5
Mag
2014

Addio a Gary Becker

Sabato, all’età di 83 anni, è scomparso Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1992. Becker si è distinto per l’eterogeneità dei suoi interessi di ricerca: ha applicato la logica economica a una molteplicità di questioni, dalla discriminazione sul lavoro alle leggi sul salario minimo, dalle scelte relative a matrimoni e figli all’importanza dell’istruzione e dell’investimento in “capitale umano”, dal consumo di droghe fino alla criminalità. Nel farlo, l’economista americano ha saputo coniugare il rigore empirico a una lucida lettura della teoria sottostante: Becker non si cullava né nell’illusione che i dati potessero “parlare da soli”, né nella tentazione di ignorare la realtà per rifugiarsi in qualche teoria internamente fortissima ma incapace di spiegare veramente il mondo circostante. Al contrario, come spieghiamo con Simona Benedettini in un articolo che uscirà domani su Il Foglio, Becker ha saputo innovare profondamente il modo di fare economia e la percezione stessa dell’economia da parte di terzi.

L’eclettismo intellettuale di Becker è il sintomo di una curiosità onnivora, ma anche di una rara chiarezza metodologica. Il premio Nobel non vagava da un tema all’altro per noia, ma perché il fulcro della sua ricerca stava appunto nell’adozione di un metodo, di una chiave di lettura delle cose: il senso del viaggio intellettuale di Becker, per parafrasare Fabrizio De André, era appunto viaggiare alla ricerca di “regolarità”. In altre parole, il suo obiettivo non era il “fenotipo” (che si parlasse, cioè, di crimine o di scuola) ma il “genotipo” (cioè le azioni degli individui e le ragioni da cui esse derivavano).

L’individuo di Becker era razionale ma non egoista; anzi, era razionalmente altruista. Nessun uomo è un’isola, neppure per gli economisti: l’individuo che “massimizza la propria utilità” lo fa tenendo conto che vive all’interno di una comunità, e dunque orienta molte delle sue decisioni a perseguire obiettivi che non hanno necessariamente natura monetaria.

Per questo la conclusione di Becker è tipicamente favorevole al mercato: il mercato consente la massima libertà di scelta, e in tal modo rende possibile per ciascuno non solo perseguire la propria felicità, ma anche determinare un miglioramento della società nel suo complesso. Questa attenzione agli equilibri sociali, e questa consapevolezza che il bene dell’individuo è in ultima analisi il bene di tutti, emerge con grande chiarezza già dal primo lavoro di Becker, cioè la sua tesi di dottorato sull’economia della discriminazione. Per Becker la discriminazione non produce un danno soltanto all’individuo discriminato, ma anche a quello che discrimina: il quale, per stare a un esempio di grande attualità nell’Italia di oggi, se sceglie un dipendente maschio in quanto maschio, e nel fare ciò rinuncia a una dipendente donna potenzialmente migliore, paga uno scotto in termini di produttività e, in ultima analisi, di utili aziendali. Questo scotto – ed è qui il punto – è tanto più alto nei settori economici esposti alla concorrenza, che sanziona crudelmente ogni pregiudizio.

La lezione di Becker è, insomma, che ogni individuo è razionale nel compiere le proprie scelte e ogni scelta ha delle conseguenze, dei costi e dei benefici. Può apparire banale, ma a leggere i giornali viene da pensare che mai c’è stato tanto bisogno di Becker, come oggi che se n’è andato.

3
Mag
2014

Il sindaco di Napoli ha preso troppo sul serio la parola Comune

Hai una proprietà inutilizzata? Vedi di farne qualcosa, e in fretta, altrimenti se la prenderà il Comune.

