3
Lug
2014

Euro-Union Bond? Meglio vendere davvero—di Lorenzo Romani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Romani.

In questi giorni si è tornato a parlare di Euro-Union Bond e mutualizzazione dei debiti nazionali. Soprattutto, qualche giorno fa è stato il Sottosegretario Graziano Delrio a lanciare la prima pietra in un’intervista al Corriere della Sera. Il meccanismo funzionerebbe così: gli stati “versano” in un fondo comunitario una parte del loro attivo (quote di partecipate, asset reali, etc). Il fondo utilizza questi beni come garanzia per emettere nuove obbligazioni europee. I capitali raccolti vengono utilizzati per ricomprare titoli pubblici dei paesi conferitari, che vedrebbero così ridotto lo stock del debito. Read More

2
Lug
2014

Quer pasticciaccio brutto dell’obbligo di Pos

È entrato in vigore il 30 giugno l’art. 15, co. 4 del decreto-legge 179/2012, nel termine rimodulato dall’art. 9, co. 15-bis del decreto-legge 150/2013 e con l’estensione specificata dal decreto del Ministro dello sviluppo economico del 24 gennaio 2014. Si tratta – per intenderci sin d’ora con la meno imprecisa delle molte definizioni approssimative – dell’obbligo a carico di commercianti, professionisti e artigiani di munirsi di Pos al fine di poter ricevere pagamenti con carta di credito o debito per importi superiori al limite di 30 euro. Per dare una valutazione del provvedimento occorre procedere per esclusione, indicando anzitutto cosa la norma non prevede.
In primo luogo, non vi è alcun obbligo per il cliente di pagare con moneta elettronica, un equivoco che è stato colpevolmente cavalcato da gran parte dei mezzi di informazione. In questo paese l’articolazione dei poteri pubblici è senz’altro materia magmatica, ma non tanto da conferire competenza legislativa alle redazioni. Pertanto, a dispetto della propaganda contraria, il vincolo all’utilizzo del contante rimane fissato nella soglia di 1000 euro.
In secondo luogo, la stessa qualificazione di un obbligo a carico degli esercenti appare controversa, perché la norma non prevede alcuna sanzione per la sua violazione. Ora, se si tratta di un giudizio opinabile dal punto di vista teorico-generale, almeno ove si disputi la validità dell’equazione kelseniana tra obbligo e sanzione, è tuttavia evidente che, dal punto di vista pratico, una norma siffatta perde molto del proprio potenziale cogente.
In questo senso, è degna di merito l’interpretazione avanzata dal consiglio nazionale forense, e avallata dal ministero dell’economia in risposta ad una recente interrogazione parlamentare, che ricostruisce nella predisposizione della strumentazione necessaria a ricevere la moneta elettronica non tanto un obbligo giuridico, quanto piuttosto un onere, onere che rileverebbe nei casi in cui fosse il cliente a richiedere la possibilità di utilizzare una carta di pagamento per saldare il proprio debito. L’inadempimento di quest’onere darebbe, quindi, luogo alla fattispecie della mora del creditore (art. 1206 ss. cod. civ.) – che, come ovvio, non estingue l’obbligazione del debitore e, trattandosi di obbligazioni pecuniarie, avrà l’unico effetto di esonerarlo dal corrispondere gli interessi per il ritardo dovuto all’inosservanza dell’esercente.
Sin qui la ricostruzione positiva; ma occorre interrogarsi anche sulla ratio della norma e sulla sua attitudine a raggiungere gli effetti sperati. Il malinteso tra obbligo di pagamento e obbligo (od onere) di accettare il pagamento, denunciato più sopra, è rivelatore: la disposizione s’inserisce in un crescente clima di disfavore per il denaro contante, principalmente alimentato dal desiderio di dare visibilità, a fini fiscali, a quelle transazioni che oggi possono sfuggire ai radar dell’Agenzia delle Entrate. Siamo certo di fronte a una misura monca, ma una misura monca il cui intento fondamentale sembra essere quello di aprire la strada a interventi più radicali.
Difficilmente l’obbligo di munirsi di Pos avrà, di per sé, un impatto significativo sull’evasione tributaria, perché dalla mera facoltà di pagare con moneta elettronica non discende la convenienza di farlo. L’esercente che proponeva di regolare la transazione in via informale ci proverà ancora; il consumatore sensibile all’offerta l’accoglierà ancora. La generalizzata diffusione del Pos non basterebbe ad alterare la catena dei loro incentivi.
A ben vedere, anzi, si potrebbe immaginare l’effetto contrario. Bisogna mettere nel conto i maggiori costi in cui gli operatori più ligi alla legge incorreranno – sul punto si è accesa la consueta battaglia dei numeri: si parla di 1200 euro l’anno per la Cgia e di 1700 euro l’anno per Confesercenti, mentre le stime delle associazioni dei consumatori sono più contenute. Queste maggiori spese dovranno essere recuperate in qualche modo: ove possibile, scaricandole sui consumatori, con un adeguamento che riguarderà, però, i prezzi in generale, non certo il conto dei soli clienti che opteranno per il pagamento elettronico.
In ogni caso, dunque, l’estensione dell’obbligo renderà relativamente più conveniente il regolamento in nero, specialmente nei casi in cui già oggi la prassi privilegia metodi di pagamento diversi dalla carta di credito o debito e che, pur non imponendo costi aggiuntivi, garantiscono la tracciabilità – si pensi al bonifico bancario. Per chiarire, l’incasso con bonifico o con contanti è tipicamente al netto e, dunque, indifferente per il creditore – semmai si può sostenere che i contanti abbiano oneri di gestione superiori. Viceversa, la carta di pagamento è, da questo punto di vista, un metodo inferiore.
Ciò non significa che non vi siano importanti ragioni d’immediatezza e universalità che raccomandino la diffusione della moneta elettronica, ma solo che questa dovrebbe essere spinta dalle forze di mercato e non da un irrigidimento forzoso della domanda in vista di obiettivi del tutto slegati, come quello del recupero d’imponibile.

