16
Giu
2014

Riforma PA: 3 cose che non tornano tra il tanto che manca, a cominciare dai testi

Quando il governo annunciò i 44 titoli della riforma della PA, commentai che l’intento annunciato era buono ma senza testi non si poteva giudicare. Il mio massimo rammarico è che a tre giorni dal Consiglio dei ministri che ha – meglio, “avrebbe” -varato i testi del decreto legge e del disegno di legge delega, siamo ancora più o meno nella stessa situazione.

Poiché non voglio candidarmi al ruolo di eterno bastian contrario “a prescindere”, mi limito a sottolineare – tra le tante – le tre questioni che mi paiono più preoccupanti.  Tenendo da parte l’intreccio legalità-opere pubbliche post Expo e Mose, a cui dedico una riflessione a parte.

Dalle notizie di cui disponiamo, la prima grave preoccupazione è la definizione stessa del perimetro di PA a cui si applicherebbe la riforma. In una bozza del ddl delega,c’è un elenco da far accapponare la pelle, almeno se la pelle è di un liberale. Perché nella PA si comprendono non solo le articolazioni centrali e periferiche dello Stato, enti e società controllate (non le quotate) ma anche, incredibile a dirsi, le università private, le scuole paritarie, gli ordini professionali.  Di punto in bianco, una enorme fetta di libera e autonoma espressione dei privati e della loro iniziativa finisce per diventare “Stato” a tutti gli effetti. E’ una vergogna.  Finora, solo il professor Francesco Forte ha protestato. Se davvero c’è questo nel testo, bisogna augurarsi che qualcuno in parlamento tenti di cassarlio soparanfo ad alzo zero.

La seconda preoccupazione riguarda una scomparsa: la definizione quantificata del risparmio programmatico prodotto da razionalizzazioni-accorpamenti della PA sembra del tutto uscito dall’orizzonte anche del disegno di legge delega. O meglio, se va bene resta l’obiettivo di un 1% annuale in meno sul totale della spesa. Ma quale spesa: quella pubblica complessiva – e saremmo a mezzo punto di Pil di spesa pubblica in meno, cioè 7,5 bn l’anno? Oppure un 1% delle sole spese di funzionamento generale degli apparati della PA, cosa che farebbe cadere il risparmio a qualche centinaio di milioni l’anno? Il criterio pare sia demandato a decreti del MEF a sei mesi dall’approvazione della legge delega in parlamento. Ma non doveva essere questo il punto di partenza, per fare finalmente un passo avanti serio per l’attuazione dei 30 miliardi di tagli-Cottarelli ancora da individuare e adottare nel prossimo biennio? E su che cosa tagliano, se non sull’intero perimetro organizzativo e funzionale della PA?

Tanto è vero che dai testi sarebbero saltati – secondo le indiscrezioni almeno – il più delle misure inizialmente indicate nei 44 titoli volte a contenere le spese attraverso accorpamenti. Niente unificazione non solo delle forze dell’ordine “minori” (e ci scusino i loro appartenenti per la definizione spiccia)  – polizia penitenziaria e forestali – ma neanche del procurement tra le cinque forze “maggiori”. Pare sparito l’elenco degli oltre 20 enti di ricerca pubblici da accorpare. E’ saltato l’accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile, e speriamo l’aumento annunciato del bollo auto che era stato contestualmente annunciato. Il taglio sbandierato 45 giorni fa a non oltre 40 di prefetture e sovrintendenze diventa un’indicazione nel ddl di “riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato su base regionale”, e auguri a voi se pensate che in parlamento su questa base sparirà davvero qualcosa. E le 34 mila stazioni appaltanti e di spesa pubbliche, si può sapere se nel provvedimento c’è una concreta indicazione numerica e di criterio per ridurle alle 40 che erano state infaticamente annunciate? E la riduzione delle muncipalizzate, che pare sparita anch’essa?

La terza preoccupazione riguarda i cosiddetti “esuberi”. Già la parola era sparita 45 giorni fa dal frasario governativo di Renzi e del ministro Madia.  Ma quanto si è capito delle 6 misure diverse – tra personale e dirigenti – annunciate in realtà PROPRIO per gestire gli esuberi, non offre ancora un quadro comprensibile.  Davvero per la mobilità volontaria si pensa di consentirla liberamente al dipendente pubblico senza che l’amministrazione in cui è addetto possa dire alcunché, se solo quella dal dipendente indicata come preferita ha più posti vacanti in organico di quella di provenienza? Non si rischia in questo modo un grande esodo dal Nord – che ha meno dipendenti pubblici – al Sud, che ne ha di più cioè troppi ( e non per questo non ha posti vacanti in organico…)?  E come è coperta, la possibilità di applicare il part time al dipendente pubblico a cui manchino soli 5 anni dalla pensione, garantendogli però un trattamento previdenziale pieno anche per gli ultimi 5 anni? Abbiamo capito che al ministro Madia pace molto questo “scivolamento” agevolato alla pensione perché consentirebbe di assumere circa 15 mila giovani (alcuni dicono in 5 anni, ma secondo altri s’intende invece ogni anno 15 mila per 5 anni), ma tutto ciò quanto costa e chi paga?   Dal creare risparmi, eccoci arrivati alle misure che aggravano il deficit?   Anche perché, guarda caso, i magistrati hanno ancora una volta strappato invece il diritto a restare in servizio oltre i 70 anni per altri 5 anni, a giudicare dalla conferenza stampa di Renzi…. (il bis della sentenza della Corte Costituzionale che ha stoppato il blocco degli aumenti retributivi automatici ai soli magistrati in tutta la PA, in quanto gli aumenti sarebbero “presidio di serenità indispensabile all’autonomia e all’indipendenza della magistratura”: io la considero una intollerabile vergogna corporativa).

