4
Lug
2014

Coppa del Mondo del Brasile: tra gioia e un conto salatissimo—di Magno Karl

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

La coppa mondiale domina l’immaginazione brasiliana come nessun altro evento. Ogni quattro anni il paese diventa una setta che vive nell’adorazione del Signore Calcio. Indubbiamente, nessun altro paese ha vinto tante volte la coppa del mondo quanto il Brasile. Pertanto, quando nel 2010 è stato annunciato che il Brasile avrebbe ospitato la competizione del 2014, a migliaia si sono riversati sulla spiaggia di Rio per festeggiare. Noi brasiliani abbiamo avuto la sensazione che il calcio stesse tornando a casa, e questo ci rendeva felici.

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3
Lug
2014

La concorrenza nei servizi pubblici locali: il caso dei rifiuti

Nei giorni scorsi, la Corte dei conti – ne ha scritto bene Sergio Rizzo sul CorrierEconomia – ha riproposto all’attenzione generale una delle piaghe dell’economia italiana, quella delle società partecipate dallo Stato e dagli enti locali. Secondo la magistratura contabile, assommando queste e quelle, nonché le società da esse a propria volta controllate e i vari organismi diversi (consorzi, fondazioni…), si superano le 8000 unità. Il costo complessivo di questa galassia, pari al totale dei trasferimenti ricevuti a qualsiasi titolo dai ministeri, ammontava a 26 miliardi di euro nel 2013 e a 83 miliardi di euro nell’ultimo triennio. Agli enti locali la parte del leone, con oltre 5000 società, un terzo delle quali in perdita strutturale.
A prescindere dalle nefaste conseguenze finanziarie, tale stato di cose esercita un impatto negativo sulla concorrenzialità del mercato. Il capitalismo municipale soffoca l’iniziativa privata in settori particolarmente significativi per la qualità della vita dei cittadini: pensiamo al trasporto pubblico locale oppure al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti – oggetto di un ricco convegno organizzato a Padova da Confindustria Veneto.
È necessario sgombrare il campo da un equivoco pervasivo: a quasi tre anni dallo sciagurato referendum sull’acqua pubblica e dall’abrogazione del comma 23-bis del d.l. 112/2008, ha ancora pieno vigore nel nostro ordinamento il principio di tutela della concorrenza nei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che discende direttamente dalla normativa comunitaria ed è stato, da ultimo, riaffermato dal d.l. 179/2012 (art. 34, co. 20-21).
In particolare, si devono ritenere ancora operanti i tre metodi di affidamento: quello tramite gara ad evidenza pubblica, quello disposto a società a capitale misto, previo esperimento di gara per la scelta del socio privato, e quello diretto a società in house; e la scelta fra queste tre forme dovrà essere giustificata attraverso la predisposizione di un’apposita relazione, da pubblicarsi sul sito internet dell’ente o del consorzio procedente; qualora si deroghi al principio di tutela della concorrenza, la relazione dovrà indicare le ragioni specifiche per cui l’affidamento con gara non appaia in grado di perseguire l’interesse generale.
Inoltre, la società destinataria di affidamento in house deve rispondere a requisiti ben individuati: dev’essere di proprietà interamente pubblica, dev’essere soggetta da parte degli enti soci a un controllo analogo a quello che gli stessi possono esercitare sui propri uffici, deve svolgere la propria attività prevalentemente per conto e nell’interesse degli enti partecipanti, dev’eseguire direttamente la totalità delle attività affidatele e astenersi dallo svolgimento di attività imprenditoriali estranee all’affidamento, salvo quelle accessorie o strumentali.
Come il dimostrabile favore legislativo per l’affidamento con gara si traduca nella pratica è tutt’altra questione: gli affidamenti in house in carenza dei presupposti sono la norma – con l’effetto di legittimare, così, il malcostume dei subappalti delle società in house, delle relazioni redatte dalla società affidataria anziché dall’ente affidante, degli affidamenti sotto soglia, del controllo politico e delle gestioni opportunistiche, che nulla hanno a che vedere con il controllo analogo prescritto dalla disciplina rilevante, e persino dell’inversione dei rapporti di forza tra società partecipate e enti partecipanti.
