12
Mag
2014

L’ironica passione della sinistra americana per Thomas Piketty—di Guy Sorman

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Capital in the Twenty-First Century (in tutto 700 pagine!), appena pubblicato dall’economista francese Thomas Piketty, è già diventato un best-seller del New York Times. L’autore, che attualmente sta girando l’America per presentarlo, è diventato una star e tutti i principali media hanno segnalato il suo libro. L’editorialista del New York Times, Paul Krugman, lo ha definito il libro più importante degli ultimi dieci anni.

Perché, allora, Piketty, il quale in Francia è conosciuto principalmente per essere il consigliere economico del Partito Socialista, viene accolto come se fosse il Messia negli Stati Uniti (dove, tra l’altro, una volta insegnava al MIT)? Il titolo dell’opera di Piketty è ovviamente una citazione di Karl Marx, proprio come la tesi che porta avanti nel libro, ma in una versione più moderna. Piketty dimostra, con sorprendenti statistiche che coprono gli ultimi due secoli e grazie anche ad aneddoti storici e letterari, che i detentori di capitale riescono sempre – a parte durante le guerre – ad accrescere il proprio patrimonio più velocemente degli operai e degli imprenditori. L’accumulazione del capitale nelle mani di una minoranza crea una aristocrazia di rentier, persone che vivono grazie ai redditi derivati dai loro investimenti e che è improprio definire imprenditori, dal momento che non creano più nulla.

Il conflitto tra investimento “passivo” e impresa conduce, secondo Piketty, a un esaurimento del capitale. Marx immaginava che questo conflitto avrebbe inevitabilmente portato alla morte del capitalismo, destinato così ad essere rimpiazzato dal socialismo. Piketty non condivide questa previsione: la macchina capitalista, che non può essere paragonata a nessun’altra quando si parla di creazione di benessere, può – ci dice l’autore – essere salvata dal meccanismo di redistribuzione del reddito. Lo “Stato sociale”, per usare il vocabolario di Piketty, potrebbe riconciliare il mondo degli affari e l’efficienza del mercato con la “giustizia sociale”. Questo meccanismo di redistribuzione, tuttavia, oggi è prossimo al tracollo, a causa dei valori altissimi raggiunti dalla tassazione sui redditi. Come suggerisce Piketty, allora, bisognerebbe tassare fortemente il capitale per poter finanziare lo Stato sociale. E, dal momento che il capitale non conosce i confini nazionali, l’imposta deve essere globale.

In Europa le idee di Piketty sono state accolte tiepidamente, perché la tassazione dei capitali in Germania, Spagna e Francia ha già causato una fuga degli stessi. La priorità della politica europea, inclusa quella della sinistra, non è lo sviluppo dello Stato sociale, ma una sua ridefinizione e limitazione. Negli Stati Uniti, al contrario, dove le tasse per i contribuenti rimangono relativamente basse, i Democratici sono alla ricerca di un modello che li distingua maggiormente dai Repubblicani, un modello che riesca a conciliare eguaglianza di reddito e capitalismo. Il libro di Piketty permette loro di rimanere fedeli a una economia di mercato pur volendo aumentare le tasse. Questo spiega il successo di Piketty, che ha anche il “pregio” di essere francese. (I libri che spiegano come le donne francesi riescano a rimanere magre sono stati degli enormi successi editoriali in America). Le teorie di Piketty, inoltre, si sposano bene con il movimento Occupy Wall Street, quello dello slogan “Siamo il 99%” (che, dobbiamo supporre, viene sfruttato dal restante 1%).

Esiste, tuttavia, una grande lacuna nell’opera di Piketty, come è stato fatto notare da molti economisti americani che appartengono alla scuola del liberalismo classico: in nessuna sua parte vengono considerate le cause della crescita economica e il ruolo-chiave di questo 1% (che negli Stati Uniti è costituito per la maggior parte da imprenditori e non da rentier).