Ottimo prevedere la riforma su base regionale e non più provinciale delle Camere di commercio, e il taglio degli oneri d’iscrizione per le imprese. Ma  l’obbligo di rendicontazione scritta e pubblica per ogni spesa sindacale, in un paese in cui le confederazioni in barba alla trasparenza non pubblicano un bilancio consolidato,  era stato annunciato 45 giorni fa e ora nella conferenza stampa di venerdì è sparito…è rimasto il taglio ai distacchi sindacali nella PA, e per questo i sindacati insorgono: altra bella prova di come siano estranei all’autodifesa corporativa, vero?

Ok ok, aspettiamo i testi. Ma è singolare davvero, un Paese in cui gli annunci contano più della sostanza. E i media tanto si abituano da riferire e scrivere come avendo testi che non hanno. O no?

11
Giu
2014

Né con Uber né con i taxi, ma per la concorrenza

Oggi nessuno pensa che sia possibile e legittimo proibire la vendita del sale nei minimarket, nei supermercati e nelle panetterie, eppure fino al 1975 il sale era un monopolio di stato e poteva essere acquistato solo nelle tabaccherie. Il processo di liberalizzazione non è stato semplice, per difendere l’esclusiva della vendita i tabaccai si sono opposti a quella “liberalizzazione selvaggia” con gli scioperi in nome del “servizio pubblico”, del “bene comune” e di altre diavolerie del genere. Stesso discorso per i telefoni: fino a non molti anni fa in Italia era proibito acquistare un apparecchio telefonico, potevano solo essere affittati dalla Sip, che aveva anche l’esclusiva sull’installazione delle prese telefoniche (a proposito, se avete apparecchi vecchi controllate che non stiate ancora pagando il noleggio alla Telecom). E così via per i voli aerei, le automobili, la luce, il gas, la radio, la televisione e chi più ne ha più ne metta. In ogni campo c’era una legge (e ce ne sono tante ancora oggi) che impediva l’ingresso di nuove imprese nel mercato e limitava la libertà di scelta dei cittadini/consumatori con motivazioni che sembrano assurde oggi, ma che all’epoca parevano addirittura razionali e alimentavano dotti dibattiti tra politici, economisti, sindacalisti e “parti sociali”.

Un dibattito del genere, che oggi pare sensato ma non lo sembrerà tra una decina di anni, è quello su Uber e i taxi. Oggi a Milano e in molte città d’Europa va in onda l’ennesimo sciopero dei taxi contro Uber, l’applicazione californiana che schiacciando un bottone sullo smartphone permette di essere raggiunti da un’autista e di essere trasportati nella città. Il servizio fa in parte concorrenza ai taxi ma è anche diverso per caratteristiche, prezzi (maggiori) e qualità (migliore, a detta di molti clienti). I tassisti scioperano in nome del “servizio pubblico”, della “sicurezza dei cittadini” e del “rispetto delle leggi”, in realtà per impedire che aumenti e si differenzi l’offerta e quindi per limitare la libertà d’impresa e la libertà di scelta dei consumatori. Ciò che è paradossale in questa vicenda è che i tassisti in questi mesi attraverso aggressioni, blocchi e scioperi selvaggi hanno violato le regole più elementari del “servizio pubblico”, che è l’unico motivo che giustifica il loro “monopolio”. La vicenda ha mostrato che concetti come la “sicurezza”, il “bene comune” e il “servizio pubblico” spesso sono solo pretesti per mantenere privilegi e rendite di posizione ed è evidente, anche ai cittadini, che il “servizio pubblico” non è al sicuro se può diventare ostaggio della corporazione che ne ha la concessione legale, il monopolio. È molto elevato il rischio che da servizio da garantire ai cittadini diventi un tributo dei cittadini garantito alla corporazione o al monopolista del caso. Allo sciopero dei tassisti, con un’eccezionale mossa di marketing, Uber ha risposto tagliando per la giornata di oggi le tariffe del 20%, in pratica rinunciando ai propri guadagni (il 20% è la commissione che Uber prende per ogni corsa dagli autisti convenzionati).

Chi svolgerà oggi il “servizio pubblico” a Milano, Uber o i taxi? In realtà nessuno dei due: è la concorrenza, sorella della libertà di scelta, quella che non ci obbliga più a guardare solo la Rai (anche se per ora tocca pagare comunque il canone), che non ci impone più di comprare il sale dai tabaccai e che non ci costringe ad affittare i telefoni dalla Sip.

