente è, per il datore di lavoro, un investimento di lungo termine. Per rendere quest’operazione attraente, è sicuramente importante che l’eventuale “disinvestimento” possa avvenire con modalità, costi e rischi, conoscibili in anticipo, ma si tratta solo di una delle molteplici condizioni necessarie e singolarmente, non sufficienti. Perché sia conveniente investire in capitale umano, occorre anche, ad esempio, che gli individui disposti a lavorare possiedano le competenze tecniche (e non solo) richieste per le posizioni aperte: se al momento occorrono ingegneri e matematici, non c’è contratto che possa rendere appetibili gli archeologi o i linguisti alla ricerca di impiego. Questo non vuol dire necessariamente stigmatizzare le cosiddette lauree inutili, quanto piuttosto sottolineare la necessità di aggiornare e sviluppare le proprie competenze per aumentare la propria “impiegabilità”. Per rimanere sugli archeologi e i linguisti, a partirà di formazione di partenza, saranno più impiegabili coloro che riescono ad esempio a girare documentari multimediali, a scrivere nel formato adatto per un blog o a collaborare con team di lavoro in conference call, rispetto a chi aspetta pazientemente l’ennesimo concorso pubblico ritenendo superfluo anche imparare a scrivere un’email in inglese.

Ancora, come per qualsiasi altro investimento, rileva quanta parte del valore aggiuntivo prodotto dal nuovo assunto viene assorbita dai costi della burocrazia e dal fisco e quale impatto su di esso possono avere le condizioni generali del paese, in primis la crescita economica e del costo opportunità delle alternative, ossia di quanto è agevole spostare in una nazione più accogliente la produzione (e la nazione più accogliente non è necessariamente la Cina cattiva, ma in tanti casi può essere l’Austria o altri paesi UE) o acquistare il servizio da qualcun altro. Insomma, per osservare dei risultati significativi in termini di occupazione, è di certo necessario, aggiornare il mercato del lavoro per venire incontro alle esigenze di un’economia moderna, ma non è sufficiente. Occorre anche questa economia non scoraggi gli investimenti con oneri burocratici e fiscali eccessivi, e che sia avviata su un percorso di crescita.

La crescita economica del paese è poi una questione che suscita altrettante discussioni intrise di ideologia, più utili a confondere e travisare che non a comprendere le reali condizioni del paese. Con buona pace dei radical chic, che vagheggiano di una decrescita felice e dei marxisti travestiti da keynesiani (che hanno preso troppo alla lettera la storia del pagare la gente per scavare buche): l’unica cosa che può garantirci il mantenimento, se non il miglioramento, delle attuali condizioni di vita è un livello adeguato di crescita economica.

Anche a questo proposito i problemi del nostro paese hanno radici lontane e non potranno essere risolti da qualche repentino colpo di genio. Per sperare di rivedere livelli accettabili, occorre che il sistema Italia non scoraggi l’innovazione e gli investimenti da parte dei privati, ma anzi li favorisca e per ottenere questo risultato, occorrerebbe ridimensionare significativamente sia gli apparati burocratici che la pressione fiscale, ma così torniamo allo spunto di Ricolfi e il cerchio si chiude: occorre ridurre sensibilmente l’entità della spesa pubblica e il ruolo dello stato nell’economia e non è pensabile conseguire questi risultati in breve tempo, per non menzionare il dettaglio che ridimensionare la spesa spesa pubblica nel breve possa avere  effetti  recessivi.

La strade delle riforme è dunque un percorso obbligato, se non altro dal fatto che il mantenimento dello status quo appare sempre più insostenibile, anche se ormai in molti hanno una vaga idea del punto di arrivo, il percorso è tutt’altro che tracciato e questo avvalora la previsione che non sarà una via breve: le scorciatoie fantasiose, dalla moneta filosofale alle bungalire al posto dell’euro servono solo a distrarre l’attenzione, a ritardare ulteriormente la soluzione dei problemi e in definitiva aumentare il costo dell’aggiustamento.

@massimofamularo

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Apologia di Socrate

29
Mar
2014

Ha ragione Visco, ecco tutti i miliardi persi per i freni di corporazioni e sindacati

Non l’avesse mai detto, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Citando testualmente Guido Carli nel centenario della nascita, ha indicato nelle “rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali” ciò costitusce “sempre la remora principale allo sviluppo del nostro Paese”. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, è insorto tacciandolo di essere tra le “alte autorità che spesso parlano a vanvera”. La segretaria della Cgil, Susanna Camusso, l’ha liquidato dicendo “mi sembra un riproporre ricette che hanno già mostrato il loro fallimento”.

