1
Lug
2014

Mare Monstrum: proposte abrasive, non federaliste, alternative al quotidiano fallimento dello Stato

Per un mercatista liberale è doppiamente doveroso avanzare proposte su quanto avviene ogni giorno nel canale di Sicilia. Non solo perché si tratta di tragedia umanitaria. Ma innanzitutto perché è un conclamato, reiterato, abnorme fallimento dello Stato, dello Stato con la S maiuscola come piace scrivere agli statalisti: è il fallimento di tutti gli Stati europei oltre che del nostro, quando a garanzie di diritti primari essenziali come la vita, la sicurezza e e la libertà. Mare Monstrum bisogna chiamarla, altro che Mare Nostrum, la missione speciale quotidiana delle forze italiane militari, di sicurezza e protezione civile al fine di salvare più vite possibile tra le migliaia indirizzate verso le coste italiane dai trafficanti di disperazione umana. Una missione fallita, malgrado l’enorme e ammirevole energia di chi vi si adopera. Ieri una classica giornata di eccezionale ordinarietà, con altri 30 morti su un barcone che ne ospitava oltre 600, salvato dalla Marina al largo delle coste ragusane. E la tragedia nella tragedia, con il comune di Pozzallo nell’impossibilità di celle frigorifere in numero adeguato alle vittime.

Oggi è il giorno in cui inizia il semestre europeo di presidenza italiana, ed è il caso di indirizzare al presidente del Consiglio qualche considerazione costruttiva. Perché far bassa polemica su questi argomenti è cosa facile e insieme miserabile, e perché Renzi per primo toccherà questo argomento nel suo discorso di presentazione del semestre italiano. Ci sono almeno quattro aspetti diversi da considerare.

Il primo riguarda l’oggettivo disinteresse con il quale il più dell’Europa ha guardato a questa emergenza. Il bilancio dell’Agenzia Frontex, incaricata di coordinare pattugliamento dei confini europei e rimpatrio dei clandestini, è chiaro già dalle missioni svolte, da metà degli anni Duemila fino ad oggi. Riguardano all’80% l’Est Europa e il confine balcanico, oltre agli aeroporti. E’ evidente che le preoccupazioni dei paesi euroforti centro e nord europei hanno sempre avuto la meglio. Un primo esiguo segnale di coinvolgimento di mezzi europei sul confine mediterraneo, la scorsa estate, non ha avuto seguito quest’anno. La Francia il mese scorso si è unita alle richieste italiane di sostituire a Frontex una Frontex Plus, ma sinora si è visto nulla. A me gli strilli quotidiani e inani del ministro Alfano non piacciono: se non contiamo nulla e non ci ascoltano, temo sia innanzitutto per colpa nostra.

Secondo: le richieste italiane. E’ inutile negarlo, al Consiglio europeo di Ypres l’attenzione preminente è andata alla partita delle nomine e di Juncker, e al nodo di una maggior flessibilità nell’applicazione procrescita del patto di stabilità europeo. Anche Renzi, nella conferenza stampa conclusiva del vertice, ha sfiorato solo di sfuggita la questione Frontex. Indiscrezioni autorevoli vogliono che ora il governo italiano cambi marcia. E’ necessario, da subito, perché il prossimo eurovertice di metà luglio possa assumere decisioni nuove.

Il punto non è spostare la sede dell’Agenzia speciale europea, da Varsavia verso il Mediterraneo. Se tutto restasse com’è, sarebbe uno sciocco contentino privo di contenuto. La svolta non è nemmeno il commissario ad hoc europeo subito annunciato da Juncker. Quel che serve non è un eurocrate in più. Il nodo di fondo è finanziario e operativo. Gli 80 milioni di bilancio di Frontex fanno ridere, di fronte al fatto che l’Italia sostiene più di 10 milioni al mese per i soli interventi d’emergenza e salvataggio di Mare Nostrum, 10 milioni che naturalmente non bastano affatto visto che dei 65mila salvati in 6 mesi, 61mila sono entrati in Italia, e 5000 nello scorso solo fine settimana. Sono entrati in un’Italia in cui le strutture pubbliche residue di prima accoglienza previste dalle leggi sull’immigrazione sono al collasso, e in cui abbiamo preso sussidiariamente a chiedere ai Comuni di fare i miracoli, come se non fossero in molti casi al lumicino anch’essi. Tale quadro postula una moltiplicazione delle dotazioni finanziarie europee per quattro o per cinque, di cui per almeno metà destinate al limes mediterraneo. Con poteri reali a disporre missioni operative navali internazionali di tipo “stanziale”, cioè di lungo periodo.

Terzo: la minaccia italiana. Diciamolo qui in chiaro quel che un presidente di turno europeo non può dire, per ovvi doveri diplomatici. La posizione italiana è percepita come debole da anni in Europa, non solo per via delle debolezze accumulate sulle questioni di finanza pubblica. E’ inutile nasconderselo. Per questo, la radicalità della svolta europea può davvero avvenire solo se, nei colloqui riservati con i maggiori leader europei, l’Italia indica con una certa durezza misure alternative proprie, se l’Europa dovesse restare sorda. Gli strilletti e le dichiarazioni retoriche antieuropee a fini domestici non servono a nulla. Facciamo un esempio.

Per la natura della nostra frontiera marittima, non possiamo contare su soluzioni temporali extraterritoriali (in un passato lontanto e vicino avvenne, da parte del Regno Unito come della Francia e degli Usa). Ma attenti: il diritto internazionale marittimo potrebbe benissimo consentire alle autorità italiane di disporre alle navi battenti bandiera estera transitanti nel canale di Sicilia di prestarsi non al salvataggio, ma a ospitare i salvati fino al regolare porto di arrivo e NON su coste italiane. E’ una misura durissima, ma fattibile. L’extrema ratio, per far ragionare l’Europa visto che alzerebbe i noli per tutti i maggiori porti spagnoli e francesi, colpendo i traffici anche verso il nordeuropea..