2
Lug
2014

Capacity payment: la fine del mercato elettrico per come lo conosciamo?

Con un decreto ministeriale firmato dal viceministro dello Sviluppo Economico Claudio De Vincenti, è stata approvata la nuova disciplina del mercato della capacità elettrica. Si tratta di un cambiamento profondo nel disegno di mercato, che segna in modo forse irreversibile, nel nostro paese, la liberalizzazione elettrica.
La vicenda del capacity payment è lunga e, per certi versi, paradossale: difficilmente, però, a questo punto la corsa verso la rivisitazione del nostro mercato elettrico poteva essere fermata. Il progetto è stato concepito nel 2011, e ha avuto un’evoluzione tortuosa e non priva di rallentamenti. La vera svolta è stata l’emanazione del decreto “Destinazione Italia” del 23 dicembre 2013, che di fatto innescava la slavina. A quel punto i passi erano segnati, come conferma peraltro l’urgenza con cui l’Autorità per l’energia ha gestito l’ultimo documento di consultazione, poche settimane fa, il quale delineava gli orientamenti finali del regolatore.
L’introduzione di un mercato della capacità comporta, se non un ribaltamento, quanto meno un significativo cambiamento di strada rispetto all’impostazione che finora ha caratterizzato il mercato elettrico italiano: da un mercato dell’energia, infatti, esso è destinato a diventare sempre più un mercato della capacità produttiva. Il che implica che il modello di fondo si allontana da quello della concorrenza nel mercato, per avvicinarsi a quello della concorrenza per il mercato. Gli studiosi sono divisi sul tema: tuttavia appare evidente che a guidare l’introduzione del capacity sono motivazioni più politiche che tecniche, ora vagamente nobili (prevenire problemi di sicurezza e adeguatezza del sistema e i conseguenti picchi di prezzo) ora più prosaiche (soccorrere un settore termoelettrico messo in ginocchio dal calo della domanda e dal boom delle rinnovabili sussidiate). Nel complesso, però, i mercati della capacità si avvicinano molto alla definizione che ne ha dato Benedict De Meulemeester: “soluzioni costose per un problema che non esiste”.
Tra le tante ombre, si distinguono però alcune luci (o almeno alcune penombre), nel senso che le cose potevano andare molto peggio. Anzitutto è apprezzabile la scelta originaria dell’Autorità – se capacity deve essere – di demandare le modalità di remunerazione della capacità a un sistema di aste anziché a un meccanismo amministrato, anche se il beneficio derivante dalla procedura competitiva rischia di essere vanificato dall’introduzione di un cap e soprattutto (nelle concrete condizioni in cui si trova l’Italia) di un floor. Secondariamente, ha fatto bene il governo a mettere una serie di paletti: in particolare, la valutazione di adeguatezza della capacità (da cui dovranno derivare i contingenti messi a gara) dovrà tenere conto “degli effetti positivi derivanti dallo sviluppo delle reti e delle interconnessioni con l’estero”. Inoltre, come peraltro aveva evidenziato l’Istituto Bruno Leoni nella sua risposta alla consultazione dell’Aeegsi, viene chiarito che le aste devono essere aperte alla partecipazione della domanda, così come viene enfatizzato il requisito della neutralità tecnologica. Infine, sulla determinazione di cap e floor viene introdotto un vincolo legato in qualche modo a un’analisi dei costi e dei benefici.
In altre parole, forse la macchina del capacity era in uno stadio così avanzato da non poter essere più messa in discussione, e in quest’ottica l’esecutivo sembra essersi orientato alla minimizzazione del danno. Certamente, però, rimane il fatto che da ora in poi il mercato elettrico, pur con tutti i suoi limiti evidenziati anche nell’Indice delle liberalizzazioni, non sarà più lo stesso. Ammesso che, tra sussidi alla produzione, regolamentazione dell’offerta, ingessature varie della domanda, e ora anche capacity market, si possa ancora parlare di mercato.
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1
Lug
2014