11
Giu
2014

I numeri vanno guardati per quello che sono: per cori e tifo c’è lo stadio

Alcuni dati hanno fatti ieri impennare il barometro dell’ottimismo: la produzione industriale di aprile, il superindice Ocse, i consumi nel primo trimestre. I titoli dei siti e giornali online hanno diffuso ieri e oggi squilli ispirati alla ripresa. Si è aggiunto poi un quarto dato, ben noto, relativo al debito pubblico, con una nota di pessimismo da parte dell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Certo, di ottimismo c’è bisogno. E subito il premier dall’Asia ha rilanciato contro i professionisti del pessimismo. Tuttavia osservatori e media non dovrebbero cadere nella trappola dei cori da stadio. I numeri vannio letti e interpretati per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero. Spiace anche osservare che sui social media ormai richiamare alla realtà espone a raffiche di insulti. Ognuno guardi pure le cose come più gli piace, ma è il dovere, non il piacere, che spinge a dire che qualche timido segnale c’è, ma è ancora del tutto fuori luogo intonare peana e marce trionfali. Vediamo i dati uno per uno.

Produzione industriale. Il consenso delle attese era per un andamento della produzione industriale in aprile positivo su marzo per un più 0,4%. Invece il dato congiunturale ha visto un aumento dello 0,7%, e più 1,6% sullo stesso mese 2013. Se andiamo a osservare i settori che se la cavano meglio, troviamo la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo esclusi macchine e impianti (+7,1%), l’industria alimentare, delle bevande e tabacco (+5,8%), e l’automotive (+3,4%). Segni negativi ancora molto forti nella raffinazione di prodotti petroliferi (-8,1%), apparecchiature elettriche e per uso domestico non elettriche (-6,7%), e fornitura di energia (-4,9%).

Tuttavia dobbiamo guardare al dato di aprile senza decontestualizzarlo dal trimestre precedente, dal trascinamento già accumulato sulla crescita attesa nel 2014, e dai punti di partenza del precrisi. Se consideriamo tutti questi aspetti, il più 0,7% congiunturale di produzione industriale di aprile è certo benvenuto, ma occorrono molte altre rondini per far primavera. Ricordate che il primo trimestre del PIL italiano si è chiuso a un meno 0,1% sul precedente e a un meno 0,5% su base annuale precedente, con un effetto tendenziale di trascinamento sul Pil 2014 pari a meno 0,2%. Il che significa che rispetto allo 0,8% di PIl atteso nelle previsioni del governo per il 2014 manca ancora un punto pieno di PIL, da realizzare da aprile in poi. Al dato negativo del primo trimestre ha concorso una prudente diminuzione delle scorte accumulate dalle imprese nel trimestre precedente (nell’ultimo trimestre 2013 l’attività industriale aveva recuperato uno 0,7% sul precedente), dovuta al fatto che le attese di crescita della domanda interna non sono migliorate come ci si attendeva, mentre il commercio mondiale continua a tossicchiare. Ecco perché la produzione industriale ad aprile può iniziare a ricostituire scorte. Ma il punto è quel che verrà dopo. Per maggio, le prime elaborazioni del Centro Studi di Confindustria prevedono una crescita della produzione industriale di nuovo a quota zero, rispetto alla ripresa di aprile. In altre parole continuiamo ad avere un motore che al primo salir di giri ritorna poi verso il basso. E non dimenticate, infine, che compreso il dato positivo di aprile che non si vedeva dal 2011, cioè prima dell’esplosione della seconda fase della crisi, quella del rischi sovrano europeo, restiamo indietro rispetto alla produzione industrial precrisi di aprile 2008 di ben il 23,9%. A questi ritmi servono anni e anni, per recuperare il gap.

Superindice OCSE. L’Italia è stato l’unico paese del G7 a registrare un miglioramento in aprile dell’indicatore elaborato dall’Ocse. E’ salito a 101,6 da 101,4 in marzo. Su base annua l’incremento è del 2,4%, rispetto al +1,05% della Germania. Mentre l’indice scende o sale meno del previsto per Cina, Brasile e Russia, resta stabile negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna, stenta in Giappone. L’Italia è promossa, hanno titolato in molti. Dimenticando quel che accadde nel terzo trimestre 2009: anche allora l’Italia fu in testa come miglioramento del superindice Ocse, ma quel che avvenne dopo ancora non finisce di farci pangere. E’ allora il caso di capire che cosa sia, questo superindice. Il Composite Leading Indicator è una rielaborazione di informazioni qualitative sul futuro, per individuare entro sei-nove mesi l’andamento del PIL e soprattutto il passaggio da ripresa a recessione o viceversa. E’ un indicatore di tendenza, non un metro dell’intensità di ripresa comparata. Per di più, per ogni paese è elaborato sommando indicatori diversi. E di conseguenza le comparazioni devono essere ancora più caute. Per l’Italia, il superindice contiene sei voci, tre relative alle aspettative future (la fiducia delle famiglie e le aspettative delle imprese manifatturiere sulla loro produzione futura e sul loro portafoglio ordini), due dall’Istat (i nuovi ordini al netto delle variazioni del livello dei prezzi e le ragioni di scambio) e uno della Banca d’Italia (il tasso di interesse sul mercato interbancario a tre mesi). Altri Paesi seguono tutt’altri criteri, per esempio la Germania comprende il portafoglio di ordini esteri, la Spagna l’afflusso dei turisti. Ma per quanto questi indicatori futuri siano elementi di costruzione della fiducia, non è affatto detto che poi si avverino. Lo stesso Ocse scrive che«sebbene i segni di espansione siano evidenti in diversi Paesi, devono essere interpretati con cautela. Il miglioramento atteso dell’attività economica, in rapporto al suo livello potenziale di lungo termine, può essere parzialmente attribuito a un decremento di questo stesso livello potenziale di lungo termine stimato e non soltanto al miglioramento dell’attività economica in sé». Cioè a un aumento del CLI positivo può corrispondere dopo 6-9 mesi un andamento del PIL molto più ridotto. E quanto sia ridotto il nostro, lo dicono i dati Istat che abbiamo citato prima.

