25
Apr
2014

Tre ragioni per respingere il presunto “capolavoro” di Piketty sul “Capitale”

C’è un libro che potrebbe diventare una Bibbia del dibattito pubblico nazionale. A destra come a sinistra, visto che nel nostro Paese l’anomalia è che entrambe si fregiano dell’aggettivo “sociale”. Il che significa, nella traduzione concreta, che non favoriscono l’accumulazione e l’investimento dei capitali – “dei” capitali, perché non c’è solo quello finanziario, c’è quello umano, quello fisico delle infrastrutture, e quello immateriale dei brevetti e dei processi organizzativi e distributivi – necessari alla crescita, ma preferiscono occuparsi della redistribuzione del prodotto esistente. Che nel nostro Paese è di 9 punti di Pil e di 24 punti di produzione industriale inferiore al precrisi. Questo libro è l’opus magnum di un “economista politico” – è lui stesso a definirsi così, sa bene che la sua produzione a tesi è molto più politica che economica – francese, che sta letteralmente spopolando nel mondo anglosassone. Stiamo parlando di Thomas Piketty e del suo ambiziosissimo Il Capitale nel XXI° secolo, quasi mille pagine nell’edizione francese 2013, 685 nella traduzione in inglese che ho per le mani, uscita solo il 15 marzo scorso.

L’unica ragione per la quale in Italia non si è ancora diffusa la “febbre Piketty” – trovate ora un’intervista sul sito di Foreign Affairs, perché l’autore è on tour negli Usa dove è letteralmente conteso da stazioni televisive, radio e media, mentre l’Economist da due mesi su uno dei suoi blog sta addirittura recensito e commentato ciascuno dei 16 capitoli del libro – è forse perché da noi anche gli intellettuali leggono meno, quando si tratta di lingue straniere.

Ebbene lo vogliamo allora dire praticamente quasi per primi, fregandocene abbastanza del fatto che qualche economista e accademico possano accusarci di non avere i titoli per farlo: speriamo proprio che in Italia almeno nessuno dia troppa retta, alle tesi di Piketty.

L’ex consigliere della socialista Ségolène Royal accumula un’impressionante congerie di dati statistici sul rapporto tra reddito e patrimoni, e già sbaglia “ideologicamente” a identificare la ricchezza cioè il patrimonio con il capitale, visto che come abbiamo ricordato il capitale è cosa assai più ampia e diversificata. Piketty afferma una tesi sulla quale ruota la sua intera riflessione: nella storia, il tasso di rendimento del capitale, che per lui si identifica con ricchezza-patrimoni, è sempre superiore al tasso di crescita dell’economia e dei redditi. Tanto quando le cose vanno bene, per accelerazioni tecnologiche o per innalzamento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, tanto quando vanno male, perché anche in quel caso la discesa dei redditi non è affatto comparabile al ritorno persistente dei capitali. Sbagliava di grosso insomma il Nobel Simon Kuznets, a pensare che la  disuguaglianza diminuiva nelle economie mature. Sbagliava Nicholas Kaldor, convinto che nel lungo periodo la quota di reddito da capitale sembrava equilibrarsi rispetto ai redditi da lavoro.

Neanche per idea, scrive Piketty. Il patrimonio risale nel mondo “maturo” odierno a sei-sette-dieci e più volte il valore dei redditi.  E la percentuale di ricchezza nelle mani dell’1% più affluente delle popolazioni è vergognosamente spropositata rispetto al resto della società.  Si torna all’Ottocento  delle oligarchie pre-democratiche e dei landlords pre-industriali.  Si torna al fattore ereditario rispetto alla mobilità sociale.  E si sbaglia  a credere che sia un fenomeno che riguardi soprattutto Usa e Regno Unito, a welfare e Stato più “leggeri”, perché al contrario è un fenomeno globale.

Di qui la ricetta politica di Piketty: accentuazione iperprogressiva delle imposte sui redditi, con aliquote marginali fino all’80%.  E mega tasse patrimoniali sulla parte “alta” della piramide della ricchezza. Altro che uscita dall’euro e ripudio dei debiti – ai quali , comunque, Piketty non è del tutto contrario – una tassazione feroce è l’unica maniera perché il capitalismo degli straricchi non abbia definitivamente ragione della democrazia e della libertà di tutti.

