20
Giu
2014

Credit crunch: i numeri italiani restano indigesti alla politica

Poniamoci una semplice domanda. Ha ragione, il premier Matteo Renzi, nel dire alle banche italiane “dopo le misure assunte dalla BCE, ora basta alibi sui prestiti?”. Anticipo la mia risposta. No, per me non ha ragione. Non è una risposta che discenda in alcun modo da valutazioni politiche, perché da questo punto di vista qualunque cosa abbiate votato o non votato bisogna augurarsi che le numerose riforme a cui ha messo mano il governo vadano avanti e siano efficaci, per diminuire il gap tra prodotto reale – poco più che fermo, ancora – e output potenziale, e perché la sostenibilità della finanza pubblica non continui a essere preservata attraverso un’asfissiante morsa realizzata pressoché integralmente per via di aggravi fiscali a imprese e lavoro (e banche, non dimenticate la raffica di aggravi fiscali ad hoc su acconti e aliquote riservate loro alla nascita del governo, dopo il regalo fatto ad alcune di esse con la rivalutazione delle quote Bankitalia).

Sono però i numeri, a dire che il problema del credit crunch italiano non si risolve da un giorno all’altro. Classi dirigenti degne di questo nome dovrebbero saperlo, e lavorare sui fondamentali con metodo e serietà, non con battute a effetto.

Poiché giustamente il premier si è riferito alle misure assunte dalla Bce a inizio giugno, ricordiamo che il loro obiettivo è il ripristino di una maggior efficacia nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria, meccanismo ingrippato nei paesi eurodeboli. L’ingresso della BCE nell’area mai prima sperimentata dei tassi negativi di rideposito presso la banca centrale da parte delle banche dell’euroarea è sicuramente positivo. Quanto alle nuove LTROs per 400 bn in versione “targettizzata” al lending per le PMI, previste dal prossimo autunno, la versione sin qui nota del loro meccanismo attuativo non impedirà affatto – almeno all’inizio – alle banche di utilizzare i prestiti per “fare margine” magari con titoli pubblici, con meno rischi e maggiori ritorni di quanto garantisca il bassissimo margine d’intermediazione sugli impieghi ordinari. E quanto infine al “terzo stadio” del missile tirato dalla BCE, cioè la rianimazione dell’euromercato delle ABS, questo sì potrebbe avere effetti sostanziosi sulla massa di sofferenze e incagli delle banche italiane verso famiglie e imprese, ma i suoi tempi saranno lunghi, e le modalità sono ancora allo studio.

Il quadro in cui comprendere meglio le misure – e i possibili effetti – della BCE, è quello del complessivo deleveraging in atto nell’euroarea (e nel mondo avanzato a cominciare dagli USA, ottimo da questo punto di vista per chi volesse approfondire, anche se parecchio complesso e riferito soprattutto agli USA, il libro House of Debt, di Atif Mian and Amir Sufi). Il rientro dall’eccesso di debito complessivo – quello pubblico, sommandogli però quello delle famiglie e delle imprese non finanziarie – è l’orizzonte pressoché obbligato dell’uscita dalla crisi.

Solo che politica e regolatori non hanno fatto bene i conti con l’amara realtà del deleveraging (ne ha parlato  Münchau qualche giorno fa su Ft). Famiglie e imprese, di fronte alla riduzione dei debiti, tendono a NON tornare a spendere né integralmente né come nel pre-crisi i flussi di reddito recuperati rispetto all’onere per sostenere il debito. Mian e Sufi dimostrano che dalla realtà di questi anni americani sembra che la propensione alla spesa sia non superiore al 15% rispetto al debito diminuito: non è affatto detto che la percentuale valga per i mercati europei e tanto meno per quello italiano, storicamente connotato da un debito delle famiglie assai inferiore rispetto ai paesi anglosassoni e ai maggiori paesi europei. Tuttavia la tendenza è comune, e si legge del resto anche nell’interpretazione che l’ABI ha tentato – senza troppo successo – ogni mese di fronte ai dati della riduzione degli impieghi (comunque scesa verso un meno 2,9% a maggio rispetto al – 4,5% dello scorso autunno-inverno), sottolineando cioè che si trattasse di una diminuzione della domanda che concorreva alla restrizione dell’offerta.

Se dunque andiamo a esaminare i dati del debito complessivo pubblico-privato degli eurodeboli, ne otteniamo un quadro che li vede ben lontani da una correzione apprezzabile e adeguata degli squilibri raggiunti al punto di picco della crisi. E’ vero che l’Italia non aveva un debito delle famiglie fuori controllo e che il suo debito complessivo al picco dell’anno scorso era del 275,9% del PIL, con quello delle imprese al 90,6% e famiglie al 45,5%. Rispetto al Portogallo che stava al 380,9% del PIl, con il debito delle imprese al 137% del PIl e quello delle famiglie al 95,5%. La Spagna al 307,7%, con le imprese al 128% e le famiglie all’87,5% del PIl. E la Francia al 248%, con le imprese all’84,6% del Pil e le famiglie al 57,3%.