Mare Monstrum: proposte abrasive, non federaliste, alternative al quotidiano fallimento dello Stato

Per un mercatista liberale è doppiamente doveroso avanzare proposte su quanto avviene ogni giorno nel canale di Sicilia. Non solo perché si tratta di tragedia umanitaria. Ma innanzitutto perché è un conclamato, reiterato, abnorme fallimento dello Stato, dello Stato con la S maiuscola come piace scrivere agli statalisti: è il fallimento di tutti gli Stati europei oltre che del nostro, quando a garanzie di diritti primari essenziali come la vita, la sicurezza e e la libertà. Mare Monstrum bisogna chiamarla, altro che Mare Nostrum, la missione speciale quotidiana delle forze italiane militari, di sicurezza e protezione civile al fine di salvare più vite possibile tra le migliaia indirizzate verso le coste italiane dai trafficanti di disperazione umana. Una missione fallita, malgrado l’enorme e ammirevole energia di chi vi si adopera. Ieri una classica giornata di eccezionale ordinarietà, con altri 30 morti su un barcone che ne ospitava oltre 600, salvato dalla Marina al largo delle coste ragusane. E la tragedia nella tragedia, con il comune di Pozzallo nell’impossibilità di celle frigorifere in numero adeguato alle vittime.

Oggi è il giorno in cui inizia il semestre europeo di presidenza italiana, ed è il caso di indirizzare al presidente del Consiglio qualche considerazione costruttiva. Perché far bassa polemica su questi argomenti è cosa facile e insieme miserabile, e perché Renzi per primo toccherà questo argomento nel suo discorso di presentazione del semestre italiano. Ci sono almeno quattro aspetti diversi da considerare.

Il primo riguarda l’oggettivo disinteresse con il quale il più dell’Europa ha guardato a questa emergenza. Il bilancio dell’Agenzia Frontex, incaricata di coordinare pattugliamento dei confini europei e rimpatrio dei clandestini, è chiaro già dalle missioni svolte, da metà degli anni Duemila fino ad oggi. Riguardano all’80% l’Est Europa e il confine balcanico, oltre agli aeroporti. E’ evidente che le preoccupazioni dei paesi euroforti centro e nord europei hanno sempre avuto la meglio. Un primo esiguo segnale di coinvolgimento di mezzi europei sul confine mediterraneo, la scorsa estate, non ha avuto seguito quest’anno. La Francia il mese scorso si è unita alle richieste italiane di sostituire a Frontex una Frontex Plus, ma sinora si è visto nulla. A me gli strilli quotidiani e inani del ministro Alfano non piacciono: se non contiamo nulla e non ci ascoltano, temo sia innanzitutto per colpa nostra.

Secondo: le richieste italiane. E’ inutile negarlo, al Consiglio europeo di Ypres l’attenzione preminente è andata alla partita delle nomine e di Juncker, e al nodo di una maggior flessibilità nell’applicazione procrescita del patto di stabilità europeo. Anche Renzi, nella conferenza stampa conclusiva del vertice, ha sfiorato solo di sfuggita la questione Frontex. Indiscrezioni autorevoli vogliono che ora il governo italiano cambi marcia. E’ necessario, da subito, perché il prossimo eurovertice di metà luglio possa assumere decisioni nuove.

Il punto non è spostare la sede dell’Agenzia speciale europea, da Varsavia verso il Mediterraneo. Se tutto restasse com’è, sarebbe uno sciocco contentino privo di contenuto. La svolta non è nemmeno il commissario ad hoc europeo subito annunciato da Juncker. Quel che serve non è un eurocrate in più. Il nodo di fondo è finanziario e operativo. Gli 80 milioni di bilancio di Frontex fanno ridere, di fronte al fatto che l’Italia sostiene più di 10 milioni al mese per i soli interventi d’emergenza e salvataggio di Mare Nostrum, 10 milioni che naturalmente non bastano affatto visto che dei 65mila salvati in 6 mesi, 61mila sono entrati in Italia, e 5000 nello scorso solo fine settimana. Sono entrati in un’Italia in cui le strutture pubbliche residue di prima accoglienza previste dalle leggi sull’immigrazione sono al collasso, e in cui abbiamo preso sussidiariamente a chiedere ai Comuni di fare i miracoli, come se non fossero in molti casi al lumicino anch’essi. Tale quadro postula una moltiplicazione delle dotazioni finanziarie europee per quattro o per cinque, di cui per almeno metà destinate al limes mediterraneo. Con poteri reali a disporre missioni operative navali internazionali di tipo “stanziale”, cioè di lungo periodo.

