L’economia digitale europea ha bisogno della concorrenza fiscale—di Massimiliano Trovato e Diego Zuluaga
Come stimolare l’emergere di un vivace settore digitale in Europa? Questo problema occupa i decisori politici di Bruxelles da qualche tempo, tanto che nel 2010 la Commissione Europea ha istituito la posizione di Commissario per l’Agenda Digitale, con l’obiettivo specifico di mettere le tecnologie digitali al centro dell’economia comunitaria e di colmare il crescente divario d’innovazione tra gli Stati Uniti e il vecchio continente.
Purtroppo per la Commissione, la maggior parte dei fattori alla base dell’imprenditorialità e dell’innovazione, digitale o meno, sfugge al controllo dei funzionari pubblici, anche dei più illuminati. I governi, tuttavia, possono avere un impatto predisponendo un ambiente in cui gli imprenditori possano assumersi dei rischi, in cui i fondi di venture capital possano investire, in cui nuove imprese digitali possano aprire i battenti e assumere. Specialmente in campo fiscale e regolamentare, le politiche pubbliche possono avere un effetto liberatorio o soffocante.
Ciò è stato riconosciuto dal gruppo di esperti della Commissione sulla tassazione dell’economia digitale, che ha pubblicato il proprio rapporto la settimana scorsa. Fortunatamente, il gruppo ha respinto l’idea assurda di una tassa specificamente rivolta alle imprese digitali, la quale, oltre ad assestare un colpo letale al settore tecnologico in Europa, avrebbe sollevato grosse preoccupazioni dal punto di vista dell’uguaglianza di fronte alla legge. L’idea stessa di riformare la fiscalità internazionale prendendo di mira un particolare settore, per non dire particolari aziende all’interno di quel settore, è davvero problematica.
(Queste preoccupazioni non hanno impedito al governo italiano di approvare una disposizione che imponeva alle imprese di acquistare pubblicità on-line da fornitori muniti di partita Iva italiana – sostanzialmente una tassa sui motori di ricerca. Per il sollievo degli aspiranti impiegati del settore, la misura è stata in seguito abrogata.)
Meno commendevole, però, è il generale approccio degli esperti alle imposte sui redditi d’impresa e alla direzione che l’Europa dovrebbe prendere in materia. Pur ammettendo che la politica fiscale per le società implica “un difficile bilanciamento fra la raccolta di gettito e la creazione di un clima che favorisca gli investimenti e la crescita”, il gruppo ha manifestato apprezzamento per le attività dell’OCSE, che nel proprio Piano d’azione del 2013 sull’erosione della base imponibile e il trasferimento dei profitti ha auspicato un maggior coordinamento internazionale delle politiche tributarie e la fine della concorrenza “sleale” tra giurisdizioni fiscali.
Non c’è nulla di male nel fatto che i paesi imparino gli uni dagli altri e lavorino insieme per sviluppare delle best practice. Però il riferimento al “coordinamento”, specialmente nel contesto dell’Unione Europea, immediatamente solleva il rischio di un'”armonizzazione” o, peggio, di una “perequazione”. Ciò non implica necessariamente una singola aliquota applicabile a tutte le imprese europee. In realtà, la proposta della Commissione per una base imponibile comune e consolidata per i redditi d’impresa – che allocherebbe quote predefinite dei profitti delle imprese ai diversi paesi, in vista della tassazione alle aliquote nazionali – e l’idea, altrettanto preoccupante, di un’imposizione sul reddito destination-based – prelevata, cioè, non dove ha luogo la produzione, ma dove si verifica il consumo – sono molto più sofisticate
Eppure, a ben vedere, consapevolmente o meno, raggiungono lo stesso risultato: quello di limitare la capacità dei paesi di attrarre investimenti riducendo il peso fiscale per le imprese. Entrambe le proposte implicano che una società che operi in Francia e in Irlanda, ma con sede in quest’ultima, non paghi più tutte le proprie imposte sul reddito alla conveniente aliquota irlandese del 12,5%, bensì se ne veda sottrarre una grossa fetta alla ben meno apprezzabile aliquota francese del 33,3%. Questo non danneggerebbe solo l’Irlanda e le imprese in questione: pregiudicherebbe anche i dipendenti e i consumatori in Francia, Irlanda e nel resto del mondo.
Ecco perché: quando si riduce l’incentivo di un paese a mantenere la tassazione contenuta, lo si incoraggia a diventare meno come Irlanda e più come la Francia. E anche un confronto approssimativo tra la prima – che ospita le sedi europei di numerose imprese tecnologiche di primo piano come Apple, eBay e Facebook – con la seconda – dove gli imprenditori si levarono nel 2012 contro l’aumento del già penalizzante prelievo sulle società – dimostra che un movimento nella direzione indicata dalla Francia non può essere positivo per l’innovazione e per l’imprenditoria digitale.
Il punto fondamentale è che, tanto delle politiche fiscali, quanto nel mercato, la concorrenza produce enormi benefici per consumatori, lavoratori e contribuenti. Non solo perché limita la crescita dello Stato e incoraggia i governi a spendere con maggior moderazione, ma anche perché promuove un clima in cui le persone sono più incentivate a investire, assumersi rischi e innovare. I benefici della concorrenza fiscale non sono limitati a coloro che vivono in paesi a bassa tassazione: i consumatori francesi hanno accesso alle stesse tecnologie degli americani e degli irlandesi (sebbene, forse, a un prezzo superiore). I benefici della libera impresa si estendono anche ai luoghi in cui essa è scoraggiata.
Naturalmente, si può e si deve discutere se i meccanismi tributari tradizionali debbano essere aggiornati alla nuova realtà dell’economia digitale, che consente alla produzione di spostarsi liberamente tra le giurisdizioni in modo tale da godere di un ambiente più favorevole. Ogni modifica ai princìpi fondamentali della fiscalità internazionale dovrebbe, però, applicarsi a tutti i settori industriali: ai motori di ricerca così come ai produttori di formaggi, ai prodotti digitali così come all’arredamento.
Dunque, la natura del tema richiede una discussione molto più profonda di quella a cui stiamo assistendo. Nel frattempo, se desidera iniziare a colmare il divario digitale tra Europa e Stati Uniti, la Commissione dovrebbe lavorare per mantenere la capacità dell’Irlanda di mostrare alla Francia come un paese possa attrarre un settore tecnologico fiorente.
[Questo post è stato scritto in collaborazione con Diego Zuluaga e compare anche sul blog dell‘Institute of Economic Affairs.]