Ma ciò che conta è che, tranne il caso della Spagna, che dal picco di debito ha visto imprese e famiglie che hanno ridotto di un quarto e di un quinto il debito aggiuntivo accumulato tra l’ingresso nell’euro e il punto di picco, in tutti gli altri paesi citati siamo ancora solo timidamente all’inizio del percorso. E in ogni caso il debito pubblico, grazie alla bassa componente nominale – leggi inflazione – e alla contenutissima ripresa reale continua a salire, sostanzialmente tenendo incollati tutti i paesi europeriferici al picco dei debito pubblico-privato come somma.

Tutti questi elementi possono diluire l’orizzonte temporale entro un arco di troppi anni: di bassa crescita reale ma anche di bassa propensione alla spesa e al credito. Questa è – ancora – l’amara realtà di fronte a noi. Ed è una realtà non aiutata dalle regole europee date da Cipro in avanti, per le crisi bancarie: regole cioè che colpiscono i depositi sopra i 100k e gli obbligazionisti, in caso di default e ristrutturazione degli istituti.

Tutte queste ragioni spingono a un’uscita molto lenta dal credit crunch italiano. E purtroppo erano prevedibili. Costituivano il motivo per il quale sin da inizio 2012 c’è stato chi – in piccolissimo, io tra quelli – ha invano tentato di incoraggiare le classi dirigenti italiane a pensare a un meccanismo “di sistema” per fronteggiare il prevedibile esplodere dei Non Performing Loans Bancari, volto a liberare capitale delle banche per gli impieghi ordinari. Non potevano e non possono bastare, a quel fine, né gli aumenti di capitale in corso per evitare bocciature alla Asset Quality Review in arrivo come primo passo della vigilanza europea, né le sole misure che la BCE ha per fortuna assunto. Ma la politica ha prima voluto evitare a tutti i costi “l’onta” di chiedere un aiuto europeo “alla spagnola” per le banche, che sarebbe stato tuttavia molto più contenuto perché bastavano risorse pari a un terzo degli oggi 164 bn di sofferenze lorde. E poi ha preferito utilizzare gli attivi di CDP a tutt’altro fine, per una sorta di Iri bis e per finte privatizzazioni. Così alla fine è vero che Intesa e Unicredit hanno avviato lo smaltimento dei rispettivi NPLs attraverso procedure di mercato: ma non potranno farlo con altrettanta rapidità e successo la parte media e bassa del sistema bancario italiano, che ha tutt’altra taglia di patrimonio e capitale.

La politica tutto questo dovrebbe saperlo bene. Dunque eviti di dare alle sole banca la colpa. O pensi a qualcosa di diverso, perché famiglie e imprese possano uscire dalla stretta insieme a un sistema del credito la cui sfida alla redditività oggi resta improba.

19
Giu
2014

Debiti Pa-imprese: poche chiacchiere, l’Italia continua ad aver torto

L’Italia è specialista nel farsi del male da sola. La tendenza al masochismo è pulsione insopprimibile del suo teatrino politico. Così ieri l’apertura da parte della Commissione europea di una procedura procedura di infrazione contro l’Italia, per la violazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento entrata in vigore il 16 marzo 2013, è diventata in poche ore una rissa politica domestica che ci rende ancora più ridicoli in Europa. Il governo e membri della maggioranza hanno accusato il commissario europeo Tajani, uscente tra due settimane ed eletto al parlamento europeo, di aver “spinto” la procedura per propaganda politica. Lui ha naturalmente replicato senza mezzi termini, insieme a membri di Forza Italia.

Tutte parole sprecate. L’unica cosa che dovrebbe contare è il merito della faccenda: stranota da anni, l’enorme ritardo della pubblica amministrazione italiana nel pagare i suoi fornitori. Un ritardo contro il quale da tre anni i governi – Monti, Letta, Renzi – tentano di porre riparo. Prima di agitar polemiche, dovrebbero contare tre sole domande. Primo: abbiamo risolto il problema pregresso? Secondo: a parte il debito precedente, paghiamo oggi nei 30 giorni ordinari stabiliti dalla direttiva europea (si arriva a 60 giorni solo per alcuni casi eccezionali, come forniture sanitarie particolari)? Terzo: ha torto la Commissione?

I nudi fatti oggettivi, non le discutibili opinioni politiche, portano alle seguenti risposte. Primo: no, abbiamo fatto dei passi ma non abbiamo affatto risolto il pagamento del debito pregresso. Secondo: no, neppure per i debiti recenti, lo Stato paga secondo i tempi “europei”. Terzo: di conseguenza è inutile accusare Bruxelles, invece bisognerebbe prendere l’infrazione come una nuova leva per accelerare la soluzione del guaio. Inutile dire che 4-6 punti di Pil – di tanto variano le stime – di pagamenti alle imprese muterebbero sostanzialmente la loro condizione di liquidità, e la possibilità di far crescere di più l’Italia.

Il pregresso. Dopo 3 anni, lo Stato non è ancora riuscito a risolvere neppure il problema di una precisa metrica di quantificazione del debito accumulato. Quel che è certo è che a fine 2013 aveva pagato alle imprese fornitrici circa 23 miliardi di debito “storico”. Secondo il Tesoro, ne restavano non più di 53-55. Che Renzi, a Porta a porta ospite di Bruno Vespa, si impegnò a pagare integralmente entro settembre, e a inizio governo aveva detto entro luglio. Scommettendo, in caso contrario, di effettuare un pellegrinaggio a piedi in un santuario toscano. Attualmente, sembrerebbe che il pellegrinaggio toccherà a lui, non a Vespa che era incredulo e che accettò la scommessa.