Va, poi, segnalata la vicenda della definizione dei bacini territoriali che dovrebbero rimpiazzare i comuni nella gestione degli affidamenti. Il d.l. 138/2011 e il successivo d.l. 150/2013 imponevano l’individuazione di ambiti territoriali ottimali, tali da “massimizzare l’efficienza dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli inerenti al settore dei rifiuti urbani”, stabilendo che la loro estensione dovesse essere, di norma, almeno pari a quella del territorio provinciale e fissando al 30 giugno 2014 la scadenza per l’istituzione dei relativi enti di governo e per la deliberazione dei nuovi affidamenti, pena il commissariamento a opera dei prefetti competenti e, in ogni caso, la cessazione degli affidamenti non conformi alla data del 31 dicembre 2014. (Tuttavia, sino al 2020, le società pubbliche quotate potranno avvalersi di una deroga al requisito della proprietà completamente pubblica.)
Il Veneto – ma lo spirito di conservazione è analogamente diffuso anche in altre regioni – si è dapprima accodato a quest’orientamento con la legge regionale 52/2012, salvo poi distaccarsene con la delibera 13/2014 della Giunta, che ha portato a dodici il numero degli ATO, così da ricalcare fedelmente le aree di operatività delle attuali gestioni in house. Inutile precisare che tutti i dodici ATO sono ad oggi paralizzati dalla mancata istituzione degli organi di governo – situazione che ha indotto il consigliere regionale Diego Bottacin a invocare, come previsto dalla norma, l’intervento del prefetti.
Allo stato attuale, sono una manciata gli enti che, in Veneto, assegnano la gestione del servizio rifiuti con procedura competitiva: si tratta di alcune comunità montane del bellunese, del consorzio Padova Sud, del comune di Albignasego (PD), e dei comuni di Mason, Molvena e Pianezze (VI), la cui gara è al momento in corso. Secondo le stime illustrate da Jacopo Bercelli, sulla base di dati pubblicamente disponibili, queste gestioni costano in media 73 €/abitante contro i 103 €/abitante dgli affidamenti in house, con un risparmio de 30%. A chi rileva che si tratta di un confronto improprio, perché ogni territorio ha esigenze specifiche, è agevole rispondere che – alla luce della perdurante carenza di concorrenza – si tratta anche dell’unico confronto possibile. Una delle ragioni più solide per preferire l’affidamento con gara risiede proprio nella facoltà di opporre un vaglio concreto all’affermazione fideistica dell’efficienza dell’in house. La procedura competitiva è un meccanismo di scoperta, che fa emergere i mezzi e i processi più adeguati alla fornitura del servizio e ne determina l’effettivo prezzo di mercato.
In questo paese, chi richiede una maggior apertura al mercato si trova solitamente nella scomoda posizione di reclamare riforme normative per modificare lo status quo; nel caso dei servizi pubblici locali, viceversa, la richiesta è ben più modesta: si tratta di dare applicazione a una disciplina già vigente. Non necessariamente una disciplina ottimale: possiamo immaginare – e si praticano altrove – modalità di gestione in cui gli operatori competano nel mercato e non per il mercato. Tuttavia, rispetto alla pratica del settore, tagliare le unghie alle partecipate e dare spazio ai privati sarebbe oggi una boccata d’ossigeno per imprese e contribuenti.

3
Lug
2014

Taxi! Siamo nel 21esimo secolo!—di Fred Roeder

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Le nuove tecnologie e lo spirito imprenditoriale migliorano la nostra vita giorno dopo giorno. Tra le ultime e più importanti innovazioni per chi abita in città, troviamo le app di servizi peer-to-peer per condividere i viaggi in auto, come Uber o Lyft. Queste app abbassano i costi di transazione tra passeggeri e autisti perché li connettono direttamente attraverso i loro smartphone.