Come? Per delibera, comunale di Napoli: il sindaco Luigi de Magistris ha presentato le decisioni della giunta che prevedono l’acquisizione di beni di proprietà privata inutilizzati o abbandonati e la regolamentazione delle «Case del popolo». I testi sono stati approvati dalla giunta e andranno in Consiglio comunale con «corsia preferenziale», perché, come ha spiegato il sindaco, «è un momento storico per la città» in quanto potrà decidere su come utilizzare le aree e le proprietà «collettive democratiche». Read More

1
Mag
2014

A oggi, la rivoluzione PA è 44 titoli: alcuni ottimi, altri impossibili. Sugli esuberi resta troppa nebbia elettorale

In un aureo libretto pubblicato il primo aprile 1921, il Codice della vita italiana, Giuseppe Prezzolini scriveva che nel nostro paese Paese ”la roba di tutti – cioè pubblica – tempo pagato per lavorare, uffici, vagoni, biblioteche, musei – è roba di nessuno”.  Ecco, nella vastissima lista di intenti annunciati ieri dal premier Matteo Renzi sotto la voce “riforma della pubblica amministrazione”, è apprezzabile l’idea che il molto da cambiare nella PA serva a renderla finalmente meno estranea e ostile a cittadini e imprese.

Detto questo, con un metodo che sta diventando regola e non eccezione con l’attuale governo, la conferenza stampa tenuta dal premier e dal ministro Madia dopo il Consiglio dei ministri si risolve al momento in ben 44 “titoli” di misure da assumere. Dunque la premessa obbligata è che per giudicarli davvero bisognerà necessariamente aspettare i testi del disegno di legge, a cui forse si affiancherà un decreto legge. Ed è scontato che, in campagna elettorale e con la conflittualità tra forze politiche e interna al Pd, distinguo, obiezioni e scontri siano obbligati.

Ma alcune cose si possono dire. Intanto, sul metodo per tradurle in testi definitivi. Poi, su ciò che sembra mancare rispetto alle attese. Infine, su alcuni dei “titoli” più promettenti. E su quelli che difficilmente troveranno attuazione.

Per prima cosa, il governo mostra di sapere bene che metter mano a una ricognizione e razionalizzazione generale della PA e dei suoi oltre 3,2 milioni di addetti (si sommano poi quelli delle municipalizzate) è un’opera di Sisifo. Coraggiosa, ma immane. Di conseguenza i testi rimarranno in consultazione con le Autonomie, i sindacati , ogni pubblico dipendente e cittadino italiano, per 40 giorni sino all’approvazione di testi definitivi, in un Consiglio dei ministri che si terrà il 13 giugno. Sorridiamo per un secondo sull’enfasi futurista che vibra nell’indirizzo a cui ciascuno potrà inviare le sue proposte – rivoluzione@governo.it. Dico “sorridiamo” volutamente per understatement, quello che manca programmaticamente al governo. Il punto è che tutte le misure che riguardano la PA”decentrata” non si adottano senza consenso delle Regioni, e che la consultazione generale “traveste” il duro confronto con sindacati e associazioni della dirigenza pubblica, che sono sul piede di guerra e pronti a impugnative di massa presso Tar, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale.

Proprio le impugnative spiegano quel che ieri è mancato, e cioè il nodo degli “esuberi” che Cottarelli cifrava in 85 mila unità, e che Renzi ieri ha tenuto a escludere. Come sono scomparse le tabelle di riduzione delle retribuzioni dei dirigenti pubblici, al di là del limite dei 239mila euro lordi per quelli apicali, visto che è elevatissimo il rischio di incostituzionalità di limiti posti con legge, irrispettosi di quanto stabilito in regime di autonomia contrattuale. Il mondo pubblico è diventato – con la finzione per molti versi della contrattazione “privata” – assai più privato del privato nell’intoccabilità di ruoli e salari, e più che mai pubblico nell’intangibilità del “posto”.