E’ ovvio che ci sarebbero un mare di obiezioni da fare, all’impianto teorico e all’interpretazione dei dati. Quando Kaldor scriveva nel 1950 che la diseguaglianza si sarebbe abbassata era esattamente quel che stava accadendo nei Paesi avanzati, tra il secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta. E non è affatto vero che l’elevata patrimonializzazione media delle famiglie italiane – abbiamo un patrimonio che vale quasi otto volte il reddito – coincida con una ricchezza del 70% nazionale nelle mani dell’10% più ricco come negli USA, visto che da noi fa già abbastanza scandalo che sia il 10% più ricco a detenere il 47% del patrimonio, che però è cosa ben diversa. Insomma non è affatto vero non solo che la legge generale di Piketty – “r sempre > g”- sia sempre valida, ma non è neanche vero che dovunque nel mondo avanzato avvenga davvero la stessa cosa.  Da noi la questione l’elevata patrimonializzazione delle famiglie non è affatto figlia della concentrazione della ricchezza nelle mani di centinaia di migliaia di magre addetti ai servizi finanziari, né di una svolta fiscale a favore dei “ricchi” che non c’è mai stata. Da noi la storica elevata propensione al risparmio si è sommata a decenni di pingui rendimenti dei titoli pubblici, e a una scelta di massa per il mattone – di gran lunga prevalente nei patrimoni delle famiglie – che oggi si riassume nell’alternativa di come smobilizzarlo a favore delle generazioni successive a basso reddito e alta occupazione – il vero problema italiano è ugello demografico e intergenerazionale, i 40 miliari annui di sbilancio tra contributi raccolti e trattanti previdenziali –  o se vederne il valore depresso dall’accresciuto fisco di Stato e dalla minaccia, un domani, di veri espropri “politici”.

In generale, dunque, invito i liberali veri a orientarsi anche in Italia verso recensioni critiche fino alla stroncatura, di Piketty. Vedi quella di Tyler Cowen, o quanto David Henderson e Scott Sumner scrivono sul libro nel bellissimo blog al quale collabora anche Alberto Mingardi.  Ma per dirla in tre sole proposizioni sintetiche, ecco le ragioni per le quali non vorremmo che Piketty diventasse popolare in Italia.

La prima è che Piketty vuol riportare il dibattito economico ai Tempi di David Ricardo, così atterrito della disparità di valore della terra di fronte all’effetto scarsità rappresentato dalla crescita della popolazione, da proporre mega imposte sulla proprietà: peccato che, all’inizio dell’Ottocento, non potesse prevedere i salti di produttività creati dalle tecnologie successive. Per fortuna, abbiamo tonnellate di evidenze che l’effetto scarsità rappresentato dalla finitezza delle risorse fisiche e della limitata dispersione dei mezzi finanziari non abbia affatto impedito la moltiplicazione dei redditi e del benessere.

La seconda è che Piketty mistifica ciò che avviene globalmente nel mondo, rispetto ai Paesi avanzati: se dagli anni Ottanta il pendolo nei Paesi Ocse è tornato dopo decenni a premiare i ricchi, nel resto del mondo centinaia di milioni di umani sono usciti dall’economia di mera sussistenza  diventano consumatori globali. Scusate se è poco, visto che è il consumo la vera molla della crescita (Piketty sembra ignorarlo del tutto, ovviamente è un’ignoranza volontaria).

Terzo: leviamoci dalla testa che il problema italiano sia risolvibile con mega patrimoniali e tassazioni dei redditi ancora più elevate. Noi stiamo soffrendo per l’eccesso di imposte dirette, indirette e patrimoniali che crescono insieme, in questi anni. E quanto al premio dei patrimoni rispetto ai redditi, forse è il caso di rileggere i dati Bankitalia sul deprezzamento dei patrimoni immobiliari nel 2013, per nulla sostituiti dagli andamenti dei redditi da attività finanziarie.

Il reddito da lavoro di un Paese è il prodotto tra salario medio e produttività: da noi il problema è di elevare la produttività anche a costo di scontare che nel breve parecchi cambino lavoro, piuttosto che vivere in un paese in cui ciascuno ha un salario medio più elevato ma a produttività stagnante. No, non è la diseguaglianza il problema numero uno italiano, né la patrimoniale la sua risposta. Qui la patrimoniale la dovrebbe pagare lo Stato, a partire dalla sua immensa manomorta immobiliare, che è incapace di mettere a reddito.

