Tre modi diversi di leggere la pagella Ue: quello di Renzi, dei conti, e del FMI
La “pagella” di Bruxelles va letta in tre modi del tutto divergenti. Renzi la considera un successo. Per chi bada ai conti, è un avviso di nuovi guai. Per il FMI, la conferma che non è da escludere, di doversi preparare a sostenere il debito pubblico italiano che continua a crescere, se i mercati andassero incontro a scossoni.
Al governo Renzi interessava prioritariamente solo una cosa, dell’atteso esame da parte della Commissione Europea del piano di stabilità – il DEF – e del piano di riforme inviati a Bruxelles ad aprile. Che non ne discendesse la necessità di una manovra correttiva immediata dei conti pubblici. Sotto questo profilo il governo ha vinto. In un concitato confronto finale, è saltata la convinzione che era stata originariamente espressa dagli uffici tecnici della Commissione. La manovra correttiva c’era eccome. Ed era bocciata la richiesta di far slittare di un anno il pareggio di bilancio. Mentre alla fine la manovra è stata rinviata alla prossima legge di stabilità, e all’esame che a ottobre ne farà la nuova Commissione (se nel frattempo si superano le divergenze tra socialisti e popolari, per formarla).
Ma ieri, sui social network italiani, appena letto il verdetto europeo – articolato in otto punti assai dettagliati – era evidente una cosa. L’aria che tira resta quella di una crescente insofferenza, verso le indicazioni europee. O Commissione e Consiglio Europeo ne terranno conto, oppure è inutile illudersi. Lo iato tra europei e istituzioni e regole comunitarie non è affatto destinato a diminuire. Tanto meno in Italia.
Ciò che a molti italiani – politici come no – risulta difficile buttar giù è proprio la prescrittività delle indicazioni europee, quando l’Italia è uscita l’anno scorso dall’infrazione per eccesso di deficit pubblico oltre il 3%. Mentre Francia e Regno Unito non ne usciranno che nel 2015 – forse, in particolare la Francia che è molto indietro – e la Spagna nel 2016. Oggi, 11 dei membri dell’Ue sono in procedura d’infrazione per eccesso di deficit, ed erano 24 nel 2011. Il miglioramento c’è. Ciò malgrado, l’Italia, sola tra i paesi fondatori insieme a Slovenia e Croazia, resta iscritta nella categoria degli squilibri eccessivi macroeconomici che possono avere effetti sistemici. Il sottoinsieme più “pericoloso”, secondo il semaforo europeo. Per quanto ciò non piaccia ai più, ci sono due vere e oggettive ragioni per questo. La prima è l’immensità del nostro debito pubblico, che continua a salire oltre quota 134% del PIL, e potrebbe arrivare a quota 150% al 2017. Visto che le previsioni dei governi Monti e Letta sono risultate del tutto inattendibili (per il primo dovevano essere oggi a quota 118, per il secondo a quota 124% del Pil). La seconda è la nostra bassissima crescita, ancora negativa all’ultimo dato ufficiale, quello del primo trimestre 2014. Ecco perché la raccomandazione all’Italia emessa ieri è molto prescrittiva soprattutto sulle riforme per la crescita. Ma sarebbe sbagliato credere che le raccomandazioni agli altri Paesi siano ispirate a più buonismo: lo può pensare solo chi non si prende la briga di andare sul sito della Commissione per leggersele una per una. La Francia di Hollande ne esce a pezzettini, per l’inattendibilità delle sue stime di bilancio. Ce n’è anche per la Germania, in particolare sulla qualità della sua spesa pubblica, e sulla bassa apertura al mercato di numerosi segmenti della sua economia.