Terzo: la minaccia italiana. Diciamolo qui in chiaro quel che un presidente di turno europeo non può dire, per ovvi doveri diplomatici. La posizione italiana è percepita come debole da anni in Europa, non solo per via delle debolezze accumulate sulle questioni di finanza pubblica. E’ inutile nasconderselo. Per questo, la radicalità della svolta europea può davvero avvenire solo se, nei colloqui riservati con i maggiori leader europei, l’Italia indica con una certa durezza misure alternative proprie, se l’Europa dovesse restare sorda. Gli strilletti e le dichiarazioni retoriche antieuropee a fini domestici non servono a nulla. Facciamo un esempio.

Per la natura della nostra frontiera marittima, non possiamo contare su soluzioni temporali extraterritoriali (in un passato lontanto e vicino avvenne, da parte del Regno Unito come della Francia e degli Usa). Ma attenti: il diritto internazionale marittimo potrebbe benissimo consentire alle autorità italiane di disporre alle navi battenti bandiera estera transitanti nel canale di Sicilia di prestarsi non al salvataggio, ma a ospitare i salvati fino al regolare porto di arrivo e NON su coste italiane. E’ una misura durissima, ma fattibile. L’extrema ratio, per far ragionare l’Europa visto che alzerebbe i noli per tutti i maggiori porti spagnoli e francesi, colpendo i traffici anche verso il nordeuropea..

Quarto: la reciproca convenienza. Per una nuova politica europea serve un ragionamento diverso, rispetto alla pura compartecipazione operativa, finanziaria e dei flussi finali di migranti. In realtà non ci sono queste tre misure comuni, perché non c’è una comune politica dell’immigrazione, considerandola come fattore essenziale della crescita e stabilità economica complessiva. Sin qui, i diversi paesi membri dell’Unione hanno adottato legislazioni diverse sulle procedure di ammissione temporanea, sui requisiti di lavoro, sul diritto al ricongiungimento delle famiglie e sulla cittadinanza. Sono le diverse vie nazionali per superare una frontiera comune, a non funzionare più. Erano figlie di un’era in cui ciascuno pensava alla propria crescita economica, ai diversi retaggi coloniali, a confliggenti teorie e prassi giuridiche della cittadinanza. E a fabbisogni di manodopera, contributi sociali e tasse, completamente slegati da paese a paese.

La drammatica crisi dell’Europa ha mostrato in questi anni che non è più così. La devastante curva demografica italiana e l’invecchiamento della popolazione tedesca sono due facce di una stessa medaglia. Non credo all’ipotesi federalista di unificare per tutti subuito le regiole di ammissione e cittadinanza. parlo di un’altra cosa: più l’Italia è lasciata sola nel salvataggio e nel filtro impossibile di centomila disperati l’anno, meno potrà concentrarsi su una politica di “scelta” di migranti per qualità dell’offerta, come invece da tempo hanno iniziato a fare i paesi nordeuropei. Ma meno lo faremo noi, più metteremo anche gli altri paesi europei nelle stesse condizioni. Perché nessuno di chi viene ripescato in mare, oggi, vuole restare nel nostro impoverito paese. Amaro dirlo, ma giusto riconoscerlo. E farlo presente a tutti, con la dovuta chiarezza.

 

1
Lug
2014

1 luglio: aumentano le tasse sul risparmio

Da oggi cambia l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie “pure” (stando alla definizione del ministro Padoan). Già, perché l’aliquota su dividendi, capital gain e interessi (non da titoli pubblici) passa dal 20% al 26%, mentre quella su interessi derivanti da titoli di stato e buoni fruttiferi postali (rendite finanziarie non pure, si desume) rimane fissa al 12,5%.
E pensare che l’articolo 47 della costituzione ci dice che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Questo era vero forse un tempo. Oggi non lo è più sicuramente.
Cosa sono, infatti, le imposte sulle rendite finanziarie, se non imposte sul risparmio?
Il risparmio privato, è noto, rappresenta quella parte di reddito che non viene consumata nell’intervallo di tempo in cui tale reddito viene percepito. Come insegna Hazlitt, in una società moderna quasi tutto il risparmio si traduce, direttamente o indirettamente (attraverso le banche), in investimento. “Al giorno d’oggi – scriveva nel 1946 – non c’è molta gente che, in una società moderna come gli Stati Uniti, conservi monete o banconote nelle calze di lana o sotto i materassi”. Quasi settanta anni dopo, è ragionevole credere che non ce ne sia molta neanche in Italia.
Tassare pertanto le rendite finanziarie del risparmio investito nel mercato mobiliare significa disincentivare il risparmio, più che tutelarlo e incoraggiarlo, come invece avrebbero voluto i costituenti.
Negli ultimi anni, a partire dall’agosto del 2011, si è assistito a un vero e proprio accanimento del legislatore nei confronti del risparmio degli italiani (il quale, per la cronaca, continua a scendere). Dopo quasi 3 anni di provvedimenti all’insegna dell’emergenza, tra introduzioni di nuove imposte (imposta di bollo e Tobin Tax) e inasprimento di vecchie aliquote, a oggi la pressione fiscale gravante sul risparmio investito in strumenti mobiliari è tra le più pesanti in Europa. Per riassumere rapidamente la situazione, si pensi al caso di un investitore che avesse deciso, 3 mesi fa, di acquistare un pacchetto di azioni del valore di 10000 euro di una certa società, che negli ultimi mesi del 2014 gli frutteranno un dividendo del 5% (500 euro). Ecco le imposte che il nostro investitore sarà tenuto a versare.