Infatti nella relazione annuale del governatore Ignazio Visco, tre settimane fa, la Banca d’Italia ha precisato che restano altri 75 miliardi di debito pregresso. Certo, il Tesoro si riferisce ai debiti certi ed esigibili entro il 31 dicembre 2012, Bankitalia somma quelli del 2013 aggiungendo quelli fuori bilancio – il Tesoro non è in grado di dire quali spese siano state assunte per investimenti, che emergono solo per cassa, rispetto a quelle correnti che invece impegnano competenza e sono visibili sin dall’inizio – nonché quelli oggetto di contenzioso. Bankitalia ha spiegato inoltre che ai 90 miliardi della sua stima un anno prima – anche allora non “tornava” la cufra, rispetto a quella del Tesoro – sottrae certo i 23 circa pagati nel frattempo, compresi quello ceduti con clausola pro solvendo direttamente dalle imprese alle banche, e quelli ceduti pro soluto sempre alle banche con garanzia pubblica secondo le procedure intanto varate. Ma, appunto nel corso del 2013 altri debiti si sono accumulati. E vanno aggiunti, dice giustamente Bankitalia. Il governo ha masticato amaro, ma a Bankitalia non ha replicato. Anche perché via Nazionale ha riconosciuto che intanto i pagamenti avvenuti hanno prodotto benefici tangibili alle imprese interessate, che hanno impiegato la maggior parte dei rimborsi per ridurre l’esposizione verso banche o fornitori, e hanno più significativamente rivisto al rialzo i piani di investimento. Resta il fatto che sono almeno 75 i miliardi accumulati ancora da pagare. Anzi 100, dice la CGIA di Mestre, sommando ulteriormente una stima per le imprese mini e micro, sotto i 20 dipendenti. E l’aggiunta non è “disinvolta”, perché la stima Bankitalia è fatta sulla base di un’indagine campionaria che non “fotografa” le microimprese.

I tempi. Anche su questo, è stata Bankitalia la prima a riconoscere tre settimane fa che i tempi medi di pagamento pubblici alle imprese restano sideralmente lontani da quelli previsti dalla direttiva UE. Lo scorso anno sono stati pari a circa 180 giorni, in lieve riduzione rispetto ai 190 e oltre del 2012. Quanto ai tempi definiti nei contratti, se ci si limita a esaminare quelli stipulati nel 2013 successivamente all’entrata in vigore della direttiva Ue contro i ritardi di pagamento, ci si assesta comunque sopra i 60 giorni. Lontanissimi dai tempi con cui si paga non in Germania o Francia, ma ormai in Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia. Il che vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto. Nella sanità, continuano a sussistere casi concalamati di pagamenti a mille giorni. Io stesso ricevo lettere a radio24 da parte di fornitori, come tutti i giornali e i media.

I modi. Se malgrado le intenzioni dichiarate dai governi quel che si è fatto è troppo poco, si deve a tre problemi insoluti. Il primo, già accennato, è la persistenza di un’area grigia di debiti commerciali pubblici non contabilizzati perché non impegnano voci nei bilanci di competenza: si deve dunque fare riferimento a crediti esigibili presenti nei bilanci delle imprese, ma su questo il Tesoro ha sempre preferito una strategia conservativa, al fine di evitare di far emergere deficit aggiuntivo. I debiti presenti nei bilanci di competenza contribuiscono già al deficit pubblico dei rispettivi anni, fanno solo aumentare il debito pubblico quando vengono pagati per cassa ma non mettono in discussione il tetto di deficit contrattato con l’UE verso l’azzeramento strutturale del deficit. Di qui lo scontro rispetto al secondo problema: le procedure più spedite proposte fin dall’inizio dalla Cdp e dal suo presidente Bassanini, a Monti come a Letta come a Renzi. Di qui anche la proposta che avanza oggi Corrado Passera con la sua nuova formazione politica, creare una società veicolo garantita da Cdp che paghi subito tutto il pagabile con la copertura di titoli obbligazionari. Al Tesoro queste proposte non sono mai piaciute. E finora ha vinto il MEF. Il terzo problema è che diverse Regioni non si dimostrano all’altezza neanche di pagare quando lo Stato dà loro i fondi per farlo. A fine febbraio, su oltre 13 miliardi girati alle Regioni dallo Stato a questo fine, solo 10 erano stati utilizzati. I problemi si addensano in 5 Regioni: la peggiore la Sicilia, che da sola non ha usato un miliardo per il pagamento dei debiti, poi Campania (anche lei 936 milioni non utilizzati), poi Calabria, Sardegna e Molise.

E’ alla soluzione di tutto questo che bisogna lavorare alacremente. Invece di fare inutili polemiche, visto che lo Stato italiano continua nei fatti ad avere torto marcio.