Per spiegare perché è inevitabile la trasformazione degli imprenditori in rentier improduttivi, Piketty ricorre a una nuova interpretazione di Marx. Le guerre e le crisi globali – gli “shock”, per dirla con le parole usate dall’autore – spazzano via la ricchezza accumulata, e permettono così ai veri imprenditori di iniziare ad accumularne di nuova (Piketty riporta a questo proposito, in modo convincente, il caso delle due guerre mondiali). Un’analisi più onesta e meno ideologica, invece, mostrerebbe che, senza considerare eventi così disastrosi, è l’innovazione – o la “distruzione creativa” descritta da Joseph Schumpeter – ad aprire il campo ai nuovi imprenditori, che così subentrano ai rentier. Non vi è pertanto bisogno degli shock  descritti da Piketty.

A prima vista le statistiche di Piketty possono colpire, ma non possono essere prese davvero sul serio. Ad esempio, i grafici sul reddito lordo non tengono conto della redistribuzione e dei programmi di assistenza. I grafici sulla diseguaglianza susciterebbero molto meno clamore se li avesse calcolati – come si fa di solito – considerando il reddito netto dopo la redistribuzione. Non facendo così, si distorcono seriamente le condizioni economiche reali.

Piketty, inoltre, sembra poco propenso ad ammettere che il solo reddito, a prescindere da come viene calcolato, non può rappresentare interamente la realtà sociale: tutti noi traiamo vantaggio dal progresso in varie aree – sanità, trasporti, tecnologie per i consumatori – indipendentemente dal nostro livello di reddito. Se il progresso nella produttività abbassa i prezzi, i redditi reali aumentano.

Il libro di Piketty ha altri difetti. L’autore non considera mai se in qualche misura le diseguaglianze sono necessarie alla crescita in una economia di mercato. (Dopo tutto le persone sono diverse e alcuni sono meglio di altri nel servire i consumatori). Accusa, invece, gli economisti di “fidarsi troppo dei modelli matematici e di non capire le strutture profonde del capitale e della diseguaglianza”. Ignora, però, il fatto che questi economisti, che egli non gradisce, hanno identificato i veri fattori della crescita – come i diritti di proprietà e il ruolo delle leggi – basandosi su osservazioni empiriche. Senza i modelli economici basati sul libero mercato che lui sdegna, paesi come la Cina, l’India e il Ghana non avrebbero avuto la spettacolare crescita che abbiamo visto in questi anni – e, soprattutto, la parte più povera delle loro popolazioni avrebbe avuto molte meno possibilità.

Dopo tutto, Piketty, come ideologo, non aggiunge niente di nuovo alla religione marxista; tuttavia, il libro rimane una affascinante raccolta di aneddoti storici. Eccezionale è la sua spiegazione del perché i francesi siano così affascinati dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone: quello è stato – dimostra Piketty – un periodo di salari relativamente alti e di rendite basse grazie alla redistribuzione dei beni della Chiesa e alla mobilità dei lavoratori per la guerra. (Se poi questo sia stato un buon modo per creare benessere, è un’altra storia).

Eppure il successo americano di Piketty non si deve al suo talento di storico. La sinistra americana sta cercando di costruirsi una nuova ragion d’essere, e spera di averla trovata in Francia. I socialisti francesi apprezzeranno l’ironia.

Guy Sorman è un filosofo, economista e intellettuale francese. È autore di numerosi libri, tra i quali Economics Don’t Lie ed Empire of Lies. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo.

9
Mag
2014

Se il fisco dirotta l’aerotaxi

Quando il fisco diventa troppo famelico, le conseguenze possono essere molto dannose. Ce ne sono tanti esempi, ma uno particolarmente istruttivo è quello del trattamento degli aerotaxi.
Tutto nasce nel dicembre 2011, col decreto “Salva Italia”. Durante il processo di conversione in legge, un emendamento introdusse l’imposta erariale sui passeggeri di aerotaxi, demagogicamente adatti a rappresentare, insieme ai proprietari di barche, l’immagine dei ricchi spendaccioni, mai intaccati dalla crisi e dalle manovre. Read More