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3
Lug
2014

Euro-Union Bond? Meglio vendere davvero—di Lorenzo Romani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Romani.

In questi giorni si è tornato a parlare di Euro-Union Bond e mutualizzazione dei debiti nazionali. Soprattutto, qualche giorno fa è stato il Sottosegretario Graziano Delrio a lanciare la prima pietra in un’intervista al Corriere della Sera. Il meccanismo funzionerebbe così: gli stati “versano” in un fondo comunitario una parte del loro attivo (quote di partecipate, asset reali, etc). Il fondo utilizza questi beni come garanzia per emettere nuove obbligazioni europee. I capitali raccolti vengono utilizzati per ricomprare titoli pubblici dei paesi conferitari, che vedrebbero così ridotto lo stock del debito. Read More

2
Lug
2014

Quer pasticciaccio brutto dell’obbligo di Pos

È entrato in vigore il 30 giugno l’art. 15, co. 4 del decreto-legge 179/2012, nel termine rimodulato dall’art. 9, co. 15-bis del decreto-legge 150/2013 e con l’estensione specificata dal decreto del Ministro dello sviluppo economico del 24 gennaio 2014. Si tratta – per intenderci sin d’ora con la meno imprecisa delle molte definizioni approssimative – dell’obbligo a carico di commercianti, professionisti e artigiani di munirsi di Pos al fine di poter ricevere pagamenti con carta di credito o debito per importi superiori al limite di 30 euro. Per dare una valutazione del provvedimento occorre procedere per esclusione, indicando anzitutto cosa la norma non prevede.
In primo luogo, non vi è alcun obbligo per il cliente di pagare con moneta elettronica, un equivoco che è stato colpevolmente cavalcato da gran parte dei mezzi di informazione. In questo paese l’articolazione dei poteri pubblici è senz’altro materia magmatica, ma non tanto da conferire competenza legislativa alle redazioni. Pertanto, a dispetto della propaganda contraria, il vincolo all’utilizzo del contante rimane fissato nella soglia di 1000 euro.
In secondo luogo, la stessa qualificazione di un obbligo a carico degli esercenti appare controversa, perché la norma non prevede alcuna sanzione per la sua violazione. Ora, se si tratta di un giudizio opinabile dal punto di vista teorico-generale, almeno ove si disputi la validità dell’equazione kelseniana tra obbligo e sanzione, è tuttavia evidente che, dal punto di vista pratico, una norma siffatta perde molto del proprio potenziale cogente.
In questo senso, è degna di merito l’interpretazione avanzata dal consiglio nazionale forense, e avallata dal ministero dell’economia in risposta ad una recente interrogazione parlamentare, che ricostruisce nella predisposizione della strumentazione necessaria a ricevere la moneta elettronica non tanto un obbligo giuridico, quanto piuttosto un onere, onere che rileverebbe nei casi in cui fosse il cliente a richiedere la possibilità di utilizzare una carta di pagamento per saldare il proprio debito. L’inadempimento di quest’onere darebbe, quindi, luogo alla fattispecie della mora del creditore (art. 1206 ss. cod. civ.) – che, come ovvio, non estingue l’obbligazione del debitore e, trattandosi di obbligazioni pecuniarie, avrà l’unico effetto di esonerarlo dal corrispondere gli interessi per il ritardo dovuto all’inosservanza dell’esercente.
