Pensioni, rimedi non ortodossi a 4 guai: troppa spesa sul Pil, il deficit Inps, pensionati poveri, giovani senza futuro
Un paese con una spesa previdenziale che resta superiore alla media europea e dei paesi OCSE, ma che contemporaneamente ne ha parecchio contenuto l’ulteriore crescita, senza però riuscire a recuperare il livello più basso dei nostri competitor e senza risolvere altri tre considerevoli guai: moltissimi pensionati poveri, sotto o poco sopra il livello di sopravvivenza; un deficit annuale tra contributi raccolti e trattamenti erogati che resta elevato, e che appesantisce la fiscalità generale che strozza la crescita di imprese e lavoro; infine, un’ipoteca pesantissima su chi oggi è più giovane. Ecco la fotografia dell’Italia nella relazione annuale del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti, subentrato nel febbraio scorso ad Antonio Mastrapasqua travolto dalle polemiche dopo molti anni di guida dell’istituto, per il quale passano 406 miliardi di euro l’anno degli 800 totali di spesa pubblica.
E’ ovvio che le reazioni politiche e sindacali ieri abbiano messo al centro le richieste a favore dei pensionati più poveri, chiedendo lo sblocco decretato in questi anni di crisi per le rivalutazioni degli assegni, e di riaprire il “cantiere Fornero”. Ma dal nostro punto di vista è giocoforza invece partire da un altro punto di vista. Non per insensibilità sociale, come si vedrà: anzi, propprio per affrontarla meglio.
Il peso sul Pil della spesa previdenziale. L’Italia ha fatto una scelta, nei decenni: concentrare una quota molto più rilevante di altri paesi analoghi nella spesa previdenziale, rispetto al totale della spesa destinata al welfare.
La scelta di fondo – il sistema previdenziale retributivo a ripartizione agganciato a percentuali molto elevate delle ultime retribuzioni – nacque in un’Italia che cresceva a tassi non inferiori al 3% annuo, e in cui la bassa disoccupazione sommata all’espansione del reddito e del prodotto sembravano destinate a essere durevole. Con la discesa decennio per decennio del tasso di crescita medio fino a toccare quello inferiore al mezzo punto di Pil annuo, era evidente che gli oneri sarebbero diventati insostenibili. Evidente, ma per lungo tempo non evidente è stato per la politica italiana assumere misure adeguate. Di qui le due riforme essenziali dell’ultimo ventennio, per contenere nel lungo periodo l’eccesso di spesa previdenziale.
La prima fu la riforma Dini, nel 1995, col passaggio a un sistema contributivo ma sempre a ripartizione (cioè le pensioni in essere le paga chi lavora coi suoi contributi, e qui chiariamo una cosa a margine: molto credono che in Italia il contributivo adottato sia “puro”, cioè che la pensione sarà effetto della somma dei propri contributi aggiornata nel tempo secondo come è stata investita, ma sbagliano, non è affatto così. Il montante su cui calcolare il trattamento previdenziale del nostro sistema contributivo è dato sì dalla somma dei contributi pagati, ma rivalutati sulla base del Pil nominale anno per anno, e moltiplicati per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento, e soprattutto il pagamento concreto delle pensioni verrà sempre garantito dai contributi di chi lavora, per questo si definisce contributivo a ripartizione e non puro). La riforma Dini commise però due errori essenziali, cari al sindacato come al più dei partiti, destra e sinistra insieme, il PUS, partito unito della spesa pubblica che è il vero asse portante della politica eco-finanziaria italiana. La Dini spalmò gli effetti del passaggio al contributivo in un orizzonte troppo lungo, pluridecennale, e tenne in piedi età basse per i trattamenti che davano diritto alle pensioni di anzianità. Di qui la necessità, visto i 15 anni passati invano, della riforma “brutale” Fornero, che a fine 2011 estese a tutti il calcolo contributivo prorata abolendo il sistema misto della lunghissima transizione della Dini, unificando in pochi anni le età per i trattamenti di anzianità e vecchiaia.