Quarto: la reciproca convenienza. Per una nuova politica europea serve un ragionamento diverso, rispetto alla pura compartecipazione operativa, finanziaria e dei flussi finali di migranti. In realtà non ci sono queste tre misure comuni, perché non c’è una comune politica dell’immigrazione, considerandola come fattore essenziale della crescita e stabilità economica complessiva. Sin qui, i diversi paesi membri dell’Unione hanno adottato legislazioni diverse sulle procedure di ammissione temporanea, sui requisiti di lavoro, sul diritto al ricongiungimento delle famiglie e sulla cittadinanza. Sono le diverse vie nazionali per superare una frontiera comune, a non funzionare più. Erano figlie di un’era in cui ciascuno pensava alla propria crescita economica, ai diversi retaggi coloniali, a confliggenti teorie e prassi giuridiche della cittadinanza. E a fabbisogni di manodopera, contributi sociali e tasse, completamente slegati da paese a paese.

La drammatica crisi dell’Europa ha mostrato in questi anni che non è più così. La devastante curva demografica italiana e l’invecchiamento della popolazione tedesca sono due facce di una stessa medaglia. Non credo all’ipotesi federalista di unificare per tutti subuito le regiole di ammissione e cittadinanza. parlo di un’altra cosa: più l’Italia è lasciata sola nel salvataggio e nel filtro impossibile di centomila disperati l’anno, meno potrà concentrarsi su una politica di “scelta” di migranti per qualità dell’offerta, come invece da tempo hanno iniziato a fare i paesi nordeuropei. Ma meno lo faremo noi, più metteremo anche gli altri paesi europei nelle stesse condizioni. Perché nessuno di chi viene ripescato in mare, oggi, vuole restare nel nostro impoverito paese. Amaro dirlo, ma giusto riconoscerlo. E farlo presente a tutti, con la dovuta chiarezza.

 

1
Lug
2014

1 luglio: aumentano le tasse sul risparmio

Da oggi cambia l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie “pure” (stando alla definizione del ministro Padoan). Già, perché l’aliquota su dividendi, capital gain e interessi (non da titoli pubblici) passa dal 20% al 26%, mentre quella su interessi derivanti da titoli di stato e buoni fruttiferi postali (rendite finanziarie non pure, si desume) rimane fissa al 12,5%.
E pensare che l’articolo 47 della costituzione ci dice che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Questo era vero forse un tempo. Oggi non lo è più sicuramente.
Cosa sono, infatti, le imposte sulle rendite finanziarie, se non imposte sul risparmio?
Il risparmio privato, è noto, rappresenta quella parte di reddito che non viene consumata nell’intervallo di tempo in cui tale reddito viene percepito. Come insegna Hazlitt, in una società moderna quasi tutto il risparmio si traduce, direttamente o indirettamente (attraverso le banche), in investimento. “Al giorno d’oggi – scriveva nel 1946 – non c’è molta gente che, in una società moderna come gli Stati Uniti, conservi monete o banconote nelle calze di lana o sotto i materassi”. Quasi settanta anni dopo, è ragionevole credere che non ce ne sia molta neanche in Italia.
Tassare pertanto le rendite finanziarie del risparmio investito nel mercato mobiliare significa disincentivare il risparmio, più che tutelarlo e incoraggiarlo, come invece avrebbero voluto i costituenti.
Negli ultimi anni, a partire dall’agosto del 2011, si è assistito a un vero e proprio accanimento del legislatore nei confronti del risparmio degli italiani (il quale, per la cronaca, continua a scendere). Dopo quasi 3 anni di provvedimenti all’insegna dell’emergenza, tra introduzioni di nuove imposte (imposta di bollo e Tobin Tax) e inasprimento di vecchie aliquote, a oggi la pressione fiscale gravante sul risparmio investito in strumenti mobiliari è tra le più pesanti in Europa. Per riassumere rapidamente la situazione, si pensi al caso di un investitore che avesse deciso, 3 mesi fa, di acquistare un pacchetto di azioni del valore di 10000 euro di una certa società, che negli ultimi mesi del 2014 gli frutteranno un dividendo del 5% (500 euro). Ecco le imposte che il nostro investitore sarà tenuto a versare.

Tobin Tax su acquisto: 0,1% = 10€
Imposta di bollo: 0,2% = 20€
Aliquota sul dividendo di 500€: 26% = 130€
TOTALE (su reddito di capitale): 32% = 160€