 

18
Giu
2014

I privilegi intoccabili della Kasta “green”

Dopo tanto tuonare, piovve. Sembra che l’annunciato provvedimento “taglia bollette” sia in arrivo. La disposizione più controversa – a quel che si apprende – riguarda l’allungamento dei tempi di erogazione degli incentivi al fotovoltaico, con l’obiettivo di ridurne l’entità unitaria e il peso in bolletta. Read More

16
Giu
2014

Riforma PA: 3 cose che non tornano tra il tanto che manca, a cominciare dai testi

Quando il governo annunciò i 44 titoli della riforma della PA, commentai che l’intento annunciato era buono ma senza testi non si poteva giudicare. Il mio massimo rammarico è che a tre giorni dal Consiglio dei ministri che ha – meglio, “avrebbe” -varato i testi del decreto legge e del disegno di legge delega, siamo ancora più o meno nella stessa situazione.

Poiché non voglio candidarmi al ruolo di eterno bastian contrario “a prescindere”, mi limito a sottolineare – tra le tante – le tre questioni che mi paiono più preoccupanti.  Tenendo da parte l’intreccio legalità-opere pubbliche post Expo e Mose, a cui dedico una riflessione a parte.

Dalle notizie di cui disponiamo, la prima grave preoccupazione è la definizione stessa del perimetro di PA a cui si applicherebbe la riforma. In una bozza del ddl delega,c’è un elenco da far accapponare la pelle, almeno se la pelle è di un liberale. Perché nella PA si comprendono non solo le articolazioni centrali e periferiche dello Stato, enti e società controllate (non le quotate) ma anche, incredibile a dirsi, le università private, le scuole paritarie, gli ordini professionali.  Di punto in bianco, una enorme fetta di libera e autonoma espressione dei privati e della loro iniziativa finisce per diventare “Stato” a tutti gli effetti. E’ una vergogna.  Finora, solo il professor Francesco Forte ha protestato. Se davvero c’è questo nel testo, bisogna augurarsi che qualcuno in parlamento tenti di cassarlio soparanfo ad alzo zero.

La seconda preoccupazione riguarda una scomparsa: la definizione quantificata del risparmio programmatico prodotto da razionalizzazioni-accorpamenti della PA sembra del tutto uscito dall’orizzonte anche del disegno di legge delega. O meglio, se va bene resta l’obiettivo di un 1% annuale in meno sul totale della spesa. Ma quale spesa: quella pubblica complessiva – e saremmo a mezzo punto di Pil di spesa pubblica in meno, cioè 7,5 bn l’anno? Oppure un 1% delle sole spese di funzionamento generale degli apparati della PA, cosa che farebbe cadere il risparmio a qualche centinaio di milioni l’anno? Il criterio pare sia demandato a decreti del MEF a sei mesi dall’approvazione della legge delega in parlamento. Ma non doveva essere questo il punto di partenza, per fare finalmente un passo avanti serio per l’attuazione dei 30 miliardi di tagli-Cottarelli ancora da individuare e adottare nel prossimo biennio? E su che cosa tagliano, se non sull’intero perimetro organizzativo e funzionale della PA?

Tanto è vero che dai testi sarebbero saltati – secondo le indiscrezioni almeno – il più delle misure inizialmente indicate nei 44 titoli volte a contenere le spese attraverso accorpamenti. Niente unificazione non solo delle forze dell’ordine “minori” (e ci scusino i loro appartenenti per la definizione spiccia)  – polizia penitenziaria e forestali – ma neanche del procurement tra le cinque forze “maggiori”. Pare sparito l’elenco degli oltre 20 enti di ricerca pubblici da accorpare. E’ saltato l’accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile, e speriamo l’aumento annunciato del bollo auto che era stato contestualmente annunciato. Il taglio sbandierato 45 giorni fa a non oltre 40 di prefetture e sovrintendenze diventa un’indicazione nel ddl di “riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato su base regionale”, e auguri a voi se pensate che in parlamento su questa base sparirà davvero qualcosa. E le 34 mila stazioni appaltanti e di spesa pubbliche, si può sapere se nel provvedimento c’è una concreta indicazione numerica e di criterio per ridurle alle 40 che erano state infaticamente annunciate? E la riduzione delle muncipalizzate, che pare sparita anch’essa?

La terza preoccupazione riguarda i cosiddetti “esuberi”. Già la parola era sparita 45 giorni fa dal frasario governativo di Renzi e del ministro Madia.  Ma quanto si è capito delle 6 misure diverse – tra personale e dirigenti – annunciate in realtà PROPRIO per gestire gli esuberi, non offre ancora un quadro comprensibile.  Davvero per la mobilità volontaria si pensa di consentirla liberamente al dipendente pubblico senza che l’amministrazione in cui è addetto possa dire alcunché, se solo quella dal dipendente indicata come preferita ha più posti vacanti in organico di quella di provenienza? Non si rischia in questo modo un grande esodo dal Nord – che ha meno dipendenti pubblici – al Sud, che ne ha di più cioè troppi ( e non per questo non ha posti vacanti in organico…)?  E come è coperta, la possibilità di applicare il part time al dipendente pubblico a cui manchino soli 5 anni dalla pensione, garantendogli però un trattamento previdenziale pieno anche per gli ultimi 5 anni? Abbiamo capito che al ministro Madia pace molto questo “scivolamento” agevolato alla pensione perché consentirebbe di assumere circa 15 mila giovani (alcuni dicono in 5 anni, ma secondo altri s’intende invece ogni anno 15 mila per 5 anni), ma tutto ciò quanto costa e chi paga?   Dal creare risparmi, eccoci arrivati alle misure che aggravano il deficit?   Anche perché, guarda caso, i magistrati hanno ancora una volta strappato invece il diritto a restare in servizio oltre i 70 anni per altri 5 anni, a giudicare dalla conferenza stampa di Renzi…. (il bis della sentenza della Corte Costituzionale che ha stoppato il blocco degli aumenti retributivi automatici ai soli magistrati in tutta la PA, in quanto gli aumenti sarebbero “presidio di serenità indispensabile all’autonomia e all’indipendenza della magistratura”: io la considero una intollerabile vergogna corporativa).