Consumi. Il dato si commenta da solo. Nel primo trimestre 2014 la spesa delle famiglie residenti ha segna un lievissimo aumento, pressochè impercettibile, pari allo 0,1% rispetto al trimestre precedente. In termini tendenziali, cioè proiettati sul futuro, il dato risulta invece ancora negativo (-0,6%). Il mio consiglio è seguire sempre l’indicatore del commercio elaborato dal centro studi di Confcommercio: ai ritmi attuali di ripresa così asfittici dei consumi, occorrono 11 anni prima di tornare ai livelli del 2007-inizio 2008.

Debito pubblico. Su questo, la nota di S&P non dice davvero nulla di nuovo. Il nostro 134% attuale di debito pubblico rispetto al PIL ha registrato negli anni di crisi il minor incremento dopo la Slovenia, perché noi lo avevamo già al 109% quando entrammo nell’euro e al 116% quando esplose l’eurocrisi, cioè molto più in altro degli altri paesi dell’eurozona. Il punto è che da noi il debito continua a salire, per effetto della bassa crescita nominale – leggi inflazione – e della assente crescita reale. Ecco perché ammonirci sul fatto che l’levato debito «potrebbe bloccare la ripresa per anni» è cosa che la politica italiana dovrebbe sapere bene. Se non abbassiamo la spesa pubblica per tramutarla in sgravi fiscali a impresa e lavoro, credere di abbatterlo a colpi di avanzi primari del 5% del PIL ogni anno per via di strangolamento tributario deprime lo sviluppo e i redditi. Non resta che sperare che Renzi e Padoan lo sappiano a memoria, e si accingano a fare davvero quanto finora è stato promesso.

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9
Giu
2014

Basta spalmare finti salari di produttività a tutti nella PA, Roma sia banco di prova

Ci sono due modi di considerare lo sciopero dei 23 mila dipendenti comunali romani che venerdì ha portato al blocco dei servizi municipali. Il primo è quello del colore, a cui è molto facile indulgere che spingendo sul pedale dell’indignazione, e facendo di tutt’erbe un fascio, a cominciare dai dipendenti del Campidoglio e naturalmente del sindaco Marino che ha i suoi bei guai e le sue pesanti responsabilità, ma non su questo come vedremo. Il secondo modo è di seguire la via della serietà. Cercare di capire di che cosa stiamo parlando, se sia un fenomeno patologico di Roma, e come vada affrontato in concreto: non con invettive e indignazioni contrapposte, delle quali, tanto per cambiare, pagherebbero l’ulteriore prezzo i già tartassati cittadini della Capitale.

Lo scontro è sul “salario accessorio”. Nasce come salario di risultato, cioè come componente della retribuzione non fissa ed eguale per tutti secondo qualifica e come prescritto dai contratti nazionali, di categoria, bensì legata all’ottenimento di determinati risultati. Un salario aggiuntivo di produttività, dunque. Commisurato a obiettivi stabiliti ex ante, e giudicato dai risultati concreti ottenuti secondo l’operato delle diverse unità organizzative della Pa, e individualmente.

Per gli oltre 23 mila dipendenti del Campidoglio– e per i più degli oltre37 mila dipendenti delle municipalizzate romane – non è così. I 200-250 euro di “salario accessorio” sono divenuti negli anni una componente fissa della retribuzione di ogni lavoratore.

Prima domanda. L’ha deciso il sindaco Marino? No. E’ l’effetto di una lunga deriva storica in cui giunte di destra e sinistra, in pieno accordo coi sindacati, hanno aggirato e snaturato la natura “di produttività” del salario accessorio. Per trasformarlo di comune accordo nella modalità attraverso la quale aumentare retribuzioni di base che nei contratti non aumentavano, e che anzi venivano stoppate anche negli scatti automatici per il recupero dell’inflazione, in questi anni di crisi.

Seconda domanda. E’ un andazzo che riguarda solo Roma? Anche a questa domanda la risposta è: no, nemmeno per idea. Avviene non solo in moltissimi Comuni e Regioni italiane, ma in realtà nel più della pubblica amministrazione italiana. A cominciare dalle diverse fasce di dirigenti pubblici, centrali e periferici, i primi ai quali bisognerebbe negare ogni “spalmatura per tutti” del salario di produttività, visto che dalle loro decisioni dipende il più dell’efficienza dei servizi rivolti ai cittadini, il cui miglioramento è il primo parametro da considerare nella PA.

