16
Mag
2014

Gli eBook tornano a essere libri (ma non del tutto)

Al pre-Consiglio dei ministri di ieri, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini ha presentato una bozza di decreto legge avente ad oggetto varie misure per il rilancio del turismo e relative alla gestione e al trattamento fiscale dei beni culturali, di cui sul blog ha già parlato qui Filippo Cavazzoni. Tra queste ultime pare riscontrarsi, finalmente, la proposta di riduzione dell’IVA su eBook e riviste elettroniche. Read More

15
Mag
2014

Mercato delle donazioni e cultura

Al preconsiglio dei ministri di questo pomeriggio verrà portato un nuovo decreto legge sulla cultura. Sono passati solo pochi mesi dalla conversione in legge del decreto Valore Cultura, e già si sta per intervenire su alcune sue norme: il progetto Grande Pompei, le erogazioni liberali, le agevolazioni per il cinema, il fondo di rotazione per le fondazioni liriche, ecc. Il filo rosso che lega i nuovi interventi è rappresentato dal tentativo di far affluire maggiori risorse per il settore: nuovi stanziamenti pubblici e revisioni delle agevolazioni fiscali.

In merito a queste ultime, è previsto, come si legge oggi sul Sole 24 Ore, che “chi aiuterà la cultura (beni pubblici, ma anche istituzioni e attività) con erogazioni liberali potrà detrarre il 65% nel 2014 e 2015. Il bonus scenderà al 50% nel 2016. Le detrazioni dovranno essere ripartite in tre rate annuali uguali, saranno limitate al triennio e l’importo annuo della detrazione non potrà superare il 20% del reddito del reddito complessivo del mecenate”. Read More

14
Mag
2014

L’ottimismo di troppo sullo spread e quel che davvero serve al Sud

Renzi va a Napoli quando alla Camera dei Deputati è giunto al varo finale il decreto Poletti , che insieme al decreto sul bonus di 80 euro ai dipendenti fino a 25 mila euro lordi rappresenta al momento la produzione legislativa del governo Renzi. Per il resto del tambureggiante programma di riforme annunciato dal governo occorre aspettare le elezioni europee. Che rischiano di produrre conseguenze anche molto serie, sulla continuazione della collaborazione tra maggioranza di governo e Forza Italia in materia di riforme istituzionali e costituzionali. Forse anche sulla durata stessa della legislatura, visto che a quel punto i problemi interni al Pd si acuirebbero. Ma di tutto questo è il caso di occuparsi solo a voti europei contati, giudicando il distacco di Grillo da Renzi, e tra grillini e berlusconiani. Ora che il decreto sul lavoro diventa legge, è il caso invece di riflettere sulle condizioni generali dell’economia italiana. E del suo Mezzogiorno.

Aver attenuato l’eccesso di limiti posti nel 2012 a tempo determinato e apprendistato – attenuazione comunque frenata, proprio ad opera di una parte del Pd che sul mercato del lavoro non condivide affatto la via alla flessibilità indicata da Renzi e Poletti – ha sicuramente effetti positivi. Ma non è il caso di illudersi. La condizione italiana resta grave. La crescita italiana attesa nel 2014 è stata abbassata pochi giorni fa dall’Ocse a un modestissimo più 0,5%. In queste condizioni, occorrerebbero troppi anni per recuperare i 9 punti di Pil e i 24 punti di produzione industriale persi sin qui nella crisi, e per vedere la disoccupazione scendere sotto il 10%.