8
Mag
2014

Renzi, Il Pd, la Cgil: l’eterno ritorno del fattore Turati-Togliatti

Non c’è niente di più sbagliato che credere alla ripetizione di una storia sempre eguale. Ed è giusto ricordare che fare accostamenti storici, di epoche e personaggi diversi, significa esporsi al rischio di inevitabili forzature. Ma quanto sta avvenendo in questi giorni nel Pd e al congresso della Cgil sulle politiche economiche e sindacali è tutt’altro che nuovo, nella storia della sinistra italiana. Anzi, è la riproposizione, adattata a tempi e personaggi diversi, di una vicenda sin qui inscindibilmente legata alla parabola stessa della sinistra. Una sua maledizione ereditaria. Che nasce dall’irredimibile propensione a dividersi frontalmente su che cosa significhi essere “di sinistra”, come e se sia declinabile con l’essere “riformisti”, invece che antagonisti.

E’ il pendolo che condannò il neonato PSI a vedere violentemente alternarsi al suo interno leadership riformiste e di sinistra sindacal-massimalista, a ogni congresso di inizio Novecento. E’ la ragione per la quale, quando nel 1932 morì, povero in esilio antifascista, il più grande dei socialisti riformisti, Filippo Turati, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato “il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra”.  Il tanto venerato Antonio Gramsci non era da meno, quando scriveva che non bisognava esitare a dare “del porco” al socialismo riformista.

Il punto di fondo, che ovviamente i protagonisti attuali della sinistra e del sindacato negherebbero, è sempre lo stesso. C’è una leadership che a un certo punto della storia si forma sull’idea che occorrano riforme coraggiose e realistiche, che tengano cioè conto delle circostanze date e non del presunto obiettivo di costruire l’Eden in terra. E c’è chi di fronte a questo sente violare un credo essenziale, un’identità irrinunciabile della sinistra, per i quali non conta il gradualismo rispetto alle condizioni economiche e finanziarie interne e internazionali, ma conta al contrario chiedere l’impossibile, battersi per l’utopia, erigere tra la propria fede ideale e chi cerca faticosamente di operare nella difficile realtà una muraglia, fatta di irte scomuniche e laceranti divisioni.

A questo riflesso condizionato si aggiunge poi il problema – anch’esso puntualmente ricorrente – per il quale c’è sempre qualcuno che utopicamente si sente ancor  più a sinistra, di chi pur da sinistra critica come “arresa alla destra” una leadership riformista.

Eccoci al paradosso attuale. Praticamente metà del Pd, se sommiamo i vecchi gruppi dirigenti territoriali e i gruppi parlamentari figli delle primarie bersaniane del dicembre 2012, tace ma acconsente in cuor suo alla sferza a Renzi riservata da Susanna Camusso sulla tribuna congressuale di Rimini. Non è forzatura dirlo: quando la leader Cgil ha accusato il premier di prevaricare la democrazia credendosi autosufficiente, al di là del ristretto cerchio renziano i leader storici del Pd hanno taciuto. Al massimo, con un sorridente D’Alema hanno dato un buffetto alla Camusso rimproverandola di non aver parlato “anche” di quanto di buono Renzi stia facendo. Come se quell’”anche” potesse pareggiare la scomunica.

Ma dopodiché alla sferza da sinistra della Camusso a Renzi viene riservata una frusta da sinistra altrettanto energica, rivolta alla segretaria della Cgil dal leader della Fiom Landini, che accusa anch’egli la Cgil camussiana dello stesso difetto da questa ravvisato in Renzi: la violazione insopportabile di regole essenziali del confronto democratico. E altrettanto radicale, ancor più da sinistra, è l’accusa portata anche alla minoranza Cgil dalla pattuglia guidata da Cremaschi, che accusa la sinistra di perdersi ancora in minutaglie come contratti e rappresentanza, quando si tratta di costruire alleanze continentali per ripudiare il debito e respingere il capitalismo, fallito ma sempre in sella.