Ottimo prevedere la riforma su base regionale e non più provinciale delle Camere di commercio, e il taglio degli oneri d’iscrizione per le imprese. Ma  l’obbligo di rendicontazione scritta e pubblica per ogni spesa sindacale, in un paese in cui le confederazioni in barba alla trasparenza non pubblicano un bilancio consolidato,  era stato annunciato 45 giorni fa e ora nella conferenza stampa di venerdì è sparito…è rimasto il taglio ai distacchi sindacali nella PA, e per questo i sindacati insorgono: altra bella prova di come siano estranei all’autodifesa corporativa, vero?

Ok ok, aspettiamo i testi. Ma è singolare davvero, un Paese in cui gli annunci contano più della sostanza. E i media tanto si abituano da riferire e scrivere come avendo testi che non hanno. O no?

11
Giu
2014

Né con Uber né con i taxi, ma per la concorrenza

Oggi nessuno pensa che sia possibile e legittimo proibire la vendita del sale nei minimarket, nei supermercati e nelle panetterie, eppure fino al 1975 il sale era un monopolio di stato e poteva essere acquistato solo nelle tabaccherie. Il processo di liberalizzazione non è stato semplice, per difendere l’esclusiva della vendita i tabaccai si sono opposti a quella “liberalizzazione selvaggia” con gli scioperi in nome del “servizio pubblico”, del “bene comune” e di altre diavolerie del genere. Stesso discorso per i telefoni: fino a non molti anni fa in Italia era proibito acquistare un apparecchio telefonico, potevano solo essere affittati dalla Sip, che aveva anche l’esclusiva sull’installazione delle prese telefoniche (a proposito, se avete apparecchi vecchi controllate che non stiate ancora pagando il noleggio alla Telecom). E così via per i voli aerei, le automobili, la luce, il gas, la radio, la televisione e chi più ne ha più ne metta. In ogni campo c’era una legge (e ce ne sono tante ancora oggi) che impediva l’ingresso di nuove imprese nel mercato e limitava la libertà di scelta dei cittadini/consumatori con motivazioni che sembrano assurde oggi, ma che all’epoca parevano addirittura razionali e alimentavano dotti dibattiti tra politici, economisti, sindacalisti e “parti sociali”.

Un dibattito del genere, che oggi pare sensato ma non lo sembrerà tra una decina di anni, è quello su Uber e i taxi. Oggi a Milano e in molte città d’Europa va in onda l’ennesimo sciopero dei taxi contro Uber, l’applicazione californiana che schiacciando un bottone sullo smartphone permette di essere raggiunti da un’autista e di essere trasportati nella città. Il servizio fa in parte concorrenza ai taxi ma è anche diverso per caratteristiche, prezzi (maggiori) e qualità (migliore, a detta di molti clienti). I tassisti scioperano in nome del “servizio pubblico”, della “sicurezza dei cittadini” e del “rispetto delle leggi”, in realtà per impedire che aumenti e si differenzi l’offerta e quindi per limitare la libertà d’impresa e la libertà di scelta dei consumatori. Ciò che è paradossale in questa vicenda è che i tassisti in questi mesi attraverso aggressioni, blocchi e scioperi selvaggi hanno violato le regole più elementari del “servizio pubblico”, che è l’unico motivo che giustifica il loro “monopolio”. La vicenda ha mostrato che concetti come la “sicurezza”, il “bene comune” e il “servizio pubblico” spesso sono solo pretesti per mantenere privilegi e rendite di posizione ed è evidente, anche ai cittadini, che il “servizio pubblico” non è al sicuro se può diventare ostaggio della corporazione che ne ha la concessione legale, il monopolio. È molto elevato il rischio che da servizio da garantire ai cittadini diventi un tributo dei cittadini garantito alla corporazione o al monopolista del caso. Allo sciopero dei tassisti, con un’eccezionale mossa di marketing, Uber ha risposto tagliando per la giornata di oggi le tariffe del 20%, in pratica rinunciando ai propri guadagni (il 20% è la commissione che Uber prende per ogni corsa dagli autisti convenzionati).

Chi svolgerà oggi il “servizio pubblico” a Milano, Uber o i taxi? In realtà nessuno dei due: è la concorrenza, sorella della libertà di scelta, quella che non ci obbliga più a guardare solo la Rai (anche se per ora tocca pagare comunque il canone), che non ci impone più di comprare il sale dai tabaccai e che non ci costringe ad affittare i telefoni dalla Sip.