Eppure, se sotto elezioni Renzi non vuole neanche citare la parola “esuberi”, almeno 6 delle 44 misure, i cui titoli stanno nelle 4 fitte pagine che ogni dipendente pubblico riceverà dal governo, sono evidentemente proprio volte a gestire i sovrannumerari pubblici da smaltire. Come l’abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio oltre i limiti già raggiunti per la pensione, da cui Renzi immagina di ricavare oltre 10.000 nuovi assunti giovani nella PA a costo zero. E la modifica dell’istituto della mobilità volontaria e obbligatoria, del tutto impossibile da giudicare finché non si capisce come il governo intenda davvero normarla (la mobilità per i “pubblici” nell’ordinamento c’è, ma non è praticamente MAI attuata dalla politica: ora si parla di modificare la mobilità introducendo ambiti territoriali di prossimità per farla valere, inutile dire che io rischio è di acculare altre asimmetrie di favore  rispetto al lavoro dipendente privato, tanto che verrebbe da dire che prima della riforma della mobilità pubblica la politica centrale e periferica dovrebbe semplicemente mostrare di farvi ricorso..). Ancora: si pensa al demansionamento, come alternativa alla mobilità obbligatoria. E ancora l’introduzione dell’esonero dal servizio, per coloro vicini alla pensione da lasciare anche a casa a retribuzione molto ridotta (ingiudicabile, senza quantificazione di oneri). Poi, gli incarichi a tempo per i dirigenti. E infine il licenziamento per i dirigenti – c’è già, rarissimamente applicato – che rimangano però oltre un certo tempo privi di incarico (forti rischi di impugnativa, su questo). Quel che si è capito è che il ministro Madia non rinuncia inoltre a più vasti prepensionamenti pubblici rispetto ai tetti della riforma Fornero, mentre Renzi nicchia: ma il governo deve sapere che su questo ogni asimmetria rispetto a lavoratori e disoccupati privati a vantaggio del pubblico scatenerà un sacrosanto finimondo. Inoltre,molte di queste misure su cui i sindacati faranno battaglia è davvero valutabile senza identificazione di costi

A parte il delicatissimo capitolo di come individuare e gestire gli esuberi, in realtà molti dei titoli della riforma suonano in un riga accattivanti: alcuni necessari se davvero il governo intende realizzare sul serio almeno 3 miliardi di risparmi a regime, altri essenziali per cambiare l’efficienza della PA.

Per tagliare i costi, tutto dipenderà da se e come verranno realizzati i promessi accorpamenti degli oltre 20 enti di ricerca pubblici, la riduzione a poche decine delle attuali migliaia di stazioni appaltanti e di spesa, la  riorganizzazione del sistema delle autorità a cominciare dalla soppressione della Covip – attenti su questo, il liberista che scrive ricorda che il mercato ha bisogno di regolazione indipendente, non di ritorno ai ministeri -,  la centrale unica per gli acquisti per tutte le forze di polizia, l’accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile, il taglio a non oltre 40 di prefetture e sovrintendenze. Su tutto questo, nella consultazione generale e in Parlamento, è ovvio e certo che si scatenerà l’inferno: a tutela di lobby, spese e interessi.

Mentre, per una PA meno ostile, misure come la riforma della sospensiva amministrativa sulle opere pubbliche, criteri meno scandalosi nell’attribuzione del salario di produttività oggi diviso a pioggia tra tutti, la restrizione dell’attuale regime bulimico del concerto ministeriale, il PIN unico per i rapporti digitali tra cittadino e amministrazione, atti normativi il più possibile autoattuativi senza bisogno di decreti e circolari, sono tutte misure che variano potenzialmente – a seconda di se e come attuate davvero – tra il buono e l’ottimo.

Alcuni caveat finali La riduzione delle municipalizzate viene enunciata, ma il governo sa che su questo da solo non può decidere nulla: a meno che non si decida a tagli energici di trasferimenti per chi non riduce, accorpa e privatizza. L’abolizione dell’obbligo di iscrizione delle imprese alle Camere di commercio susciterà una reazione durissima dal sistema camerale e d’impresa. E infine l’obbligo di rendicontazione scritta e pubblica per ogni spesa sindacale, in un paese in cui le confederazioni in barba alla trasparenza non pubblicano un bilancio consolidato, sarebbe davvero un’ottima maniera per festeggiare il prossimo primo maggio. Ma ai sindacati non piacerà. E non solo questo punto, temiamo.

 

 

 

 

27
Apr
2014

Se nella P.A. anche gli open data hanno diritto a riposare

L’atteso decreto legge del governo sugli “ottanta euro”, pubblicato in Gazzetta il 24 aprile, contiene anche misure volte a rendere la P.A. più trasparente, tra cui l’obbligo, per tutte le amministrazioni pubbliche, le società controllate e le autorità indipendenti, di pubblicare sui propri siti istituzionali i dati relativi alla spesa di cui ai propri bilanci preventivi e consuntivi. Read More

26
Apr
2014

Volevo solo vendere la grattachecca—di Daniele Mandrioli

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Daniele Mandrioli.