Si potrà dire che la dialettica violenta tra riformismo e massimalismo non ha impedito alla sinistra italiana di percorrere una sua lunga storia, di avvicinamento pima e di esercizio concreto poi della capacità di governo, in una democrazia instabile e “di mezzo mercato” qual è l’Italia. Verissimo. Ma ogni volta che il conflitto riesplode duramente, sia la sinistra sia l’Italia fanno insieme un passo indietro, se è la sinistra che governa. Oggi, siamo esattamente in queste condizioni.

Per far passare il decreto Poletti sull’allentamento di oneri e vincoli del tempo determinato e apprendistato, Renzi è dovuto ricorrere a una doppia fiducia alle Camere, pur avendo accettato modifiche essenziali, da parte del Pd cigiellino rispetto al testo originario, solo in parte ridimensionate. Ciò che motiva il no di Landini alla Camusso è l’accordo interconfederale che rende esigibili i contratti, con tanto di sanzioni a carico dei rappresentanti sindacali che assumono in azienda atteggiamenti ostili all’adempimento di contratti votati dalla maggioranza dei lavoratori. La prima delle quattro proposte “alternative” rispetto a Renzi, avanzata dalla Camusso al congresso di Rimini, è di smontare dalle fondamenta la riforma delle pensioni, tornando a prepensionamenti di massa. Ancor oggi, il gap tra contributi raccolti e trattamenti previdenziali erogati è di circa 40miliardi di euro l’anno, ma alla leader Cgil aggravare questo peso a carico della fiscalità generale tornando ad abbassare l’età pensionabile sembra cosa buona e giusta, tale da far ripartire meglio l’Italia.

Guardiamoci negli occhi. Ognuno nel Pd, nella Cgil e più a sinistra, ha pieno diritto di giocare la parte che crede. personalmente, resto convinto di una ricetta diversa da tutti loro, molto più centrata su tagli di spesa e di tasse. Ma quando la sinistra governa, arrivare a sperare in cuor proprio che se Grillo supera Renzi alle europee non è poi un gran male perché così Renzi è costretto a darsi una regolata, significa non avere la minima idea dei guai che continuano a gravare sul nostro paese. L’Ocse ha appena abbassato la crescita attesa degli Usa, Giappone, Cina, Russia e Ue. Stiamo continuando a perdere produttività. A marzo, l’indice dei consumi Confcommercio è ancora sceso rispetto a febbraio, e segna meno 2,1% rispetto a un già disastroso 2013.

Non lo diciamo per aiutare Renzi, perché sta a lui fare il suo mestiere e capire che ci sono anche tante critiche fondate, al suo operato. E’ pensando al paese, che da semplici osservatori rivolgiamo al Pd l’invito di pensarci non una ma mille volte, prima di riabbandonarsi a quella sua pulsione ricorrente di sparare alle spalle a ogni leader che appaia non diretta espressione dell’immane vischio storico della Ditta, come la chiama Bersani. E’ un istinto che già tante volte ha portato la sinistra alla sconfitta, e l’Italia ancor più indietro.

 

5
Mag
2014

Addio a Gary Becker

Sabato, all’età di 83 anni, è scomparso Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1992. Becker si è distinto per l’eterogeneità dei suoi interessi di ricerca: ha applicato la logica economica a una molteplicità di questioni, dalla discriminazione sul lavoro alle leggi sul salario minimo, dalle scelte relative a matrimoni e figli all’importanza dell’istruzione e dell’investimento in “capitale umano”, dal consumo di droghe fino alla criminalità. Nel farlo, l’economista americano ha saputo coniugare il rigore empirico a una lucida lettura della teoria sottostante: Becker non si cullava né nell’illusione che i dati potessero “parlare da soli”, né nella tentazione di ignorare la realtà per rifugiarsi in qualche teoria internamente fortissima ma incapace di spiegare veramente il mondo circostante. Al contrario, come spieghiamo con Simona Benedettini in un articolo che uscirà domani su Il Foglio, Becker ha saputo innovare profondamente il modo di fare economia e la percezione stessa dell’economia da parte di terzi.

