Tre ragioni per respingere il presunto “capolavoro” di Piketty sul “Capitale”
C’è un libro che potrebbe diventare una Bibbia del dibattito pubblico nazionale. A destra come a sinistra, visto che nel nostro Paese l’anomalia è che entrambe si fregiano dell’aggettivo “sociale”. Il che significa, nella traduzione concreta, che non favoriscono l’accumulazione e l’investimento dei capitali – “dei” capitali, perché non c’è solo quello finanziario, c’è quello umano, quello fisico delle infrastrutture, e quello immateriale dei brevetti e dei processi organizzativi e distributivi – necessari alla crescita, ma preferiscono occuparsi della redistribuzione del prodotto esistente. Che nel nostro Paese è di 9 punti di Pil e di 24 punti di produzione industriale inferiore al precrisi. Questo libro è l’opus magnum di un “economista politico” – è lui stesso a definirsi così, sa bene che la sua produzione a tesi è molto più politica che economica – francese, che sta letteralmente spopolando nel mondo anglosassone. Stiamo parlando di Thomas Piketty e del suo ambiziosissimo Il Capitale nel XXI° secolo, quasi mille pagine nell’edizione francese 2013, 685 nella traduzione in inglese che ho per le mani, uscita solo il 15 marzo scorso.
L’unica ragione per la quale in Italia non si è ancora diffusa la “febbre Piketty” – trovate ora un’intervista sul sito di Foreign Affairs, perché l’autore è on tour negli Usa dove è letteralmente conteso da stazioni televisive, radio e media, mentre l’Economist da due mesi su uno dei suoi blog sta addirittura recensito e commentato ciascuno dei 16 capitoli del libro – è forse perché da noi anche gli intellettuali leggono meno, quando si tratta di lingue straniere.
Ebbene lo vogliamo allora dire praticamente quasi per primi, fregandocene abbastanza del fatto che qualche economista e accademico possano accusarci di non avere i titoli per farlo: speriamo proprio che in Italia almeno nessuno dia troppa retta, alle tesi di Piketty.
L’ex consigliere della socialista Ségolène Royal accumula un’impressionante congerie di dati statistici sul rapporto tra reddito e patrimoni, e già sbaglia “ideologicamente” a identificare la ricchezza cioè il patrimonio con il capitale, visto che come abbiamo ricordato il capitale è cosa assai più ampia e diversificata. Piketty afferma una tesi sulla quale ruota la sua intera riflessione: nella storia, il tasso di rendimento del capitale, che per lui si identifica con ricchezza-patrimoni, è sempre superiore al tasso di crescita dell’economia e dei redditi. Tanto quando le cose vanno bene, per accelerazioni tecnologiche o per innalzamento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, tanto quando vanno male, perché anche in quel caso la discesa dei redditi non è affatto comparabile al ritorno persistente dei capitali. Sbagliava di grosso insomma il Nobel Simon Kuznets, a pensare che la disuguaglianza diminuiva nelle economie mature. Sbagliava Nicholas Kaldor, convinto che nel lungo periodo la quota di reddito da capitale sembrava equilibrarsi rispetto ai redditi da lavoro.
Neanche per idea, scrive Piketty. Il patrimonio risale nel mondo “maturo” odierno a sei-sette-dieci e più volte il valore dei redditi. E la percentuale di ricchezza nelle mani dell’1% più affluente delle popolazioni è vergognosamente spropositata rispetto al resto della società. Si torna all’Ottocento delle oligarchie pre-democratiche e dei landlords pre-industriali. Si torna al fattore ereditario rispetto alla mobilità sociale. E si sbaglia a credere che sia un fenomeno che riguardi soprattutto Usa e Regno Unito, a welfare e Stato più “leggeri”, perché al contrario è un fenomeno globale.
Di qui la ricetta politica di Piketty: accentuazione iperprogressiva delle imposte sui redditi, con aliquote marginali fino all’80%. E mega tasse patrimoniali sulla parte “alta” della piramide della ricchezza. Altro che uscita dall’euro e ripudio dei debiti – ai quali , comunque, Piketty non è del tutto contrario – una tassazione feroce è l’unica maniera perché il capitalismo degli straricchi non abbia definitivamente ragione della democrazia e della libertà di tutti.