Tobin Tax su acquisto: 0,1% = 10€
Imposta di bollo: 0,2% = 20€
Aliquota sul dividendo di 500€: 26% = 130€
TOTALE (su reddito di capitale): 32% = 160€

A fronte di un dividendo percepito di 500 euro, il primo anno il nostro risparmiatore sarà costretto a versare 160 euro di imposte, con un’aliquota reale del 32%. Negli anni successivi, assumendo che egli percepisca lo stesso dividendo, non dovendo più pagare la Tobin Tax, dovrà comunque pagare 150 euro di imposte, con un’aliquota reale del 30% (ipotizzando ovviamente che il valore del pacchetto azionario resti invariato negli anni; ipotesi poco realistica, ma utile per farsi un’idea).
A parte i dubbi di natura costituzionale (addio alla tutela del risparmio), sorgono serie perplessità sull’efficacia di un sistema così disegnato, senza paragoni in Europa.
La prima perplessità riguarda le previsioni di gettito. Con questo sistema l’investimento mobiliare viene disincentivato ed è facile prevedere che si assisterà allo stesso film a cui si è assistito con la Tobin Tax. Da quando è stata introdotta, il valore di scambio medio giornaliero dei titoli soggetti alla nuova tassazione parrebbe calato del 30% in Italia, a fronte di un aumento del 4,5% in Europa. Il gettito previsto ora è pari al 30% rispetto a quanto stimato inizialmente. Inasprire ulteriormente le aliquote per i nettisti italiani potrebbe disincentivare questi ultimi ad adottare quel comportamento virtuoso (risparmiare) che in passato li ha contraddistinti. Il risultato sarà, ancora una volta, un gettito fiscale minore del previsto.
La seconda perplessità, forse ancor più grave, riguarda la repressione finanziaria in atto a favore dei titoli pubblici, espressione di una stato concentrato più a tutelare il proprio debito che il risparmio dei cittadini. E’ facile prevedere che il singolo investitore avrà un occhio di riguardo verso i titoli pubblici ancor più di quanto già non accada. Questo comporterà maggiori difficoltà nell’accesso al credito. Pensiamo, ad esempio, al risparmiatore che, a scadenza, non rinnoverà i propri depositi bancari vincolati per comprare i meno tassati titoli di debito pubblico o buoni fruttiferi postali. Questo passaggio provocherà un aumento del costo della raccolta bancaria, dal momento che le banche dovranno offrire un rendimento netto competitivo rispetto a quello dei titoli pubblici o dei buoni fruttiferi postali. Presumibilmente, i costi ulteriori ricadranno sui prestiti, con l’ultimo effetto di deprimere l’attività privata e così la crescita e l’occupazione.
Il tema dell’occupazione merita una breve considerazione conclusiva. Si evidenzia spesso, specialmente in un momento di difficoltà come quello che stiamo attraversando, la necessità di incrementare gli occupati nei settori ad alto valore aggiunto. L’industria del risparmio presenta livelli di professionalità, redditività e tecnologia molto elevati, creando, a oggi, occupazione e reddito a vantaggio di circa 600.000 famiglie, senza contare l’indotto. Purtroppo, con una fiscalità di questo tipo, più che incrementare l’occupazione, si corre inevitabilmente il rischio di perdere quella esistente (8 SIM chiuse nel 2013 rappresentano un segnale scoraggiante), facendo spostare altrove le imprese finanziarie a vantaggio di paesi nostri concorrenti.
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30
Giu
2014

Uk e Ue: se fossimo britannici, la penseremmo come Cameron

Per la maggioranza degli italiani e degli europei continentali, il Regno Unito continua a essere nell’Unione Europea una specie di riottoso membro aggiunto, più estraneo che consanguineo, più diverso che affine. Tanto che molti politici continentali accarezzano i loro elettorati neonazionalisti dicendo “ma che cosa vogliono, questi britannici? se ne vadano”. Dopo il neoisolamento di Londra nel suo pressoché solitario no a Jean-Claude Juncker come neopresidente della Commissione Europea, il tema torna attuale. Perché nel Regno Unito di sicuro in autunno si vota in Scozia per la sua indipendenza da Londra. E perché lo stesso premier Cameron, a questo punto, difficilmente potrà non tener fede all’impegno preso nel 2013, convocare entro 3 anni un altro referendum, sulla stessa permanenza britannica in Ue.