L’eclettismo intellettuale di Becker è il sintomo di una curiosità onnivora, ma anche di una rara chiarezza metodologica. Il premio Nobel non vagava da un tema all’altro per noia, ma perché il fulcro della sua ricerca stava appunto nell’adozione di un metodo, di una chiave di lettura delle cose: il senso del viaggio intellettuale di Becker, per parafrasare Fabrizio De André, era appunto viaggiare alla ricerca di “regolarità”. In altre parole, il suo obiettivo non era il “fenotipo” (che si parlasse, cioè, di crimine o di scuola) ma il “genotipo” (cioè le azioni degli individui e le ragioni da cui esse derivavano).

L’individuo di Becker era razionale ma non egoista; anzi, era razionalmente altruista. Nessun uomo è un’isola, neppure per gli economisti: l’individuo che “massimizza la propria utilità” lo fa tenendo conto che vive all’interno di una comunità, e dunque orienta molte delle sue decisioni a perseguire obiettivi che non hanno necessariamente natura monetaria.

Per questo la conclusione di Becker è tipicamente favorevole al mercato: il mercato consente la massima libertà di scelta, e in tal modo rende possibile per ciascuno non solo perseguire la propria felicità, ma anche determinare un miglioramento della società nel suo complesso. Questa attenzione agli equilibri sociali, e questa consapevolezza che il bene dell’individuo è in ultima analisi il bene di tutti, emerge con grande chiarezza già dal primo lavoro di Becker, cioè la sua tesi di dottorato sull’economia della discriminazione. Per Becker la discriminazione non produce un danno soltanto all’individuo discriminato, ma anche a quello che discrimina: il quale, per stare a un esempio di grande attualità nell’Italia di oggi, se sceglie un dipendente maschio in quanto maschio, e nel fare ciò rinuncia a una dipendente donna potenzialmente migliore, paga uno scotto in termini di produttività e, in ultima analisi, di utili aziendali. Questo scotto – ed è qui il punto – è tanto più alto nei settori economici esposti alla concorrenza, che sanziona crudelmente ogni pregiudizio.

La lezione di Becker è, insomma, che ogni individuo è razionale nel compiere le proprie scelte e ogni scelta ha delle conseguenze, dei costi e dei benefici. Può apparire banale, ma a leggere i giornali viene da pensare che mai c’è stato tanto bisogno di Becker, come oggi che se n’è andato.

3
Mag
2014

Il sindaco di Napoli ha preso troppo sul serio la parola Comune

Hai una proprietà inutilizzata? Vedi di farne qualcosa, e in fretta, altrimenti se la prenderà il Comune.

Come? Per delibera, comunale di Napoli: il sindaco Luigi de Magistris ha presentato le decisioni della giunta che prevedono l’acquisizione di beni di proprietà privata inutilizzati o abbandonati e la regolamentazione delle «Case del popolo». I testi sono stati approvati dalla giunta e andranno in Consiglio comunale con «corsia preferenziale», perché, come ha spiegato il sindaco, «è un momento storico per la città» in quanto potrà decidere su come utilizzare le aree e le proprietà «collettive democratiche». Read More

1
Mag
2014

A oggi, la rivoluzione PA è 44 titoli: alcuni ottimi, altri impossibili. Sugli esuberi resta troppa nebbia elettorale

In un aureo libretto pubblicato il primo aprile 1921, il Codice della vita italiana, Giuseppe Prezzolini scriveva che nel nostro paese Paese ”la roba di tutti – cioè pubblica – tempo pagato per lavorare, uffici, vagoni, biblioteche, musei – è roba di nessuno”.  Ecco, nella vastissima lista di intenti annunciati ieri dal premier Matteo Renzi sotto la voce “riforma della pubblica amministrazione”, è apprezzabile l’idea che il molto da cambiare nella PA serva a renderla finalmente meno estranea e ostile a cittadini e imprese.