A fronte di un dividendo percepito di 500 euro, il primo anno il nostro risparmiatore sarà costretto a versare 160 euro di imposte, con un’aliquota reale del 32%. Negli anni successivi, assumendo che egli percepisca lo stesso dividendo, non dovendo più pagare la Tobin Tax, dovrà comunque pagare 150 euro di imposte, con un’aliquota reale del 30% (ipotizzando ovviamente che il valore del pacchetto azionario resti invariato negli anni; ipotesi poco realistica, ma utile per farsi un’idea).
A parte i dubbi di natura costituzionale (addio alla tutela del risparmio), sorgono serie perplessità sull’efficacia di un sistema così disegnato, senza paragoni in Europa.
La prima perplessità riguarda le previsioni di gettito. Con questo sistema l’investimento mobiliare viene disincentivato ed è facile prevedere che si assisterà allo stesso film a cui si è assistito con la Tobin Tax. Da quando è stata introdotta, il valore di scambio medio giornaliero dei titoli soggetti alla nuova tassazione parrebbe calato del 30% in Italia, a fronte di un aumento del 4,5% in Europa. Il gettito previsto ora è pari al 30% rispetto a quanto stimato inizialmente. Inasprire ulteriormente le aliquote per i nettisti italiani potrebbe disincentivare questi ultimi ad adottare quel comportamento virtuoso (risparmiare) che in passato li ha contraddistinti. Il risultato sarà, ancora una volta, un gettito fiscale minore del previsto.
La seconda perplessità, forse ancor più grave, riguarda la repressione finanziaria in atto a favore dei titoli pubblici, espressione di una stato concentrato più a tutelare il proprio debito che il risparmio dei cittadini. E’ facile prevedere che il singolo investitore avrà un occhio di riguardo verso i titoli pubblici ancor più di quanto già non accada. Questo comporterà maggiori difficoltà nell’accesso al credito. Pensiamo, ad esempio, al risparmiatore che, a scadenza, non rinnoverà i propri depositi bancari vincolati per comprare i meno tassati titoli di debito pubblico o buoni fruttiferi postali. Questo passaggio provocherà un aumento del costo della raccolta bancaria, dal momento che le banche dovranno offrire un rendimento netto competitivo rispetto a quello dei titoli pubblici o dei buoni fruttiferi postali. Presumibilmente, i costi ulteriori ricadranno sui prestiti, con l’ultimo effetto di deprimere l’attività privata e così la crescita e l’occupazione.
Il tema dell’occupazione merita una breve considerazione conclusiva. Si evidenzia spesso, specialmente in un momento di difficoltà come quello che stiamo attraversando, la necessità di incrementare gli occupati nei settori ad alto valore aggiunto. L’industria del risparmio presenta livelli di professionalità, redditività e tecnologia molto elevati, creando, a oggi, occupazione e reddito a vantaggio di circa 600.000 famiglie, senza contare l’indotto. Purtroppo, con una fiscalità di questo tipo, più che incrementare l’occupazione, si corre inevitabilmente il rischio di perdere quella esistente (8 SIM chiuse nel 2013 rappresentano un segnale scoraggiante), facendo spostare altrove le imprese finanziarie a vantaggio di paesi nostri concorrenti.
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30
Giu
2014

Uk e Ue: se fossimo britannici, la penseremmo come Cameron

Per la maggioranza degli italiani e degli europei continentali, il Regno Unito continua a essere nell’Unione Europea una specie di riottoso membro aggiunto, più estraneo che consanguineo, più diverso che affine. Tanto che molti politici continentali accarezzano i loro elettorati neonazionalisti dicendo “ma che cosa vogliono, questi britannici? se ne vadano”. Dopo il neoisolamento di Londra nel suo pressoché solitario no a Jean-Claude Juncker come neopresidente della Commissione Europea, il tema torna attuale. Perché nel Regno Unito di sicuro in autunno si vota in Scozia per la sua indipendenza da Londra. E perché lo stesso premier Cameron, a questo punto, difficilmente potrà non tener fede all’impegno preso nel 2013, convocare entro 3 anni un altro referendum, sulla stessa permanenza britannica in Ue.

I fraintendimenti fioriscono in realtà su entrambe le rive della Manica. E’ vero per esempio che Londra si unì alla CEE solo nel 1973, ma l’Unione Europea a 12 nasce nel 1992 col Trattato di Maastricht avendo il Regno Unito come socio fondatore a pieno titolo. E’ verissimo che la Thatcher impostò con forza un regime di opting out per tutti i passi in avanti “federali” europei che non convincevano Londra, ed è la stessa impostazione che ha spinto i britannici a tenersi stretta la sterlina, invece dell’euro. Ma sotto questo punto di vista se fossimo stati britannici avremmo avuto ragione a fare esattamente le stesse scelte: la moneta unica senza politica comune si è rivelata, di fatto, una ideologica fuga in avanti, produttrice di più asimmetrie invece che di convergenza tra eurodeboli ed euroforti.

Dall’altra parte, nella politica e nella cultura britannica resta fortissima l’eredità dell’isolazionismo, che per tre secoli animò però l’impero mondiale più grande del mondo, per poi vederlo disfatto in meno di 30 anni a metà del secolo scorso. L’Impero britannico resta largamente ignoto, nei suoi fattori di incredibile progresso alla, nostra capacità di comprensione. Lo liquidiamo solo con gli occhiali dell’anticolonialismo contemporaneo, dimenticando che già a inizio Ottocento la flotta di sua maestà fermava le navi negli oceani di tutto il mondo per liberare gli schiavi, e che nel 1880 aveva – con capitali privati – posato più di 150mila km di cavi telegrafici sotto tutti gli oceani del pianeta.

Due esempi soli per capire come mai nei sondaggi – a ogni scontro con l’Ue – i fan britannici dell’uscita dall’Europa tendano a risalire fino a punte del 70%. Mentre i giornali europei sabato titolavano tutti sulla figuraccia rimediata da Cameron, il Daily Telegraph pubblicava un rovente editoriale titolato “cara Ue adesso sta a te convincerci, che valga la pena restare”. L’argomento centrale, cioè il fatto che il vecchio eurocrate lussemburghese Juncker non sia affatto quanto serve alla UE per cambiare passo, direzione e velocità, sembrava in realtà dettato da Matteo Renzi in persona. “La maggioranza di noi vorrebbero riformare l’UE al fine di salvarla, pochi vogliono lasciarla senza almeno cercare di sistemare le cose”, concludeva l’editoriale.