Terza domanda. E’ un questione seria? Sì, serissima. Perché il recupero di produttività della PA è fondamentale per rilanciare la declinante produttività nazionale, visto quanto pesa la componente pubblica nei servizi. E perché la necessità è due volte urgente, visto che bisogna razionalizzare e ridurre la spesa pubblica. E il modo migliore per farlo non è quello dei tagli lineari, ma di commisurare denari a risultati e necessità.

Quarta domanda. Ma allora perché il guaio scoppia solo a Roma? Perché come è ovvio la razionalizzazione e i tagli cominciano dove l’emergenza debito e deficit è più grave. Anche se cominciano in modo che resta incomprensibilmente difforme nel territorio nazionale: vedi il caso della recentissima cosiddetta “spending review” della regione Sicilia, che continua ad assicurare ai propri stenografi un tetto retributivo di 200 mila euro l’anno. Sta di fatto che la bocciatura venuta dal Ministero dell’Economia per lo “spalma-tutti” del salario di risultato a Roma vincola il sindaco Marino, per gli obblighi derivanti dal decreto salva-Roma.

A questo punto il bivio, per la politica e per i sindacati nazionali – ripetiamo “nazionali”, non solo romani – sta ora tra il fare a scaricabarile fingendo di ignorare le responsabilità comuni di anni e anni, oppure seriamente trattare e varare una soluzione che faccia di Roma un banco di prova nazionale per il recupero di una efficienza pubblica vera, cioè quantificabile come avviene in ogni azienda e rapporti di lavoro privati.

Non c’è bisogno di alcun riforma di legge. Nella realtà, le norme che presiedono all’attribuzione del salario di risultato pubblico, alla sua misurazione, alla vigilanza sulla sua aggiudicazione, ai compiti spettanti al direttore generale o – se manca – al segretario generale del Comune –  e ai dirigenti a capo delle singole funzioni, sono tutte scritte da anni. Con tanto di blocchi di dettagliate circolari interpretative e attuative da parte della vecchia Commissione di Vigilanza sulla Trasparenza e Integrità delle Amministrazioni pubbliche, la vecchia CIVIT che diventa oggi Autorità Anticorruzione guidata dal dovunque arci-invocato Raffaele Cantone. Non c’è proprio niente da scoprire, né da aggiungere. Basta attuarle, tutte quelle norme. E per attuarle, appunto, politica e sindacati devono insieme capire che si tratta di girare pagina per sempre, rispetto alle fette di merendina – dire “torta” sarebbe troppo, e mancare di rispetto ai lavoratori pubblici romani – uguali per tutti a prescindere dai servizi offerti.

E’ esattamente questo, che a Roma può e anzi deve oggi accadere. Poiché siamo in Italia, com’è forse inevitabile bisognerà pensare a un meccanismo di transizione, per evitare che quei 200 euro scompaiano da un mese all’altro dalle tasche di dipendenti non in linea coi risultati prefissi, ma comunque del tutto incolpevoli del fatto che giunte e sindacati abbiano deciso per anni di rimpinguare così gli stipendi di tutti. L’essenziale è che non si perda un’occasione che potrebbe essere addirittura storica. Che i sindacati non pretendano di rinviare la palla in tribuna, come sembra vogliano fare. E che, soprattutto, sia una soluzione da additare al resto d’Italia come l’inizio di un nuovo capitolo, di una PA fiera finalmente di far meglio, e capace di pagare meglio chi lo fa. Lo so, forse è solo un sogno. Del resto, l’Impero Britannico amministrò l’India attraverso l’Indian Civil Service, che non superò mai se non di pochissimo e solo alla fine i mille dipendenti, 60 volte meno dei dipendenti del Campidoglio e delle sue municipalizzate.

 

7
Giu
2014

L’aumento della spesa pubblica e la falsa austerity degli Stati

C’è un mito che aleggia sopra l’Europa e in particolare in Italia: l’austerity. Ma austerity cosa significa? Austerity delle famiglie e delle imprese o austerity da parte dello Stato?

Gli ultimi dati dell’ufficio di statistica dell’Unione Europea, Eurostat, smentiscono chiaramente quello che tutti i governi vanno ripetendo da anni.

Gli Stati hanno aumentato la loro spesa pubblica, anche nei famosi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). Altro che austerity!

Questo aumento della spesa pubblica ha provocato uno squilibrio nei conti pubblici. Uno squilibrio che le famiglie e le imprese in qualche modo devono colmare per non fare fallire lo Stato sotto l’eccessivo deficit. Read More

6
Giu
2014

Expo, Mose, corruzione: una questione di ipertrofia regolatoria e spesa pubblica

Con periodicità costante, tornano gli scandali della corruzione negli appalti pubblici.

In questa sola primavera, due momenti importanti della contrattualistica pubblica, l’Expo di Milano e il Mose di Venezia, sono balzati alla cronaca per aver rappresentato l’occasione di imponenti, quanto a diffusione e entità, ladrocini.

Il Presidente del Consiglio ha detto ieri che il problema sono appunto i ladri, non le regole. Ma – come saggezza popolare insegna – sono le occasioni che fanno l’uomo ladro.