Detto questo, con un metodo che sta diventando regola e non eccezione con l’attuale governo, la conferenza stampa tenuta dal premier e dal ministro Madia dopo il Consiglio dei ministri si risolve al momento in ben 44 “titoli” di misure da assumere. Dunque la premessa obbligata è che per giudicarli davvero bisognerà necessariamente aspettare i testi del disegno di legge, a cui forse si affiancherà un decreto legge. Ed è scontato che, in campagna elettorale e con la conflittualità tra forze politiche e interna al Pd, distinguo, obiezioni e scontri siano obbligati.

Ma alcune cose si possono dire. Intanto, sul metodo per tradurle in testi definitivi. Poi, su ciò che sembra mancare rispetto alle attese. Infine, su alcuni dei “titoli” più promettenti. E su quelli che difficilmente troveranno attuazione.

Per prima cosa, il governo mostra di sapere bene che metter mano a una ricognizione e razionalizzazione generale della PA e dei suoi oltre 3,2 milioni di addetti (si sommano poi quelli delle municipalizzate) è un’opera di Sisifo. Coraggiosa, ma immane. Di conseguenza i testi rimarranno in consultazione con le Autonomie, i sindacati , ogni pubblico dipendente e cittadino italiano, per 40 giorni sino all’approvazione di testi definitivi, in un Consiglio dei ministri che si terrà il 13 giugno. Sorridiamo per un secondo sull’enfasi futurista che vibra nell’indirizzo a cui ciascuno potrà inviare le sue proposte – rivoluzione@governo.it. Dico “sorridiamo” volutamente per understatement, quello che manca programmaticamente al governo. Il punto è che tutte le misure che riguardano la PA”decentrata” non si adottano senza consenso delle Regioni, e che la consultazione generale “traveste” il duro confronto con sindacati e associazioni della dirigenza pubblica, che sono sul piede di guerra e pronti a impugnative di massa presso Tar, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale.

Proprio le impugnative spiegano quel che ieri è mancato, e cioè il nodo degli “esuberi” che Cottarelli cifrava in 85 mila unità, e che Renzi ieri ha tenuto a escludere. Come sono scomparse le tabelle di riduzione delle retribuzioni dei dirigenti pubblici, al di là del limite dei 239mila euro lordi per quelli apicali, visto che è elevatissimo il rischio di incostituzionalità di limiti posti con legge, irrispettosi di quanto stabilito in regime di autonomia contrattuale. Il mondo pubblico è diventato – con la finzione per molti versi della contrattazione “privata” – assai più privato del privato nell’intoccabilità di ruoli e salari, e più che mai pubblico nell’intangibilità del “posto”.

Eppure, se sotto elezioni Renzi non vuole neanche citare la parola “esuberi”, almeno 6 delle 44 misure, i cui titoli stanno nelle 4 fitte pagine che ogni dipendente pubblico riceverà dal governo, sono evidentemente proprio volte a gestire i sovrannumerari pubblici da smaltire. Come l’abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio oltre i limiti già raggiunti per la pensione, da cui Renzi immagina di ricavare oltre 10.000 nuovi assunti giovani nella PA a costo zero. E la modifica dell’istituto della mobilità volontaria e obbligatoria, del tutto impossibile da giudicare finché non si capisce come il governo intenda davvero normarla (la mobilità per i “pubblici” nell’ordinamento c’è, ma non è praticamente MAI attuata dalla politica: ora si parla di modificare la mobilità introducendo ambiti territoriali di prossimità per farla valere, inutile dire che io rischio è di acculare altre asimmetrie di favore  rispetto al lavoro dipendente privato, tanto che verrebbe da dire che prima della riforma della mobilità pubblica la politica centrale e periferica dovrebbe semplicemente mostrare di farvi ricorso..). Ancora: si pensa al demansionamento, come alternativa alla mobilità obbligatoria. E ancora l’introduzione dell’esonero dal servizio, per coloro vicini alla pensione da lasciare anche a casa a retribuzione molto ridotta (ingiudicabile, senza quantificazione di oneri). Poi, gli incarichi a tempo per i dirigenti. E infine il licenziamento per i dirigenti – c’è già, rarissimamente applicato – che rimangano però oltre un certo tempo privi di incarico (forti rischi di impugnativa, su questo). Quel che si è capito è che il ministro Madia non rinuncia inoltre a più vasti prepensionamenti pubblici rispetto ai tetti della riforma Fornero, mentre Renzi nicchia: ma il governo deve sapere che su questo ogni asimmetria rispetto a lavoratori e disoccupati privati a vantaggio del pubblico scatenerà un sacrosanto finimondo. Inoltre,molte di queste misure su cui i sindacati faranno battaglia è davvero valutabile senza identificazione di costi