Sin qui la ricostruzione positiva; ma occorre interrogarsi anche sulla ratio della norma e sulla sua attitudine a raggiungere gli effetti sperati. Il malinteso tra obbligo di pagamento e obbligo (od onere) di accettare il pagamento, denunciato più sopra, è rivelatore: la disposizione s’inserisce in un crescente clima di disfavore per il denaro contante, principalmente alimentato dal desiderio di dare visibilità, a fini fiscali, a quelle transazioni che oggi possono sfuggire ai radar dell’Agenzia delle Entrate. Siamo certo di fronte a una misura monca, ma una misura monca il cui intento fondamentale sembra essere quello di aprire la strada a interventi più radicali.
Difficilmente l’obbligo di munirsi di Pos avrà, di per sé, un impatto significativo sull’evasione tributaria, perché dalla mera facoltà di pagare con moneta elettronica non discende la convenienza di farlo. L’esercente che proponeva di regolare la transazione in via informale ci proverà ancora; il consumatore sensibile all’offerta l’accoglierà ancora. La generalizzata diffusione del Pos non basterebbe ad alterare la catena dei loro incentivi.
A ben vedere, anzi, si potrebbe immaginare l’effetto contrario. Bisogna mettere nel conto i maggiori costi in cui gli operatori più ligi alla legge incorreranno – sul punto si è accesa la consueta battaglia dei numeri: si parla di 1200 euro l’anno per la Cgia e di 1700 euro l’anno per Confesercenti, mentre le stime delle associazioni dei consumatori sono più contenute. Queste maggiori spese dovranno essere recuperate in qualche modo: ove possibile, scaricandole sui consumatori, con un adeguamento che riguarderà, però, i prezzi in generale, non certo il conto dei soli clienti che opteranno per il pagamento elettronico.
In ogni caso, dunque, l’estensione dell’obbligo renderà relativamente più conveniente il regolamento in nero, specialmente nei casi in cui già oggi la prassi privilegia metodi di pagamento diversi dalla carta di credito o debito e che, pur non imponendo costi aggiuntivi, garantiscono la tracciabilità – si pensi al bonifico bancario. Per chiarire, l’incasso con bonifico o con contanti è tipicamente al netto e, dunque, indifferente per il creditore – semmai si può sostenere che i contanti abbiano oneri di gestione superiori. Viceversa, la carta di pagamento è, da questo punto di vista, un metodo inferiore.
Ciò non significa che non vi siano importanti ragioni d’immediatezza e universalità che raccomandino la diffusione della moneta elettronica, ma solo che questa dovrebbe essere spinta dalle forze di mercato e non da un irrigidimento forzoso della domanda in vista di obiettivi del tutto slegati, come quello del recupero d’imponibile.