Invece il governatore Visco ha ragione. E se il giudizio di Carli è ancora attuale, anche se i tempi sono diversi – ai tempi di Carli il problema era l’inflazione, oggi è la stagnazione – ciò esprime una parte rilevante dell’irrisolto problema italiano. Fermiamoci alla parte che ha suscitato la polemica, quella relativa alle parti sociali, e passiamo in rassegna alcuni dei maggiori capitoli sui quali opposizioni e frenate oggettive sono venute da chi ieri ha criticato Visco. Con un’osservazione preliminare: naturalmente è sempre sbagliato generalizzare, richiamare le responsabilità dei “professionisti” della rappresentanza non significa affatto negare che esistano e che abbiano molti meriti, per esempio, migliaia di rappresentanti sindacali nei posti di lavoro che svolgono il loro compito gratuitamente e con coscienza, senza distacchi né benefici retributivi. E dare ragione a Visco non vuol dire neanche fare un calderone comune delle diverse posizioni: ovviamente la Cisl non è la Cgil, e questa non è l’USB.

Relazioni industriali. Cominciamo da quello che dovrebbe essere il mestiere primario di chi rappresenta lavoratori e imprese: non sostituire i partiti, ma occuparsi dei contratti. Sotto questo profilo, non è affatto sanata la rottura che avvenne nel 2009, alla mancata firma Cgil-Fiom del contratto dei metalmeccanici. Cisl-Uil e Cgil erano separati dalla coda polemica del rapporto preferenziale che i governi Berlusconi avevano mantenuto con le prime e non con la seconda. Solo nel 2011 e poi con l’accordo interconfederale del 31 maggio 2013 si è tornati all’unità con le associazioni d’impresa intonro alla rappresentanza delle RSU, sui requisiti maggioritari per la firma dei contratti, sulla contrattazione decentrata nella quale va incardinata la “vera” contrattazione che fa la differenza, quella per accrescere la produttività con il salario detassato e con un utilizzo di impianti – turni, orari – che metta più soldi nelle tasche sia delle imprese che dei lavoratori. Ma un pezzo della Cgil – a cominciare dalla Fiom, di qui la battaglia tra Camusso e Landini – non si è mai riconosciuta in questa svolta. A parte le multinazionali e alcune decine di grandi gruppi, la contrattazione decentrata che pure si è diffusa non ha ancora sprigionato la forza che è in grado di ottenere. E di grandi contratti in deroga aziendali rispetto a quelli nazionali – oggi perfettamente possibili, e che sarebbero utilizssimi –  dopo la Fiat che ha sbattuto la porta da Confindustria se n’è praticamente persa traccia. L’effetto? Frazioni di punto di crescita di PIl in meno. Preziosi in teoria, ma denegati dall’ideologia: quella che oggi nel Pd e nella Cgil gtorna a preferire meno lavoratori apprendisti e a tempo determinato, pur di non ammainare la bandiera di difendere a chiacchiere  il modello unico del tempo indeterminato per tutti.

Il mondo pubblico. Qui le resistenze sono fortissime e trasversali davvero, vista la forza Cisl nel settore statale. Facciamo tre soli esempi. Da 7 anni manca il rinnovo del contratto di quelli che un tempo si chiamavano autoferrotranvieri. Sotto la pressione “di base” dei sindacati autonomi, i confederali resistono a ciò che si manifesta nella realtà. Di fatto, la situazione delle aziende di trasporto pubblico locale – ogni anno circa 6 miliardi di sussidi pubblici – è totalmente divergente. Per l’eccezione Atm di Milano, in utile, ci sono disastri di dimensione europea come l’ATAC di Roma. E nella media guai seri come quelli dell’AMT di Genova – ricordate il blocco per sei giorni della città, due mesi fa, senza che alcun potere pubblico intervenisse – sono più la regola che l’eccezione. In questo settore ormai il contratto nazionale dovrebbe servire solo per la parte normativa e relativa ai diritti: solo con contratti azienda per azienda “ritagliati” sulle specifiche necessità di risanamento-efficienza delle diverse imprese, è pensabile rivedere la luce. E servono energici accorpamenti. Come nel secondo caso: l’universo delle 7700 società controllate da Comuni, Province e Regioni, che diventano quasi 30mila se sommiamo le controllate e partecipate di secondo e terzo livello. Qui l’onere è di 24 miliardi di euro l‘anno, la metà concentrato in società pubbliche che non offrono servizi ai cittadini. Il terzo settore è quello della scuola. Due giorni fa il ministro Giannini ha pronunciato in Parlamento una cifra spaventosa: sono circa 500 mila, sommando tutte le diverse tipologie, i precari della scuola. La politica ha colpe immense – avendo preferito per decenni inventarsi sottocategorie a tempo per ragioni clientelari, alle quali promettere poi stabilizzazione e cattedra in cambio di voti. Ma è il sindacato che le ha accettate, difese e sostenute.