Leggendo la stampa moderata britannica si capisce che il premier Cameron non è finito a 2 contro 26 nel voto su Juncker perché sprovveduto. Tanto è vero che anche il leader dei laburisti Ed Miliband, e quello del partito più europeista di tutti a Londra, il liberaldemocratico Nick Clegg, erano duramente contro Juncker. Cameron deve recuperare il successo dell’UKIP alle urne europee, realizzato attingendo a voti conservatori e liberaldemocratici. La polemica frontale di Cameron contro Berlino e la stragrande maggioranza della Ue mira dunque a recuperare quei voti, anche se ciò aiuta gli indipendentisti scozzesi nel referendum – che come i catalani vogliono separarsi da Londra, ma non dalla Ue – ed espone Cameron a una netta deriva antieuropea in caso di referendum nazionale.

Secondo esempio. Se c’è un think tank tra tutti quelli britannici a costituire riferimento essenziale per i liberal-mercatisti (anche per me), è l’Institute for Economic Affairs, che Antony Fisher, Ralhp Harris e Arthur Seldon nell’immediato secondo dopoguerra resero una delle più avanzate fucine di pensiero, coinvolgendo economisti come James Buchanan, Ronald Coase, Milton Friedman, Vernon Smith: lì si formarono le basi per la rivoluzione thatcheriana. Ebbene l’IEA dal 20013 bandisce un premio annuale di 100mila sterline per i miglior lavoro sul tema “Brexit”, l’acronimo con cui si abbrevia l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Nel 2013 l’ha vinto un diplomatico inglese trentenne, che ha messo in imbarazzo il suo stesso governo.

In realtà numeri alla mano il Regno Unito ha guadagnato dalla sua appartenenza all’Unione Europea, e viceversa. I conti li aggiorna di anno in anno il CBI, l’equivalente della nostra Confindustria (sia pure in versione molto più light, il Regno Unito non è mai stato consociativo, tranne che tra gli anni ‘50 e metà anni ‘70). A novembre scorso, il beneficio calcolato dal CBI ammontava a una cifra tra i 62 e i 78 miliardi di sterline, cioè tra il 4 e il 5% del Pil britannico: in media 3mila sterline annue a famiglia. Naturalmente gli isolazionisti non concordano, sostenendo che in ogni caso l’uscita dai vincoli Ue avverrebbe comunque contrattando la piena appartenenza a un’area di libero scambio, più aperta ancora alla Ue rispetto ai paesi dell’area EFTA che non ne fanno parte, come Islanda, Norvegia e Svizzera.

Tuttavia è un fatto che appartenendo alla UE il commercio del Regno Unito verso i paesi membri è salito del 55% sul totale dei suoi scambi, fino a 364 miliardi di sterline nel 2013 rispetto ai 43 miliardi del totale import-export con la Cina. Poiché quello che conta nel Pil britannico e nella sua bilancia dei pagamenti è innanzitutto l’offerta di servizi finanziari più dei manufatti, anche da questo punto di vista decisivo la City di Londra si è integrata più velocemente con l’eurozona che con qualsiasi altro mercato, e per asset finanziari internazionali detenuti dagli intermediari britannici quelli nell’euroarea sono cresciuti 5 volte di più sull Pil di quelli riservati al mercato USA. Se guardiamo per origine allo stock degli investimenti esteri in UK al 2012, quelli di provenienza dall’area Ue ammontano a oltre 450 miliardi, più del doppio di quelli dagli Usa, e più di sei volte quelli provenienti dall’Asia, sauditi ed emirati compresi oltre ai cinesi e russi.

Naturalmente, queste cifre sono da leggere anche all’inverso: saremmo dei matti, a credere di guadagnarci con l’uscita dei britannici dalla Ue, perdendo il 16% del Pil europeo complessivo, la seconda piazza finanziaria del mondo, e un membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu.

Può avvenire, però. I britannici con la perdita dell’Impero hanno fortemente accelerato – dopo la crisi trentennale seguita al secondo dopoguerra – la capacità di “cambiare marcia”. Loro hanno un’opzione di ricambio naturale: la partnership stretta con gli Stati Uniti, il ritorno a quella scommessa che Churchill inseguì resistendo solitariamente contro i nazisti per più di due anni, dal settembre del 1939 alla fine del 1941.

Alcuni come Prodi e i più federalisti fan europei la pensano diversamente. Ma forse siamo noi italiani ed europei continentali, che dobbiamo provare ad adoperarci perché i britannici non ci lascino. Su molte cose hanno ragione, per esempio sull’eccesso burocratico e sul deficit democratico delle istituzioni comunitarie: milioni di europei alle urne hanno scelto poche settimane fa partiti nazionalisti e populisti, ma in realtà condividono le critiche britanniche. Londra amministrò per 200 anni milioni di indiani con non più di 900 burocrati dell’Indian Civil Service, divennero più di mille solo poco prima che l’india divenisse indipendente. Non solo sulla burocrazia più snella, ma sulla tutela dei diritti individuali e in giudizio, sull’esigibilità dei contratti e sul basso livello di pressione fiscale abbiamo molto da imparare e guadagnare, finché Londra battaglia per contaminarne un po’ l’Europa.

23
Giu
2014

Quattro domande a Padoan su Ue, tasse, spesa e Sud

In questi giorni il ministro dell’Economia Padoan dichiara molto.  Ed è proprio per questo, chiarezza per chiarezza, che gli si possono rivolgere alcune considerazioni. Non per disconoscere a lui, al governo di cui fa parte e al premier Renzi la volontà  molte riforme da fare finalmente presto. Ma per capire meglio  quel che non è affatto chiaro.