2
Lug
2014

Capacity payment: la fine del mercato elettrico per come lo conosciamo?

Con un decreto ministeriale firmato dal viceministro dello Sviluppo Economico Claudio De Vincenti, è stata approvata la nuova disciplina del mercato della capacità elettrica. Si tratta di un cambiamento profondo nel disegno di mercato, che segna in modo forse irreversibile, nel nostro paese, la liberalizzazione elettrica.
La vicenda del capacity payment è lunga e, per certi versi, paradossale: difficilmente, però, a questo punto la corsa verso la rivisitazione del nostro mercato elettrico poteva essere fermata. Il progetto è stato concepito nel 2011, e ha avuto un’evoluzione tortuosa e non priva di rallentamenti. La vera svolta è stata l’emanazione del decreto “Destinazione Italia” del 23 dicembre 2013, che di fatto innescava la slavina. A quel punto i passi erano segnati, come conferma peraltro l’urgenza con cui l’Autorità per l’energia ha gestito l’ultimo documento di consultazione, poche settimane fa, il quale delineava gli orientamenti finali del regolatore.
L’introduzione di un mercato della capacità comporta, se non un ribaltamento, quanto meno un significativo cambiamento di strada rispetto all’impostazione che finora ha caratterizzato il mercato elettrico italiano: da un mercato dell’energia, infatti, esso è destinato a diventare sempre più un mercato della capacità produttiva. Il che implica che il modello di fondo si allontana da quello della concorrenza nel mercato, per avvicinarsi a quello della concorrenza per il mercato. Gli studiosi sono divisi sul tema: tuttavia appare evidente che a guidare l’introduzione del capacity sono motivazioni più politiche che tecniche, ora vagamente nobili (prevenire problemi di sicurezza e adeguatezza del sistema e i conseguenti picchi di prezzo) ora più prosaiche (soccorrere un settore termoelettrico messo in ginocchio dal calo della domanda e dal boom delle rinnovabili sussidiate). Nel complesso, però, i mercati della capacità si avvicinano molto alla definizione che ne ha dato Benedict De Meulemeester: “soluzioni costose per un problema che non esiste”.
Tra le tante ombre, si distinguono però alcune luci (o almeno alcune penombre), nel senso che le cose potevano andare molto peggio. Anzitutto è apprezzabile la scelta originaria dell’Autorità – se capacity deve essere – di demandare le modalità di remunerazione della capacità a un sistema di aste anziché a un meccanismo amministrato, anche se il beneficio derivante dalla procedura competitiva rischia di essere vanificato dall’introduzione di un cap e soprattutto (nelle concrete condizioni in cui si trova l’Italia) di un floor. Secondariamente, ha fatto bene il governo a mettere una serie di paletti: in particolare, la valutazione di adeguatezza della capacità (da cui dovranno derivare i contingenti messi a gara) dovrà tenere conto “degli effetti positivi derivanti dallo sviluppo delle reti e delle interconnessioni con l’estero”. Inoltre, come peraltro aveva evidenziato l’Istituto Bruno Leoni nella sua risposta alla consultazione dell’Aeegsi, viene chiarito che le aste devono essere aperte alla partecipazione della domanda, così come viene enfatizzato il requisito della neutralità tecnologica. Infine, sulla determinazione di cap e floor viene introdotto un vincolo legato in qualche modo a un’analisi dei costi e dei benefici.
In altre parole, forse la macchina del capacity era in uno stadio così avanzato da non poter essere più messa in discussione, e in quest’ottica l’esecutivo sembra essersi orientato alla minimizzazione del danno. Certamente, però, rimane il fatto che da ora in poi il mercato elettrico, pur con tutti i suoi limiti evidenziati anche nell’Indice delle liberalizzazioni, non sarà più lo stesso. Ammesso che, tra sussidi alla produzione, regolamentazione dell’offerta, ingessature varie della domanda, e ora anche capacity market, si possa ancora parlare di mercato.
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1
Lug
2014

Mare Monstrum: proposte abrasive, non federaliste, alternative al quotidiano fallimento dello Stato

Per un mercatista liberale è doppiamente doveroso avanzare proposte su quanto avviene ogni giorno nel canale di Sicilia. Non solo perché si tratta di tragedia umanitaria. Ma innanzitutto perché è un conclamato, reiterato, abnorme fallimento dello Stato, dello Stato con la S maiuscola come piace scrivere agli statalisti: è il fallimento di tutti gli Stati europei oltre che del nostro, quando a garanzie di diritti primari essenziali come la vita, la sicurezza e e la libertà. Mare Monstrum bisogna chiamarla, altro che Mare Nostrum, la missione speciale quotidiana delle forze italiane militari, di sicurezza e protezione civile al fine di salvare più vite possibile tra le migliaia indirizzate verso le coste italiane dai trafficanti di disperazione umana. Una missione fallita, malgrado l’enorme e ammirevole energia di chi vi si adopera. Ieri una classica giornata di eccezionale ordinarietà, con altri 30 morti su un barcone che ne ospitava oltre 600, salvato dalla Marina al largo delle coste ragusane. E la tragedia nella tragedia, con il comune di Pozzallo nell’impossibilità di celle frigorifere in numero adeguato alle vittime.

Oggi è il giorno in cui inizia il semestre europeo di presidenza italiana, ed è il caso di indirizzare al presidente del Consiglio qualche considerazione costruttiva. Perché far bassa polemica su questi argomenti è cosa facile e insieme miserabile, e perché Renzi per primo toccherà questo argomento nel suo discorso di presentazione del semestre italiano. Ci sono almeno quattro aspetti diversi da considerare.