Secondo stime della Commissione europea gli stati dell’Unione spendono ogni anno in appalti pubblici circa un quinto del loro PIL. Se non vogliamo recitare la parte di Alice nel paese delle meraviglie, è chiaro che il flusso economico generato dagli appalti pubblici, unito al fatto che gli appalti sono un settore iperregolato dove ogni passaggio di autorizzazione, controllo e verifica implica una certa discrezionalità amministrativa, rende il settore a forte rischio di corruzione.

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5
Giu
2014

L’economia digitale europea ha bisogno della concorrenza fiscale—di Massimiliano Trovato e Diego Zuluaga

Come stimolare l’emergere di un vivace settore digitale in Europa? Questo problema occupa i decisori politici di Bruxelles da qualche tempo, tanto che nel 2010 la Commissione Europea ha istituito la posizione di Commissario per l’Agenda Digitale, con l’obiettivo specifico di mettere le tecnologie digitali al centro dell’economia comunitaria e di colmare il crescente divario d’innovazione tra gli Stati Uniti e il vecchio continente.

Purtroppo per la Commissione, la maggior parte dei fattori alla base dell’imprenditorialità e dell’innovazione, digitale o meno, sfugge al controllo dei funzionari pubblici, anche dei più illuminati. I governi, tuttavia, possono avere un impatto predisponendo un ambiente in cui gli imprenditori possano assumersi dei rischi, in cui i fondi di venture capital possano investire, in cui nuove imprese digitali possano aprire i battenti e assumere. Specialmente in campo fiscale e regolamentare, le politiche pubbliche possono avere un effetto liberatorio o soffocante.

Ciò è stato riconosciuto dal gruppo di esperti della Commissione sulla tassazione dell’economia digitale, che ha pubblicato il proprio rapporto la settimana scorsa. Fortunatamente, il gruppo ha respinto l’idea assurda di una tassa specificamente rivolta alle imprese digitali, la quale, oltre ad assestare un colpo letale al settore tecnologico in Europa, avrebbe sollevato grosse preoccupazioni dal punto di vista dell’uguaglianza di fronte alla legge. L’idea stessa di riformare la fiscalità internazionale prendendo di mira un particolare settore, per non dire particolari aziende all’interno di quel settore, è davvero problematica.

(Queste preoccupazioni non hanno impedito al governo italiano di approvare una disposizione che imponeva alle imprese di acquistare pubblicità on-line da fornitori muniti di partita Iva italiana – sostanzialmente una tassa sui motori di ricerca. Per il sollievo degli aspiranti impiegati del settore, la misura è stata in seguito abrogata.)

Meno commendevole, però, è il generale approccio degli esperti alle imposte sui redditi d’impresa e alla direzione che l’Europa dovrebbe prendere in materia. Pur ammettendo che la politica fiscale per le società implica “un difficile bilanciamento fra la raccolta di gettito e la creazione di un clima che favorisca gli investimenti e la crescita”, il gruppo ha manifestato apprezzamento per le attività dell’OCSE, che nel proprio Piano d’azione del 2013 sull’erosione della base imponibile e il trasferimento dei profitti ha auspicato un maggior coordinamento internazionale delle politiche tributarie e la fine della concorrenza “sleale” tra giurisdizioni fiscali.

Non c’è nulla di male nel fatto che i paesi imparino gli uni dagli altri e lavorino insieme per sviluppare delle best practice. Però il riferimento al “coordinamento”, specialmente nel contesto dell’Unione Europea, immediatamente solleva il rischio di un'”armonizzazione” o, peggio, di una “perequazione”. Ciò non implica necessariamente una singola aliquota applicabile a tutte le imprese europee. In realtà, la proposta della Commissione per una base imponibile comune e consolidata per i redditi d’impresa – che allocherebbe quote predefinite dei profitti delle imprese ai diversi paesi, in vista della tassazione alle aliquote nazionali – e l’idea, altrettanto preoccupante, di un’imposizione sul reddito destination-based  – prelevata, cioè, non dove ha luogo la produzione, ma dove si verifica il consumo – sono molto più sofisticate

Eppure, a ben vedere, consapevolmente o meno, raggiungono lo stesso risultato: quello di limitare la capacità dei paesi di attrarre investimenti riducendo il peso fiscale per le imprese. Entrambe le proposte implicano che una società che operi in Francia e in Irlanda, ma con sede in quest’ultima, non paghi più tutte le proprie imposte sul reddito alla conveniente aliquota irlandese del 12,5%, bensì se ne veda sottrarre una grossa fetta alla ben meno apprezzabile aliquota francese del 33,3%. Questo non danneggerebbe solo l’Irlanda e le imprese in questione: pregiudicherebbe anche i dipendenti e i consumatori in Francia, Irlanda e nel resto del mondo.

Ecco perché: quando si riduce l’incentivo di un paese a mantenere la tassazione contenuta, lo si incoraggia a diventare meno come Irlanda e più come la Francia. E anche un confronto approssimativo tra la prima – che ospita le sedi europei di numerose imprese tecnologiche di primo piano come Apple, eBay e Facebook – con la seconda – dove gli imprenditori si levarono nel 2012 contro l’aumento del già penalizzante prelievo sulle società – dimostra che un movimento nella direzione indicata dalla Francia non può essere positivo per l’innovazione e per l’imprenditoria digitale.