Primo: l’Europa e le sue regole. E’ un fatto ed è un bene, che l’Italia in questo 2014 non sia più nelle condizioni di “chiedere col capello in mano” a Berlino e Parigi, come avveniva invece nella terribile estate 2011. Tuttavia non è per eccesso di tigna e pignoleria, che sarebbe stato preferibile poter contare su un documento preciso e su proposte chiare, per capire quale sarà la posizione italiana nel semestre di presidenza europea che comincia tra pochi giorni. In che cosa consisterà di preciso, la richiesta di valutazione delle riforme fatte, e per ottenere quale effetto, sulla valutazione dei tempi dei modi per il raggiungimento dell’azzeramento del deficit strutturale, quell’obiettivo al quale Bruxelles ha appena accolto la richiesta del governo Renzi di farlo slittare di un anno rispetto al previsto? Sappiamo bene che il negoziato europeo è tema delicato. I governi dei paesi eurodeboli – come noi restiamo – devono evitare di apparire proni a reiterate richieste di rigore tedesco. E i tedeschi devono stare attenti a non sottovalutare il voto europeo e la frana governativa avvenuta in Francia. Tuttavia resta il fatto che, sulla nuova “metrica della crescita” europea, a oggi ciò che il governo ci chiede è di prestare fiducia. Condendo questa richiesta con molte – troppe parole – sul “cambia verso” che dovrebbe imoboccare l’Europa.  Anche stamane FT parla di “tre profondi cambiamenti alle regole” chiesti dall’Italia in Europa: sarebbe troppo cheidere di che cosa si tratta di preciso? Sperare è bene, ma allo stato attuale sono i numeri a dire che l’attesa di crescita del Pil italiano dei fori internazionali resta inferiore al più 0,8% previsto e ribadito dal governo per quest’anno. Su quale crescita aggiuntiva dovrebbe farci lo scontro l’Europa, se il primo trimestre 2014 al momento proietta sul Pil dell’anno un tendenziale del meno 0,2%?

Secondo: le tasse. Il ministro ha detto e ripetuto che è venuto il momento di abbassarle. Ora non dobbiamo essere noi a ricordare al ministro Padoan quanto è previsto dal DEF che ha presentato con il governo Renzi, in aprile. Lo facciamo per i lettori. Secondo le tabelle governative il totale delle entrate pubbliche passa da 752 miliardi nel 2013 a 767 nel 2014, a 785 nel 2015, a 803 nel 2016, a 823 nel 2017. Cioè aumentano di 71 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica salirebbe da 799 miliardi del 2013 a 838 nel 2017. Settanta miliardi di euro di entrate in più in 4 anni, a fronte di 39 miliardi di euro di spese in più: purtroppo il raggiungimento graduale dell’azzeramento del deficit pubblico si continua a realizzare programmaticamente assai più alzando le entrate che tagliando la spesa (anzi, la spesa continua a crescere, sia pur molto meno velocemente che negli anni ruggenti precedenti a Monti). Sono questi numeri, a dire che bisogna cambiare marcia. E sono i numeri di questo governo, al quale va naturalmente riconosciuto che ha ereditato la situazione che ha ereditato, non l’ha creata lui. La pressione fiscale resta però inchiodata al 44% del PIl e al 57-58% per chi le tasse le tasse le paga, e con questa pretesa pubblica l’economia crescerà molto meno del possibile.

Terzo: la spesa. Tutti sappiamo che l’unica alternativa a provvedimenti fiscali che si limitano a dare a qualcuno per levare a qualcun altro sono i tagli di spesa. E’ un fatto che quelli sin qui disposti per il 2014 dal governo arrivano a mala pena a 3 miliardi, dei quali i 700 milioni attesi dalle regioni sono ancora tutti da definire. Ed è un fatto – confermato da Bankitalia – che pur prendendo per buoni i 17 miliardi di tagli di spesa promessi dal governo per il 2015, essi praticamente sono già da considerare assorbiti per la conferma “strutturale” del bonus da 80 euro concesso ai lavoratori dipendenti sotto i 25mila euro lordi di reddito, nonché per la sua estensione promessa dal governo a pensionati, incapienti e autonomi, nonché ancora per il finanziamento degli oneri sociali che andranno in scadenza. Spazio per altri sgravi, attualmente non ce n’è. Aspetteremo la legge di stabilità, certamente. Ma non era meglio muoversi subito e con più energia, sui tagli di spesa? Attualmente, è difficile dare torto a chi, come il professor Luca Ricolfi, scrive che se questo è il quadro allora meglio pensare a sgravi che alzano di più il Pil nel breve, cioè l’abbassamento di IRAP e IRES alle imprese, piuttosto che sostegni al reddito che in maggior parte devono ricostituire il tanto reddito perso, e non possono per questo tradursi in consumi. Ovviamente, la cosa migliore sarebbe avere sia il bonus sia gli sgravi alle imprese: ma per questo bisogna tagliare di più la spesa. Senza dimenticare che la Commissione europea ci ha ricordato che aspetta anch’essa altri 9 miliardi di miglioramento del saldo per il 2015, perché altrimenti i conti del deficit promesso non tornano.