Il primo riguarda l’oggettivo disinteresse con il quale il più dell’Europa ha guardato a questa emergenza. Il bilancio dell’Agenzia Frontex, incaricata di coordinare pattugliamento dei confini europei e rimpatrio dei clandestini, è chiaro già dalle missioni svolte, da metà degli anni Duemila fino ad oggi. Riguardano all’80% l’Est Europa e il confine balcanico, oltre agli aeroporti. E’ evidente che le preoccupazioni dei paesi euroforti centro e nord europei hanno sempre avuto la meglio. Un primo esiguo segnale di coinvolgimento di mezzi europei sul confine mediterraneo, la scorsa estate, non ha avuto seguito quest’anno. La Francia il mese scorso si è unita alle richieste italiane di sostituire a Frontex una Frontex Plus, ma sinora si è visto nulla. A me gli strilli quotidiani e inani del ministro Alfano non piacciono: se non contiamo nulla e non ci ascoltano, temo sia innanzitutto per colpa nostra.

Secondo: le richieste italiane. E’ inutile negarlo, al Consiglio europeo di Ypres l’attenzione preminente è andata alla partita delle nomine e di Juncker, e al nodo di una maggior flessibilità nell’applicazione procrescita del patto di stabilità europeo. Anche Renzi, nella conferenza stampa conclusiva del vertice, ha sfiorato solo di sfuggita la questione Frontex. Indiscrezioni autorevoli vogliono che ora il governo italiano cambi marcia. E’ necessario, da subito, perché il prossimo eurovertice di metà luglio possa assumere decisioni nuove.

Il punto non è spostare la sede dell’Agenzia speciale europea, da Varsavia verso il Mediterraneo. Se tutto restasse com’è, sarebbe uno sciocco contentino privo di contenuto. La svolta non è nemmeno il commissario ad hoc europeo subito annunciato da Juncker. Quel che serve non è un eurocrate in più. Il nodo di fondo è finanziario e operativo. Gli 80 milioni di bilancio di Frontex fanno ridere, di fronte al fatto che l’Italia sostiene più di 10 milioni al mese per i soli interventi d’emergenza e salvataggio di Mare Nostrum, 10 milioni che naturalmente non bastano affatto visto che dei 65mila salvati in 6 mesi, 61mila sono entrati in Italia, e 5000 nello scorso solo fine settimana. Sono entrati in un’Italia in cui le strutture pubbliche residue di prima accoglienza previste dalle leggi sull’immigrazione sono al collasso, e in cui abbiamo preso sussidiariamente a chiedere ai Comuni di fare i miracoli, come se non fossero in molti casi al lumicino anch’essi. Tale quadro postula una moltiplicazione delle dotazioni finanziarie europee per quattro o per cinque, di cui per almeno metà destinate al limes mediterraneo. Con poteri reali a disporre missioni operative navali internazionali di tipo “stanziale”, cioè di lungo periodo.

Terzo: la minaccia italiana. Diciamolo qui in chiaro quel che un presidente di turno europeo non può dire, per ovvi doveri diplomatici. La posizione italiana è percepita come debole da anni in Europa, non solo per via delle debolezze accumulate sulle questioni di finanza pubblica. E’ inutile nasconderselo. Per questo, la radicalità della svolta europea può davvero avvenire solo se, nei colloqui riservati con i maggiori leader europei, l’Italia indica con una certa durezza misure alternative proprie, se l’Europa dovesse restare sorda. Gli strilletti e le dichiarazioni retoriche antieuropee a fini domestici non servono a nulla. Facciamo un esempio.

Per la natura della nostra frontiera marittima, non possiamo contare su soluzioni temporali extraterritoriali (in un passato lontanto e vicino avvenne, da parte del Regno Unito come della Francia e degli Usa). Ma attenti: il diritto internazionale marittimo potrebbe benissimo consentire alle autorità italiane di disporre alle navi battenti bandiera estera transitanti nel canale di Sicilia di prestarsi non al salvataggio, ma a ospitare i salvati fino al regolare porto di arrivo e NON su coste italiane. E’ una misura durissima, ma fattibile. L’extrema ratio, per far ragionare l’Europa visto che alzerebbe i noli per tutti i maggiori porti spagnoli e francesi, colpendo i traffici anche verso il nordeuropea..