 

 

24
Apr
2014

Lavoro, fisco, Senato, PA: c’è uno iato sempre più evidente tra i fatti e ciò che Renzi dice

Il modo in cui avanzano riforme e interventi del governo Renzi è figlio di due particolarità. La prima è il ritardo pluriennale accumulato dall’Italia sul cammino delle riforme: ogni tanto e’ istruttivo rileggere la lista degli interventi chiesti al nostro Paese dalla BCE il 5 agosto 2011, regolarmente a parole sottoscritti dai tre governi precedenti quello attuale a cominciare da Berlusconi, impegni poi rimasti in larghissima misura sulla carta. La seconda particolarità è invece quella politica: alla premiership Renzi è arrivato dopo una lunga lista di errori gravi del Pd, prima e dopo le elezioni del 2013, e dopo il logoramento evidente del governo Letta accartocciatosi sull’IMU. Per parti non trascurabili del Pd, Renzi e’ diventato un leader obbligato di fronte ai guai che si erano determinati, ma non per questo un leader di cui si condivide davvero spirito e obiettivi.

Ecco perché, ora che si è entrati nel vivo dei primi interventi con il decreto Poletti sul lavoro, con quello sul bonus ai redditi medio bassi, e con i primi confronti sulla riforma del Senato, tra le riforme annunciate con entusiasmo da Renzi e il confronto concreto che si articola sui loro testi inizia a manifestarsi uno iato evidente.
Sul decreto Poletti è andata come è andata. La marcia indietro alla Camera rispetto al testo iniziale, sia in materia di lavoro a tempo determinato, sia di apprendistato, sia di formazione pubblica obbligatoria, porta impresse con chiarezza le orme della sinistra Pd di matrice sindacale. Renzi ancora ieri nei suoi tweet ha ripetuto che si tratta di modifiche di dettaglio, e che davanti ai disoccupati a milioni gli italiani non capiscono chi fa questioni di lana caprina. Ebbene noi non siamo iscritti al partito dei cosiddetti “gufi”, ma non per questo possiamo venir meno al nostro dovere di osservatori. Aver piegato il saggio ritorno alla flessibilità del testo iniziale di Poletti alle contrarietà tipiche di chi diffida delle imprese, è il segno che Renzi ha un grande problema aperto con la sinistra del suo partito.

E’ un problema che potrebbe diventare ancor più serio quando si metterà mano alla delega sul nuovo codice semplificato del lavoro. Ma che intanto è già serissimo sul testo di riforma del Senato. Anche ieri la sinistra Pd, estesa ai bersaniani, tornando a difendere un Senato elettivo si è mostrata perfettamente in grado di spaccare trasversalmente la maggioranza, e di snaturare l’obiettivo che Renzi ha indicato.

Quanto al bonus ai redditi medio-bassi, è un fatto e non un pregiudizio che il testo alla fine sia diverso da come è stato presentato. Certo il bonus arriva ai redditi medio-bassi da subito, ma ripetere che ora arriva anche quello per pensionati e incapienti – il premier l’altro ieri ha incluso anche per la prima volta i lavoratori autonomi – stride con ciò che il ministro Padoan giustamente ripete a ogni intervista. E cioè che se ne parlerà solo nella legge di stabilità a fine anno, perché le coperture vanno ben congegnate: prima ancora di estenderne i beneficiari, al fine innanzitutto di rendere tali interventi strutturali e non una tantum come oggi sono.

Si aggiunge la smentita continua sul fisco. Si ha un bel dire che le imposte non aumentano, ma aumentano eccome. Perché l’aliquota del 26% sulle cosiddette “rendite”, sommata alle altre imposte già adottate in materia come quella sul conto-titoli e Tobin Tax, porta per tipo di prodotti e per tassi d’interesse concretamente realizzati a veri espropri patrimoniali per i piccoli risparmiatori. Perché l’anticipo di 400 milioni sul regime fiscale spalmato in tre anni dei cespiti derivanti dalla rivalutazione dei beni d’impresa – altra perla che non era stata annunciata, ma è apparsa nel decreto per garantire coperture visto che i tagli di spesa ammontano a meno del 50% del suo fabbisogno – è un modo classico per uccidere fiscalmente in culla una misura che doveva dar respiro a mercato immobiliare e investimenti. Per tacere della sovrattassa retroattiva sulle banche, che ha il suo bel ruolo nell’indurre oggi Intesa e Unicredit a puntare i piedi nella vicenda Alitalia-Etihad, lasciando il governo a sobbarcarsi l’onta di un fallimento del salvataggio a opera degli emiratini.

Le insidie, come si vede, sono molte, e su terreni essenziali. Si può credere che dopo le elezioni europee, in caso di buon successo del Pd a guida Renzi, molte di esse scomparirebbero. Ma un po’ di sano realismo dovrebbe indurre a pensarla diversamente. E’ Renzi per primo, vista la natura “personale” della sua leadership e premiership, che deve trovare una diversa quadra tra gli annunci, che a fini comunicativi funzionano, e i provvedimenti, che al momento vanno meno bene.