Quarto: il Sud, dimenticatio dai più. L’appello venuto da Padoan a una miglior efficienza e qualità delle Autonomie, regioni e comuni, è giusto ed essenziale. Ma è altrettanto vero che finora stenta a vedersi, una strategia per il recupero dei tremendi gap accumulati dal Sud nella crisi: di bassissima partecipazione al mercato del lavoro di giovani, donne e over 55enni, di desertificazione d’impresa, di restrizione di credito. Il governo è stato efficace nel riorientare un po’ di miliardi di fondi europei che sarebbero altrimenti stati perduti. Ma ora occorre una scelta strategica che veda il governo, le regioni e le maggiori città del Sud stilare una serie ristretta di priorità per i fondi 2015-2021, con un meccanismo che di anno in anno faccia scattare allocazioni sussidiarie e prioritarie per evitare di restare indietro. Noi non possiamo offrire al Sud il cambio alla pari che la Repubblica Federale Tedesca con il lungimirante Kohl garantì alla Germania Est all’atto dell’unificazione, zittendo la Bundesbank che era contraria. Ma al Mezzogiorno dobbiamo costruire non la possibilità, ma la necessità di potersi battere alla pari, per il miglior utilizzo di risorse scarse. A oggi, ci sa dire il ministro qual è la risposta del governo di fronte ai conti di Napoli, sui quali il sindaco ha detto chiaro che la bocciatura della Corte dei Conti non può costituire un sentiero praticabile? Finora, Roma e il governo hanno fatto finta di niente. Va bene, c’è stata la campagna elettorale europea. Ma ora è finita, e servono risposte concrete.

20
Giu
2014

Credit crunch: i numeri italiani restano indigesti alla politica

Poniamoci una semplice domanda. Ha ragione, il premier Matteo Renzi, nel dire alle banche italiane “dopo le misure assunte dalla BCE, ora basta alibi sui prestiti?”. Anticipo la mia risposta. No, per me non ha ragione. Non è una risposta che discenda in alcun modo da valutazioni politiche, perché da questo punto di vista qualunque cosa abbiate votato o non votato bisogna augurarsi che le numerose riforme a cui ha messo mano il governo vadano avanti e siano efficaci, per diminuire il gap tra prodotto reale – poco più che fermo, ancora – e output potenziale, e perché la sostenibilità della finanza pubblica non continui a essere preservata attraverso un’asfissiante morsa realizzata pressoché integralmente per via di aggravi fiscali a imprese e lavoro (e banche, non dimenticate la raffica di aggravi fiscali ad hoc su acconti e aliquote riservate loro alla nascita del governo, dopo il regalo fatto ad alcune di esse con la rivalutazione delle quote Bankitalia).

Sono però i numeri, a dire che il problema del credit crunch italiano non si risolve da un giorno all’altro. Classi dirigenti degne di questo nome dovrebbero saperlo, e lavorare sui fondamentali con metodo e serietà, non con battute a effetto.

Poiché giustamente il premier si è riferito alle misure assunte dalla Bce a inizio giugno, ricordiamo che il loro obiettivo è il ripristino di una maggior efficacia nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria, meccanismo ingrippato nei paesi eurodeboli. L’ingresso della BCE nell’area mai prima sperimentata dei tassi negativi di rideposito presso la banca centrale da parte delle banche dell’euroarea è sicuramente positivo. Quanto alle nuove LTROs per 400 bn in versione “targettizzata” al lending per le PMI, previste dal prossimo autunno, la versione sin qui nota del loro meccanismo attuativo non impedirà affatto – almeno all’inizio – alle banche di utilizzare i prestiti per “fare margine” magari con titoli pubblici, con meno rischi e maggiori ritorni di quanto garantisca il bassissimo margine d’intermediazione sugli impieghi ordinari. E quanto infine al “terzo stadio” del missile tirato dalla BCE, cioè la rianimazione dell’euromercato delle ABS, questo sì potrebbe avere effetti sostanziosi sulla massa di sofferenze e incagli delle banche italiane verso famiglie e imprese, ma i suoi tempi saranno lunghi, e le modalità sono ancora allo studio.

Il quadro in cui comprendere meglio le misure – e i possibili effetti – della BCE, è quello del complessivo deleveraging in atto nell’euroarea (e nel mondo avanzato a cominciare dagli USA, ottimo da questo punto di vista per chi volesse approfondire, anche se parecchio complesso e riferito soprattutto agli USA, il libro House of Debt, di Atif Mian and Amir Sufi). Il rientro dall’eccesso di debito complessivo – quello pubblico, sommandogli però quello delle famiglie e delle imprese non finanziarie – è l’orizzonte pressoché obbligato dell’uscita dalla crisi.

Solo che politica e regolatori non hanno fatto bene i conti con l’amara realtà del deleveraging (ne ha parlato  Münchau qualche giorno fa su Ft). Famiglie e imprese, di fronte alla riduzione dei debiti, tendono a NON tornare a spendere né integralmente né come nel pre-crisi i flussi di reddito recuperati rispetto all’onere per sostenere il debito. Mian e Sufi dimostrano che dalla realtà di questi anni americani sembra che la propensione alla spesa sia non superiore al 15% rispetto al debito diminuito: non è affatto detto che la percentuale valga per i mercati europei e tanto meno per quello italiano, storicamente connotato da un debito delle famiglie assai inferiore rispetto ai paesi anglosassoni e ai maggiori paesi europei. Tuttavia la tendenza è comune, e si legge del resto anche nell’interpretazione che l’ABI ha tentato – senza troppo successo – ogni mese di fronte ai dati della riduzione degli impieghi (comunque scesa verso un meno 2,9% a maggio rispetto al – 4,5% dello scorso autunno-inverno), sottolineando cioè che si trattasse di una diminuzione della domanda che concorreva alla restrizione dell’offerta.