11
Giu
2014

I numeri vanno guardati per quello che sono: per cori e tifo c’è lo stadio

Alcuni dati hanno fatti ieri impennare il barometro dell’ottimismo: la produzione industriale di aprile, il superindice Ocse, i consumi nel primo trimestre. I titoli dei siti e giornali online hanno diffuso ieri e oggi squilli ispirati alla ripresa. Si è aggiunto poi un quarto dato, ben noto, relativo al debito pubblico, con una nota di pessimismo da parte dell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Certo, di ottimismo c’è bisogno. E subito il premier dall’Asia ha rilanciato contro i professionisti del pessimismo. Tuttavia osservatori e media non dovrebbero cadere nella trappola dei cori da stadio. I numeri vannio letti e interpretati per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero. Spiace anche osservare che sui social media ormai richiamare alla realtà espone a raffiche di insulti. Ognuno guardi pure le cose come più gli piace, ma è il dovere, non il piacere, che spinge a dire che qualche timido segnale c’è, ma è ancora del tutto fuori luogo intonare peana e marce trionfali. Vediamo i dati uno per uno.

Produzione industriale. Il consenso delle attese era per un andamento della produzione industriale in aprile positivo su marzo per un più 0,4%. Invece il dato congiunturale ha visto un aumento dello 0,7%, e più 1,6% sullo stesso mese 2013. Se andiamo a osservare i settori che se la cavano meglio, troviamo la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchine e impianti (+7,1%), l’industria alimentare, delle bevande e tabacco (+5,8%), e l’automotive (+3,4%). Segni negativi ancora molto forti nella raffinazione di prodotti petroliferi (-8,1%), apparecchiature elettriche e per uso domestico non elettriche (-6,7%), e fornitura di energia (-4,9%).

Tuttavia dobbiamo guardare al dato di aprile senza decontestualizzarlo dal trimestre precedente, dal trascinamento già accumulato sulla crescita attesa nel 2014, e dai punti di partenza del precrisi. Se consideriamo tutti questi aspetti, il più 0,7% congiunturale di produzione industriale di aprile è certo benvenuto, ma occorrono molte altre rondini per far primavera. Ricordate che il primo trimestre del PIL italiano si è chiuso a un meno 0,1% sul precedente e a un meno 0,5% su base annuale precedente, con un effetto tendenziale di trascinamento sul Pil 2014 pari a meno 0,2%. Il che significa che rispetto allo 0,8% di PIl atteso nelle previsioni del governo per il 2014 manca ancora un punto pieno di PIL, da realizzare da aprile in poi. Al dato negativo del primo trimestre ha concorso una prudente diminuzione delle scorte accumulate dalle imprese nel trimestre precedente (nell’ultimo trimestre 2013 l’attività industriale aveva recuperato uno 0,7% sul precedente), dovuta al fatto che le attese di crescita della domanda interna non sono migliorate come ci si attendeva, mentre il commercio mondiale continua a tossicchiare. Ecco perché la produzione industriale ad aprile può iniziare a ricostituire scorte. Ma il punto è quel che verrà dopo. Per maggio, le prime elaborazioni del Centro Studi di Confindustria prevedono una crescita della produzione industriale di nuovo a quota zero, rispetto alla ripresa di aprile. In altre parole continuiamo ad avere un motore che al primo salir di giri ritorna poi verso il basso. E non dimenticate, infine, che compreso il dato positivo di aprile che non si vedeva dal 2011, cioè prima dell’esplosione della seconda fase della crisi, quella del rischi sovrano europeo, restiamo indietro rispetto alla produzione industrial precrisi di aprile 2008 di ben il 23,9%. A questi ritmi servono anni e anni, per recuperare il gap.

Superindice OCSE. L’Italia è stato l’unico paese del G7 a registrare un miglioramento in aprile dell’indicatore elaborato dall’Ocse. E’ salito a 101,6 da 101,4 in marzo. Su base annua l’incremento è del 2,4%, rispetto al +1,05% della Germania. Mentre l’indice scende o sale meno del previsto per Cina, Brasile e Russia, resta stabile negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna, stenta in Giappone. L’Italia è promossa, hanno titolato in molti. Dimenticando quel che accadde nel terzo trimestre 2009: anche allora l’Italia fu in testa come miglioramento del superindice Ocse, ma quel che avvenne dopo ancora non finisce di farci pangere. E’ allora il caso di capire che cosa sia, questo superindice. Il Composite Leading Indicator è una rielaborazione di informazioni qualitative sul futuro, per individuare entro sei-nove mesi l’andamento del PIL e soprattutto il passaggio da ripresa a recessione o viceversa. E’ un indicatore di tendenza, non un metro dell’intensità di ripresa comparata. Per di più, per ogni paese è elaborato sommando indicatori diversi. E di conseguenza le comparazioni devono essere ancora più caute. Per l’Italia, il superindice contiene sei voci, tre relative alle aspettative future (la fiducia delle famiglie e le aspettative delle imprese manifatturiere sulla loro produzione futura e sul loro portafoglio ordini), due dall’Istat (i nuovi ordini al netto delle variazioni del livello dei prezzi e le ragioni di scambio) e uno della Banca d’Italia (il tasso di interesse sul mercato interbancario a tre mesi). Altri Paesi seguono tutt’altri criteri, per esempio la Germania comprende il portafoglio di ordini esteri, la Spagna l’afflusso dei turisti. Ma per quanto questi indicatori futuri siano elementi di costruzione della fiducia, non è affatto detto che poi si avverino. Lo stesso Ocse scrive che«sebbene i segni di espansione siano evidenti in diversi Paesi, devono essere interpretati con cautela. Il miglioramento atteso dell’attività economica, in rapporto al suo livello potenziale di lungo termine, può essere parzialmente attribuito a un decremento di questo stesso livello potenziale di lungo termine stimato e non soltanto al miglioramento dell’attività economica in sé». Cioè a un aumento del CLI positivo può corrispondere dopo 6-9 mesi un andamento del PIL molto più ridotto. E quanto sia ridotto il nostro, lo dicono i dati Istat che abbiamo citato prima.