Quarto: la reciproca convenienza. Per una nuova politica europea serve un ragionamento diverso, rispetto alla pura compartecipazione operativa, finanziaria e dei flussi finali di migranti. In realtà non ci sono queste tre misure comuni, perché non c’è una comune politica dell’immigrazione, considerandola come fattore essenziale della crescita e stabilità economica complessiva. Sin qui, i diversi paesi membri dell’Unione hanno adottato legislazioni diverse sulle procedure di ammissione temporanea, sui requisiti di lavoro, sul diritto al ricongiungimento delle famiglie e sulla cittadinanza. Sono le diverse vie nazionali per superare una frontiera comune, a non funzionare più. Erano figlie di un’era in cui ciascuno pensava alla propria crescita economica, ai diversi retaggi coloniali, a confliggenti teorie e prassi giuridiche della cittadinanza. E a fabbisogni di manodopera, contributi sociali e tasse, completamente slegati da paese a paese.

La drammatica crisi dell’Europa ha mostrato in questi anni che non è più così. La devastante curva demografica italiana e l’invecchiamento della popolazione tedesca sono due facce di una stessa medaglia. Non credo all’ipotesi federalista di unificare per tutti subuito le regiole di ammissione e cittadinanza. parlo di un’altra cosa: più l’Italia è lasciata sola nel salvataggio e nel filtro impossibile di centomila disperati l’anno, meno potrà concentrarsi su una politica di “scelta” di migranti per qualità dell’offerta, come invece da tempo hanno iniziato a fare i paesi nordeuropei. Ma meno lo faremo noi, più metteremo anche gli altri paesi europei nelle stesse condizioni. Perché nessuno di chi viene ripescato in mare, oggi, vuole restare nel nostro impoverito paese. Amaro dirlo, ma giusto riconoscerlo. E farlo presente a tutti, con la dovuta chiarezza.

 

1
Lug
2014

1 luglio: aumentano le tasse sul risparmio

Da oggi cambia l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie “pure” (stando alla definizione del ministro Padoan). Già, perché l’aliquota su dividendi, capital gain e interessi (non da titoli pubblici) passa dal 20% al 26%, mentre quella su interessi derivanti da titoli di stato e buoni fruttiferi postali (rendite finanziarie non pure, si desume) rimane fissa al 12,5%.
E pensare che l’articolo 47 della costituzione ci dice che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Questo era vero forse un tempo. Oggi non lo è più sicuramente.
Cosa sono, infatti, le imposte sulle rendite finanziarie, se non imposte sul risparmio?
Il risparmio privato, è noto, rappresenta quella parte di reddito che non viene consumata nell’intervallo di tempo in cui tale reddito viene percepito. Come insegna Hazlitt, in una società moderna quasi tutto il risparmio si traduce, direttamente o indirettamente (attraverso le banche), in investimento. “Al giorno d’oggi – scriveva nel 1946 – non c’è molta gente che, in una società moderna come gli Stati Uniti, conservi monete o banconote nelle calze di lana o sotto i materassi”. Quasi settanta anni dopo, è ragionevole credere che non ce ne sia molta neanche in Italia.
Tassare pertanto le rendite finanziarie del risparmio investito nel mercato mobiliare significa disincentivare il risparmio, più che tutelarlo e incoraggiarlo, come invece avrebbero voluto i costituenti.
Negli ultimi anni, a partire dall’agosto del 2011, si è assistito a un vero e proprio accanimento del legislatore nei confronti del risparmio degli italiani (il quale, per la cronaca, continua a scendere). Dopo quasi 3 anni di provvedimenti all’insegna dell’emergenza, tra introduzioni di nuove imposte (imposta di bollo e Tobin Tax) e inasprimento di vecchie aliquote, a oggi la pressione fiscale gravante sul risparmio investito in strumenti mobiliari è tra le più pesanti in Europa. Per riassumere rapidamente la situazione, si pensi al caso di un investitore che avesse deciso, 3 mesi fa, di acquistare un pacchetto di azioni del valore di 10000 euro di una certa società, che negli ultimi mesi del 2014 gli frutteranno un dividendo del 5% (500 euro). Ecco le imposte che il nostro investitore sarà tenuto a versare.