Siamo tre studenti universitari di Milano; dei ragazzi normali a cui, durante una vacanza romana viene un’idea apparentemente brillante: esportare la grattachecca a Milano e renderla alcoolica, girando la città con un carretto. La nostra intenzione è realizzare una piccola attività di impresa dai costi di start-up pressoché irrilevanti e con un basso margine di rischio.  A settembre decidiamo di mettere in pratica questo progetto e iniziamo la nostra Odissea.

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25
Apr
2014

Tre ragioni per respingere il presunto “capolavoro” di Piketty sul “Capitale”

C’è un libro che potrebbe diventare una Bibbia del dibattito pubblico nazionale. A destra come a sinistra, visto che nel nostro Paese l’anomalia è che entrambe si fregiano dell’aggettivo “sociale”. Il che significa, nella traduzione concreta, che non favoriscono l’accumulazione e l’investimento dei capitali – “dei” capitali, perché non c’è solo quello finanziario, c’è quello umano, quello fisico delle infrastrutture, e quello immateriale dei brevetti e dei processi organizzativi e distributivi – necessari alla crescita, ma preferiscono occuparsi della redistribuzione del prodotto esistente. Che nel nostro Paese è di 9 punti di Pil e di 24 punti di produzione industriale inferiore al precrisi. Questo libro è l’opus magnum di un “economista politico” – è lui stesso a definirsi così, sa bene che la sua produzione a tesi è molto più politica che economica – francese, che sta letteralmente spopolando nel mondo anglosassone. Stiamo parlando di Thomas Piketty e del suo ambiziosissimo Il Capitale nel XXI° secolo, quasi mille pagine nell’edizione francese 2013, 685 nella traduzione in inglese che ho per le mani, uscita solo il 15 marzo scorso.

L’unica ragione per la quale in Italia non si è ancora diffusa la “febbre Piketty” – trovate ora un’intervista sul sito di Foreign Affairs, perché l’autore è on tour negli Usa dove è letteralmente conteso da stazioni televisive, radio e media, mentre l’Economist da due mesi su uno dei suoi blog sta addirittura recensito e commentato ciascuno dei 16 capitoli del libro – è forse perché da noi anche gli intellettuali leggono meno, quando si tratta di lingue straniere.

Ebbene lo vogliamo allora dire praticamente quasi per primi, fregandocene abbastanza del fatto che qualche economista e accademico possano accusarci di non avere i titoli per farlo: speriamo proprio che in Italia almeno nessuno dia troppa retta, alle tesi di Piketty.

L’ex consigliere della socialista Ségolène Royal accumula un’impressionante congerie di dati statistici sul rapporto tra reddito e patrimoni, e già sbaglia “ideologicamente” a identificare la ricchezza cioè il patrimonio con il capitale, visto che come abbiamo ricordato il capitale è cosa assai più ampia e diversificata. Piketty afferma una tesi sulla quale ruota la sua intera riflessione: nella storia, il tasso di rendimento del capitale, che per lui si identifica con ricchezza-patrimoni, è sempre superiore al tasso di crescita dell’economia e dei redditi. Tanto quando le cose vanno bene, per accelerazioni tecnologiche o per innalzamento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, tanto quando vanno male, perché anche in quel caso la discesa dei redditi non è affatto comparabile al ritorno persistente dei capitali. Sbagliava di grosso insomma il Nobel Simon Kuznets, a pensare che la  disuguaglianza diminuiva nelle economie mature. Sbagliava Nicholas Kaldor, convinto che nel lungo periodo la quota di reddito da capitale sembrava equilibrarsi rispetto ai redditi da lavoro.

Neanche per idea, scrive Piketty. Il patrimonio risale nel mondo “maturo” odierno a sei-sette-dieci e più volte il valore dei redditi.  E la percentuale di ricchezza nelle mani dell’1% più affluente delle popolazioni è vergognosamente spropositata rispetto al resto della società.  Si torna all’Ottocento  delle oligarchie pre-democratiche e dei landlords pre-industriali.  Si torna al fattore ereditario rispetto alla mobilità sociale.  E si sbaglia  a credere che sia un fenomeno che riguardi soprattutto Usa e Regno Unito, a welfare e Stato più “leggeri”, perché al contrario è un fenomeno globale.

