Equo compenso: Apple svela il trucco
La campagna di comunicazione orchestrata dal ministro Franceschini, in perfetta consonanza con le pretese della Siae, a margine dell’approvazione del decreto del 20 giugno che ha rimodulato – nemmeno a dirlo, al rialzo – le tariffe del cosiddetto equo compenso per copia privata, si fondava su due presupposti. Primo: che il livello assoluto del prelievo italiano andasse adeguato a una più generosa media europea – opinione che poteva essere puntellata solo da una ricostruzione fuorviante e opportunistica dei numeri ed è stata immediatamente demolita. Secondo: che gli aumenti potessero essere assorbiti interamente dai produttori – previsione prontamente ridicolizzata da chiunque avesse un’infarinatura della teoria dell’incidenza dell’imposta, ma non ancora sconfessata plasticamente dai fatti.
Fino a ieri, cioè, quando Apple ha annunciato un aggiornamento dei listini che incorpora al centesimo i rincari disposti dal ministro: quello stesso ministro che poche settimane fa, audito dal parlamento, aveva spergiurato – esibendo teatralmente il proprio iPhone – che i consumatori non sarebbero stati colpiti dal provvedimento. E, del resto, davvero non si capisce perché dovrebbe essere così. La facoltà di estrarre, per uso personale, copia di un contenuto legittimamente acquistato è attribuita ai consumatori; e, se ad essa accede una forma di compensazione a beneficio degli autori, appare naturale che siano gli stessi consumatori a reggerne l’onere. In quest’ottica, il ruolo dei produttori di dispositivi di memorizzazione è sostanzialmente quello di sostituti d’imposta, che di per sé giustifica (sul piano normativo, se non anche su quello positivo) l’integrale traslazione a valle dell’imposta. Pretendere di addossare il tributo ai produttori non è soltanto una castroneria dal punto di vista economico, ma anche una conclusione del tutto incoerente con l’impianto dell’istituto del cosiddetto equo compenso.
Difficile ammettere che osservazioni tanto elementari siano sfuggite al ministro e ai suoi collaboratori. Il senso di quelle affermazioni è, invece, un altro: non potendo invocare un alibi, i protagonisti della vicenda – il ministro, ma anche la stessa Siae, che all’elaborazione del provvedimento ha partecipato sin troppo da vicino – hanno cercato di addebitare ad altri la responsabilità del misfatto. Non a chi ha messo a punto le nuove tariffe, né a chi ne incamera i benefici: bensì a chi ha rifiutato di accollarsele non avendo alcun obbligo (o alcun motivo) di farlo.
Difendendo legittimamente i propri margini, Apple ha scommesso sulla rigidità della domanda dei propri prodotti, decisione industriale che sarebbe improprio caricare di valenza politica; e, così facendo, ha svelato il trucco del mago Franceschini: peraltro, limitandosi a seguire la via della trasparenza già tracciata dall’Antitrust, che – nell’ambito della propria segnalazione al parlamento ai fini della predisposizione della legge annuale sulla concorrenza – ha caldeggiato l’introduzione di un obbligo d’indicazione espressa dell’ammontare dell’equo compenso, altrimenti indistinguibile dal prezzo dei prodotti soggetti al prelievo.
Le reazioni scomposte del partito dell’equo compenso dovrebbero far riflettere: è accettabile che un’azienda che ha avuto l’ardire di stabilire autonomamente i prezzi dei propri prodotti sia presa di mira dalla politica con dichiarazioni smisurate e persino con “minacce esplicite di ritorsione fiscale”? Ancor più incredibile il contropiede annunciato dalla Siae, che si ripromette di trasformarsi in rivenditore di telefoni, dedicandosi all’arbitraggio sui prezzi dei terminali Apple. Rallegra che, dal fortino inattaccabile del proprio monopolio, l’ente scopra i valori della concorrenza e dell’unificazione dei mercati: ma questi pruriti imprenditoriali tanto estranei alla sua missione dimostrano, meglio di mille editoriali, che la Siae non ha bisogno dell’equo compenso extralarge per prosperare.
@masstrovato