Facciamo un ultimo esempio. Cruciale: la riforma della Pubblica Amministrazione. Sindacati e riflessi corporativi sono già all’allarme rosso. Si legge di magistrati apicali pronti a dimettersi in massa per protesta. A Roma, pur sottoposta a vincoli di rientro da parte del decreto che ha ancora una volta salvato le sue finanze, i sindacati continuano a chiedere che il salario accessorio di produttività sia “spalmato” a tutti i dipendenti malgrado le osservazioni in senso opposto del MEF. Il tetto da 239 mila euro per i manager e dirigenti apicali pubblici è stato un buon inizio. Ma senza decisioni concrete aggiuntive in materia di tetti ai dirigenti di prima e seconda fascia, senza una stima oggettiva degli esuberi della Pa, senza un metodo che consenta da parte del governo di stimare anche quelli della PA periferica attualmente fuor dalla sua portata, senza un criterio preciso di metodo per sostituirne una parte con nuovi innesti tenendo fermo però il risparmio complessivo e dunque senza prepensionamenti ad hoc per i soli pubblici dipendenti, senza tutto questo non si rivede integralmente il costo, l’efficienza e il perimetro della PA come Renzi ripete.

Certo, difficile o impossibile aspettarselo prima delle europee. Ma subito dopo, è il caso che a cominciare dalla PA Renzi non pensi tanto ai gufi della stampa che criticano facendo il loro dovere, ma ai tanti avvoltoi che in Italia difendono lo status quo di vecchie impostazioni. Altrimenti, com’è avvenuto coi governi Berlusconi, Monti e Letta, prevarranno loro ancora una volta. E non sarà per diffidenza dei partner europei, che l’Italia continuerà a restare inadempiente agli impegni assunti tre anni fa.

22
Apr
2014

Lavoro: sul decreto Poletti Renzi va a rimorchio della sinistra sindacale

Inizia oggi l’esame d’aula alla Camera del decreto legge Poletti in materia di lavoro, tempo indeterminato e apprendistato. Il decreto va convertito entro il 19 maggio e manca ancora l’esame del Senato. Ma non è solo il tempo, il problema. Il decreto Poletti ha infatti reso evidente che esiste un problema serio tra l’impostazione dichiarata dal governo, e ciò che pensa una parte troppo importante del Pd e dei suoi gruppi parlamentari, perché il governo possa pensare di risolvere la questione disinvoltamente a colpi di fiducia.Come subito è stato costretto a fare, per arginare le giuste obiezioni di Ncd e Scelta Civica.

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18
Apr
2014

Ancora contro la tassazione delle rendite finanziarie—di Natale D’Amico

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Natale D’Amico.

Continua a sorprendere la scarsa attenzione che il dibattito pubblico presta all’annunciato aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. E proprio nell’anno in cui ricorre il 140 esimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi, cioè dell’economista che più di ogni altro dedicò larga parte della propria attività scientifica e pubblicistica a combattere contro la doppia imposizione sul risparmio.

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17
Apr
2014

Roma: Marino caccia l’assessore rigorista, smentisce il governo e sceglie le tasse

C’è una pessima tendenza che si sta affermando nelle grandi amministrazioni locali italiane con i conti in dissesto. Di fronte alla necessità di ridurre il debito accumulato e di incidere con rigore nella spesa corrente fuori controllo, sindaci e presidenti dopo tante parole si trovano innanzi a una scelta. Farlo per davvero, oppure cacciare gli assessori al bilancio che, al momento della formazione della giunta, erano fieri di aver scelto per le caratteristiche di indipendenza e competenza, proprio per evitare spesa facile e favori ai partiti. E’ accaduto a De Magistris a Napoli, a Crocetta in Sicilia. Ieri si è purtroppo aggiunto alla lista il sindaco di Roma, Ignazio Marino. E l’assessore Daniela Morgante, rea di proporre tagli veri, è stata accompagnata alla porta.

Marino dirà che non ha colpa, che la Morgante si è dimostrata impoliticamente priva di ragionevolezza con le sue proposte. E che chi lo critica è espressione di un complotto. Quest’ultima accusa è classicamente espressione di una coda di paglia: di una politica che crede di nascondere i propri difetti accusando chi li sottolinea di servire interessi diversi da quelli collettivi. In questo caso, del cittadino e contribuente di Roma e di quello italiano, visto che del dissesto della finanza pubblica della Capitale pagano un sovraccosto rilevante sia innanzitutto i romani, sia tutti gli italiani che hanno dovuto subire l’onere di due decreti salva-Roma in pochi anni, nel 2008 e ora.