Di qui la ricetta politica di Piketty: accentuazione iperprogressiva delle imposte sui redditi, con aliquote marginali fino all’80%.  E mega tasse patrimoniali sulla parte “alta” della piramide della ricchezza. Altro che uscita dall’euro e ripudio dei debiti – ai quali , comunque, Piketty non è del tutto contrario – una tassazione feroce è l’unica maniera perché il capitalismo degli straricchi non abbia definitivamente ragione della democrazia e della libertà di tutti.

E’ ovvio che ci sarebbero un mare di obiezioni da fare, all’impianto teorico e all’interpretazione dei dati. Quando Kaldor scriveva nel 1950 che la diseguaglianza si sarebbe abbassata era esattamente quel che stava accadendo nei Paesi avanzati, tra il secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta. E non è affatto vero che l’elevata patrimonializzazione media delle famiglie italiane – abbiamo un patrimonio che vale quasi otto volte il reddito – coincida con una ricchezza del 70% nazionale nelle mani dell’10% più ricco come negli USA, visto che da noi fa già abbastanza scandalo che sia il 10% più ricco a detenere il 47% del patrimonio, che però è cosa ben diversa. Insomma non è affatto vero non solo che la legge generale di Piketty – “r sempre > g”- sia sempre valida, ma non è neanche vero che dovunque nel mondo avanzato avvenga davvero la stessa cosa.  Da noi la questione l’elevata patrimonializzazione delle famiglie non è affatto figlia della concentrazione della ricchezza nelle mani di centinaia di migliaia di magre addetti ai servizi finanziari, né di una svolta fiscale a favore dei “ricchi” che non c’è mai stata. Da noi la storica elevata propensione al risparmio si è sommata a decenni di pingui rendimenti dei titoli pubblici, e a una scelta di massa per il mattone – di gran lunga prevalente nei patrimoni delle famiglie – che oggi si riassume nell’alternativa di come smobilizzarlo a favore delle generazioni successive a basso reddito e alta occupazione – il vero problema italiano è ugello demografico e intergenerazionale, i 40 miliari annui di sbilancio tra contributi raccolti e trattanti previdenziali –  o se vederne il valore depresso dall’accresciuto fisco di Stato e dalla minaccia, un domani, di veri espropri “politici”.

In generale, dunque, invito i liberali veri a orientarsi anche in Italia verso recensioni critiche fino alla stroncatura, di Piketty. Vedi quella di Tyler Cowen, o quanto David Henderson e Scott Sumner scrivono sul libro nel bellissimo blog al quale collabora anche Alberto Mingardi.  Ma per dirla in tre sole proposizioni sintetiche, ecco le ragioni per le quali non vorremmo che Piketty diventasse popolare in Italia.

La prima è che Piketty vuol riportare il dibattito economico ai Tempi di David Ricardo, così atterrito della disparità di valore della terra di fronte all’effetto scarsità rappresentato dalla crescita della popolazione, da proporre mega imposte sulla proprietà: peccato che, all’inizio dell’Ottocento, non potesse prevedere i salti di produttività creati dalle tecnologie successive. Per fortuna, abbiamo tonnellate di evidenze che l’effetto scarsità rappresentato dalla finitezza delle risorse fisiche e della limitata dispersione dei mezzi finanziari non abbia affatto impedito la moltiplicazione dei redditi e del benessere.

La seconda è che Piketty mistifica ciò che avviene globalmente nel mondo, rispetto ai Paesi avanzati: se dagli anni Ottanta il pendolo nei Paesi Ocse è tornato dopo decenni a premiare i ricchi, nel resto del mondo centinaia di milioni di umani sono usciti dall’economia di mera sussistenza  diventano consumatori globali. Scusate se è poco, visto che è il consumo la vera molla della crescita (Piketty sembra ignorarlo del tutto, ovviamente è un’ignoranza volontaria).