Il punto fondamentale è che, tanto delle politiche fiscali, quanto nel mercato, la concorrenza produce enormi benefici per consumatori, lavoratori e contribuenti. Non solo perché limita la crescita dello Stato e incoraggia i governi a spendere con maggior moderazione, ma anche perché promuove un clima in cui le persone sono più incentivate a investire, assumersi rischi e innovare. I benefici della concorrenza fiscale non sono limitati a coloro che vivono in paesi a bassa tassazione: i consumatori francesi hanno accesso alle stesse tecnologie degli americani e degli irlandesi (sebbene, forse, a un prezzo superiore). I benefici della libera impresa si estendono anche ai luoghi in cui essa è scoraggiata.

Naturalmente, si può e si deve discutere se i meccanismi tributari tradizionali debbano essere aggiornati alla nuova realtà dell’economia digitale, che consente alla produzione di spostarsi liberamente tra le giurisdizioni in modo tale da godere di un ambiente più favorevole. Ogni modifica ai princìpi fondamentali della fiscalità internazionale dovrebbe, però, applicarsi a tutti i settori industriali: ai motori di ricerca così come ai produttori di formaggi, ai prodotti digitali così come all’arredamento.

Dunque, la natura del tema richiede una discussione molto più profonda di quella a cui stiamo assistendo. Nel frattempo, se desidera iniziare a colmare il divario digitale tra Europa e Stati Uniti, la Commissione dovrebbe lavorare per mantenere la capacità dell’Irlanda di mostrare alla Francia come un paese possa attrarre un settore tecnologico fiorente.

[Questo post è stato scritto in collaborazione con Diego Zuluaga e compare anche sul blog dell‘Institute of Economic Affairs.]

5
Giu
2014

Mose, Expo: 10 punti per una cura radicale, non superman Cantone

Dopo gli arresti per Expo a Milano, quelli per il MOSE a Venezia. Il Nord ne esce malissimo, quanto a etica pubblica, spreco di risorse e corruzione. E siamo sempre lì da decenni, a interrogarci su un male che non passa mai, quello delle tangenti sulle opere pubbliche, dei denari chiesti da manager pubblici e politici per agevolare procedure e aggiudicare gare. Dal crollo della prima repubblica per tangentopoli all’attuale lunga agonia della seconda, è un copione immutabile. E dopo tanti anni e tanti miliardi bruciati, in un paese che di infrastrutture e opere pubbliche è in deficit gravissimo visto che gli investimenti sono l’unica parte della spesa pubblica che la politica ha compresso facendo crescere invece la spesa corrente, speriamo venga il momento di qualche soluzione. Invece di limitarci alla pura indignazione per le indagini e gli arresti da parte dei magistrati, cerchiamo di capire il fenomeno con cui siamo alle prese. Lo dico subito: non credo affatto che la cura salvifica sia l’Anticorruzione di superman Cantone.

Primo. Anni e anni hanno mostrato che con la superfetazione di norme amministrative, codice degli appalti enciclopedico, conferenze di servizi pronte per anni a bloccare ogni avanzamento progettuale, nel nostro Paese opere superiori a una certa entità semplicemente non si riescono a realizzare.

Secondo. Di fronte a questo, a maggior ragione la politica ha tagliato le risorse per le infrastrutture, immaginando in vent’anni “strade accelerate” per opere considerate essenziali. A ciò rispondeva la legge obiettivo del primo governo Berlusconi, poi però diventata un protocollo speciale che al ministero delle Infrastrutture è rapidamente giunto a contenere anch’esso prima decine e decine, e poi centinaia di opere.

Terzo. A quel punto si è scatenata la logica di patronage politico-territoriale. Parliamoci chiaro: il MOSE a Venezia, e lo stesso vale per Expo come per la TAV, hanno indirizzato al Nord risorse di gran lunga maggiori di quelle riservate al Sud. Perché lo spirito iniziale del centrodestra fondato da Berlusconi aveva un forte impulso a soddisfare non solo esigenze politiche – quelle della Lega – ma di un radicamento territoriale complessivo e di uno sbandierato rapporto con le imprese.

Quarto: la scelta non è però stata effettuata in base a inoppugnabili criteri di costo-beneficio. Per dirne una: Venezia è un patrimonio dell’umanità che attira turisti da tutto il mondo e va assolutamente preservato. Ma lo Stato che ha già versato 5,2 miliardi per la realizzazione delle paratie mobili che servono a evitare l’acqua alta è lo stesso Stato che centralmente non destina che 150 milioni l’anno a interventi contro l’intero dissesto idro-geologico nazionale. Quello che a ogni autunno provoca non acque alte, ma raffiche di morti sotto frane ed esondazioni in tutto il paese. E’ amaro dirlo, ma il Nord esce male da queste scelte innanzitutto per i criteri che la politica ha scelto a suo vantaggio, prima ancora che per gli arresti ordinati dalle Procure quando scoppiano gli scandali.