Se dunque andiamo a esaminare i dati del debito complessivo pubblico-privato degli eurodeboli, ne otteniamo un quadro che li vede ben lontani da una correzione apprezzabile e adeguata degli squilibri raggiunti al punto di picco della crisi. E’ vero che l’Italia non aveva un debito delle famiglie fuori controllo e che il suo debito complessivo al picco dell’anno scorso era del 275,9% del PIL, con quello delle imprese al 90,6% e famiglie al 45,5%. Rispetto al Portogallo che stava al 380,9% del PIl, con il debito delle imprese al 137% del PIl e quello delle famiglie al 95,5%. La Spagna al 307,7%, con le imprese al 128% e le famiglie all’87,5% del PIl. E la Francia al 248%, con le imprese all’84,6% del Pil e le famiglie al 57,3%.

Ma ciò che conta è che, tranne il caso della Spagna, che dal picco di debito ha visto imprese e famiglie che hanno ridotto di un quarto e di un quinto il debito aggiuntivo accumulato tra l’ingresso nell’euro e il punto di picco, in tutti gli altri paesi citati siamo ancora solo timidamente all’inizio del percorso. E in ogni caso il debito pubblico, grazie alla bassa componente nominale – leggi inflazione – e alla contenutissima ripresa reale continua a salire, sostanzialmente tenendo incollati tutti i paesi europeriferici al picco dei debito pubblico-privato come somma.

Tutti questi elementi possono diluire l’orizzonte temporale entro un arco di troppi anni: di bassa crescita reale ma anche di bassa propensione alla spesa e al credito. Questa è – ancora – l’amara realtà di fronte a noi. Ed è una realtà non aiutata dalle regole europee date da Cipro in avanti, per le crisi bancarie: regole cioè che colpiscono i depositi sopra i 100k e gli obbligazionisti, in caso di default e ristrutturazione degli istituti.

Tutte queste ragioni spingono a un’uscita molto lenta dal credit crunch italiano. E purtroppo erano prevedibili. Costituivano il motivo per il quale sin da inizio 2012 c’è stato chi – in piccolissimo, io tra quelli – ha invano tentato di incoraggiare le classi dirigenti italiane a pensare a un meccanismo “di sistema” per fronteggiare il prevedibile esplodere dei Non Performing Loans Bancari, volto a liberare capitale delle banche per gli impieghi ordinari. Non potevano e non possono bastare, a quel fine, né gli aumenti di capitale in corso per evitare bocciature alla Asset Quality Review in arrivo come primo passo della vigilanza europea, né le sole misure che la BCE ha per fortuna assunto. Ma la politica ha prima voluto evitare a tutti i costi “l’onta” di chiedere un aiuto europeo “alla spagnola” per le banche, che sarebbe stato tuttavia molto più contenuto perché bastavano risorse pari a un terzo degli oggi 164 bn di sofferenze lorde. E poi ha preferito utilizzare gli attivi di CDP a tutt’altro fine, per una sorta di Iri bis e per finte privatizzazioni. Così alla fine è vero che Intesa e Unicredit hanno avviato lo smaltimento dei rispettivi NPLs attraverso procedure di mercato: ma non potranno farlo con altrettanta rapidità e successo la parte media e bassa del sistema bancario italiano, che ha tutt’altra taglia di patrimonio e capitale.

La politica tutto questo dovrebbe saperlo bene. Dunque eviti di dare alle sole banca la colpa. O pensi a qualcosa di diverso, perché famiglie e imprese possano uscire dalla stretta insieme a un sistema del credito la cui sfida alla redditività oggi resta improba.

19
Giu
2014

Debiti Pa-imprese: poche chiacchiere, l’Italia continua ad aver torto

L’Italia è specialista nel farsi del male da sola. La tendenza al masochismo è pulsione insopprimibile del suo teatrino politico. Così ieri l’apertura da parte della Commissione europea di una procedura procedura di infrazione contro l’Italia, per la violazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento entrata in vigore il 16 marzo 2013, è diventata in poche ore una rissa politica domestica che ci rende ancora più ridicoli in Europa. Il governo e membri della maggioranza hanno accusato il commissario europeo Tajani, uscente tra due settimane ed eletto al parlamento europeo, di aver “spinto” la procedura per propaganda politica. Lui ha naturalmente replicato senza mezzi termini, insieme a membri di Forza Italia.

Tutte parole sprecate. L’unica cosa che dovrebbe contare è il merito della faccenda: stranota da anni, l’enorme ritardo della pubblica amministrazione italiana nel pagare i suoi fornitori. Un ritardo contro il quale da tre anni i governi – Monti, Letta, Renzi – tentano di porre riparo. Prima di agitar polemiche, dovrebbero contare tre sole domande. Primo: abbiamo risolto il problema pregresso? Secondo: a parte il debito precedente, paghiamo oggi nei 30 giorni ordinari stabiliti dalla direttiva europea (si arriva a 60 giorni solo per alcuni casi eccezionali, come forniture sanitarie particolari)? Terzo: ha torto la Commissione?

I nudi fatti oggettivi, non le discutibili opinioni politiche, portano alle seguenti risposte. Primo: no, abbiamo fatto dei passi ma non abbiamo affatto risolto il pagamento del debito pregresso. Secondo: no, neppure per i debiti recenti, lo Stato paga secondo i tempi “europei”. Terzo: di conseguenza è inutile accusare Bruxelles, invece bisognerebbe prendere l’infrazione come una nuova leva per accelerare la soluzione del guaio. Inutile dire che 4-6 punti di Pil – di tanto variano le stime – di pagamenti alle imprese muterebbero sostanzialmente la loro condizione di liquidità, e la possibilità di far crescere di più l’Italia.