I fraintendimenti fioriscono in realtà su entrambe le rive della Manica. E’ vero per esempio che Londra si unì alla CEE solo nel 1973, ma l’Unione Europea a 12 nasce nel 1992 col Trattato di Maastricht avendo il Regno Unito come socio fondatore a pieno titolo. E’ verissimo che la Thatcher impostò con forza un regime di opting out per tutti i passi in avanti “federali” europei che non convincevano Londra, ed è la stessa impostazione che ha spinto i britannici a tenersi stretta la sterlina, invece dell’euro. Ma sotto questo punto di vista se fossimo stati britannici avremmo avuto ragione a fare esattamente le stesse scelte: la moneta unica senza politica comune si è rivelata, di fatto, una ideologica fuga in avanti, produttrice di più asimmetrie invece che di convergenza tra eurodeboli ed euroforti.

Dall’altra parte, nella politica e nella cultura britannica resta fortissima l’eredità dell’isolazionismo, che per tre secoli animò però l’impero mondiale più grande del mondo, per poi vederlo disfatto in meno di 30 anni a metà del secolo scorso. L’Impero britannico resta largamente ignoto, nei suoi fattori di incredibile progresso alla, nostra capacità di comprensione. Lo liquidiamo solo con gli occhiali dell’anticolonialismo contemporaneo, dimenticando che già a inizio Ottocento la flotta di sua maestà fermava le navi negli oceani di tutto il mondo per liberare gli schiavi, e che nel 1880 aveva – con capitali privati – posato più di 150mila km di cavi telegrafici sotto tutti gli oceani del pianeta.

Due esempi soli per capire come mai nei sondaggi – a ogni scontro con l’Ue – i fan britannici dell’uscita dall’Europa tendano a risalire fino a punte del 70%. Mentre i giornali europei sabato titolavano tutti sulla figuraccia rimediata da Cameron, il Daily Telegraph pubblicava un rovente editoriale titolato “cara Ue adesso sta a te convincerci, che valga la pena restare”. L’argomento centrale, cioè il fatto che il vecchio eurocrate lussemburghese Juncker non sia affatto quanto serve alla UE per cambiare passo, direzione e velocità, sembrava in realtà dettato da Matteo Renzi in persona. “La maggioranza di noi vorrebbero riformare l’UE al fine di salvarla, pochi vogliono lasciarla senza almeno cercare di sistemare le cose”, concludeva l’editoriale.

Leggendo la stampa moderata britannica si capisce che il premier Cameron non è finito a 2 contro 26 nel voto su Juncker perché sprovveduto. Tanto è vero che anche il leader dei laburisti Ed Miliband, e quello del partito più europeista di tutti a Londra, il liberaldemocratico Nick Clegg, erano duramente contro Juncker. Cameron deve recuperare il successo dell’UKIP alle urne europee, realizzato attingendo a voti conservatori e liberaldemocratici. La polemica frontale di Cameron contro Berlino e la stragrande maggioranza della Ue mira dunque a recuperare quei voti, anche se ciò aiuta gli indipendentisti scozzesi nel referendum – che come i catalani vogliono separarsi da Londra, ma non dalla Ue – ed espone Cameron a una netta deriva antieuropea in caso di referendum nazionale.

Secondo esempio. Se c’è un think tank tra tutti quelli britannici a costituire riferimento essenziale per i liberal-mercatisti (anche per me), è l’Institute for Economic Affairs, che Antony Fisher, Ralhp Harris e Arthur Seldon nell’immediato secondo dopoguerra resero una delle più avanzate fucine di pensiero, coinvolgendo economisti come James Buchanan, Ronald Coase, Milton Friedman, Vernon Smith: lì si formarono le basi per la rivoluzione thatcheriana. Ebbene l’IEA dal 20013 bandisce un premio annuale di 100mila sterline per i miglior lavoro sul tema “Brexit”, l’acronimo con cui si abbrevia l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Nel 2013 l’ha vinto un diplomatico inglese trentenne, che ha messo in imbarazzo il suo stesso governo.

In realtà numeri alla mano il Regno Unito ha guadagnato dalla sua appartenenza all’Unione Europea, e viceversa. I conti li aggiorna di anno in anno il CBI, l’equivalente della nostra Confindustria (sia pure in versione molto più light, il Regno Unito non è mai stato consociativo, tranne che tra gli anni ‘50 e metà anni ‘70). A novembre scorso, il beneficio calcolato dal CBI ammontava a una cifra tra i 62 e i 78 miliardi di sterline, cioè tra il 4 e il 5% del Pil britannico: in media 3mila sterline annue a famiglia. Naturalmente gli isolazionisti non concordano, sostenendo che in ogni caso l’uscita dai vincoli Ue avverrebbe comunque contrattando la piena appartenenza a un’area di libero scambio, più aperta ancora alla Ue rispetto ai paesi dell’area EFTA che non ne fanno parte, come Islanda, Norvegia e Svizzera.