Terzo: leviamoci dalla testa che il problema italiano sia risolvibile con mega patrimoniali e tassazioni dei redditi ancora più elevate. Noi stiamo soffrendo per l’eccesso di imposte dirette, indirette e patrimoniali che crescono insieme, in questi anni. E quanto al premio dei patrimoni rispetto ai redditi, forse è il caso di rileggere i dati Bankitalia sul deprezzamento dei patrimoni immobiliari nel 2013, per nulla sostituiti dagli andamenti dei redditi da attività finanziarie.

Il reddito da lavoro di un Paese è il prodotto tra salario medio e produttività: da noi il problema è di elevare la produttività anche a costo di scontare che nel breve parecchi cambino lavoro, piuttosto che vivere in un paese in cui ciascuno ha un salario medio più elevato ma a produttività stagnante. No, non è la diseguaglianza il problema numero uno italiano, né la patrimoniale la sua risposta. Qui la patrimoniale la dovrebbe pagare lo Stato, a partire dalla sua immensa manomorta immobiliare, che è incapace di mettere a reddito.

 

 

24
Apr
2014

Lavoro, fisco, Senato, PA: c’è uno iato sempre più evidente tra i fatti e ciò che Renzi dice

Il modo in cui avanzano riforme e interventi del governo Renzi è figlio di due particolarità. La prima è il ritardo pluriennale accumulato dall’Italia sul cammino delle riforme: ogni tanto e’ istruttivo rileggere la lista degli interventi chiesti al nostro Paese dalla BCE il 5 agosto 2011, regolarmente a parole sottoscritti dai tre governi precedenti quello attuale a cominciare da Berlusconi, impegni poi rimasti in larghissima misura sulla carta. La seconda particolarità è invece quella politica: alla premiership Renzi è arrivato dopo una lunga lista di errori gravi del Pd, prima e dopo le elezioni del 2013, e dopo il logoramento evidente del governo Letta accartocciatosi sull’IMU. Per parti non trascurabili del Pd, Renzi e’ diventato un leader obbligato di fronte ai guai che si erano determinati, ma non per questo un leader di cui si condivide davvero spirito e obiettivi.

Ecco perché, ora che si è entrati nel vivo dei primi interventi con il decreto Poletti sul lavoro, con quello sul bonus ai redditi medio bassi, e con i primi confronti sulla riforma del Senato, tra le riforme annunciate con entusiasmo da Renzi e il confronto concreto che si articola sui loro testi inizia a manifestarsi uno iato evidente.
Sul decreto Poletti è andata come è andata. La marcia indietro alla Camera rispetto al testo iniziale, sia in materia di lavoro a tempo determinato, sia di apprendistato, sia di formazione pubblica obbligatoria, porta impresse con chiarezza le orme della sinistra Pd di matrice sindacale. Renzi ancora ieri nei suoi tweet ha ripetuto che si tratta di modifiche di dettaglio, e che davanti ai disoccupati a milioni gli italiani non capiscono chi fa questioni di lana caprina. Ebbene noi non siamo iscritti al partito dei cosiddetti “gufi”, ma non per questo possiamo venir meno al nostro dovere di osservatori. Aver piegato il saggio ritorno alla flessibilità del testo iniziale di Poletti alle contrarietà tipiche di chi diffida delle imprese, è il segno che Renzi ha un grande problema aperto con la sinistra del suo partito.

E’ un problema che potrebbe diventare ancor più serio quando si metterà mano alla delega sul nuovo codice semplificato del lavoro. Ma che intanto è già serissimo sul testo di riforma del Senato. Anche ieri la sinistra Pd, estesa ai bersaniani, tornando a difendere un Senato elettivo si è mostrata perfettamente in grado di spaccare trasversalmente la maggioranza, e di snaturare l’obiettivo che Renzi ha indicato.

Quanto al bonus ai redditi medio-bassi, è un fatto e non un pregiudizio che il testo alla fine sia diverso da come è stato presentato. Certo il bonus arriva ai redditi medio-bassi da subito, ma ripetere che ora arriva anche quello per pensionati e incapienti – il premier l’altro ieri ha incluso anche per la prima volta i lavoratori autonomi – stride con ciò che il ministro Padoan giustamente ripete a ogni intervista. E cioè che se ne parlerà solo nella legge di stabilità a fine anno, perché le coperture vanno ben congegnate: prima ancora di estenderne i beneficiari, al fine innanzitutto di rendere tali interventi strutturali e non una tantum come oggi sono.