Purtroppo, è il caso di dire, la politica sembra credere che il barometro sia ormai stabilmente orientato verso il bel tempo, e sia quello espresso dal bassissimo spread sui titoli decennali tedeschi, ormai intorno a quota 150 punti rispetto agli oltre 550 del 2011. Ma non è affatto così. Ora che il rendimento sui titoli pubblici decennali italiani e spagnoli è praticamente pari a quello degli omologhi titoli pubblici statunitensi, bisogna ricordare che non è affatto detto che la cosa resti in questi termini. La crisi ucraina, la frenata di Cina, Giappone e Paesi emergenti, sono tutti fattori che contengono la crescita del commercio mondiale entro poco più del 2% nel 2014, e purtroppo allo stato attuale è questo l’unico treno a cui sono agganciate le 190 mila imprese italiane che esportano, e soprattutto le 70 mila che lo fanno strutturalmente. Non ci aiuta la bassissima inflazione europea attuale. A marzo, su base annuale, Grecia Portogallo e Spagna erano in deflazione, l’Irlanda ha un’inflazione allo 0,6%, l’Italia allo 0,9%. Al contrario avremmo tutti bisogno di una crescita nominale intorno al 2% che dovrebbe essere garantita dalla BCE: in assenza di essa, i debiti pubblici a questi risicati tassi di crescita reale non si stabilizzano, ma continuano a salire. Vedremo a giungo, che cosa Draghi potrà fare davvero. Ma ilo contesto internazionale dice che gli spread risaliranno.

Il vero problema – come sempre, checché dicano gli antieuro e i rinnovati sostenitori del “golpe”che sarebbe stato perpetrato contro Berlusconi nel 2011– sta a casa nostra. Sappiamo che in tempi brevi è infondato attendersi sostanziali sgravi fiscali alle imprese, visto che i tagli alle spese per il 2014 si sono fermati a 3 miliardi di euro devoluti al bonus Irpef. E per quanto una spinta a incrementare la domanda di lavoro possa venire dalla prossima riforma delle regole del lavoro – con il nuovo codice semplificato, il contratto triennale d’inserimento a tutele crescenti, l’estensione universale del sostegno al reddito di chi è disoccupati e la riforma dei centri per l’impego, tutte cose annunciate ma ancora di là da venire – anche questi saranno interventi utili a seconda di come davvero verranno scritti e approvati, ma di cornice più che di sostanza.

Nel semestre di presidenza italiana della Ue che comincia a luglio, c’è da sperare che Renzi faccia fare dei passi avanti veri al promesso Industrial Compact, visto che Europa si sono persi 3,8 milioni di posti di lavoro, l’11% dell’occupazione rispetto al 2008, e in Italia il numero di disoccupati è prossimo ai 2,6 milioni di unità, con un tasso di disoccupazione oltre il12% e oltre il 40% per i giovani. Ma in Italia abbiamo perso stabilmente a oggi circa il 15% del potenziale manifatturiero, con le 91 mila imprese scomparse al netto delle nuove create, e al Sud il declino di occupazione e imprese resta drammaticamente doppio e triplo che al Nord. Di conseguenza, molti ripetono che abbiamo e avremo bisogno di “politiche industriali” , un’espressione che è accettabile solo a patto che siano molto diverse da quelle nei decenni praticate – sbagliando – dalla politica, con la convinzione cioè di potere e volere indicare e pianificare i settori e concentrandovi risorse discrezionali.

Facciamo degli esempi. Rispetto ai principali paesi europei, la diffusione delle imprese innovative, valutata come la quota di imprese che hanno introdotto nel periodo 2008-2010 innovazioni di prodotto, di processo, organizzative o di marketing, vedeva una media italiana (56,3%) superiore a quella della UE a 27 (52,9%). Ma mentre le innovative del Nord Est italiano erano il 62% del totale, e quelle settentrionali il 60%, i valori del Sud e delle Isole erano di 15 punti inferiori. Considerando la spesa per innovazione, il Centro risulta simile alle regioni del Nord, mentre nel Mezzogiorno sia l’investimento per impresa che quello per addetto sono inferiori alla metà delle altre macroaree italiane. Se consideriamo i brevetti depositati nell’anno di inizio crisi, il 2008, il Nord superava i 110 brevetti per milione di abitanti, il Centro era a meno della metà, nel Sud erano meno di 15. I brevetti a maggiore contenuto innovativo, quelli high-tech e ICT, erano nel Nord Ovest il triplo che al Sud. La geografia della diffusione dei marchi è analoga a quella dei brevetti. Tra il 2003 e il 2011 sono stati depositati circa 11 marchi ogni mille addetti nel Nord Ovest e nel Nord Est, 7 nel Centro , solo 2 per mille addetti del Sud e Isole. Il ricorso al design industriale vedeva 21,5 marchi depositati per mille addetti nel Nord, 3,3 al Sud e isole.