Questa seconda riforma – che spiace ai sindacati e a mezzo Pd, e non solo per il dramma vero che ha creato, quello degli esodati, a cui si sta rispondendo da un anno e mezzo con successive tranche di copertura – ha dato una solida riassestata alla spesa previdenziale. Come ieri ha ricordato Conti. Nel 2013 la spesa previdenziale è stata pari al 16,3% del PIl e sarebbe andata al 18%, senza riforma Fornero. I dati sulle pensioni di anzianità e vecchiaia 2013 registrano un crollo rispetto all’anno precedente: -49% le prime e -50% le seconde nel pubblico impiego, -32% le prime e -57% le seconde nel privato.
E tuttavia non va dimenticata una cosa. Se si compulsano le 392 pagine del rapporto sulla sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale che la Ragioneria generale dello Stato ha aggiornato due mesi fa, le pur generose stime di crescita assunte del PIL (media annua più 1,5%) e di tassi di occupazione assunte nel modello adottato portano la spesa previdenziale a scendere di un soffio sotto il 15% del PlL solo al 2030, per poi risuperarlo nel 2040, scendendo al 14% forse e solo nel 2060.
E’ vero che nei paesi Ue e Ocse nel frattempo la spesa sale, ma sale partendo da punti molto più bassi della nostra: per i paesi OCSE la spesa previdenziale salirà dal 9 all’11,5% del Pil entro il 2060, per i paesi UE dall’11% al 13%. Quei 2-3 punti di Pil di spesa previdenziale italiana annua maggiore della media dei paesi avanzati descrive una scelta che resta sbagliata: continuiamo a spendere troppo poco per le politiche attive del lavoro e per il sostegno della famiglia e della curva demografica, e troppo in politiche passive (30 miliardi nel 2013 tra ammortizzatori e sistema CIG, oltre 100 miliardi da inizio crisi senza una sola ora di riformazione e riavviamento al lavoro delle centinaia di migliaia di soggetti interessati) e in pensioni ai “privilegiati” del sistema retributivo puro (non è colpa loro, ovviamente, è la politica ad averlo scelto). E’ una scelta sbagliata non solo in termini di giustizia tra generazioni e all’interno delle stesse generazioni, visto che i trattamenti tra pubblici e privati, dipendenti e autonomi non sono affatto eguali. E’ sbagliata anche perché l’INPS non ce la fa, e deve attingere alle tasse di noi tutti.
Il deficit INPS. Nel bilancio finanziario, l’istituto nel 2013 ha avuto un saldo negativo di 9,8 miliardi. E’ un deficit per i nove decimi dovuto allo sbilancio tra contributi raccolti e trattamenti erogati ai pensionati del settore pubblico, l’ex Inpdap. E qui ci sarebbe molto da dire: non è colpa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici (sono 14,5 milioni quelli della gestione privata), ma negli anni la politica ha riservato loro condizioni migliori rispetto ai pensionati privati, in termini di anni minimi di versamenti rispetto ai diritti maturati (e non solo). I numeri parlano chiaro: l’importo medio delle pensioni di vecchiaia/anzianità private è di 1555 euro lordi mensili, quello delle pubbliche è di 1636 euro per le donne e di 2262 euro per gli uomini. Ma lo sbilancio finanziario di quasi 10miliardi annui dell’INPS da solo non dice tutto. Se andiamo a vedere le diverse fonti di entrata rispetto alle poste di spesa, al netto dei trasferimenti dal bilancio dello Stato i contributi raccolti nel 2013 dall’INPS sono pari a 209,9 miliardi euro (153 dai privati, 55 dal settore pubblico, 1 dai lavoratori dello spettacolo), mentre la spesa diretta in pensioni è pari a 266,8 miliardi. Come si vede, tra contributi ed erogazioni puramente previdenziali lo sbilancio è di 56 miliardi l’anno. E’ il contribuente con le tasse, a pagare dolorosamente la differenza.