Quinto. Nel frattempo le norme amministrative bizantine aumentavano, e dunque anche per le opere “prioritarie” il problema diventava quello delle opere comuni, bloccate. Ecco il brodo di coltura per le cupole degli affari, formate da manager pubblici indicati dai partiti e dai politici, senza i quali le imprese interessate ai lavori non possono contare sull’aggiudicazione della gara. E senza apertura e avanzamento del cantiere non arriva la rata annuale di finanziamento. La realtà delle inchieste mostra che le imprese disposte al gioco sporco non sono più “sistema”, come nella prima repubblica di fronte al “sistema” allora dei partiti. Ma ci sono, continuano a esserci. E maggiori sono le risorse stanziate da Roma, più alta è la possibilità di far provvista per manager pubblici e politici, di fronte alle varianti d’opera, con relativi aggravi di costo pubblico e d’incasso per le imprese, che politica e PA riescono alacremente a determinare.

Sesto. Tutto ciò è stato agevolato dal proliferare di “veicoli speciali”, cioè in deroga alle norme generali amministrative inapplicabili. E’ successo per la Protezione Civile anni fa. Per l’Expo che, costretto alle deroghe visto il ritardo determinato dalle nome ordinarie, ha così potuto gestire appalti a chiamata invece che con gare europee. E a quanto pare idem si può dire con il Consorzio Venezia Nuova per il MOSE.

Settimo. Che sta nei comandamenti per “non rubare”. E qui casca l’asino. Perché dai tempi di tangentopoli ci si è voluti convincere che la legalità nei lavori pubblici sarebbe stata la legge penale, a tutelarla. I fatti dicono che è una baggianata. Ogni procura italiana ha in corso indagini su appalti e gare pubbliche che nascondono corruzione e concussione. E se oggi molti credono che la soluzione venga sovrapponendo al codice degli appalti il controllo della magistratura amministrativa, civile, penale, e sopra queste anche quello della super costituenda autorità anticorruzione dell’ottimo Raffaele Cantone, è una baggianata per addizione, ma baggianata resta. Non saranno manette e aggiuntivi supermagistrati, a impedire che l’ostacolo delle norme dello Stato venga superato da improprie collusioni tra pubblico e privato (compresi magistrati della Corte dei Conti, a quanto pare a Venezia..), laddove si concentrano le poche pingui risorse destinate a opere pubbliche. E non sarà il fatidico avvento degli “onesti”, a impedire appetiti e fondi neri.

Ottavo. E dunque? Sappiamo bene che molti promettono salvifiche riforme delle regole. Oggi, ne troverete i giornali pieni. Ma è una contraddizione logica dire “più controlli pubblici”, quando sono proprio le norme pubbliche a impedire all’Italia di essere un paese normale. Con tanti saluti in primis alla presunta superiorità morale del Nord rispetto al Mezzogiorno. E’ proprio il nodo delle norme ordinarie, quello che va sciolto. Ma radicalmente.

Nono. Quando un’opera, come il MOSE, nasce 14 anni fa con un costo stimato di 800 milioni di euro di oggi, e alla fine – oggi siamo all’80% della sua realizzazione – ne costa 7 miliardi, con una smisurata crescita che alimenta pacchi di milioni sviati a fini illeciti, e quando questo stesso meccanismo si ripete da anni, allora vuol dire che bisogna incidere il vero nodo. Per non dare ragione a chi dice no a ogni opera pubblica – un partito temibile, che acquista punti a ogni arresto, e che condannerebbe però l’Italia a un sia pur onestissimo accentuato declino – bisogna recidere dall’opera pubblica ciò che il pubblico non si è dimostrato capace di fare.

Decimo. Una volta decisa l’opera “davvero” prioritaria, non devono essere la PA e la politica a gestire né l’aggiudicazione, né il suo avanzamento. Le gare vanno giudicate da commissioni terze, rispetto a politica e PA, definite per pura competenza professionale. Se ai privati vincitori si assicurano tempi certi, loro potranno col sistema bancario occuparsi del financing attraverso il sistema bancario, senza dipendere anno per anno dalle quote di risorse concesse o negate dal pubblico. Che alla fine resta però titolare del funding, cioè del pagamento una volta che standard, costi e tempi dell’opera siano rispettati dal suo realizzatore.

Naturalmente, ai più questa proposta sembrerà velleitaria, impossibile in Italia. Ma guai radicali chiedono rimedi radicali. Gli arresti di Milano e Venezia sono una vergogna per il Nord e per l’Italia nel mondo, ma non fermano l’emorragia. Che ha un solo vero responsabile. E’ la foresta normativa, a respingere gli onesti, ad allontanare dall’Italia le maggiori aziende di lavori pubblici del mondo, e a coprire con le sue mille frasche corrotti e collusi.

4
Giu
2014

Cina, pensioni e Club SEP—di Alberto Latorre-Artus

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da AtlasNetwork.

Negli ultimi anni, gli esperti cinesi si sono preoccupati dei crescenti oneri finanziari causati dall’invecchiamento della popolazione cinese, problema acuito dall’approccio alla pianificazione familiare, meglio conosciuta come “politica del figlio unico”. Yang Yansui, esperto di questioni pensionistiche della Tsinghua University, ipotizza che, a partire dal 2035, il drago dormiente diventerà una “super ageing society”, una società in super-invecchiamento, in cui ogni pensionato dovrà essere mantenuto da appena due lavoratori. I grafici qui sotto mostrano l’entità di questo problema incombente. Read More