Ecco, la politica di sviluppo del Sud ha bisogno di un aggancio strutturale tra università e imprese meridionali all’orizzonte europeo di ricerca 2020, incentrato sulla diffusione di brevetti, marchi e innovazione. Serve molto più questo che le vecchie anticaglie dei nostalgici della Cassa per il Mezzogiorno. E non servono affatto incentivi a fondo perduto, scissi dall’avanzamento verificato di piani d’impresa seri. Serve il riaccorpamento “centrale” delle risorse europee che le regioni del Sud continuano in percentuali elevatissime a non saper usare.

E servono infrastrutturazione digitale e cultura, servono anche al turismo e allo sfruttamento dei beni culturali. Al Sud è minore la diffusione e la familiarità con le nuove tecnologie: nel 2011 solo l’8% della popolazione meridionale usava Internet per acquistare beni e servizi, rispetto al 19% nazionale. Solo il 5% della popolazione meridionale tra i 25 e i 64 anni era impegnata in attività di formazione e riorientamento al lavoro, più del 20% in meno rispetto alla media nazionale. er attenuare disoccupazione e deserto d’impresa serve più tutto questo, insieme a meno tasse ed energia meno cara, che mille sia pur opportune riforme delle regole.

12
Mag
2014

L’ironica passione della sinistra americana per Thomas Piketty—di Guy Sorman

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Capital in the Twenty-First Century (in tutto 700 pagine!), appena pubblicato dall’economista francese Thomas Piketty, è già diventato un best-seller del New York Times. L’autore, che attualmente sta girando l’America per presentarlo, è diventato una star e tutti i principali media hanno segnalato il suo libro. L’editorialista del New York Times, Paul Krugman, lo ha definito il libro più importante degli ultimi dieci anni.

Perché, allora, Piketty, il quale in Francia è conosciuto principalmente per essere il consigliere economico del Partito Socialista, viene accolto come se fosse il Messia negli Stati Uniti (dove, tra l’altro, una volta insegnava al MIT)? Il titolo dell’opera di Piketty è ovviamente una citazione di Karl Marx, proprio come la tesi che porta avanti nel libro, ma in una versione più moderna. Piketty dimostra, con sorprendenti statistiche che coprono gli ultimi due secoli e grazie anche ad aneddoti storici e letterari, che i detentori di capitale riescono sempre – a parte durante le guerre – ad accrescere il proprio patrimonio più velocemente degli operai e degli imprenditori. L’accumulazione del capitale nelle mani di una minoranza crea una aristocrazia di rentier, persone che vivono grazie ai redditi derivati dai loro investimenti e che è improprio definire imprenditori, dal momento che non creano più nulla.

Il conflitto tra investimento “passivo” e impresa conduce, secondo Piketty, a un esaurimento del capitale. Marx immaginava che questo conflitto avrebbe inevitabilmente portato alla morte del capitalismo, destinato così ad essere rimpiazzato dal socialismo. Piketty non condivide questa previsione: la macchina capitalista, che non può essere paragonata a nessun’altra quando si parla di creazione di benessere, può – ci dice l’autore – essere salvata dal meccanismo di redistribuzione del reddito. Lo “Stato sociale”, per usare il vocabolario di Piketty, potrebbe riconciliare il mondo degli affari e l’efficienza del mercato con la “giustizia sociale”. Questo meccanismo di redistribuzione, tuttavia, oggi è prossimo al tracollo, a causa dei valori altissimi raggiunti dalla tassazione sui redditi. Come suggerisce Piketty, allora, bisognerebbe tassare fortemente il capitale per poter finanziare lo Stato sociale. E, dal momento che il capitale non conosce i confini nazionali, l’imposta deve essere globale.