Consumi. Il dato si commenta da solo. Nel primo trimestre 2014 la spesa delle famiglie residenti ha segna un lievissimo aumento, pressochè impercettibile, pari allo 0,1% rispetto al trimestre precedente. In termini tendenziali, cioè proiettati sul futuro, il dato risulta invece ancora negativo (-0,6%). Il mio consiglio è seguire sempre l’indicatore del commercio elaborato dal centro studi di Confcommercio: ai ritmi attuali di ripresa così asfittici dei consumi, occorrono 11 anni prima di tornare ai livelli del 2007-inizio 2008.

Debito pubblico. Su questo, la nota di S&P non dice davvero nulla di nuovo. Il nostro 134% attuale di debito pubblico rispetto al PIL ha registrato negli anni di crisi il minor incremento dopo la Slovenia, perché noi lo avevamo già al 109% quando entrammo nell’euro e al 116% quando esplose l’eurocrisi, cioè molto più in altro degli altri paesi dell’eurozona. Il punto è che da noi il debito continua a salire, per effetto della bassa crescita nominale – leggi inflazione – e della assente crescita reale. Ecco perché ammonirci sul fatto che l’levato debito «potrebbe bloccare la ripresa per anni» è cosa che la politica italiana dovrebbe sapere bene. Se non abbassiamo la spesa pubblica per tramutarla in sgravi fiscali a impresa e lavoro, credere di abbatterlo a colpi di avanzi primari del 5% del PIL ogni anno per via di strangolamento tributario deprime lo sviluppo e i redditi. Non resta che sperare che Renzi e Padoan lo sappiano a memoria, e si accingano a fare davvero quanto finora è stato promesso.

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9
Giu
2014

Basta spalmare finti salari di produttività a tutti nella PA, Roma sia banco di prova

Ci sono due modi di considerare lo sciopero dei 23 mila dipendenti comunali romani che venerdì ha portato al blocco dei servizi municipali. Il primo è quello del colore, a cui è molto facile indulgere che spingendo sul pedale dell’indignazione, e facendo di tutt’erbe un fascio, a cominciare dai dipendenti del Campidoglio e naturalmente del sindaco Marino che ha i suoi bei guai e le sue pesanti responsabilità, ma non su questo come vedremo. Il secondo modo è di seguire la via della serietà. Cercare di capire di che cosa stiamo parlando, se sia un fenomeno patologico di Roma, e come vada affrontato in concreto: non con invettive e indignazioni contrapposte, delle quali, tanto per cambiare, pagherebbero l’ulteriore prezzo i già tartassati cittadini della Capitale.

Lo scontro è sul “salario accessorio”. Nasce come salario di risultato, cioè come componente della retribuzione non fissa ed eguale per tutti secondo qualifica e come prescritto dai contratti nazionali, di categoria, bensì legata all’ottenimento di determinati risultati. Un salario aggiuntivo di produttività, dunque. Commisurato a obiettivi stabiliti ex ante, e giudicato dai risultati concreti ottenuti secondo l’operato delle diverse unità organizzative della Pa, e individualmente.

Per gli oltre 23 mila dipendenti del Campidoglio– e per i più degli oltre37 mila dipendenti delle municipalizzate romane – non è così. I 200-250 euro di “salario accessorio” sono divenuti negli anni una componente fissa della retribuzione di ogni lavoratore.

Prima domanda. L’ha deciso il sindaco Marino? No. E’ l’effetto di una lunga deriva storica in cui giunte di destra e sinistra, in pieno accordo coi sindacati, hanno aggirato e snaturato la natura “di produttività” del salario accessorio. Per trasformarlo di comune accordo nella modalità attraverso la quale aumentare retribuzioni di base che nei contratti non aumentavano, e che anzi venivano stoppate anche negli scatti automatici per il recupero dell’inflazione, in questi anni di crisi.

Seconda domanda. E’ un andazzo che riguarda solo Roma? Anche a questa domanda la risposta è: no, nemmeno per idea. Avviene non solo in moltissimi Comuni e Regioni italiane, ma in realtà nel più della pubblica amministrazione italiana. A cominciare dalle diverse fasce di dirigenti pubblici, centrali e periferici, i primi ai quali bisognerebbe negare ogni “spalmatura per tutti” del salario di produttività, visto che dalle loro decisioni dipende il più dell’efficienza dei servizi rivolti ai cittadini, il cui miglioramento è il primo parametro da considerare nella PA.

Terza domanda. E’ un questione seria? Sì, serissima. Perché il recupero di produttività della PA è fondamentale per rilanciare la declinante produttività nazionale, visto quanto pesa la componente pubblica nei servizi. E perché la necessità è due volte urgente, visto che bisogna razionalizzare e ridurre la spesa pubblica. E il modo migliore per farlo non è quello dei tagli lineari, ma di commisurare denari a risultati e necessità.