Le liberalizzazioni. Le resistenze sono state infinite. E quelle sindacali per una volta sono “concentrate”, su modalità dell’offerta di servizio da parte del pubblico che prevedano dovunque procedure di gara davvero “aperte”, superando le gestioni in house e mettendo dunque a serio rischio le piante organiche spesso pletoriche dei monopolisti pubblici, dalla raccolta rifiuti ai servizi idrici e ai trasporti. Ma la “resistenza diffusa” alle liberalizzazioni è venuta fortissimamente anche dal mondo privato. Dall’avvocatura, al notariato, ai farmacisti. Alle banche, sempre pronte a sostituire l’abbattimento delle commissioni bancarie o la gratuità della portabilità e rinegoziabilità dei mutui con nuovi oneri impropri a carico del cliente. Tra le liberalizzazioni “offuscate”, cioè attutite nell’effetto per chi paga i costi del servizio, c’è quella energetica. Abbiamo introdotto concorrenza nella generazione di energia più di altri grandi paesi europei, ma in bolletta oggi il costo dell’energia è una componente minoritaria, rispetto a fisco e sussidi. Se lo Stato ci va pesante con le tasse, tuttavia non dimentichiamo che ogni anno diamo 12 miliardi di sussidi alle rinnovabili e oltre 3 al vecchio bacino delle cosiddette “assimilabili”, quasi 4 di sussidi alle reti private, altri miliardi di sostegno ai grandi gruppi “energivori”, e a quelli che hanno sbagliato modello d’investimento e oggi hanno impianti – innanzitutto a gas – inattivi. Confindustria per prima, al cui interno tutte queste categorie sono ben rappresentate e tra i primi grandi soci finanziatori in termini di quote associative, è perennemente attraversata da scosse telluriche anche se restano sotto la superficie, tutte le volte che – come con l’attuale ministro Guidi – riaffiora la volontà di taglie i sussidi in bolletta in modo da alleviare il costo per le piccole imprese e le famiglie.
I costi impropri. Sindacati e associazioni d’impresa hanno ancora una lunga strada da percorrere, in termini di trasparenza rispetto al denaro pubblico di cui beneficiano. La questione è macroscopica per i sindacati, visto che – come ribadito nella recente inchiesta del Messaggero – si aggira sul miliardo di euro l’anno la cifra stimata annuale di fonte pubblica che affluisce nei loro bilanci – tra convenzioni dei CAF, Patronati, quota-pensioni girata dall’INPS, e via proseguendo. Non pubblicano bilanci consolidati nazionali di conto economico e patrimoniale, ma solo stringati rendiconti di cassa annuali per ogni categoria, e non per tutte. Anche per Confindustria – come per le altre 53 diverse sigle d’impresa – non c’è un vero e proprio bilancio consolidato, ma ogni Associazione territoriale e di categoria ha un proprio rendiconto. Confindustria ha tagliato in questi anni i costi centrali e sta accorpando le sue territoriali, l’esempio di Unindustria Lazio che ha superato le organizzazioni provinciali ha fatto testo. Ma che le migliaia di dipendenti del sistema “pesino” troppo in questi anni sulle tasche degli associati, è fatto confermato in molte prese di posizione di imprenditori. Moltissimoci sarebbe da dire sulle Camere di commercio a cui partecipano le associazioni datoriali: sono 105 Camere di commercio, con un’Unione italiana, 19 regionali, 19 strutture di sistema, 69 Camere arbitrali, 105 Camere di conciliazione, 27 Laboratori chimico-merceologici, 47 Borse merci e Sale di contrattazione e 9 Borse immobiliari,151 sedi distaccate per l’erogazione di servizi sul territorio, 135 Aziende speciali per la gestione di servizi promozionali e infrastrutture, 495 partecipazioni con altri soggetti pubblici e privati in infrastrutture, 9 Centri estero regionali, 74 Camere di commercio italiane all’estero, 39 Camere di commercio italo-estere. Al finanziamento proveniente dal diritto annuale versato dalle aziende imprese iscritte o annotate al registro delle imprese e con i diritti di segreteria sull´attività certificativa svolta e sulle iscrizioni in ruoli, elenchi, registri e albi tenuti ai sensi delle disposizioni vigenti, si somma quello di leggi e leggine locali di sostegno alle attività delle Camere. Basta dare un occhio all’elenco delle 19 società controllate e partecipate dalla Camera di Commercio di Roma, e alle 25 di quella di Napoli, per capire che molta pulizia andrebbe fatta.

Insomma siamo seri: è veramente difficile, dare torto al governatore Visco.

 

29
Mar
2014

La tariffa idrica dopo il referendum

Grazie a due recenti sentenze, finalmente si chiariscono alcuni concetti tanto basilari quanto banali relativi al servizio idrico: ossia, che tale servizio è un servizio di interesse economico e, pertanto, i costi vanno integralmente coperti con i ricavi. Ci sono voluti quasi tre anni (dal referendum fuffa a oggi), ma almeno si può festeggiare il lieto fine. Se così vogliamo definire il fatto di ribadire principi economici tanto basilari quanto banali. Read More