In Europa le idee di Piketty sono state accolte tiepidamente, perché la tassazione dei capitali in Germania, Spagna e Francia ha già causato una fuga degli stessi. La priorità della politica europea, inclusa quella della sinistra, non è lo sviluppo dello Stato sociale, ma una sua ridefinizione e limitazione. Negli Stati Uniti, al contrario, dove le tasse per i contribuenti rimangono relativamente basse, i Democratici sono alla ricerca di un modello che li distingua maggiormente dai Repubblicani, un modello che riesca a conciliare eguaglianza di reddito e capitalismo. Il libro di Piketty permette loro di rimanere fedeli a una economia di mercato pur volendo aumentare le tasse. Questo spiega il successo di Piketty, che ha anche il “pregio” di essere francese. (I libri che spiegano come le donne francesi riescano a rimanere magre sono stati degli enormi successi editoriali in America). Le teorie di Piketty, inoltre, si sposano bene con il movimento Occupy Wall Street, quello dello slogan “Siamo il 99%” (che, dobbiamo supporre, viene sfruttato dal restante 1%).

Esiste, tuttavia, una grande lacuna nell’opera di Piketty, come è stato fatto notare da molti economisti americani che appartengono alla scuola del liberalismo classico: in nessuna sua parte vengono considerate le cause della crescita economica e il ruolo-chiave di questo 1% (che negli Stati Uniti è costituito per la maggior parte da imprenditori e non da rentier).

Per spiegare perché è inevitabile la trasformazione degli imprenditori in rentier improduttivi, Piketty ricorre a una nuova interpretazione di Marx. Le guerre e le crisi globali – gli “shock”, per dirla con le parole usate dall’autore – spazzano via la ricchezza accumulata, e permettono così ai veri imprenditori di iniziare ad accumularne di nuova (Piketty riporta a questo proposito, in modo convincente, il caso delle due guerre mondiali). Un’analisi più onesta e meno ideologica, invece, mostrerebbe che, senza considerare eventi così disastrosi, è l’innovazione – o la “distruzione creativa” descritta da Joseph Schumpeter – ad aprire il campo ai nuovi imprenditori, che così subentrano ai rentier. Non vi è pertanto bisogno degli shock  descritti da Piketty.

A prima vista le statistiche di Piketty possono colpire, ma non possono essere prese davvero sul serio. Ad esempio, i grafici sul reddito lordo non tengono conto della redistribuzione e dei programmi di assistenza. I grafici sulla diseguaglianza susciterebbero molto meno clamore se li avesse calcolati – come si fa di solito – considerando il reddito netto dopo la redistribuzione. Non facendo così, si distorcono seriamente le condizioni economiche reali.

Piketty, inoltre, sembra poco propenso ad ammettere che il solo reddito, a prescindere da come viene calcolato, non può rappresentare interamente la realtà sociale: tutti noi traiamo vantaggio dal progresso in varie aree – sanità, trasporti, tecnologie per i consumatori – indipendentemente dal nostro livello di reddito. Se il progresso nella produttività abbassa i prezzi, i redditi reali aumentano.

Il libro di Piketty ha altri difetti. L’autore non considera mai se in qualche misura le diseguaglianze sono necessarie alla crescita in una economia di mercato. (Dopo tutto le persone sono diverse e alcuni sono meglio di altri nel servire i consumatori). Accusa, invece, gli economisti di “fidarsi troppo dei modelli matematici e di non capire le strutture profonde del capitale e della diseguaglianza”. Ignora, però, il fatto che questi economisti, che egli non gradisce, hanno identificato i veri fattori della crescita – come i diritti di proprietà e il ruolo delle leggi – basandosi su osservazioni empiriche. Senza i modelli economici basati sul libero mercato che lui sdegna, paesi come la Cina, l’India e il Ghana non avrebbero avuto la spettacolare crescita che abbiamo visto in questi anni – e, soprattutto, la parte più povera delle loro popolazioni avrebbe avuto molte meno possibilità.

Dopo tutto, Piketty, come ideologo, non aggiunge niente di nuovo alla religione marxista; tuttavia, il libro rimane una affascinante raccolta di aneddoti storici. Eccezionale è la sua spiegazione del perché i francesi siano così affascinati dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone: quello è stato – dimostra Piketty – un periodo di salari relativamente alti e di rendite basse grazie alla redistribuzione dei beni della Chiesa e alla mobilità dei lavoratori per la guerra. (Se poi questo sia stato un buon modo per creare benessere, è un’altra storia).