Quarta domanda. Ma allora perché il guaio scoppia solo a Roma? Perché come è ovvio la razionalizzazione e i tagli cominciano dove l’emergenza debito e deficit è più grave. Anche se cominciano in modo che resta incomprensibilmente difforme nel territorio nazionale: vedi il caso della recentissima cosiddetta “spending review” della regione Sicilia, che continua ad assicurare ai propri stenografi un tetto retributivo di 200 mila euro l’anno. Sta di fatto che la bocciatura venuta dal Ministero dell’Economia per lo “spalma-tutti” del salario di risultato a Roma vincola il sindaco Marino, per gli obblighi derivanti dal decreto salva-Roma.

A questo punto il bivio, per la politica e per i sindacati nazionali – ripetiamo “nazionali”, non solo romani – sta ora tra il fare a scaricabarile fingendo di ignorare le responsabilità comuni di anni e anni, oppure seriamente trattare e varare una soluzione che faccia di Roma un banco di prova nazionale per il recupero di una efficienza pubblica vera, cioè quantificabile come avviene in ogni azienda e rapporti di lavoro privati.

Non c’è bisogno di alcun riforma di legge. Nella realtà, le norme che presiedono all’attribuzione del salario di risultato pubblico, alla sua misurazione, alla vigilanza sulla sua aggiudicazione, ai compiti spettanti al direttore generale o – se manca – al segretario generale del Comune –  e ai dirigenti a capo delle singole funzioni, sono tutte scritte da anni. Con tanto di blocchi di dettagliate circolari interpretative e attuative da parte della vecchia Commissione di Vigilanza sulla Trasparenza e Integrità delle Amministrazioni pubbliche, la vecchia CIVIT che diventa oggi Autorità Anticorruzione guidata dal dovunque arci-invocato Raffaele Cantone. Non c’è proprio niente da scoprire, né da aggiungere. Basta attuarle, tutte quelle norme. E per attuarle, appunto, politica e sindacati devono insieme capire che si tratta di girare pagina per sempre, rispetto alle fette di merendina – dire “torta” sarebbe troppo, e mancare di rispetto ai lavoratori pubblici romani – uguali per tutti a prescindere dai servizi offerti.

E’ esattamente questo, che a Roma può e anzi deve oggi accadere. Poiché siamo in Italia, com’è forse inevitabile bisognerà pensare a un meccanismo di transizione, per evitare che quei 200 euro scompaiano da un mese all’altro dalle tasche di dipendenti non in linea coi risultati prefissi, ma comunque del tutto incolpevoli del fatto che giunte e sindacati abbiano deciso per anni di rimpinguare così gli stipendi di tutti. L’essenziale è che non si perda un’occasione che potrebbe essere addirittura storica. Che i sindacati non pretendano di rinviare la palla in tribuna, come sembra vogliano fare. E che, soprattutto, sia una soluzione da additare al resto d’Italia come l’inizio di un nuovo capitolo, di una PA fiera finalmente di far meglio, e capace di pagare meglio chi lo fa. Lo so, forse è solo un sogno. Del resto, l’Impero Britannico amministrò l’India attraverso l’Indian Civil Service, che non superò mai se non di pochissimo e solo alla fine i mille dipendenti, 60 volte meno dei dipendenti del Campidoglio e delle sue municipalizzate.

 

7
Giu
2014

L’aumento della spesa pubblica e la falsa austerity degli Stati

C’è un mito che aleggia sopra l’Europa e in particolare in Italia: l’austerity. Ma austerity cosa significa? Austerity delle famiglie e delle imprese o austerity da parte dello Stato?

Gli ultimi dati dell’ufficio di statistica dell’Unione Europea, Eurostat, smentiscono chiaramente quello che tutti i governi vanno ripetendo da anni.

Gli Stati hanno aumentato la loro spesa pubblica, anche nei famosi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). Altro che austerity!

Questo aumento della spesa pubblica ha provocato uno squilibrio nei conti pubblici. Uno squilibrio che le famiglie e le imprese in qualche modo devono colmare per non fare fallire lo Stato sotto l’eccessivo deficit. Read More

6
Giu
2014

Expo, Mose, corruzione: una questione di ipertrofia regolatoria e spesa pubblica

Con periodicità costante, tornano gli scandali della corruzione negli appalti pubblici.

In questa sola primavera, due momenti importanti della contrattualistica pubblica, l’Expo di Milano e il Mose di Venezia, sono balzati alla cronaca per aver rappresentato l’occasione di imponenti, quanto a diffusione e entità, ladrocini.

Il Presidente del Consiglio ha detto ieri che il problema sono appunto i ladri, non le regole. Ma – come saggezza popolare insegna – sono le occasioni che fanno l’uomo ladro.

Secondo stime della Commissione europea gli stati dell’Unione spendono ogni anno in appalti pubblici circa un quinto del loro PIL. Se non vogliamo recitare la parte di Alice nel paese delle meraviglie, è chiaro che il flusso economico generato dagli appalti pubblici, unito al fatto che gli appalti sono un settore iperregolato dove ogni passaggio di autorizzazione, controllo e verifica implica una certa discrezionalità amministrativa, rende il settore a forte rischio di corruzione.

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