Credit crunch: i numeri italiani restano indigesti alla politica
Poniamoci una semplice domanda. Ha ragione, il premier Matteo Renzi, nel dire alle banche italiane “dopo le misure assunte dalla BCE, ora basta alibi sui prestiti?”. Anticipo la mia risposta. No, per me non ha ragione. Non è una risposta che discenda in alcun modo da valutazioni politiche, perché da questo punto di vista qualunque cosa abbiate votato o non votato bisogna augurarsi che le numerose riforme a cui ha messo mano il governo vadano avanti e siano efficaci, per diminuire il gap tra prodotto reale – poco più che fermo, ancora – e output potenziale, e perché la sostenibilità della finanza pubblica non continui a essere preservata attraverso un’asfissiante morsa realizzata pressoché integralmente per via di aggravi fiscali a imprese e lavoro (e banche, non dimenticate la raffica di aggravi fiscali ad hoc su acconti e aliquote riservate loro alla nascita del governo, dopo il regalo fatto ad alcune di esse con la rivalutazione delle quote Bankitalia).
Sono però i numeri, a dire che il problema del credit crunch italiano non si risolve da un giorno all’altro. Classi dirigenti degne di questo nome dovrebbero saperlo, e lavorare sui fondamentali con metodo e serietà, non con battute a effetto.
Poiché giustamente il premier si è riferito alle misure assunte dalla Bce a inizio giugno, ricordiamo che il loro obiettivo è il ripristino di una maggior efficacia nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria, meccanismo ingrippato nei paesi eurodeboli. L’ingresso della BCE nell’area mai prima sperimentata dei tassi negativi di rideposito presso la banca centrale da parte delle banche dell’euroarea è sicuramente positivo. Quanto alle nuove LTROs per 400 bn in versione “targettizzata” al lending per le PMI, previste dal prossimo autunno, la versione sin qui nota del loro meccanismo attuativo non impedirà affatto – almeno all’inizio – alle banche di utilizzare i prestiti per “fare margine” magari con titoli pubblici, con meno rischi e maggiori ritorni di quanto garantisca il bassissimo margine d’intermediazione sugli impieghi ordinari. E quanto infine al “terzo stadio” del missile tirato dalla BCE, cioè la rianimazione dell’euromercato delle ABS, questo sì potrebbe avere effetti sostanziosi sulla massa di sofferenze e incagli delle banche italiane verso famiglie e imprese, ma i suoi tempi saranno lunghi, e le modalità sono ancora allo studio.
Il quadro in cui comprendere meglio le misure – e i possibili effetti – della BCE, è quello del complessivo deleveraging in atto nell’euroarea (e nel mondo avanzato a cominciare dagli USA, ottimo da questo punto di vista per chi volesse approfondire, anche se parecchio complesso e riferito soprattutto agli USA, il libro House of Debt, di Atif Mian and Amir Sufi). Il rientro dall’eccesso di debito complessivo – quello pubblico, sommandogli però quello delle famiglie e delle imprese non finanziarie – è l’orizzonte pressoché obbligato dell’uscita dalla crisi.
Solo che politica e regolatori non hanno fatto bene i conti con l’amara realtà del deleveraging (ne ha parlato Münchau qualche giorno fa su Ft). Famiglie e imprese, di fronte alla riduzione dei debiti, tendono a NON tornare a spendere né integralmente né come nel pre-crisi i flussi di reddito recuperati rispetto all’onere per sostenere il debito. Mian e Sufi dimostrano che dalla realtà di questi anni americani sembra che la propensione alla spesa sia non superiore al 15% rispetto al debito diminuito: non è affatto detto che la percentuale valga per i mercati europei e tanto meno per quello italiano, storicamente connotato da un debito delle famiglie assai inferiore rispetto ai paesi anglosassoni e ai maggiori paesi europei. Tuttavia la tendenza è comune, e si legge del resto anche nell’interpretazione che l’ABI ha tentato – senza troppo successo – ogni mese di fronte ai dati della riduzione degli impieghi (comunque scesa verso un meno 2,9% a maggio rispetto al – 4,5% dello scorso autunno-inverno), sottolineando cioè che si trattasse di una diminuzione della domanda che concorreva alla restrizione dell’offerta.