Marino è sindaco da un anno. Ma, come dimostrano le oltre 300 pagine della relazione di verifica della finanza capitolina curata dalla Ragioneria Generale dello Stato, se è verissimo che la prassi di bilanci falsi affonda a Roma nei decenni, per costi sottostimati o totalmente celati, la macchina del debito non per questo si è fermata né nel 2008, dopo l’escissione di 14 miliardi di debito pregresso dalla contabilità del Comune, né nel 2013 quando Marino è diventato sindaco. Anche nel 2013 la spesa corrente in Campidoglio è cresciuta, è salita oltre i 5 miliardi di euro. Una spesa per oltre il 50% fatta dal solo costo dei 25 mila dipendenti diretti comunali, e dei 37mila aggiuntivi dell’oceano di società controllate. Persino nei conti disastrati dello Stato nazionale, il costo del personale è pari all’11% del Pil e al 22% del totale della spesa: al Comune di Roma la percentuale e gli oneri sono percentualmente addirittura doppi.

Il sindaco sapeva bene che conti inerzialmente tali da continuare a generare altri 2,5 miliardi di debito entro il 2015, e 5 miliardi tenendo conto del consolidato delle municipalizzate – cifre puntualmente elaborate da agenzie di rating come Fitch – non si riallineano con le centinaia di milioni iniettate dal governo con il salva-Roma. Quel che serviva, anzi quel che serve, è un intervento energico. Una scommessa politica. Presentarsi ai romani come colui che ridisegna perimetro e costi dell’amministrazione capitolina dopo decenni di cavallette e locuste. Sapendo che i tagli incidono su interessi, clientele, pletore di dirigenti infilati dai partiti per gonfiare portafogli privati, e di correnti. L’assessore Morgante viene invece estromessa perché le sue ipotesi di tagli erano troppo pesanti. Su oltre 2 miliardi di costi diversi da quelli retributivi, aggiungere ai 300 milioni di minori spese da patto di stabilità altri 200 milioni di risparmi, più altri 197 milioni di spese non coperte: significava insomma spendere 700 milioni in meno, diminuire tra il 30 e il 50% molte dotazioni annuali,a funzioni come cultura e i municipi, manutenzione urbana e via continuando.

Marino ha detto no. Non ci sta. Ma se i tagli sembrano eccessivi, è perché il sindaco non ne vuole sapere, di fare una scelta risoluta per abbattere il debito sul versante delle dismissioni. C’ è ben oltre un miliardo di euro, tra patrimonio immobiliare pessimamente gestito, e quote di società partecipate di primo e secondo livello, che il Campidoglio potrebbe e dovrebbe smobilizzare. L’elenco è immane, di società partecipate, enti pubblici vigilati ed enti di diritto privato controllati: ACEA S.p.A, ACEA ATO2 S.p.A., Aequa Roma S.p.A., Aeroporti di Roma S.p.A., AMA S.p.A., ATAC S.p.A., Centrale del Latte di Roma S.p.A., Centro Agroalimentare Roma S.c.p.A., Centro Ingrosso Fiori S.p.A., EUR S.p.A., Investimenti S.p.A., Le Assicurazioni di Roma – Mutua assicuratrice Romana, Risorse per Roma S.p.A., Roma Metropolitane S.r.l., Roma Patrimonio S.r.l. in liquidazione, Roma Servizi per la Mobilità S.r.l., Servizi Azionista Roma S.r.l., Zètema Progetto Cultura S.r.l.. E ciascuna di queste ha una germinazione di società sottostanti.

Invece no. Il sindaco ha accettato solo l’ipotesi – tutta da verificare – di dismettere una trentina di società comunali di secondo livello che non offrono servizi, ma naturalmente recuperandone e tenendone a costo pubblico tutti i dipendenti. Sono sparite, per ordine del sindaco, le promesse revisioni degli oneri a carico del Campidoglio nei contratti di servizio di Atac e Ama. E dire che persino le farmacie comunali accumulano debiti per milioni di euro: 15 da ripianare nel prossimo bilancio. Il Campidoglio riesce a perdere dai mercati all’ingrosso che controlla, come da musei e mostre: 50 milioni di spese per 7 milioni di incasso dai biglietti.

La scelta del sindaco è di difendere la spesa comunale come “sociale” mentre gronda di “particolare”. E, pr difenderla, il sindaco decide di elevare al massimo ogni possibile aliquota, da quelle sulla casa all’occupazione del suolo pubblico, dalla tassa di soggiorno a quella sulle affissioni. Il Messaggero ha documentato in maniera comparativa come Roma sotto il sindaco Marino diventerà la landa più disgraziatamente tassaiola d’Italia, con un prelievo maggiore di chi stava ai massimi, e quasi doppio della media nazionale. Quel che è peggio, è che una parte non trascurabile della sua maggioranza e del Pd pensa che la cosa migliore sia rinviare le scelte vere al dopo elezioni europee, limitandosi per ora a un accordo di massima sui saldi che rinvii ogni decisione seria al piano triennale di rientro.