Si aggiunge la smentita continua sul fisco. Si ha un bel dire che le imposte non aumentano, ma aumentano eccome. Perché l’aliquota del 26% sulle cosiddette “rendite”, sommata alle altre imposte già adottate in materia come quella sul conto-titoli e Tobin Tax, porta per tipo di prodotti e per tassi d’interesse concretamente realizzati a veri espropri patrimoniali per i piccoli risparmiatori. Perché l’anticipo di 400 milioni sul regime fiscale spalmato in tre anni dei cespiti derivanti dalla rivalutazione dei beni d’impresa – altra perla che non era stata annunciata, ma è apparsa nel decreto per garantire coperture visto che i tagli di spesa ammontano a meno del 50% del suo fabbisogno – è un modo classico per uccidere fiscalmente in culla una misura che doveva dar respiro a mercato immobiliare e investimenti. Per tacere della sovrattassa retroattiva sulle banche, che ha il suo bel ruolo nell’indurre oggi Intesa e Unicredit a puntare i piedi nella vicenda Alitalia-Etihad, lasciando il governo a sobbarcarsi l’onta di un fallimento del salvataggio a opera degli emiratini.

Le insidie, come si vede, sono molte, e su terreni essenziali. Si può credere che dopo le elezioni europee, in caso di buon successo del Pd a guida Renzi, molte di esse scomparirebbero. Ma un po’ di sano realismo dovrebbe indurre a pensarla diversamente. E’ Renzi per primo, vista la natura “personale” della sua leadership e premiership, che deve trovare una diversa quadra tra gli annunci, che a fini comunicativi funzionano, e i provvedimenti, che al momento vanno meno bene.

Facciamo un ultimo esempio. Cruciale: la riforma della Pubblica Amministrazione. Sindacati e riflessi corporativi sono già all’allarme rosso. Si legge di magistrati apicali pronti a dimettersi in massa per protesta. A Roma, pur sottoposta a vincoli di rientro da parte del decreto che ha ancora una volta salvato le sue finanze, i sindacati continuano a chiedere che il salario accessorio di produttività sia “spalmato” a tutti i dipendenti malgrado le osservazioni in senso opposto del MEF. Il tetto da 239 mila euro per i manager e dirigenti apicali pubblici è stato un buon inizio. Ma senza decisioni concrete aggiuntive in materia di tetti ai dirigenti di prima e seconda fascia, senza una stima oggettiva degli esuberi della Pa, senza un metodo che consenta da parte del governo di stimare anche quelli della PA periferica attualmente fuor dalla sua portata, senza un criterio preciso di metodo per sostituirne una parte con nuovi innesti tenendo fermo però il risparmio complessivo e dunque senza prepensionamenti ad hoc per i soli pubblici dipendenti, senza tutto questo non si rivede integralmente il costo, l’efficienza e il perimetro della PA come Renzi ripete.

Certo, difficile o impossibile aspettarselo prima delle europee. Ma subito dopo, è il caso che a cominciare dalla PA Renzi non pensi tanto ai gufi della stampa che criticano facendo il loro dovere, ma ai tanti avvoltoi che in Italia difendono lo status quo di vecchie impostazioni. Altrimenti, com’è avvenuto coi governi Berlusconi, Monti e Letta, prevarranno loro ancora una volta. E non sarà per diffidenza dei partner europei, che l’Italia continuerà a restare inadempiente agli impegni assunti tre anni fa.

22
Apr
2014

Lavoro: sul decreto Poletti Renzi va a rimorchio della sinistra sindacale

Inizia oggi l’esame d’aula alla Camera del decreto legge Poletti in materia di lavoro, tempo indeterminato e apprendistato. Il decreto va convertito entro il 19 maggio e manca ancora l’esame del Senato. Ma non è solo il tempo, il problema. Il decreto Poletti ha infatti reso evidente che esiste un problema serio tra l’impostazione dichiarata dal governo, e ciò che pensa una parte troppo importante del Pd e dei suoi gruppi parlamentari, perché il governo possa pensare di risolvere la questione disinvoltamente a colpi di fiducia.Come subito è stato costretto a fare, per arginare le giuste obiezioni di Ncd e Scelta Civica.

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