Il pregresso. Dopo 3 anni, lo Stato non è ancora riuscito a risolvere neppure il problema di una precisa metrica di quantificazione del debito accumulato. Quel che è certo è che a fine 2013 aveva pagato alle imprese fornitrici circa 23 miliardi di debito “storico”. Secondo il Tesoro, ne restavano non più di 53-55. Che Renzi, a Porta a porta ospite di Bruno Vespa, si impegnò a pagare integralmente entro settembre, e a inizio governo aveva detto entro luglio. Scommettendo, in caso contrario, di effettuare un pellegrinaggio a piedi in un santuario toscano. Attualmente, sembrerebbe che il pellegrinaggio toccherà a lui, non a Vespa che era incredulo e che accettò la scommessa.

Infatti nella relazione annuale del governatore Ignazio Visco, tre settimane fa, la Banca d’Italia ha precisato che restano altri 75 miliardi di debito pregresso. Certo, il Tesoro si riferisce ai debiti certi ed esigibili entro il 31 dicembre 2012, Bankitalia somma quelli del 2013 aggiungendo quelli fuori bilancio – il Tesoro non è in grado di dire quali spese siano state assunte per investimenti, che emergono solo per cassa, rispetto a quelle correnti che invece impegnano competenza e sono visibili sin dall’inizio – nonché quelli oggetto di contenzioso. Bankitalia ha spiegato inoltre che ai 90 miliardi della sua stima un anno prima – anche allora non “tornava” la cufra, rispetto a quella del Tesoro – sottrae certo i 23 circa pagati nel frattempo, compresi quello ceduti con clausola pro solvendo direttamente dalle imprese alle banche, e quelli ceduti pro soluto sempre alle banche con garanzia pubblica secondo le procedure intanto varate. Ma, appunto nel corso del 2013 altri debiti si sono accumulati. E vanno aggiunti, dice giustamente Bankitalia. Il governo ha masticato amaro, ma a Bankitalia non ha replicato. Anche perché via Nazionale ha riconosciuto che intanto i pagamenti avvenuti hanno prodotto benefici tangibili alle imprese interessate, che hanno impiegato la maggior parte dei rimborsi per ridurre l’esposizione verso banche o fornitori, e hanno più significativamente rivisto al rialzo i piani di investimento. Resta il fatto che sono almeno 75 i miliardi accumulati ancora da pagare. Anzi 100, dice la CGIA di Mestre, sommando ulteriormente una stima per le imprese mini e micro, sotto i 20 dipendenti. E l’aggiunta non è “disinvolta”, perché la stima Bankitalia è fatta sulla base di un’indagine campionaria che non “fotografa” le microimprese.

I tempi. Anche su questo, è stata Bankitalia la prima a riconoscere tre settimane fa che i tempi medi di pagamento pubblici alle imprese restano sideralmente lontani da quelli previsti dalla direttiva UE. Lo scorso anno sono stati pari a circa 180 giorni, in lieve riduzione rispetto ai 190 e oltre del 2012. Quanto ai tempi definiti nei contratti, se ci si limita a esaminare quelli stipulati nel 2013 successivamente all’entrata in vigore della direttiva Ue contro i ritardi di pagamento, ci si assesta comunque sopra i 60 giorni. Lontanissimi dai tempi con cui si paga non in Germania o Francia, ma ormai in Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia. Il che vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto. Nella sanità, continuano a sussistere casi concalamati di pagamenti a mille giorni. Io stesso ricevo lettere a radio24 da parte di fornitori, come tutti i giornali e i media.

I modi. Se malgrado le intenzioni dichiarate dai governi quel che si è fatto è troppo poco, si deve a tre problemi insoluti. Il primo, già accennato, è la persistenza di un’area grigia di debiti commerciali pubblici non contabilizzati perché non impegnano voci nei bilanci di competenza: si deve dunque fare riferimento a crediti esigibili presenti nei bilanci delle imprese, ma su questo il Tesoro ha sempre preferito una strategia conservativa, al fine di evitare di far emergere deficit aggiuntivo. I debiti presenti nei bilanci di competenza contribuiscono già al deficit pubblico dei rispettivi anni, fanno solo aumentare il debito pubblico quando vengono pagati per cassa ma non mettono in discussione il tetto di deficit contrattato con l’UE verso l’azzeramento strutturale del deficit. Di qui lo scontro rispetto al secondo problema: le procedure più spedite proposte fin dall’inizio dalla Cdp e dal suo presidente Bassanini, a Monti come a Letta come a Renzi. Di qui anche la proposta che avanza oggi Corrado Passera con la sua nuova formazione politica, creare una società veicolo garantita da Cdp che paghi subito tutto il pagabile con la copertura di titoli obbligazionari. Al Tesoro queste proposte non sono mai piaciute. E finora ha vinto il MEF. Il terzo problema è che diverse Regioni non si dimostrano all’altezza neanche di pagare quando lo Stato dà loro i fondi per farlo. A fine febbraio, su oltre 13 miliardi girati alle Regioni dallo Stato a questo fine, solo 10 erano stati utilizzati. I problemi si addensano in 5 Regioni: la peggiore la Sicilia, che da sola non ha usato un miliardo per il pagamento dei debiti, poi Campania (anche lei 936 milioni non utilizzati), poi Calabria, Sardegna e Molise.

E’ alla soluzione di tutto questo che bisogna lavorare alacremente. Invece di fare inutili polemiche, visto che lo Stato italiano continua nei fatti ad avere torto marcio.

 

18
Giu
2014

I privilegi intoccabili della Kasta “green”

Dopo tanto tuonare, piovve. Sembra che l’annunciato provvedimento “taglia bollette” sia in arrivo. La disposizione più controversa – a quel che si apprende – riguarda l’allungamento dei tempi di erogazione degli incentivi al fotovoltaico, con l’obiettivo di ridurne l’entità unitaria e il peso in bolletta. Read More