In questo modo, si pregiudicano tutte le sane intenzioni poste dal governo ponendo vincoli seri di raddrizzamento dei conti di Roma, come condizione esplicita nel decreto di salvataggio. Ci pensino, il sindaco e la sua maggioranza. Per una volta non seguiamo l’esempio tedesco, visto che la grande Berlino è sulla via di accumulare 65 miliardi di debito al 2015. Scrivemmo nei giorni del salvataggio che Roma non doveva diventare la Grande Mantenuta d’Italia. E lo ripetiamo, ora che in Campidoglio sembra prevalere la linea di farsi sordi e ciechi.

 

 

 

14
Apr
2014

Le quote della Banca d’Italia, il prelievo “alle banche” e il Barone di Münchhausen—Carlo Amenta e Paolo Di Betta

 

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta e Paolo Di Betta.

La storia della rivalutazione e della tassazione delle quote di Bankitalia possedute dalle banche emana l’acre odore del capitalismo di relazione (crony capitalism).

In questo caso, i legami non sono sotterranei e poco trasparenti fra soggetti istituzionali, imprenditori e banche. Leggendo le dichiarazioni fatte dal (già) Ministro del tesoro Saccomanni, è evidente che anche la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia erano d’accordo con l’operazione. D’altronde, il Governatore Visco ha dichiarato che così si rafforza l’indipendenza della Banca. “La riforma ribadisce che l’assemblea dei soci e il consiglio non hanno alcun potere di intervento nelle funzioni della banca.” Tutti sono riuniti en plein air per assolvere al supremo perseguimento dell’interesse nazionale: garantire l’indipendenza della banca, rafforzare patrimonialmente le banche, e visto che ci siamo, prelevare un miliardo di euro e più dalle banche.

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14
Apr
2014

Alitalia: tre lezioni dai fallimenti pubblici e privati

La trattativa tra Alitalia ed Etihad è data da mesi in chiusura da festanti tifosi. Ma prenderà ancora qualche tempo. Ancora una volta il consiglio d’amministrazione della compagnia è stato rinviato, in attesa della lettera formale edelle condizioni poste dalla compagnia emiratina che fa capo ad Abu Dhabi per assumere fino al 49% di Alitalia, con un apporto di capitale fino a 500 milioni. Ma oramai la lettera d’intenti è in arrivo, dopo una due diligence sui conti, i debiti e i costi di Alitalia che ha convinto James Hogan, l’ad di Etihad, nel chiedere vincoli ben più gravosi di quanto soci e tifosi di Alitalia si aspettassero. Il governo – Letta prima, Renzi poi, Lupi sempre – si è molto speso. Troppo, per far pensare che quasto sia un acordo “di mercato”, dopo esser intervenuti con Poste nel capitale.  Mentre i soci privati italiani hanno dovuto tenere un profilo molto basso, responsabili come sono della cattiva gestione successiva alla privatizzazione del 2008.

Ma ormai è tempo di qualche considerazione di fondo, sulla svolta pressoché definita: quella di un’Alitalia che ammaina ogni velleità di essere vettore mondiale, dopo che per decenni sia lo Stato, e per alcuni anni gli attuali soci privati, non sono riusciti a produrre una gestione e un modello di business capace di efficienza e redditività.

Sono almeno tre, le considerazioni generali da svolgere mentre si definiranno gli ultimi particolari dell’accordo con Etihad. La prima riguarda il fallimento dei privati italiani, dopo quello dello Stato. La seconda, il prezzo che si paga – e paga l’Italia – al non aver saputo fare il mestiere del trasporto aereo. La terza, la partita ancora aperta – malamente aperta – tra Malpensa e Linate.