Eppure il successo americano di Piketty non si deve al suo talento di storico. La sinistra americana sta cercando di costruirsi una nuova ragion d’essere, e spera di averla trovata in Francia. I socialisti francesi apprezzeranno l’ironia.

Guy Sorman è un filosofo, economista e intellettuale francese. È autore di numerosi libri, tra i quali Economics Don’t Lie ed Empire of Lies. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo.

9
Mag
2014

Se il fisco dirotta l’aerotaxi

Quando il fisco diventa troppo famelico, le conseguenze possono essere molto dannose. Ce ne sono tanti esempi, ma uno particolarmente istruttivo è quello del trattamento degli aerotaxi.
Tutto nasce nel dicembre 2011, col decreto “Salva Italia”. Durante il processo di conversione in legge, un emendamento introdusse l’imposta erariale sui passeggeri di aerotaxi, demagogicamente adatti a rappresentare, insieme ai proprietari di barche, l’immagine dei ricchi spendaccioni, mai intaccati dalla crisi e dalle manovre. Read More

8
Mag
2014

Renzi, Il Pd, la Cgil: l’eterno ritorno del fattore Turati-Togliatti

Non c’è niente di più sbagliato che credere alla ripetizione di una storia sempre eguale. Ed è giusto ricordare che fare accostamenti storici, di epoche e personaggi diversi, significa esporsi al rischio di inevitabili forzature. Ma quanto sta avvenendo in questi giorni nel Pd e al congresso della Cgil sulle politiche economiche e sindacali è tutt’altro che nuovo, nella storia della sinistra italiana. Anzi, è la riproposizione, adattata a tempi e personaggi diversi, di una vicenda sin qui inscindibilmente legata alla parabola stessa della sinistra. Una sua maledizione ereditaria. Che nasce dall’irredimibile propensione a dividersi frontalmente su che cosa significhi essere “di sinistra”, come e se sia declinabile con l’essere “riformisti”, invece che antagonisti.

E’ il pendolo che condannò il neonato PSI a vedere violentemente alternarsi al suo interno leadership riformiste e di sinistra sindacal-massimalista, a ogni congresso di inizio Novecento. E’ la ragione per la quale, quando nel 1932 morì, povero in esilio antifascista, il più grande dei socialisti riformisti, Filippo Turati, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato “il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra”.  Il tanto venerato Antonio Gramsci non era da meno, quando scriveva che non bisognava esitare a dare “del porco” al socialismo riformista.

Il punto di fondo, che ovviamente i protagonisti attuali della sinistra e del sindacato negherebbero, è sempre lo stesso. C’è una leadership che a un certo punto della storia si forma sull’idea che occorrano riforme coraggiose e realistiche, che tengano cioè conto delle circostanze date e non del presunto obiettivo di costruire l’Eden in terra. E c’è chi di fronte a questo sente violare un credo essenziale, un’identità irrinunciabile della sinistra, per i quali non conta il gradualismo rispetto alle condizioni economiche e finanziarie interne e internazionali, ma conta al contrario chiedere l’impossibile, battersi per l’utopia, erigere tra la propria fede ideale e chi cerca faticosamente di operare nella difficile realtà una muraglia, fatta di irte scomuniche e laceranti divisioni.

A questo riflesso condizionato si aggiunge poi il problema – anch’esso puntualmente ricorrente – per il quale c’è sempre qualcuno che utopicamente si sente ancor  più a sinistra, di chi pur da sinistra critica come “arresa alla destra” una leadership riformista.

Eccoci al paradosso attuale. Praticamente metà del Pd, se sommiamo i vecchi gruppi dirigenti territoriali e i gruppi parlamentari figli delle primarie bersaniane del dicembre 2012, tace ma acconsente in cuor suo alla sferza a Renzi riservata da Susanna Camusso sulla tribuna congressuale di Rimini. Non è forzatura dirlo: quando la leader Cgil ha accusato il premier di prevaricare la democrazia credendosi autosufficiente, al di là del ristretto cerchio renziano i leader storici del Pd hanno taciuto. Al massimo, con un sorridente D’Alema hanno dato un buffetto alla Camusso rimproverandola di non aver parlato “anche” di quanto di buono Renzi stia facendo. Come se quell’”anche” potesse pareggiare la scomunica.