Tuttavia è un fatto che appartenendo alla UE il commercio del Regno Unito verso i paesi membri è salito del 55% sul totale dei suoi scambi, fino a 364 miliardi di sterline nel 2013 rispetto ai 43 miliardi del totale import-export con la Cina. Poiché quello che conta nel Pil britannico e nella sua bilancia dei pagamenti è innanzitutto l’offerta di servizi finanziari più dei manufatti, anche da questo punto di vista decisivo la City di Londra si è integrata più velocemente con l’eurozona che con qualsiasi altro mercato, e per asset finanziari internazionali detenuti dagli intermediari britannici quelli nell’euroarea sono cresciuti 5 volte di più sull Pil di quelli riservati al mercato USA. Se guardiamo per origine allo stock degli investimenti esteri in UK al 2012, quelli di provenienza dall’area Ue ammontano a oltre 450 miliardi, più del doppio di quelli dagli Usa, e più di sei volte quelli provenienti dall’Asia, sauditi ed emirati compresi oltre ai cinesi e russi.

Naturalmente, queste cifre sono da leggere anche all’inverso: saremmo dei matti, a credere di guadagnarci con l’uscita dei britannici dalla Ue, perdendo il 16% del Pil europeo complessivo, la seconda piazza finanziaria del mondo, e un membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu.

Può avvenire, però. I britannici con la perdita dell’Impero hanno fortemente accelerato – dopo la crisi trentennale seguita al secondo dopoguerra – la capacità di “cambiare marcia”. Loro hanno un’opzione di ricambio naturale: la partnership stretta con gli Stati Uniti, il ritorno a quella scommessa che Churchill inseguì resistendo solitariamente contro i nazisti per più di due anni, dal settembre del 1939 alla fine del 1941.

Alcuni come Prodi e i più federalisti fan europei la pensano diversamente. Ma forse siamo noi italiani ed europei continentali, che dobbiamo provare ad adoperarci perché i britannici non ci lascino. Su molte cose hanno ragione, per esempio sull’eccesso burocratico e sul deficit democratico delle istituzioni comunitarie: milioni di europei alle urne hanno scelto poche settimane fa partiti nazionalisti e populisti, ma in realtà condividono le critiche britanniche. Londra amministrò per 200 anni milioni di indiani con non più di 900 burocrati dell’Indian Civil Service, divennero più di mille solo poco prima che l’india divenisse indipendente. Non solo sulla burocrazia più snella, ma sulla tutela dei diritti individuali e in giudizio, sull’esigibilità dei contratti e sul basso livello di pressione fiscale abbiamo molto da imparare e guadagnare, finché Londra battaglia per contaminarne un po’ l’Europa.

23
Giu
2014

Quattro domande a Padoan su Ue, tasse, spesa e Sud

In questi giorni il ministro dell’Economia Padoan dichiara molto.  Ed è proprio per questo, chiarezza per chiarezza, che gli si possono rivolgere alcune considerazioni. Non per disconoscere a lui, al governo di cui fa parte e al premier Renzi la volontà  molte riforme da fare finalmente presto. Ma per capire meglio  quel che non è affatto chiaro.

Primo: l’Europa e le sue regole. E’ un fatto ed è un bene, che l’Italia in questo 2014 non sia più nelle condizioni di “chiedere col capello in mano” a Berlino e Parigi, come avveniva invece nella terribile estate 2011. Tuttavia non è per eccesso di tigna e pignoleria, che sarebbe stato preferibile poter contare su un documento preciso e su proposte chiare, per capire quale sarà la posizione italiana nel semestre di presidenza europea che comincia tra pochi giorni. In che cosa consisterà di preciso, la richiesta di valutazione delle riforme fatte, e per ottenere quale effetto, sulla valutazione dei tempi dei modi per il raggiungimento dell’azzeramento del deficit strutturale, quell’obiettivo al quale Bruxelles ha appena accolto la richiesta del governo Renzi di farlo slittare di un anno rispetto al previsto? Sappiamo bene che il negoziato europeo è tema delicato. I governi dei paesi eurodeboli – come noi restiamo – devono evitare di apparire proni a reiterate richieste di rigore tedesco. E i tedeschi devono stare attenti a non sottovalutare il voto europeo e la frana governativa avvenuta in Francia. Tuttavia resta il fatto che, sulla nuova “metrica della crescita” europea, a oggi ciò che il governo ci chiede è di prestare fiducia. Condendo questa richiesta con molte – troppe parole – sul “cambia verso” che dovrebbe imoboccare l’Europa.  Anche stamane FT parla di “tre profondi cambiamenti alle regole” chiesti dall’Italia in Europa: sarebbe troppo cheidere di che cosa si tratta di preciso? Sperare è bene, ma allo stato attuale sono i numeri a dire che l’attesa di crescita del Pil italiano dei fori internazionali resta inferiore al più 0,8% previsto e ribadito dal governo per quest’anno. Su quale crescita aggiuntiva dovrebbe farci lo scontro l’Europa, se il primo trimestre 2014 al momento proietta sul Pil dell’anno un tendenziale del meno 0,2%?