Se dunque andiamo a esaminare i dati del debito complessivo pubblico-privato degli eurodeboli, ne otteniamo un quadro che li vede ben lontani da una correzione apprezzabile e adeguata degli squilibri raggiunti al punto di picco della crisi. E’ vero che l’Italia non aveva un debito delle famiglie fuori controllo e che il suo debito complessivo al picco dell’anno scorso era del 275,9% del PIL, con quello delle imprese al 90,6% e famiglie al 45,5%. Rispetto al Portogallo che stava al 380,9% del PIl, con il debito delle imprese al 137% del PIl e quello delle famiglie al 95,5%. La Spagna al 307,7%, con le imprese al 128% e le famiglie all’87,5% del PIl. E la Francia al 248%, con le imprese all’84,6% del Pil e le famiglie al 57,3%.
Ma ciò che conta è che, tranne il caso della Spagna, che dal picco di debito ha visto imprese e famiglie che hanno ridotto di un quarto e di un quinto il debito aggiuntivo accumulato tra l’ingresso nell’euro e il punto di picco, in tutti gli altri paesi citati siamo ancora solo timidamente all’inizio del percorso. E in ogni caso il debito pubblico, grazie alla bassa componente nominale – leggi inflazione – e alla contenutissima ripresa reale continua a salire, sostanzialmente tenendo incollati tutti i paesi europeriferici al picco dei debito pubblico-privato come somma.
Tutti questi elementi possono diluire l’orizzonte temporale entro un arco di troppi anni: di bassa crescita reale ma anche di bassa propensione alla spesa e al credito. Questa è – ancora – l’amara realtà di fronte a noi. Ed è una realtà non aiutata dalle regole europee date da Cipro in avanti, per le crisi bancarie: regole cioè che colpiscono i depositi sopra i 100k e gli obbligazionisti, in caso di default e ristrutturazione degli istituti.
Tutte queste ragioni spingono a un’uscita molto lenta dal credit crunch italiano. E purtroppo erano prevedibili. Costituivano il motivo per il quale sin da inizio 2012 c’è stato chi – in piccolissimo, io tra quelli – ha invano tentato di incoraggiare le classi dirigenti italiane a pensare a un meccanismo “di sistema” per fronteggiare il prevedibile esplodere dei Non Performing Loans Bancari, volto a liberare capitale delle banche per gli impieghi ordinari. Non potevano e non possono bastare, a quel fine, né gli aumenti di capitale in corso per evitare bocciature alla Asset Quality Review in arrivo come primo passo della vigilanza europea, né le sole misure che la BCE ha per fortuna assunto. Ma la politica ha prima voluto evitare a tutti i costi “l’onta” di chiedere un aiuto europeo “alla spagnola” per le banche, che sarebbe stato tuttavia molto più contenuto perché bastavano risorse pari a un terzo degli oggi 164 bn di sofferenze lorde. E poi ha preferito utilizzare gli attivi di CDP a tutt’altro fine, per una sorta di Iri bis e per finte privatizzazioni. Così alla fine è vero che Intesa e Unicredit hanno avviato lo smaltimento dei rispettivi NPLs attraverso procedure di mercato: ma non potranno farlo con altrettanta rapidità e successo la parte media e bassa del sistema bancario italiano, che ha tutt’altra taglia di patrimonio e capitale.
La politica tutto questo dovrebbe saperlo bene. Dunque eviti di dare alle sole banca la colpa. O pensi a qualcosa di diverso, perché famiglie e imprese possano uscire dalla stretta insieme a un sistema del credito la cui sfida alla redditività oggi resta improba.