I pensionati poveri. Sono 6,8 milioni, il 43% del totale, i pensionati che ricevono un assegno inferiore ai mille euro lordi al mese. Di questi, 2 milioni sono sotto i 500 euro lordi (il 13,4%), e di questi ancora 1,2 milioni non superare i 209 euro lordi al mese. Oltre 4 milioni invece percepiscono pensioni tra i 1.000 e i 1.500 euro mentre per circa 2,4 milioni di pensionati l’assegno oscilla tra 1.500 e 2.000 euro mensili. Al di sopra dei 2.000 euro lordi si colloca il restante 16% dei titolari, poco meno di 2,5 milioni. Se a queste cifre sommiamo il milione e mezzo di italiani che nel 2013 ha beneficiato di indennità di mobilità, disoccupazione, Aspi e Miniaspi, eccoci alla tremenda “questione sociale” delle vittime della crisi. Cinque-sei milioni di italiani che stanno poco sotto o poco sopra il livello della pura sopravvivenza, e che in questi anni stanno esaurendo il polmone finanziario a loro favore delle famiglie di appartenenza. Se il governo seguisse la strada di piccoli aumenti per tutti, l’effetto-dispersione non risolverebbe il problema. Andrebbe assunta una logica selettiva: un welfare diverso per i pensionati poveri anziani, politiche del lavoro attive e non passive per chi fuori dalla mobilità oggi finisce troppe volte per non cercare più lavoro e basta, non essendo riaddestrato e arrangiandosi con il nero.
I giovani. I sindacati e mezzo Pd chiedono di tornare indietro rispetto ai tetti della riforma Fornero e di alzare le pensuioni in essere: ma così facendo si pensa solo a chi oggi un lavoro e la pensione ce l’ha. E’ verissimo che ad alcune centinaia di migliaia di italiani – ripeto qui non parliamo degli esodati, a cui si sta pensando – la riforma Fornero ha mutato drasticamente in peggio l’orizzonte di vita, obbligandoli a 5-7 anni di lavoro in più. Ma molto peggio di loro rischiano di stare milioni e milioni tra i 25 e i 50 anni, che il lavoro non ce l’hanno, o ce l’hanno precario, o l’hanno perso. Torniamo al rapporto della Ragioneria sulla sostenibilità generale del sistema. I diversi scenari che vi sono illustrati, rispetto alla condizione attuale del paese, peccano di eccessivo ottimismo. Il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione della pensione maturata con i requisiti di età e contribuzione della riforma Fornero sarebbe al 2050 del 73% per il lavoratore privato, del 53% per l’autonomo. Ma questo calcolo è fatto sulla base di un’età per la pensione all’epoca di 70 anni con 40 anni di versamenti effettuati, e una crescita del Pil di un punto e mezzo l’anno per rivalutare il montante. E’ evidente a chiunque che oggi, se raccontate a un 35enne disoccupato con – se va bene – 2 anni di contributi versati, che nei prossimi 35 anni dovrebbe lavorare ininterrottamente e anzi dovrebbe a quel punto anche integrare i contributi versati con 3 annualità aggiuntive, mentre l’Italia nel frattempo cresce ininterrottamente di almeno un punto e mezzo l’anno, la risposta è che alle favole di una pensione simile e così alta rispetto all’ultimo reddito non crede nessuno. Ecco il problema gigantesco: oltre a 5-6 milioni di poveri attuali, se ne possono sommare il doppio che arriverà a pensioni bassissime. Basta una crescita di mezzo punto l’anno o di un punto nel decennio, per abbattere i tassi di sostituzione tra il 35% e il 24% rispetto alle previsioni della Ragioneria: il che significa pensioni da fame.
I rimedi ai 4 problemi – troppa spesa in previdenza sul Pil, squilibrio annuale tra contributi ed erogato, pensionati poveri, giovani senza pensione – non sono la riapertura dei “tetti Fornero”. Occorre cambiare drasticamente marcia alla crescita italiana. Cioè riducendo la spesa davvero, per molte meno tasse su impresa e lavoro. Perché senza di questo non ci sono più occupati continuativi. E solo pensioni misere, anche in futuro. Occorre un welfare selettivo per gli anziani, e una scelta netta a favore delle politiche attive del lavoro rispetto all’assistenza. Occorre un intervento su chi ha trattamenti troppo generosi risalenti al sistema retributivo, e su questo un problema serio – ma concretamente affrontabile: è un enorme problema irrisolto di giustizia intergenerazionale – è anche rappresentato dalla Corte costituzionale. E uno spazio molto più ampio alla previdenza complementare, il cui trattamento fiscale deve essere reso molto più favorevole, in un quadro generale per altro di considerevole riduzione delle imposte su lavoro e impresa. Il guaio è che, per tutto questo, oggi non sembra affatto di poter contare su attori politici che ne siano persuasi.