Cominciamo dalla cattiva prova dei “capitani coraggiosi”. Ormai, è consegnata alla storia. L’eterogenea compagnia di giro messa in piedi da Banca Intesa nel 2008, la famiglia Benetton con Atlantia, i Riva dell’Ilva,la Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti, la holding Immsi del presidente Alitalia Roberto Colaninno, la Equinox di Salvatore Mancuso, e molti altri con quote da zerovirgola, aveva rilevata un’Alitalia reduce dal disastro pubblico pluridecennale. Ma con  un finanziamento pubblico da 300 milioni, ripulita dai debiti di quasi 4 miliardi della gestione statale, caricati sulla collettività – cioè a noi contribuenti – insieme ai costi indiretti degli ammortizzatori sociali (fino a 8 anni!), con una riduzione della forza lavoro di un terzo. Fino a un costo complessivo pubblico superiore ai 6 miliardi di euro. La vecchia compagnia non fu fatta fallire, la Corte del Lusemburgo che aveva definito illegale l’ultimo prestito ponte pubblico fu ignorata, le regole della concorrenza furono sospese per tre anni sulla rotta Roma-Milano.

Dopo avere perso 1,2 miliardi di euro nel quinquennio – mangiandosi il patrimonio ricostituito – producendo anche a fine 2012 debiti per 2,1 miliardi – tra esposizioni bancarie (956 milioni), verso i fornitori (605), debiti finanziari (169), verso lo Stato cioè tasse (44), e altri di diversa natura (366) – i “capitani coraggiosi” di Intesa erano arrivati a perdite quotidiane oltre il milione e mezzo di euro. Hanno purtroppo fatto rimpiangere persino lo Stato incapace e dissipatore. Il cosiddetto “Piano Fenice” iniziale, quello annunciato da Passera con le parole “le partecipazioni statali sono finite per sempre”, prevedeva il pareggio al 2010 e  un utile operativo di 171 milioni nel 2011. Macchè, l’Alitalia di Intesa non è mai stata in utile. Nemmeno con gli aiuti anti-concorrenza. La quota di mercato italiana non è risalita al 56% come promesso. Il primo aministratore delegato, Sabelli, voleva – giustamente – portare entro tre anni l’azienda ad Air France. Ma i soci dissero no. Dopo di lui, a Ragnetti e del Torchio è toccato pagare pegno.  E nell’autunno 2013 i soci privati hanno dovuto chiedere in ginocchio allo Stato che un nuovo impellente aumento di capitale ponte fosse sostenuto da 75 milioni della pubblica Poste Italiana.

Improvvisamente, sui media molto influenzati dalle banche esposte – Intesa e Unicredit –è tramontata l’arcifamosa bandiera dell’italianità da difendere, la tiritera per cui Berlusconi nel 2008 cambiò idea, visto che all’inizio – nell’autunno 2007 – sosteneva pubblicamente Carlo Toto nel tentativo di rilevare Alitalia, ma poi sotto elezioni si convinse dell’operazione-Fenice. Ecco, il doppio fallimento pubblico e privato in Alitalia ha fatto finalmente capire che nel mercato aereo internazionale credere di giocare in Champions League quando non si è capaci è un’illusione. Almeno questo è un bene. D’ora in poi, è meglio che taccia chi parla di “strategicità”. Il mercato aereo italiano è cresciuto “malgrado” Alitalia, pubblica e privata.

Veniamo al secondo punto. Subito si comprese che i 75 milioni di Poste sarebbero stati bruciati in poche settimane, e dunque ecco che Etihad diventa il salvatore buono, il cavaliere bianco.Altra illusione. Etihad fa il suo mestiere. Assume quote di”solida” minoranza in compagnie europee come Air Berlin – attenta a non salire oltre il 49% per non perdere il beneficio delle rotte europee mantenuto dai vettori comunitari che partecipa, e bisognerà comunque superare l’esame europeo se Etihad sarà decisiva nel piano in dustriale come sembra, perché anche in quel caso si perde la licenza europea – per orientare però il traffico di compagnie in difficoltà verso l’hub emiratino che è la propria base, da cui porta passeggeri a milioni verso l’Asia, forte com’è di una grande flotta transcontinentale. Hogan l’ha dichiarato più volte che questa è la sua intenzione , anche a proposito di Alitalia, su grandi testate mondiali. Da noi, si fa finta di non vedere. Si racconta che Etihad potenzierà i voli transcontinentali di Alitalia. Certo qualche rotta verso Cina e Usa ritornerà, ma guardate che solo pochi giorni fa Alitalia ha dovuto dismettere l’ordine per 12 Airbus A-350 a lungo raggio. Non ha i soldi.

Il nuovo boccone da ingoiare oggi sono altri 3mila esuberi indicati da Etihad sugli 11.800 dipendenti di Alitalia, e la richiesta che Unicredit e Intesa consolidino tra i 400 e i 500 milioni di debito Alitalia su cui sono esposti. Il ministro Lupi dice che non è vero. Ai giornalòisti, chi rappresenta Etihad in Italia dice che è verissimo. Vedremo, se non è  il prezzo da pagare alla fine delle illusioni, pubbliche e private, di chi non ha saputo gestire. Oggi sembra non esserci alternativa. Se il governo si prepara a mettere altro denaro del contribuente a sostegno di mega-scivoli ai dipendenti in esubero, dopo aver già confermato aiuti al personale navigante nell’ultima legge di stabilità, si aggiunge errore ad errore.