Tobin Tax su acquisto: 0,1% = 10€
Imposta di bollo: 0,2% = 20€
Aliquota sul dividendo di 500€: 26% = 130€
TOTALE (su reddito di capitale): 32% = 160€

A fronte di un dividendo percepito di 500 euro, il primo anno il nostro risparmiatore sarà costretto a versare 160 euro di imposte, con un’aliquota reale del 32%. Negli anni successivi, assumendo che egli percepisca lo stesso dividendo, non dovendo più pagare la Tobin Tax, dovrà comunque pagare 150 euro di imposte, con un’aliquota reale del 30% (ipotizzando ovviamente che il valore del pacchetto azionario resti invariato negli anni; ipotesi poco realistica, ma utile per farsi un’idea).
A parte i dubbi di natura costituzionale (addio alla tutela del risparmio), sorgono serie perplessità sull’efficacia di un sistema così disegnato, senza paragoni in Europa.
La prima perplessità riguarda le previsioni di gettito. Con questo sistema l’investimento mobiliare viene disincentivato ed è facile prevedere che si assisterà allo stesso film a cui si è assistito con la Tobin Tax. Da quando è stata introdotta, il valore di scambio medio giornaliero dei titoli soggetti alla nuova tassazione parrebbe calato del 30% in Italia, a fronte di un aumento del 4,5% in Europa. Il gettito previsto ora è pari al 30% rispetto a quanto stimato inizialmente. Inasprire ulteriormente le aliquote per i nettisti italiani potrebbe disincentivare questi ultimi ad adottare quel comportamento virtuoso (risparmiare) che in passato li ha contraddistinti. Il risultato sarà, ancora una volta, un gettito fiscale minore del previsto.
La seconda perplessità, forse ancor più grave, riguarda la repressione finanziaria in atto a favore dei titoli pubblici, espressione di una stato concentrato più a tutelare il proprio debito che il risparmio dei cittadini. E’ facile prevedere che il singolo investitore avrà un occhio di riguardo verso i titoli pubblici ancor più di quanto già non accada. Questo comporterà maggiori difficoltà nell’accesso al credito. Pensiamo, ad esempio, al risparmiatore che, a scadenza, non rinnoverà i propri depositi bancari vincolati per comprare i meno tassati titoli di debito pubblico o buoni fruttiferi postali. Questo passaggio provocherà un aumento del costo della raccolta bancaria, dal momento che le banche dovranno offrire un rendimento netto competitivo rispetto a quello dei titoli pubblici o dei buoni fruttiferi postali. Presumibilmente, i costi ulteriori ricadranno sui prestiti, con l’ultimo effetto di deprimere l’attività privata e così la crescita e l’occupazione.
Il tema dell’occupazione merita una breve considerazione conclusiva. Si evidenzia spesso, specialmente in un momento di difficoltà come quello che stiamo attraversando, la necessità di incrementare gli occupati nei settori ad alto valore aggiunto. L’industria del risparmio presenta livelli di professionalità, redditività e tecnologia molto elevati, creando, a oggi, occupazione e reddito a vantaggio di circa 600.000 famiglie, senza contare l’indotto. Purtroppo, con una fiscalità di questo tipo, più che incrementare l’occupazione, si corre inevitabilmente il rischio di perdere quella esistente (8 SIM chiuse nel 2013 rappresentano un segnale scoraggiante), facendo spostare altrove le imprese finanziarie a vantaggio di paesi nostri concorrenti.
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