Veniamo agli otto punti riservati all’Italia di Renzi. Il primo era quello delicato, la stima della congruità tra le misure di contenimento del deficit presentate e il piano di rientro pluriennale. A Renzi e Padoan è andata bene: la Commissione ha accettato lo slittamento di un anno richiesto ad aprile per il raggiungimento dell’azzeramento del deficit strutturale – che non è il deficit zero, ma quello tecnicamente “corretto per il ciclo”. Ma all’obiettivo indicato per il 2015 manca, secondo Bruxelles, uno 0,6% di Pil di misure salvadeficit. E’ la somma della mancata correzione alla legge di stabilità di Saccomanni, che pure Bruxelles aveva chiesto a Letta, nonché dell’ottimismo della crescita attesa dal governo Renzi nel 2014, con un +0,8% tutto da verificare, visto che il trascinamento del primo trimestre 2014 darebbe su base annua una crescita negativa di – 0,2%. Nonché, ancora, delle troppo esigue misure taglia-spesa assunte nel 2014 da Renzi, per non irritare il corpo elettorale sotto elezioni europee.
Che cosa vuol dire, in concreto, questa valutazione? Che a meno di un rimbalzo del Pil italiano che oggi nessun istituto internazionale prevede, la legge di stabilità per il 2015 diventa sempre più complicata. Non aver assunto misure di contenimento del deficit che per un paio di miliardi in questo 2014 rinvia 15 miliardi dei “tagli Cottarelli” al 2015. Ma attualmente quei tagli servono a malapena a finanziare la trasformazione del bonus di 80 euro in strutturale, e la sua estensione annunciata a pensionati e incapienti (Renzi ha parlato anche degli autonomi…). Per la Commissione, bisognerà aggiungere 9 miliardi di tagli in più (o Dio scampi e liberi, di tasse), perché l’azzeramento del deficit strutturale risulti credibile, sia pur con l’anno di rinvio concesso a Renzi a costo di qualche strattone. Si può dire tout court che gli 80 euro di bonus coprono esattamente i 9 miliardi che mancano secondo Bruxelles, averli concessi è dunque un azzardo contabile.
Ma è stata la chiave del successo politico del governo. Padoan e Renzi restano per questo ottimisti. Sono gli altri sette punti, pensano, quelli sui quali la nuova Commissione non potrà che dare un voto positivo all’Italia, in autunno. I punti cioè che dovrebbero alzare la crescita potenziale dell’Italia, cioè le riforme. Quella della PA, dell’anticorruzione della giustizia civile e di un più efficace utilizzo dei fondi europei. Quella del mercato del lavoro (il dettaglio copre praticamente ogni capitolo del Jobs Act). Quella dell’accesso delle imprese agli impieghi bancari (ma c’è anche da parte della Commissione una bella tirata d’orecchi a banche popolari e fondazioni, il che spiega perché il governatore Visco sia stato esplicito e tagliente su questi punti, quattro giorni fa). Quella del sistema della formazione e dei suoi criteri di valutazione. Infine l’apertura al mercato di un bel po’ di settori elencati, che in Italia ne restano esclusi o in ritardo (dalle poste alle norme sugli appalti, fino a molti settori del trasporto, a cominciare da quello pubblico locale).
Un problemino non da poco resta però sul fonte fiscale. La riforma del catasto e la delega fiscale sono ormai avviate all’attuazione. Ma la Commissione continua a chiedere più IVA e più tasse sulla casa, al posto di quelle su impresa e lavoro. Dopo tre anni di calvario da ICI a IMU e TASI, prevedere aggravi su questo fronte e altri aumenti IVA abbssa-consumi è pressoché impensabile. Le troppe imposte su lavoro e impresa vanno abbattute tagliando la spesa e rivedendo la giungla di detrazioni e detrazioni, non ipertassando case e capannoni.
Conclusione. E’ molto forte il rischio che il no ottenuto alla manovra subito si risolva nella classica italianata, cioè limitarsi a prender tempo e pensare che domani è un altro giorno. Renzi punta tutto sulle riforme. E va bene. E sul fatto che nel semestre italiano di presidenza UE farà cambiare il modo di valutare gli andamenti di bilancio: ma a questo io francamente non credo. I numeri pubblici italiani restano sballati, non tagliare la spesa significa non aver margine per sgravi, e credere che il debito pubblico in salita da bassa crescita non tornerà a essere un problema di rischio-sostenibilità significa non aver capito nulla, di questi anni.