Terzo punto. E’ evidente che Etihad vuole potenziare Fiumicino per fare feedraggio su Abu Dhabi, e questo fa felice i soci privati di Adr. Ma resta il pasticcio lombardo, tra Linate e Malpensa. Su questo, la politica milanese, mentre quella romana ha ammainato le sue velleitarie bandiere, continua a non capire la lezione. In 15 anni malgrado Alitalia il traffico aereo italiano è di molto aumentato, da 53 a 116 milioni di passeggeri. Grazie alle low cost come RyanAir e Easyjet, che hanno il 49% del mercato. Il bilancio sul traffico aeroportuale è stato impietoso. Mentre Fiumicino, tornato a essere l’unico hub di Alitalia, tra 2002 e 2013 ha visto il traffico aumentare del 43%, Malpensa ha perso negli ultimi anni e registra un modestissimo più 3% in 15 anni, Linate più 16%. Orio al Serio di Bergamo, che ha lavorato solo attirando low cost, è cresciuto nel frattempo del 616%, quasi agguantando praticamente Linate come terzo scalo italiano, e Ciampino con lo stesso modello low-cost è cresciuto del 39,5%. Qui trovate tutti i dati, elaborati e commentati dall’ottimo Andrea Giuricin.

Conclusione ovvia: invece di ostacolare l’intesa ormai obbligata Etihad-Alitalia con pretese di porre vincoli alle rotte Malpensa-Linate per proteggere lo scalo varesino, come questo dipendesse ancora da Alitalia – che vale oggi meno del 10% del suo traffico –, la politica milanese capisca che è venuto il momento di cambiare musica. Buisogna prendere maroni alla letterra, quando dice di non voler più entrare in SEA se il governo non “tutela” Malpensa. E E’ l’ora di privatizzare SEA che gestisce oggi i due scali, accettando una sèperazione netta tra i due scali e la loro concorrenza diretta, senza porre pregiudiziali. Linate torni pure ai 25-30 movimenti aerei l’ora precedenti al limite di 18 assunto per favorire Malpensa, limite che non  è servito a nulla. E Malpensa lavori per attirare compagnie e rotte sul mercato delle low cost e delle compagnie concorrenti.

L’Italia attirerà più traffico business e turistico dal mondo quanto più gli scali si faranno concorrenza vera su tariffe e servizi, piantiamola di ripetere che è un compito che spetta ad Alitalia. Falliti sia lo Stato sia i privati amici di banche e Stato, credere ancora che la politica “faccia” il mercato aereo è un errore irrimediabile.

12
Apr
2014

Cosa ne dite di sostenere la libertà anziché i dittatori?—di William Easterly

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Coloro che in Occidente simpatizzano per l’Ucraina potrebbero rimanere sorpresi nell’apprendere che, in altri Paesi che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica, il governo degli Stati Uniti appoggia dittatori filo-russi.

Un esempio è il Tagikistan, da sempre feudo del dittatore Emomali Rahmon. Il sostegno economico statunitense al Tagikistan ha raggiunto la cifra di un miliardo di dollari da quando il Presidente Rahmon prese il potere nel 1992. L’assistenza finanziaria da parte dell’Occidente conta per un buon 10% dell’economia del Tagikistan e copre gran parte della spesa pubblica del regime del Presidente Rahmon – la cui brutale repressione dell’opposizione è stata nuovamente condannata dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel suo ultimo Report annuale sui diritti umani.

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10
Apr
2014

Il disastro delle pensioni polacche – Una nuova tragedia dei (presunti) beni comuni—di Remberto Latorre-Artus

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Il 3 febbraio 2014 le autorità polacchi hanno applicato una legge, approvata dal Parlamento lo scorso anno, che ha confiscato circa 153 miliardi di zloty (37 miliardi di euro) presenti in fondi pensione privati.

Questa comoda operazione, fin troppo consueta di questi tempi, ridurrà il debito pubblico polacco all’incirca dell’8% rispetto al Pil e creerà un’illusione della stabilità fiscale. Questo genere di politica – che mira a equilibrare il bilancio presente gravando sui contribuenti di domani – è, infatti, una pratica sempre più diffusa in tutto il mondo. In Europa, purtroppo, è diventata la prassi e proprio in questo sta il pericolo.

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