Ma dopodiché alla sferza da sinistra della Camusso a Renzi viene riservata una frusta da sinistra altrettanto energica, rivolta alla segretaria della Cgil dal leader della Fiom Landini, che accusa anch’egli la Cgil camussiana dello stesso difetto da questa ravvisato in Renzi: la violazione insopportabile di regole essenziali del confronto democratico. E altrettanto radicale, ancor più da sinistra, è l’accusa portata anche alla minoranza Cgil dalla pattuglia guidata da Cremaschi, che accusa la sinistra di perdersi ancora in minutaglie come contratti e rappresentanza, quando si tratta di costruire alleanze continentali per ripudiare il debito e respingere il capitalismo, fallito ma sempre in sella.

Si potrà dire che la dialettica violenta tra riformismo e massimalismo non ha impedito alla sinistra italiana di percorrere una sua lunga storia, di avvicinamento pima e di esercizio concreto poi della capacità di governo, in una democrazia instabile e “di mezzo mercato” qual è l’Italia. Verissimo. Ma ogni volta che il conflitto riesplode duramente, sia la sinistra sia l’Italia fanno insieme un passo indietro, se è la sinistra che governa. Oggi, siamo esattamente in queste condizioni.

Per far passare il decreto Poletti sull’allentamento di oneri e vincoli del tempo determinato e apprendistato, Renzi è dovuto ricorrere a una doppia fiducia alle Camere, pur avendo accettato modifiche essenziali, da parte del Pd cigiellino rispetto al testo originario, solo in parte ridimensionate. Ciò che motiva il no di Landini alla Camusso è l’accordo interconfederale che rende esigibili i contratti, con tanto di sanzioni a carico dei rappresentanti sindacali che assumono in azienda atteggiamenti ostili all’adempimento di contratti votati dalla maggioranza dei lavoratori. La prima delle quattro proposte “alternative” rispetto a Renzi, avanzata dalla Camusso al congresso di Rimini, è di smontare dalle fondamenta la riforma delle pensioni, tornando a prepensionamenti di massa. Ancor oggi, il gap tra contributi raccolti e trattamenti previdenziali erogati è di circa 40miliardi di euro l’anno, ma alla leader Cgil aggravare questo peso a carico della fiscalità generale tornando ad abbassare l’età pensionabile sembra cosa buona e giusta, tale da far ripartire meglio l’Italia.

Guardiamoci negli occhi. Ognuno nel Pd, nella Cgil e più a sinistra, ha pieno diritto di giocare la parte che crede. personalmente, resto convinto di una ricetta diversa da tutti loro, molto più centrata su tagli di spesa e di tasse. Ma quando la sinistra governa, arrivare a sperare in cuor proprio che se Grillo supera Renzi alle europee non è poi un gran male perché così Renzi è costretto a darsi una regolata, significa non avere la minima idea dei guai che continuano a gravare sul nostro paese. L’Ocse ha appena abbassato la crescita attesa degli Usa, Giappone, Cina, Russia e Ue. Stiamo continuando a perdere produttività. A marzo, l’indice dei consumi Confcommercio è ancora sceso rispetto a febbraio, e segna meno 2,1% rispetto a un già disastroso 2013.

Non lo diciamo per aiutare Renzi, perché sta a lui fare il suo mestiere e capire che ci sono anche tante critiche fondate, al suo operato. E’ pensando al paese, che da semplici osservatori rivolgiamo al Pd l’invito di pensarci non una ma mille volte, prima di riabbandonarsi a quella sua pulsione ricorrente di sparare alle spalle a ogni leader che appaia non diretta espressione dell’immane vischio storico della Ditta, come la chiama Bersani. E’ un istinto che già tante volte ha portato la sinistra alla sconfitta, e l’Italia ancor più indietro.