E’ ovvio che ci sarebbero un mare di obiezioni da fare, all’impianto teorico e all’interpretazione dei dati. Quando Kaldor scriveva nel 1950 che la diseguaglianza si sarebbe abbassata era esattamente quel che stava accadendo nei Paesi avanzati, tra il secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta. E non è affatto vero che l’elevata patrimonializzazione media delle famiglie italiane – abbiamo un patrimonio che vale quasi otto volte il reddito – coincida con una ricchezza del 70% nazionale nelle mani dell’10% più ricco come negli USA, visto che da noi fa già abbastanza scandalo che sia il 10% più ricco a detenere il 47% del patrimonio, che però è cosa ben diversa. Insomma non è affatto vero non solo che la legge generale di Piketty – “r sempre > g”- sia sempre valida, ma non è neanche vero che dovunque nel mondo avanzato avvenga davvero la stessa cosa. Da noi la questione l’elevata patrimonializzazione delle famiglie non è affatto figlia della concentrazione della ricchezza nelle mani di centinaia di migliaia di magre addetti ai servizi finanziari, né di una svolta fiscale a favore dei “ricchi” che non c’è mai stata. Da noi la storica elevata propensione al risparmio si è sommata a decenni di pingui rendimenti dei titoli pubblici, e a una scelta di massa per il mattone – di gran lunga prevalente nei patrimoni delle famiglie – che oggi si riassume nell’alternativa di come smobilizzarlo a favore delle generazioni successive a basso reddito e alta occupazione – il vero problema italiano è ugello demografico e intergenerazionale, i 40 miliari annui di sbilancio tra contributi raccolti e trattanti previdenziali – o se vederne il valore depresso dall’accresciuto fisco di Stato e dalla minaccia, un domani, di veri espropri “politici”.
In generale, dunque, invito i liberali veri a orientarsi anche in Italia verso recensioni critiche fino alla stroncatura, di Piketty. Vedi quella di Tyler Cowen, o quanto David Henderson e Scott Sumner scrivono sul libro nel bellissimo blog al quale collabora anche Alberto Mingardi. Ma per dirla in tre sole proposizioni sintetiche, ecco le ragioni per le quali non vorremmo che Piketty diventasse popolare in Italia.
La prima è che Piketty vuol riportare il dibattito economico ai Tempi di David Ricardo, così atterrito della disparità di valore della terra di fronte all’effetto scarsità rappresentato dalla crescita della popolazione, da proporre mega imposte sulla proprietà: peccato che, all’inizio dell’Ottocento, non potesse prevedere i salti di produttività creati dalle tecnologie successive. Per fortuna, abbiamo tonnellate di evidenze che l’effetto scarsità rappresentato dalla finitezza delle risorse fisiche e della limitata dispersione dei mezzi finanziari non abbia affatto impedito la moltiplicazione dei redditi e del benessere.
La seconda è che Piketty mistifica ciò che avviene globalmente nel mondo, rispetto ai Paesi avanzati: se dagli anni Ottanta il pendolo nei Paesi Ocse è tornato dopo decenni a premiare i ricchi, nel resto del mondo centinaia di milioni di umani sono usciti dall’economia di mera sussistenza diventano consumatori globali. Scusate se è poco, visto che è il consumo la vera molla della crescita (Piketty sembra ignorarlo del tutto, ovviamente è un’ignoranza volontaria).
Terzo: leviamoci dalla testa che il problema italiano sia risolvibile con mega patrimoniali e tassazioni dei redditi ancora più elevate. Noi stiamo soffrendo per l’eccesso di imposte dirette, indirette e patrimoniali che crescono insieme, in questi anni. E quanto al premio dei patrimoni rispetto ai redditi, forse è il caso di rileggere i dati Bankitalia sul deprezzamento dei patrimoni immobiliari nel 2013, per nulla sostituiti dagli andamenti dei redditi da attività finanziarie.
Il reddito da lavoro di un Paese è il prodotto tra salario medio e produttività: da noi il problema è di elevare la produttività anche a costo di scontare che nel breve parecchi cambino lavoro, piuttosto che vivere in un paese in cui ciascuno ha un salario medio più elevato ma a produttività stagnante. No, non è la diseguaglianza il problema numero uno italiano, né la patrimoniale la sua risposta. Qui la patrimoniale la dovrebbe pagare lo Stato, a partire dalla sua immensa manomorta immobiliare, che è incapace di mettere a reddito.