Secondo: le tasse. Il ministro ha detto e ripetuto che è venuto il momento di abbassarle. Ora non dobbiamo essere noi a ricordare al ministro Padoan quanto è previsto dal DEF che ha presentato con il governo Renzi, in aprile. Lo facciamo per i lettori. Secondo le tabelle governative il totale delle entrate pubbliche passa da 752 miliardi nel 2013 a 767 nel 2014, a 785 nel 2015, a 803 nel 2016, a 823 nel 2017. Cioè aumentano di 71 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica salirebbe da 799 miliardi del 2013 a 838 nel 2017. Settanta miliardi di euro di entrate in più in 4 anni, a fronte di 39 miliardi di euro di spese in più: purtroppo il raggiungimento graduale dell’azzeramento del deficit pubblico si continua a realizzare programmaticamente assai più alzando le entrate che tagliando la spesa (anzi, la spesa continua a crescere, sia pur molto meno velocemente che negli anni ruggenti precedenti a Monti). Sono questi numeri, a dire che bisogna cambiare marcia. E sono i numeri di questo governo, al quale va naturalmente riconosciuto che ha ereditato la situazione che ha ereditato, non l’ha creata lui. La pressione fiscale resta però inchiodata al 44% del PIl e al 57-58% per chi le tasse le tasse le paga, e con questa pretesa pubblica l’economia crescerà molto meno del possibile.

Terzo: la spesa. Tutti sappiamo che l’unica alternativa a provvedimenti fiscali che si limitano a dare a qualcuno per levare a qualcun altro sono i tagli di spesa. E’ un fatto che quelli sin qui disposti per il 2014 dal governo arrivano a mala pena a 3 miliardi, dei quali i 700 milioni attesi dalle regioni sono ancora tutti da definire. Ed è un fatto – confermato da Bankitalia – che pur prendendo per buoni i 17 miliardi di tagli di spesa promessi dal governo per il 2015, essi praticamente sono già da considerare assorbiti per la conferma “strutturale” del bonus da 80 euro concesso ai lavoratori dipendenti sotto i 25mila euro lordi di reddito, nonché per la sua estensione promessa dal governo a pensionati, incapienti e autonomi, nonché ancora per il finanziamento degli oneri sociali che andranno in scadenza. Spazio per altri sgravi, attualmente non ce n’è. Aspetteremo la legge di stabilità, certamente. Ma non era meglio muoversi subito e con più energia, sui tagli di spesa? Attualmente, è difficile dare torto a chi, come il professor Luca Ricolfi, scrive che se questo è il quadro allora meglio pensare a sgravi che alzano di più il Pil nel breve, cioè l’abbassamento di IRAP e IRES alle imprese, piuttosto che sostegni al reddito che in maggior parte devono ricostituire il tanto reddito perso, e non possono per questo tradursi in consumi. Ovviamente, la cosa migliore sarebbe avere sia il bonus sia gli sgravi alle imprese: ma per questo bisogna tagliare di più la spesa. Senza dimenticare che la Commissione europea ci ha ricordato che aspetta anch’essa altri 9 miliardi di miglioramento del saldo per il 2015, perché altrimenti i conti del deficit promesso non tornano.

Quarto: il Sud, dimenticatio dai più. L’appello venuto da Padoan a una miglior efficienza e qualità delle Autonomie, regioni e comuni, è giusto ed essenziale. Ma è altrettanto vero che finora stenta a vedersi, una strategia per il recupero dei tremendi gap accumulati dal Sud nella crisi: di bassissima partecipazione al mercato del lavoro di giovani, donne e over 55enni, di desertificazione d’impresa, di restrizione di credito. Il governo è stato efficace nel riorientare un po’ di miliardi di fondi europei che sarebbero altrimenti stati perduti. Ma ora occorre una scelta strategica che veda il governo, le regioni e le maggiori città del Sud stilare una serie ristretta di priorità per i fondi 2015-2021, con un meccanismo che di anno in anno faccia scattare allocazioni sussidiarie e prioritarie per evitare di restare indietro. Noi non possiamo offrire al Sud il cambio alla pari che la Repubblica Federale Tedesca con il lungimirante Kohl garantì alla Germania Est all’atto dell’unificazione, zittendo la Bundesbank che era contraria. Ma al Mezzogiorno dobbiamo costruire non la possibilità, ma la necessità di potersi battere alla pari, per il miglior utilizzo di risorse scarse. A oggi, ci sa dire il ministro qual è la risposta del governo di fronte ai conti di Napoli, sui quali il sindaco ha detto chiaro che la bocciatura della Corte dei Conti non può costituire un sentiero praticabile? Finora, Roma e il governo hanno fatto finta di niente. Va bene, c’è stata la campagna elettorale europea. Ma ora è finita, e servono risposte concrete.