A parte il delicatissimo capitolo di come individuare e gestire gli esuberi, in realtà molti dei titoli della riforma suonano in un riga accattivanti: alcuni necessari se davvero il governo intende realizzare sul serio almeno 3 miliardi di risparmi a regime, altri essenziali per cambiare l’efficienza della PA.

Per tagliare i costi, tutto dipenderà da se e come verranno realizzati i promessi accorpamenti degli oltre 20 enti di ricerca pubblici, la riduzione a poche decine delle attuali migliaia di stazioni appaltanti e di spesa, la  riorganizzazione del sistema delle autorità a cominciare dalla soppressione della Covip – attenti su questo, il liberista che scrive ricorda che il mercato ha bisogno di regolazione indipendente, non di ritorno ai ministeri -,  la centrale unica per gli acquisti per tutte le forze di polizia, l’accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile, il taglio a non oltre 40 di prefetture e sovrintendenze. Su tutto questo, nella consultazione generale e in Parlamento, è ovvio e certo che si scatenerà l’inferno: a tutela di lobby, spese e interessi.

Mentre, per una PA meno ostile, misure come la riforma della sospensiva amministrativa sulle opere pubbliche, criteri meno scandalosi nell’attribuzione del salario di produttività oggi diviso a pioggia tra tutti, la restrizione dell’attuale regime bulimico del concerto ministeriale, il PIN unico per i rapporti digitali tra cittadino e amministrazione, atti normativi il più possibile autoattuativi senza bisogno di decreti e circolari, sono tutte misure che variano potenzialmente – a seconda di se e come attuate davvero – tra il buono e l’ottimo.

Alcuni caveat finali La riduzione delle municipalizzate viene enunciata, ma il governo sa che su questo da solo non può decidere nulla: a meno che non si decida a tagli energici di trasferimenti per chi non riduce, accorpa e privatizza. L’abolizione dell’obbligo di iscrizione delle imprese alle Camere di commercio susciterà una reazione durissima dal sistema camerale e d’impresa. E infine l’obbligo di rendicontazione scritta e pubblica per ogni spesa sindacale, in un paese in cui le confederazioni in barba alla trasparenza non pubblicano un bilancio consolidato, sarebbe davvero un’ottima maniera per festeggiare il prossimo primo maggio. Ma ai sindacati non piacerà. E non solo questo punto, temiamo.

 

 

 

 

27
Apr
2014

Se nella P.A. anche gli open data hanno diritto a riposare

L’atteso decreto legge del governo sugli “ottanta euro”, pubblicato in Gazzetta il 24 aprile, contiene anche misure volte a rendere la P.A. più trasparente, tra cui l’obbligo, per tutte le amministrazioni pubbliche, le società controllate e le autorità indipendenti, di pubblicare sui propri siti istituzionali i dati relativi alla spesa di cui ai propri bilanci preventivi e consuntivi. Read More

26
Apr
2014

Volevo solo vendere la grattachecca—di Daniele Mandrioli

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Daniele Mandrioli.

Siamo tre studenti universitari di Milano; dei ragazzi normali a cui, durante una vacanza romana viene un’idea apparentemente brillante: esportare la grattachecca a Milano e renderla alcoolica, girando la città con un carretto. La nostra intenzione è realizzare una piccola attività di impresa dai costi di start-up pressoché irrilevanti e con un basso margine di rischio.  A settembre decidiamo di mettere in pratica questo progetto e iniziamo la nostra Odissea.

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